Presentazione

Vita nella tomba nasce dall’esperienza diretta dell’autore, che visse in prima persona il decennio di conflitti combattuti dalla Grecia tra il 1912 e il 1922: prima e seconda guerra balcanica, prima guerra mondiale e spedizione in Asia Minore. Pubblicato in anteprima a Salonicco nel 1917, conobbe una seconda edizione nel 1924 e una terza, definitiva, nel 1930. Protagonista immaginario del romanzo è il sergente Antonis Kostulas, evidente alter ego dell’autore, che in una serie di lettere (mai inviate) alla fidanzata e ritrovate da un commilitone a pace ormai ristabilita, descrive le atrocità della guerra ma anche l’incomparabile bellezza dell’esistere, che proprio l’orrore della trincea rende ancora più preziosa. Nel contempo lirico e crudamente realistico, il romanzo mette a nudo, con lucida consapevolezza politica, lo scandalo dell’odio ed esorta alla faticosa costruzione della pace configurandosi come un vero e proprio inno alla vita. Nel periodo 1936-1945 Vita nella tomba fu messo al bando dalle autorità per il suo contenuto pacifista e antimilitarista mentre a partire dal secondo dopoguerra e fino a oggi il romanzo di Myrivilis non ha mai smesso di entusiasmare il pubblico greco dei lettori, attratti dal suo alto messaggio di pace e di fratellanza universali.

ISBN: 9788893130288, pag. 288, €23,00. Se desideri acquistare il romanzo nel formato carta, clicca su questo link: https://www.asterios.it/catalogo/la-vita-nella-tomba

 

Il vecchio baule

(A mo’ d’introduzione)

Oggi mi son messo a frugare dentro un vecchio baule grigio da campo cercandovi un documento del mio servizio militare di cui ho avuto bisogno dopo tanti anni. È una piccola cassa di buona fattura che avevo preso con me assieme ad altre reliquie del tempo di guerra.

Aperta la serratura arrugginita, ho sentito il cigolio sinistro del coperchio. Mi parve quasi di aprire un antico reliquiario, ritrovato dopo chissà quanti secoli di oblio. All’interno vi trovai una mezzaluna di bronzo che addenta una stella annerita, cimelio proveniente dall’asta di qualche bandiera turca; il mio spadino, un elmo, una maschera antigas tedesca dal grugno porcino, il mio certificato di congedo dattiloscritto ormai sbiadito, una portafoglio di cuoio, alcune fotografie, un paio di bombe a mano e un mucchio di altri oggetti. C’era anche un voluminoso brogliaccio di cartone tenuto insieme con lo spago, di cui non riuscivo a ricordare il contenuto. Ho tagliato lo spago con le forbici. Con un fruscìo che mi fece rabbrividire, dall’interno è caduto un mucchio di quaderni e di fogli di carta vergati con una scrittura fitta ma leggibile. In quel momento mi sono ricordato che cosa fossero. Sopra il brogliaccio ho letto un’annotazione che ero stato io stesso a scrivere con la matita blu:

 Diari di guerra del sergente Antonis Kostulas.

Ho tirato fuori l’intero contenuto del faldone e ho richiuso il baule. In quel momento esso mi è parso una piccola urna e il povero morto erano quei fogli di carta ingialliti con gli angoli spiegazzati dallo spago. Un morto che cercava di parlare. Così ho spiegato i fogli sulla mia scrivania e ho cominciato a leggerli nell’ordine in cui erano numerati facendo, quasi senza accorgermene, un viaggio a ritroso nel tempo.

Questi quaderni scritti fittamente a matita li avevo trovati in uno zaino del Quarto Reggimento della Divisione Insulare, dopo la terribile battaglia di Quota 908. Ero ancora sottufficiale e avevamo l’abitudine di separare gli effetti personali dei vivi da quelli dei feriti e dei morti. Lo zaino apparteneva al sergente Antonis Kostulas, un volontario della terza squadra della settima compagnia. Era uno studente alto e bruno, con il volto ovale e i capelli scarmigliati, schietto e sincero come un vero uomo ma accorto e riservato come una ragazza.

Ricordo anche come morì. Fu ucciso per errore da un sottotenente francese del corpo lanciafiamme, che accompagnava i liberatori, soldati armati di pugnale che eliminavano gli ultimi nemici ancora nascosti, per la paura o nella speranza di un’ultima sortita, dentro gli anfratti della linea conquistata. Il corpo lanciafiamme fu aggregato al nostro reggimento per ordine degli alleati: lo scopo era colmare l’arretratezza del nostro esercito balcanico, ancora sprovvisto di ordigni del genere, con quell’ultimo ritrovato della tecnologia europea.

Il sottotenente francese sputò dal suo lanciafiamme una lingua di fuoco e in quel momento dal ricovero bulgaro balzò fuori un soldato nascosto che gli affondò una coltellata nel ventre. Il francese cominciò a barcollare con le budella in mano ma il lanciafiamme non smise di sputare lingue di fuoco in tutte le direzioni. Proprio in quel momento il sergente Kostulas balzò dentro la trincea e le fiamme lo travolsero uccidendolo sul colpo. Ne rimase soltanto il volto carbonizzato, i denti serrati, le mascelle scarnificate e i bulbi oculari, gonfi e rotondi come due palle da biliardo. Il canino inferiore destro brillava, coperto dalla capsula d’oro.

Scavammo una fossa e seppellimmo lui, il francese e tre soldati bulgari nel punto stesso in cui erano morti. Giorni dopo passai di là e calpestando il terriccio, che era più morbido di quello circostante, mi sentii percorrere da un brivido gelido. Purtroppo non era stato possibile seppellirli altrove dal momento che i nemici martellavano senza pietà con le granate e facevano di tutto per impedirci di riorganizzare la loro ex postazione fortificata.

Del resto molto più sfortunati furono i commilitoni morti all’aperto, che giacquero a imputridire insepolti oltre il reticolato e a ogni momento gli scoppi ne facevano sobbalzare i corpi sul terreno. Poi vennero piogge copiose che ne flagellarono gli occhi sbarrati e penetrarono nelle bocche spalancate.

Le granate, che si accanivano con furia inaudita sui quei poveri corpi, li immergevano nella mota come maiali nel trogolo e a volte li facevano rimbalzare, ne scrollavano le membra e li costringevano a divaricare le gambe in modo agghiacciante offrendo quasi l’illusione di un ritorno alla vita.

Mentre sono qui a frugare in queste vecchie carte di cui avevo completamente dimenticato l’esistenza, questi ricordi mi assalgono come un’immonda torma di topi. Per questo ho deciso di pubblicarle. Ne è venuto fuori una specie di romanzo epistolare composto da lettere indirizzate a una ragazza il cui nome non viene mai menzionato. Se è ancora viva e dovesse leggere questo volume, spero che non me ne vorrà. Per me si tratta di un dovere morale divulgare i diari del sergente Kostulas perché da queste carte emerge il ritratto di un’anima martoriata, che a sua volta è una favilla della Grande Anima Universale. E il mormorìo sommesso che sentiamo, appartiene a essa tanto quanto alla ignota fidanzata del morto. Ma c’è anche un’altra ossessione che non mi dà tregua. Pubblicando i suoi scritti, ho l’impressione di riportare in vita quel povero ragazzo, di prenderlo per mano e di tirarlo fuori dalla sua tomba anonima, di restituirgli la voce e di restituirgli lo spirito svanito assieme al corpo. È una cosa orribile tenere tappata la bocca a un morto che cerca di parlare e che, dall’aldilà, ci richiama disperatamente con gesti supplichevoli. La cosa migliore è farlo raccontare, lasciare che si esprima. E sentire quello che ha da dirci.

Stratìs Myrivilis

Post scriptum. Per comodità del lettore, ho dato un titolo al libro e a ciascun capitolo in cui ho suddiviso il testo. Nei manoscritti c’è soltanto la numerazione delle pagine. Ma tutto questo ormai non ha alcuna importanza.

 

Una fine che è un inizio

Dio sia lodato! Finalmente in trincea. La fine di un’avventura e l’inizio di un’altra. Finiscono la lunga marcia e le privazioni connesse, e inizia la vita nella trincea, cosa del tutto nuova per me. Credevo che la marcia sarebbe durata per sempre. Certi giorni pensavo che non avrei smesso di marciare fino a diventare vecchio e che mi sarei fermato soltanto per morire.

Per distrarmi un po’ e vincere la solitudine, ho pensato di scriverti ogni tanto la cronaca delle mie giornate al fronte. Raccontare sarà per me un modo per parlare con te. Sai, non sempre è necessario ricevere una risposta alle voci che zampillano dalla sorgente occulta della nostra anima ed è consolante sentirsi vicine, tutt’uno con la nostra anima, le persone a noi più care nei momenti dedicati alla riflessione, nei momenti dedicati alla parola, nei momenti più solenni della vita. Persone che prestano ascolto ai nostri pensieri anche quando sembra il contrario. Non so se te ne sei mai accorta. Immagina di trovarti da qualche parte con la persona amata, in una stanzetta in cui ci siete soltanto voi due, qualche buon libro, un paio di bei quadri appesi alle pareti, una lampada in attesa trepidante della notte, un calamaio (che oggetto straordinario il calamaio) e qualche sedia piena di pazienza. Tu e la persona amata, dunque, siete insieme, seduti uno accanto all’altro davanti a una finestra, in silenzio, mentre giù in basso la strada brulica di persone frettolose e indaffarate, a piedi e a bordo dei veicoli. I fili del telegrafo stagliati sulla cortina azzurra del cielo formano una specie di pentagramma. Oppure, anziché in una stanzetta, immagina di trovarvi, tu e la persona amata, seduti su uno scoglio in riva al mare. È pomeriggio inoltrato e siete rimasti per ore al cospetto del gran mare che respira maestoso e sereno, vibrante di vita dentro ogni goccia. Le alghe si lasciano accarezzare dall’acqua la chioma virente, permettono all’acqua di giocare con essa. Nessuno di voi due dice niente. Ciascuno è immerso nei suoi pensieri. O forse nessuno dei due pensa a niente. Quello è l’istante più solenne, in cui l’anima, libera come una rondine, si libra a incontrare l’immensa anima del mondo fondendosi e divenendo un tutt’uno con essa, fraternamente. Perché l’anima è quasi sempre col silenzio che parla, simile a una polla d’acqua annidata da qualche parte nelle profondità della terra, che nessuno, a parte Dio, riesce a sentire. (In momenti come questi, tendendo l’orecchio, non ti sarà difficile percepire la tua anima cimentarsi in questa silente conversazione.) Dunque, siete immersi nei vostri pensieri. Tuttavia non puoi non aver notato quanto sia indispensabile la presenza dell’altro, della persona amata, che ti sta seduta accanto senza parlare o al massimo concendendosi qualche commento di circostanza il cui significato è racchiuso nella necessità di scusarsi per quel melodioso silenzio! Perché neanche la persona amata dice niente, semplice ascoltatrice distratta del tuo muto monologo. Ma appena accenna ad alzarsi, ad andare via, per te diventa la cosa più impossibile di tutte parlare in silenzio nei precordi del tuo essere.

Talvolta, al termine di questo silenzio ricco di complicità, ti alzi e te ne vai e rivolgi un sorriso al tuo amico, con il quale non vi siete scambiati neppure una parola. Eppure nel medesimo istante vi accorgete che la vostra anima è più forte, più libera e più piena. Perché è stata sfiorata da una gran messe di verità simili a bianche ali di farfalla.

Questo è quello che mi sta accadendo e così è a te che voglio rivolgere i miei pensieri. Quando ti scrivo ho la sensazione che l’aria intorno a me sia molto più piena. Anche se non parli, mi illudo che tu sia qui, da qualche parte, e allora mi abbandono con innocente fiducia al mio muto monologo.

Un giorno, a guerra finita, a queste lettere potremo finalmente dare un’occhiata insieme. Sarà inverno, le notti saranno molto lunghe e udendo lo scalpiccìo frettoloso dei passanti sul selciato, noi sapremo che si sono infilati le mani nelle tasche del cappotto, che si sono calcati il cappello fin sulle sopracciglia assumendo una posa ridicola e che le spalle gli si sono sollevate fin quasi alle orecchie nel tentativo di riscaldarsi. Le imposte verdi saranno chiuse, nella stanza soffierà un venticello caldo, l’aria sarà profumata di frutti maturi e io sarò comodamente seduto in poltrona. In bocca avrò una sigaretta accesa, ogni tanto smuoverò la legna incandescente nel camino con l’alamare di bronzo e osserverò la tua sagoma stagliata dentro l’aureola verde dell’abat-jour, intenta a leggere i miei scarabocchi con la tua voce limpida e profonda, quasi maschile. E a me sembrerà di sentire gorgogliare un rivo d’acqua chiara che scorre soltanto per me nei recessi della terra, al punto che nessuno può immaginare questa mia gioia segreta.

Ho dimenticato di dirti che saremo sposati e che vivremo in una casa tutta nostra, arredata con semplicità e con suppellettili fatte per durare. Perché tra la mobilia e i padroni di casa deve esserci complicità (niente di peggio che vivere con una mobilia con cui sia impossibile intendersi). Amerai anche questi quaderni, che riempio pensando soltanto a te.

 

Amore mio! In queste ore cariche di sofferenza, in cui la mia vita è così vicina alla morte e le mie braccia sono così lontane dalle tue…

Nelle lettere che riceverai da me non aspettarti di trovare alcun riferimento alla vita vera che vivo qui. Dalle trincee non è permesso corrispondere con nessuno. Al massimo possiamo inviare delle cartoline postali azzurre con su scritto “Settore postale 906” e uno spazio bianco per un semplice “Tutto bene ti saluto”. E prima che arrivino a destinazione, devono passare attraverso le fitte maglie della censura. Così le mie impressioni autentiche, quelle filtrate dal mio animo e sollecitate dal mondo esterno, ho deciso di affidarle soltanto a questi brogliacci scritti a mano. Nessuna data verrà menzionata. Per la semplice ragione che hanno smesso di esistere. Quassù le nostre giornate sono tutte uguali nella loro bruttezza. Non c’è nulla che ne modifichi la fisionomia, che le differenzi una dall’altra, che renda una più importante dell’altra. Il tempo passa con estrema lentezza, simile a una processione infinita di giorni e di notti insopportabilmente uguali e invariabilmente vuoti. Immagina un cerchio, un komboloi formato da grani bianchi e verdi alternati, che continuano a essere sgranati senza fine e senza un motivo. Il tedio assoluto! Lo stesso dicasi per i luoghi, ridotti a vocaboli forestieri, simboli, lettere dell’alfabeto e cifre. Nudi segnali in codice il cui significato si svela soltanto sopra le mappe dello stato maggiore.

Quando stavo con te invece tutto era diverso. Quando stavo con te ogni giorno, ogni ora, ogni istante possedeva un’identità particolare. Ciascuno esibiva una tale varietà di colori, un tale calore espressivo e tanta esuberanza di vita che ancora adesso potrei chiamare ognuno col suo nome e rievocarne gli eventi caratteristici.

Il rosa del mattino, l’ora in cui ti recavi a scuola e trovavi ad attenderti le giovani allieve con i freschi mazzetti di violacciocche. Il bianco del meriggio, quando tornavi a casa camminando a passi rapidi e nervosi, con il parasole amaranto schiuso come un fiore esotico che conferiva una sfumatura vermiglia al tuo volto. L’oro e l’azzurro della sera, l’ora del crepuscolo, allorquando io ti aspettavo per portarti al mare ad ammirare il tramonto prima che l’orizzonte inghiottisse il sole. Il mercoledì pomeriggio, quando accompagnavi gli scolari nel boschetto di pini e loro facevano il girotondo intorno a te, mano nella mano. Le lunghe gite domenicali con i vecchi amici, i giri in barca e il violino di Kleanthis ai piedi del castello con i contrafforti saldamente gettati nel mare tenebroso. Il sabato sera da Apellìs, quella specie di Robinson Crusoe capitato da chissà dove che si era costruito con le sue mani una casetta e aveva aperto un caffeuccio a picco sulla scogliera. Con lui c’era anche la moglie, una brontolona che ogni anno metteva al mondo un marmocchio. E i figlioli più grandi, di ogni età e statura, che ci accoglievano con grida di gioia.

Una volta, la domenica di Pasqua, avevi indossato un cappellino di raso nero con la bordatura rossa, molto carino, e camminavi con il tuo solito passo breve e deciso, come gli uccelli che saltellano al suolo. C’era un’atmosfera di festa e di allegria. I tuoi intelligenti occhi castani ridevano e mi portasti un mazzolino di violacciocche. Erano le tre del pomeriggio.

I dolci, sereni momenti che trascorrevamo insieme.

Qui tutte le ore sono uguali. Faticose, identiche, silenziose e terribili. Il tempo sembra essersi fermato. La terra ha smesso di girare. I mesi si sono accartocciati su se stessi. I giorni della settimana hanno perso il loro nome. Le festività non esistono più.

Quasi non c’è differenza neppure tra il giorno e la notte.

 

Dalla cima di questa montagna della Macedonia, fatta di selce infuocata, scruto la lunga linea degli eventi che mi hanno condotto fin qui, così lontano da Lesbo. Una rivoluzione! Bene. Questa parola mi procura e sempre mi procurerà sensazioni molto intense. È una di quelle parole che rimbombano nella mente incendiandola come un fiammifero. Ma c’è un problema. Molto spesso coloro che somministrano parole del genere agli assetati, il bicchiere ce l’hanno pieno soltanto d’acqua e non aspettano altro che i compagni di bevuta stramazzino al suolo per la sbronza. Ecco, la parola rivoluzione è una di queste. Ero soltanto uno studentello quando ne subii per la prima volta il fascino e risposi sorridendo alla sua chiamata, attratto dall’incredibile energia che promana. E a quanto pare da questo fascino non mi libererò finché campo. Persino adesso continuo a ripeterla dentro di me, a sillabarla sottovoce, a sussurrarla all’orecchio della mia anima come si sussurra una preghiera segreta. Chiudo gli occhi e la vedo scritta sul mantello scuro della notte incisa a lettere fosforescenti, vivide come saette striscianti. E a un tratto qualcosa accade dentro di me. Drappi rossi schiaffeggiano l’aria mentre le aste simili a pungoli ricamano la magnificenza del cielo, fiero come un palazzo pubblico ammantato con i colori della nazione. Nel celeste vuoto riecheggiano i fischi, razzi che sibilano rabbiosi e trionfanti. Intanto i tamburi, migliaia di tamburi, rullano come un tuono lontano che borbotta sul tetto del cielo facendo vibrare l’anima. Allora senza accorgertene stringi i pugni e la schiena si tende all’indietro come un arco in procinto di scoccare la freccia.

Una rivoluzione. Combattere per la libertà! In favore degli schiavi! Perché no? Val sempre la pena combattere per la libertà e in favore degli schiavi. Rovesciamo anche il re! Questa è la prima cosa da fare. Non c’è panno che ecciti di più il popolo-toro di quello color porpora. Anche stavolta mi sono fatto trascinare. Un’onda cieca e veemente mi ha afferrato a mo’ di pagliuzza sulla criniera spumosa. E adesso eccomi ridotto a un naufrago sufficientemente terrorizzato e decisamente sorpreso, scaraventato sulla cime di una montagna rocciosa della Serbia. Eccomi incatenato senza possibilità di scampo alla ruota gigantesca della guerra. Alla quale mi rassegno come ci si rassegna a un evento ineluttabile, con un sospiro e niente più. Del resto la costanza non mi manca né mi è mai mancata la sete inestinguibile di vita e di lotta, così come il piacere amaro della sventura, che affonda i denti nelle carni donando una consapevolezza dell’esserci molto più intensa di quella della gioia. Così mi abbandono alla vertigine della spaventosa ruota della guerra. Mi ci abbandono con la penosa e aspra soddisfazione dei cristiani, che considerano i loro tiranni come innocenti bagarini che dispensano biglietti per il paradiso.

La ruota della guerra!

Milioni di esseri umani la vedono spuntare dalla muffa di un caos primordiale, e girare stridendo come una macina. L’orizzonte è corrusco, il terreno esala vapori vermigli. La macina non fa che girare, sono secoli che gira seguendo la rotazione terrestre, lentamente, cigolando e urlando sopra l’abisso. E io, che mi ci trovo legato sopra mani e piedi, non posso far altro che seguirne l’accidiosa e fatale rotazione. Perché la ruota gira lenta e crudele fino alla disperazione, con la necessità di una legge naturale. Di fatto è come una mostruosa bestia dai denti di ferro, che divora serafica e senza alcuna fretta le carni palpitanti degli esseri umani.

Il nostro cielo è basso e plumbeo, e ci opprime la testa come un elmetto di ferro. Le nubi immobili appendono intorno i loro stracci color cenere, simili a panni sporchi. Quanto alle plaghe marine, ammutolite, trattengono sgomente il respiro per udire il dramma. Perché dentro questo silenzio immobile e in mezzo agli stridii improvvisi della macina, se presterai attenzione potrai sentire, in lontananza, un rantolo flebile e remoto, simile a quello dell’anima che cerca di fuoriuscire dalle labbra di una ferita di coltello insieme al fruscìo del sangue fresco. Se ascolterai, potrai sentire in lontananza lo scrocchiare leggero e incessante di corpi triturati e maciullati, di teste frantumate da un torchio che preme a poco a poco. Questo rumore è generato dalla guerra. La guerra di trincea. Un meccanismo perfetto che fagocita tutti i corpi fioriti degli esseri umani e degli animali trasformandoli in cadaveri dalle membra raggelate e contorte. Le dita sono contratte, le ginocchia rattrappite, gli occhi bianchi e compatti come due panetti di mastice. La guerra, che prima di sopraffare il corpo decompone a poco a poco e senza pietà l’anima nell’isolamento della vita sotterranea. Il terrore, compagno inseparabile dei soldati. Sulle pareti umide striscia la lumaca, figlia dell’orrore. Infili la mano nel sacchetto per prenderne un boccone di pane e tocchi il dorso viscido e molle di un topo, che ti scappa terrorizzato dalle dita irrigidite dal ribrezzo.

«Che Dio abbia pietà di noi».

Le vicende che mi hanno condotto fin qui, lontano da te e lontano da Lesbo, rivivono una per una dentro il mio ricordo.

Così muoiono i re

Ricordo la burrasca della rivoluzione. Migliaia di persone in preda a una gioia colma di attesa. Si tratta di uno stato d’animo più unico che raro. Qualcosa di rovente come il soffio di Dio che ti inebria scorrendoti nelle vene. Qualcosa di incontenibile. Ti prende la smania, senti che devi fare qualcosa ma non sai che cosa. Gridare di giubilo e di trionfo, per esempio, far squillare la tua voce come le trombe di Gerico sugli spalti, in mezzo alle vele spiegate delle navi e dai tetti degli edifici pubblici. Oppure abbandonarti a un dolce pianto, versando lacrime tiepide come sciroppo, con la testa romanticamente appoggiata sulle ginocchia rotonde della donna amata. In questi momenti se qualcuno ti dirà quello che devi fare, tu obbedirai con un senso di liberazione. Con una gratitudine colma di lacrime questo qualcuno ti sembrerà un dio e se ti ordinerà: «Buttati nel pozzo» tu obbedirai di buon grado.

Intanto tutt’intorno si era levato il clamore di mille voci, fitto e inebriante. Le campane della città suonavano a stormo, le note si inseguivano sopra i tetti rossi e uno stuolo di arcangeli riempiva l’aria di una sveglia eccitante. Battevano le lance sugli scudi di bronzo e gridavano. Anche le voci erano di bronzo mentre le ali terribili frullavano in aria agitandola come un mare in tempesta. Sono meravigliose le campane quando con le grosse bocche annunciano gli arditi cimenti dei popoli. Il clamore entra nel sangue come vapore bollente. Con mani di ovatta spingono le folle, trasformatesi in corde avvinghiano una per una le anime degli esseri umani ai battagli impazziti sollevandoli fin sopra i campanili! Uomini, donne, vecchi e bambini. Gli animali impauriti correvano tra i piedi delle persone che fluivano come torrenti dai vicoli in salita. I vessilli e i labari di seta con i santi garrivano gioiosamente nell’aria. Le nappe dorate brillavano al sole e le frange biancoazzurre sfioravano i capelli facendoti fremere. A ogni respiro, bevevi un goccio di prezioso liquore e sopra il mare denso di quel formicaio umano, scariche misteriose di corrente striavano la luce facendo tremare le anime come canne e contrarre le dita in uno spasmo convulso.

A un tratto, in quella stravagante adunata, frutto, si direbbe, degli incubi di un bambino febbricitante, tuonò un cupo boato carico di terrore e di odio: «Abbasso il re! Viva la guerra!».

A provocare il boato non era stato l’oratore con la sua voce calda e melodica, o con i suoi gesti studiati, ma la voce stessa del popolo. L’oratore era alto e magro, con la chioma ondulata in cui soleva affondare le dita affusolate. Il volto era armonioso e atteggiato in una smorfia teatrale mentre il grande naso, affacciato sulle labbra per non perdersi neanche una parola della concione, pareva sinceramente commosso. A un certo punto egli protese ad arte le lunghe braccia verso il popolo, in un atteggiamento di preghiera, e tosto il boato squarciò l’aria.

«Abbasso il re!».

Ricordo un mio vecchio professore così magro e debole che sarebbe bastato un soffio per farlo cadere. Eppure, quando in laboratorio armeggiava con gli impianti elettrici, ne faceva scaturire scintille abbastanza potenti da uccidere un bufalo. Anche lui si muoveva con estrema grazia. Soltanto adesso mi rendo conto che un oratore spregiudicato al cospetto di un popolo immaturo o incline all’emotività risulta pericoloso come un rasoio.

«Abbasso il re!».

Subito dopo aver esternato le nostre intenzioni con i pugni stretti lungo le cosce e i denti affondati nelle sillabe, trattenemmo il fiato e rimanemmo in silenzio ad ascoltare l’eco mai udita prima del nostro grido, che rimbalzò in modo singolare sui muri delle case imbandierate e sull’acqua del porto. Una sensazione mai provata. Nel petto si spezzò, si ruppe qualcosa. Un vuoto spiacevole si spalancò a un tratto. Era il piedistallo rimasto vuoto dopo che avemmo abbattuto con un bel calcio la statua ancestrale?

In frangenti del genere in cui un popolo intero si trasforma in un gigantesco animale con un’anima sola e una testa sola, in cui la folla agisce in base a un istinto potente e incomprensibile, in cui ogni petto diventa un unico petto, grande come la cupola di una chiesa, e questo petto si solleva e si abbassa come il respiro dell’oceano, che cosa provoca questo strano fenomeno?

Forse nei meandri misteriosi del suo sistema circolatorio si fermano, creando una lunga fila, i padri, i nonni e gli avi vissuti nei secoli passati, con la nostra tradizione nel sangue. Forse interrompono stupiti il loro incedere secolare e increduli di fronte a questa imprecazione inaudita, aggrottano le sopracciglia picchiando i bastoni sul selciato e prorompendo in un grido:

«Come? E la Grande Idea? E l’ultimo imperatore che tornerà in Santa Sofia? E l’inno alla Vergine Condottiera? E l’aquila bicefala? E le venerande memorie di Bisanzio? E le profezie sulla riconquista di Costantinopoli? Maledetti! Maledetti! Maledetti!».

Noi invece, inebriati dalla forza della nostra stessa audacia, commossi dall’amore per la nostra nazione, pronti a morire tutti insieme, stretti in un unico abbraccio, per la Grecia, non abbiamo smesso un istante di gridare, con sempre maggior impeto, con sempre maggior veemenza, con sempre maggior passione.

«Abbasso! Abbasso i re! Abbasso la canaglia!».

Le labbra tremolavano ma le nostre voci sfidavano la maledizione degli avi. Perché noi eravamo giovani! Giovani! Eravamo liberi tra i liberi. Il sangue nostro era più rosso e più brillante di quello di tutti i re messi insieme. Le favole ben raccontate era tempo che squarciassero i drappi d’oro e i ricchi paludamenti per fare largo alla realtà. La “tradizione imperiale” dalle anemiche dita che aveva chiuso gli occhi di tutti i nostri antenati sin dai tempi di Bisanzio, la “tradizione imperiale”, dunque, ci volava intorno come un pipistrello frastornato che va a sbattere contro i muri e contro i fanali, urta i pali telegrafici e infine resta imprigionato nel sartiame, brutto e miserevole.

Quanto all’impeto inesorabile della nostra ira, ha dato una caccia spietata al Pipistrello-Idea, come un ragazzino con il manico di scopa.

«Abbasso! Abbasso il re!» (con la erre minuscola che più minuscola non si può).

La sera poi, rimasti finalmente soli, sdraiati nel nostro letto, non smettevamo di ripeterci quella frase audace per rendercela familiare.

La stessa cosa deve accadere a chi sia toccato in sorte di vegliare un morto. Egli sa che il morto non può muoversi, che non è in grado di fare del male a nessuno e che in nessun caso potrebbe muovere le palpebre o fare l’occhiolino. Un cadavere non è molto diverso da un qualsiasi oggetto, da un tavolo per esempio, da una pantofola o da un cuscino. Eppure colui che veglia un cadavere non ha il coraggio di sfiorarlo né di guardarlo perché la morte è una realtà a cui è impossibile abituarsi. Gli viene quasi voglia di pregarlo, di supplicarlo di non tirargli qualche brutto scherzo, tipo fargli le linguacce, perché la paura potrebbe paralizzarlo prima che riesca a darsela a gambe.

Niente è meno efficace della ragione di fronte alle azioni strane e invincibili dell’anima e dell’immaginazione.

 

Il generale Balafaras

Così abbiamo indossato l’uniforme e in testa, audacemente piegato sull’orecchio, ci siamo messi il berretto azzurro della rivoluzione. E adesso siamo compagnie e reggimenti, finché ci trasformeremo in una divisione intera: la Divisione Insulare. Dal Peloponneso è arrivato apposta per noi un intero bastimento di ufficiali con tanto di generale. Sin dal primo giorno che lo videro, i soldati lo soprannominarono Balafaras. Nessuno sa perché. So soltanto che lo ripetemmo tutti e che si diffuse in un batter d’occhio.

Certe persone sembra che nascano apposta per assumere un determinato nome. Sul marciapiedi di fronte passa uno sconosciuto, qualcuno che vedi per la prima volta e di cui non hai mai sentito neanche parlare. Eppure, per un impulso inspiegabile, cominci ad accelerare il passo, ti viene voglia di raggiungerlo, di avvicinarti a lui e di dargli una gomitata dicendogli:

«Ops, Manolis, scusami tanto!».

Ovviamente lo sconosciuto in questione è quasi certo che non si chiami Manolis. Ma non c’è dubbio che presenti tutti i requisiti per chiamarsi Manolis. E se non si chiama Manolis è soltanto per la superficialità dei suoi genitori. Allo stesso modo per noi tutti era palese che il nostro generale dovesse chiamarsi Balafaras. Ba-la-fa-ras. Com’è che si dice? Nomen omen. Balafaras infatti è un nome eroico, pomposo, magniloquente, schietto e panciuto. Proprio come il suo titolare, un tipo grande e grosso e con i baffi, le gambe ben piantate al suolo e l’incedere solenne. Analogo era il suo modo di parlare. Le sillabe gli uscivano dalle labbra tutte in fila, senza fretta. Si susseguivano tra i baffi con tutte le vocali e le consonanti al loro posto, senza sbavature. «In rivista, march!». Tutto in lui ispirava sicurezza e fierezza. Perché ovunque andasse lo sapeva che la gente usciva per strada o si affacciava alla finestra per ammirarlo e additarlo.

Dal canto suo il generale sollevava il mento, arricciava i baffi, raddrizzava la schiena e marciava spedito con lo stivale d’ordinanza, i rossi fregi triangolari del mantello e la visiera tutta d’oro. Poi c’erano gli speroni che tintinnavano solenni e compiaciuti ai piedi di questo colosso. Klinki-klin, klinki-klin. Si capiva lontano un miglio che il generale era stato predestinato da Dio a compiere le più alte imprese a cui sia chiamato un essere umano. E dubbio non v’era che anche il suo modo di agire fosse quello di un leone, i suoi movimenti fossero veloci come quelli di un’aquila e i suoi pensieri sgorgassero limpidi e cristallini come l’acqua delle sorgenti di montagna. Solo a vedere questo gigante calpestare il suolo della nostra isola c’era di che andar fieri del fatto che fosse originario di Lesbo anche lui. Nella mano guantata teneva un frustino con il manico d’argento, con cui si colpiva lo stivale destro ogni volta che parlava. Sembrava quasi che tenesse il tempo, cosicché si potrebbe dire che quel frustino stava a lui come la bacchetta sta al direttore d’orchestra.

«Il nostro dovere» ciaf! «è combattere» ciaf! «per la nostra patria» ciaf! cif!

Il pomeriggio andava a prendere caffè in compagnia degli ufficiali. Questi ultimi gli si assembravano intorno e siccome il generale era il più alto di tutti, a vederlo così sembrava davvero una chioccia con i suoi pulcini. Poi si concedevano una passeggiata e gli ufficiali dovevano adeguare il passo a quello del generale. Unò-duè, unò-duè senza mai confondersi. Mentre percorrevano il lungomare diceva qualcosa agli ufficiali e i civili seduti ai tavolini dei caffé si alzavano in piedi in segno di rispetto. A volte invece si fermava all’improvviso e gli ufficiali lo imitavano con un piccolo balzo, zup! Le mascelle e le visiere degli ufficiali si agitavano deferenti e lui si poneva al centro della strada per offrire chiarimenti e spiegazioni. Poi ricominciava a camminare e giungevano finalmente al Panellinion, il suo caffè preferito. Balafaras si accomodava al centro e tutti gli ufficiali gli si sedevano intorno. Sorridevano sdilinquiti quando si accorgevano che il generale scherzava, sorridevano quando lui sorrideva, e se lui si concedeva una risata, loro ridevano a crepapelle.

Quando parlavano, si portavano la mano destra alla visiera. Pareva che volessero proteggersi dalla luce accecante del sole. Ma la scena più strana aveva luogo quando lui porgeva la mano a qualcuno di loro per stringergliela. Colui al quale la porgeva, in brodo di giuggiole per la felicità, allontanava subito la destra dalla visiera per stringere la mano del generale, e mentre la teneva stretta si portava la sinistra alla fronte. Poi, appena il generale gli lasciava andare la mano, l’altro allontanava la sinistra dalla fronte e sollevava la destra. Soltanto assistendovi si poteva assaporare fino in fondo la bellezza di questa scena.

Una volta ho incontrato Balafaras a casa di un mio amico, dove era andato a prendere il tè. Così ho avuto l’occasione di osservarlo da vicino e mi sono accorto che con gli occhi di velluto si mangiava avidamente la mano paffutella della giovane cameriera che lo serviva. (A proposito, non ho detto che è celibe e che ha circa sessant’anni.)

«Generale, gradisce un’altra fetta di torta?», diceva lei con occhiate civettuole. E Balafaras rispondeva «Merci, merci» con voce strozzata. In quel momento appariva per quello che era: un vecchio rimbambito di prima categoria. A un certo punto si è messo persino a balbettare, aveva perso il filo del discorso e con il dito ha indicato le tendine della porta a vetri.

«Be’, ecco, guardate laggiù… laaaaaggiù. Lo vedete quel ricamo?» (Ovviamente lo vedevamo tutti.) «Somiglia a qualcosa ma a che cosa? Sembra facile. Siete capaci di dirmi a che cosa somiglia quel ricamo?».

Il famoso ricamo raffigurava due vasi da fiori che somigliavano nient’altro che a due vasi da fiori. Qualcuno glielo fece notare. Sorrise soddisfatto sotto i baffi.

«Lo sapevo che non lo avreste capito», disse. «Ci vuole fantasia e non tutti ce l’hanno. Non vi pare che i due vasi da fiori somiglino a due guerrieri antichi con in testa il cimiero?».

Conclusa la domanda, Balarafas sgranò gli occhi e li fece roteare sui presenti accarezzandosi i baffi con il dorso della mano. L’idea del generale lasciò tutti senza parole. Un paio di ospiti si ammiccarono a vicenda e un istante dopo tutti i presenti, dame, civili e ufficiali, si affrettarono a confermare le parole di Balarafas.

«Ma certo, come abbiamo fatto a non pensarci? Che occhio il nostro generale».

Balarafas rise di compiacimento, «ah, ah, ah, ah!», e anche la sua pancia, una pancia degna di un «grande uomo», rise per la soddisfazione e il compiacimento, e continuò a ridere anche dopo che il generale ebbe smesso.

È una cosa che ho notato spesso. Tutti gli ufficiali, dal grado di maggiore in su, cominciano a mettere un po’ di pancia. Ecco un problema che varrebbe la pena studiare a fondo. Mi sembra un ottimo argomento di tesi per i cadetti dell’accademia militare.

 

Vita sulla nave

Un giorno ci fu annunciata la seguente notizia:

«Stasera avete tutti la libera uscita e domani si parte per il fronte».

Per il fronte.

Battemmo a terra il calcio dei fucili gridando all’unisono:

«Sì, domani!».

Era ancora notte fonda quando le trombe cominciarono a squillare tutte insieme con selvaggia autorità per darci la sveglia. La città dormiva avvolta nel buio come in una coperta. Le fiammelle a gas dei fiochi lampioni bruciavano, insonni, nelle stradine deserte. Le case tacevano tranquille, nell’immobilità degli oggetti che riposano felici. Alcune osservavano assorte il pelago mentre i lumini assonnati, dietro le finestre, bruciavano serenamente l’olio che li alimentava. Ma ecco che, di punto in bianco, dei tizi con la schiena ricurva, più scuri persino del buio, uscirono frettolosi nelle strade deserte dirigendosi verso le alture da cui proveniva lo squillo delle trombe. Eravamo noi e i nostri scarponi chiodati che colpivano spietatamente il selciato. Le case che costeggiavano le strade tremavano tutte e ci guardavano incuriosite mentre gli impassibili lumini a olio continuavano a bruciare sereni e noncuranti dietro le finestre. Ogni tanto una porta si apriva e si richiudeva sbattendo. Alcune donne furono risucchiate dietro le porte chiuse. Poi ritornava il silenzio. Salivo alla caserma con uno zaino pesante e il fucile in spalla.

Presso la tua porta udii un singhiozzo sommesso. Eri tu che piangevi da sola, nel buio. Avevi pianto tutta la notte. Entrai e non parlammo. Piangevi in silenzio e io, per vincere l’imbarazzo, mi misi a giocherellare con le cinghie dello zaino. Perché se ti avessi chiesto per quale motivo piangevi, sarebbe venuto da piangere anche a me e questo, ne converrai, sarebbe stato disdicevole per un soldato armato fino ai denti e con duecento cartucce nella bandoliera.

C’era anche una bimba che versava lacrime silenziose. Era seduta su una poltrona rossa, indossava una tutina di velluto vermiglio e aveva un piedino scalzo. Lo sguardo mi cadde su questo piedino. Tu lo notasti e da un cestino di foglie di mais intrecciate tirasti fuori una calzina, in cui cercasti di infilare il piedino nudo della bimba.

«Ma questa calza è spaiata», dissi con un sorriso eroico e la voce che mi tremava. Tu allora lasciasti la calzina penzoloni sul piedino nudo della bimba e mi stringesti in un abbraccio mettendoti a piangere a dirotto.

Io riuscii a non piangere nonostante il groppo che mi attanagliava la gola e che io cercavo ostinatamente di inghiottire. Presi il fucile in spalla e me ne andai a testa bassa.

Saliti a bordo, le navi emisero un sibilo stonato e cominciò a cadere una pioggia torrenziale. Stavamo accalcati uno sull’altro mentre l’imbarcazione veniva sballottata da tutte le parti. Qualcuno attaccò delle canzoni goliardiche della nostra isola altri invece sparavano fucilate a salve in segno di saluto suscitando la reazione indignata dei sottufficiali. Intanto cadeva una pioggia battente, il mare bersagliato dalle goccioline sembrava lava bollente. Mentre tutto ciò accadeva, io ero tormentato da mille pensieri funesti e confusi, e quando mi sforzai di dare una veste razionale alle mie ambasce, sorse il seguente interrogativo: «Capisco che Dio mandi la pioggia sulla terra. Ma per quale motivo fa piovere sul mare?».

 

Siamo al largo, a bordo di una mezza dozzina di grandi navi mercantili. Anziché il solito carico, esse trasportano centinaia di giovani nel fiore degli anni. Le scialuppe che ci hanno accompagnato fin qui, sono tornate al porto. L’aria è infestata da un lezzo di sentina, ovunque si nota uno spesso strato di fuliggine o di fanghiglia nera. I martelli battono sulle lamiere, le catene si arrotolano attorno alle carrucole di ferro. Stiamo per salpare. L’equipaggio leva le ancore, gli addetti alla manovra fischiano in modo assordante sputandoci gocce gelide di saliva sul viso. Partenza.

I soldati cantano, chiacchierano, imprecano affacciati alla balaustra, sulla tolda. L’isola diventa sempre più piccola. Addio, isola! I fumaioli vomitano fumo nero nell’aria fosca. Vediamo allontanarsi a poco a poco le coste verdeggianti di Lesbo. Le montagne appariono scure, i villaggi ci scrutano in cima alle colline, alcune casette sembra che si siano arrampicate fin lassù per non perderci di vista.

Ogni tanto dalla distesa bigia degli ulivi si scorge qualche casetta bianca simile a un fazzoletto che sventola in segno di saluto, poi anche questa sparisce.

La pioggia continua a sferzare il mare, acqua che cade sull’acqua, le gocce sembrano pallini di piombo che trafiggono la superficie ecquorea.

Penso a quelle belle giornate d’autunno in cui si sta chiusi in casa perché fuori piove. In una casa tutta tua, in compagnia dell’amore, di un libro e di un vaso di fiori freschi.

Ma cosa succede? A un tratto mi sento le guance umide. A causa della pioggia o delle lacrime?

 

A un certo punto ci hanno distribuito dei salvagente. Sono una specie di bianchi camiciotti di tela imbottiti di sughero. Sotto le onde verdi il nemico è in agguato, simile a un vitreo mostro marino con il dorso d’acciaio.

Un siluro è più che sufficiente per mandare a picco questo equipaggio di ragazzi innocenti che, avvolti nei loro mantelli, si danno arie da eroi. Perché? La pioggia cade sempre più fitta. La nave è strapiena. La stiva, simile a una gigantesca e rumorosa pancia di ferro, è piena di polvere nera. Per scendere nella stiva occorre aggrapparsi ad alcuni pioli di ferro disposti a mo’ di gradini lungo la parete. È qui che teniamo il carbone.

Basta un minuto per rendere irriconoscibili le nostre uniformi e un altro minuto per renderci irriconoscibili le facce. Segue il mal di mare, presenza immancabile in ogni viaggio per mare, che trasforma gli uomini più determinati e spericolati in esseri disgustosi, simili a polpi sbattuti. La nausea ti avviluppa simile a densa saliva, l’anima si paralizza, la mente geme di dolore. Le articolazioni sono madide di sudore viscido. Le ginocchia tremano e il ventre sembra un paniere di budella sconvolte.

Ma la cosa peggiore è il vomito. Il vomito che tracima da ogni orifizio, dalla bocca, dalle narici, dagli occhi, insozzando tutto quanto.

Siamo sei navi cariche di eroi che vomitano “gli alti destini della Nazione”. Sei navi cariche di rivoluzionari che piangono di debolezza, coperti di moccio, imbrattati di fuliggine come maschere di carnevale, e ridicoli con le gobbe dei loro salvagenti imbottiti.

Salonicco

A Salonicco arrivammo un pomeriggio tardi. Aveva appena smesso di piovere, le strade erano umide e scivolose, il crepuscolo incendiava il cielo con rutilanti striature. I camalli nel porto si indaffaravano a sbarcare il carico da alcuni giganteschi mercantili sbuffanti e tutt’intorno galleggiavano carcasse tumefatte di animali. La città assomigliava a un casermone fetido e ostile, brulicante di soldati provenienti da ogni angolo del mondo. Oltre a quelli originari dei Balcani e dell’Europa occidentale, c’erano anche cinesi molto pallidi, indiani con il turbante e soldati di colore con i grossi occhi bianchi e le gambe segaligne. Erano stati gli europei a portarveli con l’ordine di uccidere e di farsi uccidere “per la libertà dei popoli”. Quando passavano i mezzi corazzati inglesi, le strade tremavano tutte. Del resto il comando in città apparteneva appunto agli inglesi, sia pure informalmente. Essi lo hanno ottenuto grazie alla forza delle loro sterline e alla magnanima ingenuità, esibita a ogni piè sospinto, che celava un orgoglio smisurato e un compassato disprezzo per tutto il resto del mondo.

Gli inglesi sono grandi in tutto. Sono alti, i loro cavalli e i loro veicoli sono grandi, le loro feste non finiscono mai e i loro denti, quando ce li hanno, sono più che altro dentoni. Si capisce che hanno più soldi di quanti riescano a spenderne. Le donne di malaffare della Penisola Balcanica se ne sono accorte e ne approfittano a man bassa. Non si occupano più dei lavori domestici e dopo aver acquistato qualche abito decente hanno deciso di buttarsi nella mischia. Un giorno ho visto due ufficiali inglesi in compagnia di cinque o sei di loro. Poiché non sapevano che cosa farne, le rimpinzavano di cibi squisiti, di champagne e di dolciumi. Non c’era altro modo per assicurarsi un po’ di pace e la possibilità di scambiare quattro chiacchiere senza essere disturbati dalle smorfie scimmiesche a cui ricorrevano per comunicare.

I greci adorano gli inglesi perché questi si lasciano derubare senza opporre alcuna resistenza. I francesi invece non li frega nessuno. Sono persone furbe e intelligenti, ma sono anche degli attaccabrighe. Per pochi spiccioli fanno il diavolo a quattro e si esprimono in una lingua così raffinata, ironica e nel contempo maliziosa, che persino gli sciocchi, quando parlano in francese, sembrano mostri di intelligenza. Gli italiani invece si danno arie da damerini. Sembrano tanti soldatini di piombo e hanno grandi occhi neri molto simili a quelli dei greci. Non ci stanno particolarmente simpatici.

Ci siamo accampati fuori città, sopra una collina arida e brulla. Accanto a noi ci sono altri accampamenti, ciascuno protetto da siepi di filo spinato che li fanno sembrare gabbie piene di belve feroci. Cosa che non è molto lontana dalla realtà. Una sera gli italiani hanno ucciso un caporale greco. Lo hanno sgozzato come un montone, sotto un ponte. Per rappresaglia la sera successiva i nostri hanno trascinato sotto lo stesso ponte due italiani e gli hanno affondato due coltelli nel petto.

Gli inglesi invece non fanno male a nessuno. Tra di loro però scoppiano spesso terribili risse e per questo sono quasi tutti privi dei denti anteriori. La cosa strana è che subito dopo essersele date di santa ragione, si abbracciano e si mettono a cantare tutti insieme per ore. La sera fanno bisboccia in compagnia. I soldati di ronda vengono a prelevarli, li caricano tutti insieme e li riportano in caserma.

 

Un giorno che faceva un caldo terribile ci vestirono tutti di nuovo dalla testa ai piedi. Ci consegnarono un bel vestito, biancheria, coperte, scarpe, spilli, forbici, aghi e filo: era così tanta roba che non sapevamo dove metterla. Poi ci schierarono per la cerimonia militare della partenza. La divisione intera si radunò in una piazza, dove, in un tripudio di canti militari, tamburi rullanti e discorsi patriottici, ci diedero le bandiere dei tre reggimenti. Io queste bandiere le conoscevo. Erano bianche e azzurre, tutte di seta, con le frange dorate e i fiocchi brillanti. Sulla punta dell’asta c’era un pomo d’argento con il numero del reggimento. Erano state le fanciulle e le dame dell’alta società di Lesbo a donarle alla divisione. Il tessuto invece era stato cucito e ricamato dalle giovani profughe dell’Associazione filantropica femminile in cambio di un tozzo di pane. Ciononostante recavano alle nostre narici un intenso profumo di Lesbo. Ci mettemmo in marcia subito dopo il giuramento. (Balafaras si era sciolto in calde lacrime).

Quando si marcia a suon di musica e sai di essere guardato dalle belle ragazze uscite sui balconi o davanti alla porta di casa, la situazione è sopportabile. Hai lo zaino caricato sulle spalle, cerchi di ignorare il rumore della ferraglia che ti schiaccia la schiena, la nuca e le gambe, e cerchi di mostrarti il più possibile fiero e impettito. Ma che cosa succede quando esci dalla città, la musica tace e ti senti schiacciare da tutta la roba che hai sulle spalle?

 

La marcia

Quando ci siamo accampati qui, sul foglio della compagnia c’era scritto “trecento chilometri”. Percorsi interamente a piedi, un passo dopo l’altro. Settimane intere trascorse a camminare sotto il sole cocente e la pioggia incessante. Che ricordi mi hanno lasciato dentro gli ultimi, faticosissimi giorni? Non molti a parte qualche avvenimento esasperato dalla stanchezza.

Un giorno faceva un caldo da morire e non avevamo smesso di camminare sin dall’alba. Era quasi mezzogiorno e ancora avanzavamo disposti in file di quattro uomini ciascuna. Il peso dell’equipaggiamento era tale che ci sentivamo mancare il fiato. Di solito dopo un paio d’ore di marcia ci si mette sempre a cantare tutti insieme poi le voci si affievoliscono. A cantare restano soltanto cinque o sei soldati, che insistono a ripetere il ritornello e tacciono finalmente anche loro quando si accorgono che nessuno gli viene più dietro. Allora si sente soltanto lo scalpiccìo di centinaia di scarponi e il clangore dell’equipaggiamento finché a un certo punto la stanchezza comincia a farsi sentire. I legamenti che tengono insieme le membra cominciano a cedere, ma questo non vuol dire che sia possibile fermarsi a riposare. Questo dipende esclusivamente dall’ordine del giorno e se sull’ordine del giorno c’è scritto che non è il momento di riposare, ai soldati non rimane che continuare a marciare. Gli ordini del giorno sono come le Tavole della Legge, che gli scritturali delle compagnie copiano ogni giorno al comando del reggimento.

Un giorno toccò anche a me copiarne uno. Nel testo trovai un errore di sintassi e osai correggerlo. Il sergente maggiore si accorse del sacrilegio e mi fece una solenne ramanzina. Quando ottenni finalmente “l’onore” di spiegargli che avevo soltanto corretto un errore di sintassi, il sergente maggiore perse del tutto la pazienza e mi punì severamente con l’accusa di “aver alterato l’ordine del giorno”. Da allora nutro un rispetto religioso per gli ordini del giorno e soprattutto per gli errori di sintassi che contengono.

In altre parole, si continua a camminare perché questa è la volontà dell’ordine del giorno. Però a poco a poco la stanchezza si fa sentire appropriandosi di ogni fibra del corpo e della mente tranne che delle gambe. Queste continuano a macinare chilometri come se niente fosse, sembra che a muoverle sia una forza sovrannaturale. Il segreto consiste nello smettere di pensare e lasciare che siano le gambe, da sole, a sostenere l’equipaggiamento, il corpo e la testa. Si scopre allora che le gambe sono dotate di una volontà propria, che non hanno bisogno di essere comandate dalla mente e dai nervi, e che per farle muovere basta l’ordine del giorno. Si continua a camminare come in un incubo, mossi semplicemente da una forza altrettanto cieca e impersonale delle leggi della natura. Non sai dove sei diretto e neppure ti interessa saperlo. L’importante è marciare. Senza porsi domande. Altri pensano per te prima di te. Altri “vogliono” per te. Tu basta che cammini, schiacciato dallo zaino che con il trascorrere delle ore diventa sempre più pesante. E la testa? La testa è una zucca vuota. Naturale visto che i tuoi pensieri ormai appartengono ai capi. Il sole brucia, le fiamme ti lambiscono facendo ribollire il sangue che ristagna nelle vene strette dalle cinghie. Ma tu non parli, non pensi, non ti lamenti nonostate la stanchezza e la sofferenza. La gola secca e la lingua prosciugata ti dolgono, ma il tintinnio della borraccia annuncia che all’interno non è rimasto neppure un goccio d’acqua. I rivoli di sudore che ti scorrono tra i baffi ti fanno bruciare gli occhi e il naso. Le cinghie del fucile spostato in continuazione da una spalla all’altra ti fa sanguinare la pelle. Ti sei ingobbito come un vecchio e le vene del collo ti si sono gonfiate per il peso dello zaino. Il dorso percosso dalle cartucce, dalle cesoie e dalla zappa si ricopre di piaghe. È come se una tenaglia ti strappasse le carni a brano a brano.

Dai pori oltre che un sudore lercio, mi defluiva anche l’anima. Dentro l’elmetto di ferro rovente le cervella friggevano come in una padella di rame. A volte temevo che se avessi agitato la testa, le avrei sentite agitarsi dentro la scatola cranica come una frittata troppo cotta. Quello che provavo era soprattutto un’immensa angoscia, immensa come il mare che tiene in balia i naufraghi. Nel contempo era come se avessi preso le distanze da me stesso, e provassi una pena infinita e una dolce compassione per quello disgraziato che ero io. Quanto avrei voluto versare calde lacrime per lui! Questa sensazione di angoscia si impadronì di me penetrandomi fin dentro le ossa doloranti, insinuandosi nei recessi del corpo, fino al midollo, come una sgradevole umidità.

Gli occhi, che mi bruciavano come due ferite purulente, necessariamente vedevano soltanto il compagno che mi stava davanti. O meglio ne vedevo lo zaino, la gavetta appesa alla cintura, una parte della schiena, i glutei e le gambe che si muovevano spinte da un’energia priva di qualsiasi volontà. Il dorso e i glutei, poi, apparivano indescrivibilmente sciocchi. Soltanto lo zaino sembrava soddisfatto poiché lo portavamo addosso per tutto il percorso. In seguito notai che tutti gli zaini avevano la stessa aria compiaciuta e quando pensai alle migliaia di zaini trasportati da migliaia di buoni soldati, essi mi parvero simili a turpi animali che approfittavano di noi per farsi portare in giro e che non si sarebbero separati da noi per tutto il resto della nostra vita. Un po’ come il demone camuffato da vecchietto che non riesce a guadare il fiume e chiede a Sinbad il marinaio di aiutarlo a raggiungere l’altra sponda. Sinbad, commosso dalla sorte del vecchietto, non esita un minuto a metterselo sulle spalle ma mal gliene incoglie! Perché il demone gli avvinghia subito le braccia intorno al collo e le gambe intorno al corpo, e non ha alcuna intenzione di staccarsene.

Tutti noi siamo una massa di Sinbad dal cuore d’oro, docili e oppressi, che sbuffiamo, gemiamo e respiriamo a fatica, condannati da un Giudice crudele a portare in eterno sul groppone questi demoni che ci schiacciano, pieni di stolta bestialità.

Prima ho parlato della gavetta appesa alla cintura del capofila. A un certo punto la cinghia si è slacciata e il coperchio ha cominciato a tintinnare. Era un suono metallico, monotono e sempre uguale, che si ripeteva identico e ossessivo ogni volta che la gamba sinistra si muoveva in avanti. Un chiodo lungo e sottile mi si conficcava nelle tempie, mi penetrava nel cervello sconvolto e poi ne usciva per entrare di nuovo, usciva ed entrava per poi uscire e uscire ancora. Avrei voluto gridare, liberarmi dell’elmetto, tagliare la cinghia da cui pendeva la gavetta fracassona e infine amputare la gamba sinistra che faceva sbatacchiare la gavetta. Questo martirio durò almeno un’ora allorché finalmente fu dato l’ordine di fermarci per una sosta. Quando udii il fischietto del capitano e l’“alt!” del maresciallo, mi lasciai cadere sopra un mucchio di zolle calde. Infilai le dita nel terriccio e dagli occhi cominciarono a sgorgarmi lacrime che mi fluirono in bocca miste alla polvere e al sudore. Ci mettemmo circa dieci minuti per liberarci dell’equipaggiamento e io ne approfittai per chiedere al capofila di stringere la cinghia della gavetta. La sosta durò un’ora precisa, un’ora interminabile e dolente.

 

I ciechi

Un’altra immagine mi è rimasta impressa in modo indelebile nella mente, come i numeri impressi a fuoco sulla groppa dei cavalli.

Sulle rive verdeggianti di un fiume c’era una grande tenda bianca. Era un ospedale da campo allestito dagli italiani. Presso le rive vidi trentadue soldati, non resistetti alla tentazione di contarli. Stavano seduti sull’erba soffice all’ombra dei pioppi, che ciarlavano tra di loro e con gli uccelli facendo frusciare il fogliame. Avevano allungato le gambe verso l’acqua che scorreva rapida e allegra, e si erano bendati gli occhi con un fazzoletto nero.

Udivano in silenzio l’acqua che gorgogliava sotto i tipici zoccoli da ospedale, e gli alberi e gli uccelli che cinguettavano sopra le loro teste. Le mani accarezzavano l’erba oppure riempivano la pipa con movimenti cauti e faticosi. A volte le loro labbra si muovevano ma noi non riuscivamo a sentirli. Alcuni sorridevano con dolcezza. Erano tutti bei ragazzi italiani bruni e con i capelli neri, e con le bocche simili a quelle dei bambini. E tutti avevano perso la vista a causa dei lacrimogeni. Sotto le penose fasciature tutti quei neri occhi italiani non ci vedevano più. Allora compresi il motivo per cui quei ragazzi non parlavano o, se parlavano, lo facevano sottovoce come se fossero in chiesa. Perché il loro corpo era teso ad ascoltare con nostalgia le parole segrete della vita serena di un tempo, che dicevano loro la luce, l’acqua, le donne belle come i frutti e le rose, il sole e i fiori che non avrebbero mai più rivisto. Con i loro occhi spenti vedevano un’orribile verità, preclusa a noi che gli occhi ce li avevamo ancora sani.

Dio mio… Ho spalancato gli occhi per abbracciare tutte insieme con lo sguardo le bellezze della Natura, per assorbirne in un sorso solo tutto il senso, come se anch’io fossi destinato a perdere la vista.

 

Costantino Paleologo

Il capitano della sesta compagnia è un uomo biondo e robusto, con i baffoni, il nasino sottile all’insù e due occhietti azzurri, molto sbiaditi.

Si chiama Costantino Paleologo, come l’ultimo imperatore di Bisanzio. È particolarmente orgoglioso del suo nome tanto che quando firma, lo scrive sempre per esteso, come se fosse un discendente dell’imperatore se non addirittura l’imperatore in persona. In altri casi invece lo cita con noncuranza, dice per esempio: «Avete presente, l’imperatore mio omonimo», e quando i compagni si rivolgono a lui chiamandolo familiarmente Kostas, il capitano li corregge in tono sussiegoso e accennando un inchino: «Costantino, per favore».

A causa del carattere severo e irascibile, tutta la compagnia lo detesta e adesso, a causa delle marce, anche il reggimento ha imparato a detestarlo. Però è nipote di Balafaras e così gli ufficiali fanno a gara per conquistarsene l’amicizia.

Uno dei primi giorni della campagna nella caserma della compagnia si era imbattuto in Tarnanàs, un soldato più anziano di noi originario dell’Asia Minore, che aveva mosso mari e monti pur di arruolarsi come volontario. Durante la persecuzione, i turchi gli avevano legato al corpo la figlia violetandola sotto i suoi stessi occhi. A causa dei lunghi mustacchi grigi che gli incorniciavano la bocca a destra e a sinistra, lo si sarebbe potuto definire quasi vecchio.

«Quand’è che la smetterai di andare su e giù per la camerata come un’anima in pena?». Tarnanàs si mise sull’attenti esibendo un sorriso ebete.

«Sì, signor capitano», rispose con i mustacchi che tremavano per l’imbarazzo.

«Si può sapere che cos’hai da ridere? Smettila di ridere!».

«Sì, signor capitano…».

«Di dove sei, idiota?».

Tarnanàs anziché rispondere, ripeté con il solito sorriso ebete stampato sulle labbra:

«Sì, signor capitano».

Costantino Paleologo andò in bestia. Prese quel poveraccio per il bavero, con le sue stesse mani lo legò come un cane a un albero del cortile e infine, strappata la cinghia del fucile, cominciò a frustarlo con violenza selvaggia. Tarnanàs gridava per il dolore finché qualcuno fece notare a Paleologo che Tarnanàs era sordo e che nella compagnia era stato arruolato come sentinella notturna delle camerate perché era molto scrupoloso e onesto.

Quando la compagnia tornava dalle esercitazioni e lungo la strada si imbatteva in qualche bella ragazza affacciata alla finestra, Costantino Paleologo interrompeva subito la marcia ordinando in tono minaccioso:

«Compagnia, alt!».

Nel giro di qualche frazione di secondo nel vicolo rimbombava il secco e triplice crac-crac-crac degli uomini che si fermavano e l’eco di duecento fucili che colpivano il selciato. Paleologo teneva i suoi uomini immobili in quella posizione per alcuni minuti mentre lui, in sella alla sua cavalcatura con una mano sul fianco, i mustacchi diritti e il viso altero, rivolgeva uno sguardo trionfale alla ragazza come per dirle:

“Bellezza mia, li hai visti questi smidollati? Come avrai capito, su di loro ho potere di vita e di morte. Posso bastonarli, fargli fare capriole, rasargli i capelli a zero, costringerli a fare flessioni in mezzo alla strada o ordinargli di correre per chilometri e chilometri quando mi pare e piace. E se mi viene il ghiribizzo posso ordinargli persino di mettersi in ginocchio e di lucidarmi gli stivali con la lingua”.

Quando ci trovavamo ancora a Lesbo, dove la ribellione antimonarchica aveva assunto le caratteristiche di una festa popolare, senza alcuna opposizione delle autorità, con balli, canti, musica, e con lo stemma reale strappato dai berretti, il capitano in questione per me era l’incarnazione stessa del male. Gli speroni che facevano scoccare scintille sul selciato equivalevano ad altrettante grida di guerra, ogni sguardo sembrava un colpo di pistola. Persino gli inchini bruschi e vigorosi che elargiva a piene mani durante le visite mondane e le serate danzanti, sembravano dire:

“Non vedo l’ora di andarmene da questo posto di rammolliti che sognano la pace invece di fremere al cospetto di un eroe. Non vedo l’ora di salire sui monti, di perdermi nei boschi, di divorare tonnellate di filo spinato come se fossero una torta. Non vedo l’ora di usare la fiamma dei cannoni per accendermi la sigaretta, di mangiarmi come antipasto il fegato dei turchi, dei bulgari e dei tedeschi!”.

D’altro canto Costantino Paleologo, ogni volta che si trova sottomano qualche femmina compiacente non ci mette un secondo per buttare alle ortiche le sacre tradizioni bizantine. Un giorno per esempio era stato invitato a prendere il tè in onore del generale e di alcuni ufficiali in una delle case più signorili di Lesbo. Costantino Paleologo diede di nascosto un pizzicotto sulle tette enormi di una serva tozza e pingue. La serva gridò per il dolore, la padrona di casa sollevò all’improvviso la tenda e il capitano rimase di sasso al cospetto di tutti mentre la serva piagnucolava continuando a massaggiarsi il punto dolente. La signora si morse le labbra, si avvicinò al capitano che aveva perso la favella, abbozzò un sorriso e fece una battuta per stemperare la tensione.

Ma da quando sono cominciate le marce, il capitano sembra un altro. Non si dà più arie da Napoleone in sedicesimo e ogni volta che in cielo si ode sibilare un aeroplano, solleva il naso sudaticcio e annusa l’aria come un segugio lanciato all’inseguimento della preda. Infine domanda con apprensione a chiunque gli capiti a tiro, compresi i soldati semplici:

«È uno dei nostri, vero?».

E quando coglie il lampo d’ironia negli occhi degli interlocutori che rispondono allegramente all’unisono: «Certo, signor capitano!», si mette a bestemmiare come uno scaricatore di porto ricoprendo di insulti la sventurata truppa.

 

Un giorno avevamo macinato più chilometri del solito. Avevamo i piedi gonfi, la schiena a pezzi e le borracce vuote. Il sole infieriva senza tregua, si aveva l’impressione che il calore fuoriuscisse persino dal terreno arido. La lingua secca si incollava al palato e ci tormentava una sete insopportabile come un martirio. Davanti agli occhi, nella luce, ci vedevamo svolazzare mosche rosse e azzurre. La vita svaporava dal corpo come l’etere dalla bottiglia. In situazioni del genere vorresti metterti a piangere e qualsiasi cosa, persino la morte, appare preferibile al tormento della sete. Intanto la strada continuava a snodarsi, bianca e interminabile, attraverso gli aridi campi, senza la minima traccia di ombra.

A un tratto, dopo una curva, davanti ai nostri occhi infuocati si materializzò uno spettacolo che superava le nostre fantasie più sfrenate: due platani altissimi e ricoperti di un fitto fogliame, robusti, verdissimi e rigogliosi. E al centro una fonte garrula, gorgogliante, da cui scorreva acqua in abbondanza.

Un grido delirante di gioia si levò dalla truppa, simili al mugghio di un branco di bufali selvatici. Gli uomini sciolsero immediatamente le righe e i soldati si dislocarono lungo il corso d’acqua come obbedendo a un istinto ancestrale. I più rapidi si affrettarono a buttarsi nell’acqua mugolando di piacere come animali al culmine del godimento sessuale e sospirando mentre bevevano a piccoli sorsi, fra i singulti, senza curarsi dei compagni che nel frattempo si buttavano anche loro e che, decisi a rivendicare la loro parte di felicità, li calpestavano con violenza.

Costantino Paleologo, che precedeva la truppa, quando si accorse di quel parapiglia, incitò il cavallo e si diresse al galoppo verso il corso d’acqua avventandosi sui soldati come l’angelo della morte. Quelli che non calpestò con gli zoccoli cominciò a picchiarli senza pietà per costringerli a uscire dall’acqua.

Fu allora che accadde qualcosa di molto spiacevole. Il capitano prese il nerbo di maiale, che utilizzava a mo’ di frustino quando andava a cavallo, e si mise a colpire a destra e a manca i soldati che si attardavano ancora nell’acqua, la testa voluttuosamente immersa nel liquido fresco. Nessuno di loro si mosse nonostante le frustate ricevute sui corpi madidi di sudore, tutt’al più si udiva qualche lamento alternato ai muggiti di piacere. Un giovane volontario di Ayvalık dal glabro volto di fanciulla fu colpito alla guancia. Il ragazzo scoppiò a piangere come un bambino mentre un solco rosso di sangue gli si disegnò tra la mascella e l’occhio.

I fischi dei sottufficiali impazzavano. Seguì una gragnuola di imprecazioni e di bestemmie finché tutti i soldati ricomposero le righe.

L’unico a reagire fu un soldato baffuto, un riservista con le insegne della guerra balcanica appuntate sul petto, che il calcio subito dal cavallo costringeva a zoppicare e che gridò all’indirizzo del capitano:

«Stronzo, vedrai se non ti pianto una pallottola in mezzo alla fronte».

I compagni gli rivolsero uno sguardo carico di ammirazione e un brusìo si levò sopra la truppa.

I sergenti gridarono nervosi «Avanti, march!». Paleologo fece finta di non aver sentito e si rimise al galoppo bestemmiando ancora più del solito.

La collina con i papaveri

In mezzo allo squallore generale della marcia è capitata anche una bella giornata. Una giornata rossa e azzurra, rischiarata dal cielo primaverile, piena di occhi glauchi, di vermigli fiori di campo e di malinconiche canzoni d’amore.

Facemmo sosta su una collina vermiglia di papaveri rossi. Poco prima di noi era giunto un reggimento russo anch’esso diretto al fronte. La collina abbondava d’acqua e di verde. Noi ammucchiammo le armi formando una piramide e consumammo il rancio in compagnia dei russi. Erano dei ragazzoni biondi con le guance rosa, che indossavano begli stivaloni alti e camiciotti senza bottoni, e avevano berretti con la visiera stretta.

«Greci?».

«Greci».

«Cristiani?».

«Cristiani».

«Ortodossi?».

«Ortodossi».

Ci accolsero con un entusiasmo fanciullesco. Ridevano e facevano ridere anche noi, ci regalavano cibo in scatola e coltellini a serramanico. Con le loro manone ci davano pacche sulla schiena. Si chinavano e ci mostravano amuleti e piccoli crocefissi di madreperla appesi a catenine d’oro.

«Cristiani! Cristiani!».

Dopo il rancio chiacchierammo per ore e benché nessuno conoscesse neppure una sillaba della lingua dell’altro, ci intendemmo alla perfezione. Non occorre essere poliglotti per esprimere l’amore e l’odio.

Conobbi anche un giovanissimo ufficiale con gli occhiali e un delicato viso da fanciulla, che aveva sempre le labbra schiuse in un sorriso. A scuola aveva studiato il greco antico e ne ricordava ancora qualche parola. Mi disse che i greci e i russi erano amici da molti secoli e menzionò i greci di Odessa. Poi si mise a sciorinare una serie di versi incomprensibili, che, mi assicurò, erano un passo di Omero in lingua originale. Alla fine lui e i compagni si misero a cantare in coro alcune canzoni popolari della loro terra accompagnati da lunghe balalaiche. Anche se le parole delle canzoni non le capivo, avrei giurato che parlassero di un villaggio pieno di neve al centro di un bosco pieno di neve, con i tetti delle capanne da cui saliva fumo azzurro nell’aria gelida. Donne bionde dalle lunghe trecce stanno sedute dietro le finestre chiuse, con la fronte candida appoggiata alla superficie di vetro, e con lo sguardo perso nel vuoto scrutano la sconfinata steppa russa. La steppa è percorsa da un sentiero tracciato dalle slitte nella neve. Un sentiero che si è portato via tutti i giovani del villaggio scaraventandoli molto oltre gli Urali.

I cantori avevano assunto un’espressione corrucciata, i loro fanciulleschi occhi slavi si velarono di lacrime, e quando smisero di cantare, anche noi rimanemmo a lungo immobili, come loro, continuando a viaggiare sulle ali della musica che è il linguaggio universale dei cuori umani.

Quando ricevemmo l’ordine di prepararci alla partenza, i russi colsero mazzetti di papaveri e li infilarono nelle bocche dei nostri fucili. Era come una singolare processione punteggiata da ceri d’acciaio, sulla punta dei quali brillava la più allegra delle luci.

«Addio! Addio!».

L’ufficiale giovanissimo lanciò in aria il berretto e mi parve che quasi si sublimasse nella luce mentre ci salutava in greco antico.

Quanto amore c’è nel mondo! Abbondante come un fiume che si riversa nei campi. Fiorito come una collina coperta di papaveri che basta chinarsi per raccoglierli.

 

Michailus

Ormai marciamo soltanto di notte. È chiaro che siamo giunti nella zona pericolosa. Gli aeroplani nemici ci spiano dall’alto volteggiando nel cielo come falchi. Le formazioni e i reggimenti della divisione si inoltrano sempre più nel cuore della Macedonia, verso il fronte. Al tramonto ci carichiamo in spalla l’equipaggiamento e ci mettiamo in marcia. Alle primissime luci dell’alba piantiamo le tende in punti nascosti, sotto folti cespugli, nei segreti rifugi dei monti, nei fondovalle protetti. Poi nascondiamo le tende sotto rami frondosi per non essere scorti dall’aviazione del nemico.

Durante il giorno lucidiamo con indolenza i fucili e ci spidocchiamo oppure dormiamo. Ma la maggior parte del tempo la passiamo a sognare. Sogniamo sempre, sia nel sonno sia nella veglia. Ci sembra di essere ancora a Lesbo e coltiviamo i dolci e intensi ricordi della vita passata, abbandonatiche sui lidi della nostra isola che tendeva le braccia supplichevoli verso di noi. L’abbiamo lasciata lì sul molo, con gli occhi velati di lacrime, poco prima di spingere avanti le barche e di stringere la nostra pena tra i denti esibendo un sorriso virile.

Adesso che non l’abbiamo più, la dolce vita di una volta ci mostra le gioie preziose di cui era trapunta, cela i rami aguzzi del pino e il veleno dell’ortica, scivola nelle tende e ci danza dietro gli occhi chiusi turbinando con le sue lusinghe. Tutto quel che resta dei nostri ricordi è un aroma agrodolce che si sprigiona nell’aria con la serena intensità dell’incenso che brucia e la struggente nostalgia per le persone e le cose amate, che abbiamo abbandonato con temeraria incoscienza per imboccare, corrucciati e con la schiena curva, noi, poco più che dei ragazzi, una via segnata dal Destino e dal Dovere. Dio mio, a volte penso che adesso voi, amici e nemici, amiche e nemiche, cose amiche e cose nemiche, che ancora vivete in una casa accogliente e sicura, fate il bucato ogni giorno, dormite in un morbido letto e godete delle migliaia di piccole gioie di ogni giorno, ebbene voi dovreste amarci ancora di più. Noi intanto, disciplinati come monaci novizi, avanziamo verso il nostro Destino, che ha il volto celato da una maschera di ferro.

Se ad animarvi è il senso di giustizia, dovete pensare molto a noi che siamo stati chiamati a proteggere la vostra felicità in cambio del sacrificio supremo. Siamo convinti di questo, anzi, lo desideriamo con tutte le nostre forze, anche se non lo diciamo mai. Questo è un desiderio che ci teniamo per noi.

E adesso stammi a sentire tu, che sei soltanto un sassolino rosa, o qualsiasi altra cosa, delle spiagge di Lesbo, che nessuno conosce, neppure Dio che ti ha creato, e che luccichi spensierato nel sole e nell’acqua! Tu, ciottolo salmastro del lido, che non hai idea della tua felicità, un giorno, quando finalmente tornerò a casa, sappi che ti vorrò ricoprire di baci.

(Amore mio, non dico nulla di te perché tutto quello che scrivo, lo scrivo per te. In mezzo a queste migliaia di dolci rimpianti che sgrano come un rosario e la cui amarezza assaporo da solo, non c’è altro che i tuoi pensosi occhi castani che mi guardano offuscati mentre una lacrima trema sulle ciglia sfarfallanti. Al centro di queste due tenere finestrelle vedo la nostra isola, lambita dalla danza delle onde, ricca di fresche sorgenti, circondata dai caicchi con le vele bianche trionfalmente spiegate, percorsa dal brusio delle pinete e dei sacri uliveti, con le fortezze veneziane e gli abitanti a cui voglio un mondo di bene, a tutti senza distinzione, perché camminano e vivono insieme a te sulle sue coste. Amore mio, sei tu che irrori con la tua dolcezza tutte le storie che ti scrivo affinché possa trovare un po’ di consolazione.)

 

C’è un soldato di nome Michalis (noi di Lesbo lo chiamiamo Michailus, alla nostra maniera, e questo nomignolo gli è rimasto appiccicato addosso tanto che persino gli ufficiali lo chiamano così), c’è un soldato di nome Michalis, dunque, che quando si è reso conto dei pericoli che corriamo a causa della guerra, è diventato il cavalier servente del tesoriere della divisione. Questo Michailus è un profugo dell’Asia Minore, non ha nessuno al mondo e a Mitilene lavorava nella bottega di un orologiaio. A fargli capire i pericoli della guerra è stato un aeroplano che ci ha sganciato addosso una bomba, per fortuna senza centrare il bersaglio. A partire da quel giorno il pensiero della morte lo fa tremare come una foglia. Il tesoriere della divisione, un capitano grande e grosso con la pelle butterata dal vaiolo, accanto al quale nessun attendente è riuscito a resistere più di una settimana a causa dei maltrattamenti, lo ha preso con sé dalla compagnia e gli rende la vita impossibile. Ma Michailus si rassegna a tutto e accetta qualsiasi sopraffazione pur di restare in tesoreria e di sottrarsi ai pericoli della guerra.

Michailus è un ragazzo ancora imberbe, molto pavido e timido, che ha un talento straordinario nel trasformare i bossoli di bronzo dei proiettili in pregevoli vasi da fiori per le tende degli ufficiali. Sa anche fare anelli di alluminio e accendini di latta che sono autentici capolavori.

Ha un visetto bruno molto simpatico, con una grande bocca scarlatta che glielo divide esattamente in due, e che, quando ride, si spalanca fino alle orecchie illuminandolo con due chiostre di candidi denti.

Ci siamo conosciuti per caso, grazie al fatto che il tesoriere della divisione è stato trasferito al nostro reggimento e marcia insieme a noi. Inoltre, poiché l’ufficiale addetto alla censura della corrispondenza si è ammalato, a sostituirlo siamo stati chiamati io e un altro soldato, che sappiamo leggere e scrivere. Così è qualche giorno che leggo tutte le lettere che i miei commilitoni spediscono in patria, e il mio lavoro consiste nell’eliminare qualsiasi informazione che, in caso di intercettazione, possa rivelarsi utile allo spionaggio del nemico. In particolare, devo eliminare qualsiasi riferimento a date, agli ostacoli eventualmente affrontati e qualsiasi notizia sull’andamento della marcia. Michailus, dunque, approfitta delle notti brave del tesoriere, al termine delle quali questi si mette a letto distrutto dalla stanchezza, per scrivere appassionate lettere d’amore a una certa Kondilenia, la figlia dell’orologiaio, anche lei impiegata presso la bottega paterna. Michailus è pazzo di lei ma a causa della sua incredibile timidezza, non ha mai trovato il coraggio di dichiararsi. Ma sono bastate poche centinaia di chilometri di distanza e lo scoppio della guerra, che ci rende maggiormente inclini a rivendicare il nostro diritto all’amore, per risvegliare in Michailus una logorrea erotica di cui io sono spettatore talora commosso. La dichiarazione d’amore che pensava e sognava di farle senza mai riuscirci all’epoca in cui si vedevano tutti i giorni nella bottega del padre di lei, adesso ha deciso di metterla nero su bianco alla meno peggio. Le lettere del mio commilitone hanno la lunghezza di poemi impreziositi dall’utilizzo frequente di espressioni ridondanti, versi poetici, serpenti che mangiano cuori e cuori trafitti da dardi. Non c’è dettaglio per quanto minimo o figura retorica delle più ingenue che non attiri l’attenzione o che lasci indifferente Michailus.

“Tesoro mio, quando saremo sposati ti porterò tutte le sere al cinema, poi andremo ai giardini ad ascoltare la musica, ci berremo un bicchierino e dopo torneremo a casa. Passeggeremo tenendoci a braccetto e tu sarai per me come un fiore all’occhiello. Siamo a casa! Busseremo alla porta e la servetta ci verrà ad aprire con la lampada a petrolio in mano. [Nei suoi sogni Michailus aveva anche la servetta.] Ci farà entrare e ci metteremo a tavola per la cena. Alekos, nostro figlio, che porterà il nome di tuo padre, tesoro mio, batterà le manine e piangerà per avere il latte…”.

Da queste lettere non manca mai, nel poscritto che fa seguito a stucchevoli formule di saluto del tipo “ti abbraccio fortissimissimo”, qualche versetto poetico in rima baciata come: “Quando la divisa mi fu data / una goccia di sangue dal cuor è colata”. Infine la supplichevole chiusa:

“Kondilenia, ti prego, scrivimi anche tu una letterina ogni tanto. Tesoro mio, sono orfano, io, al mondo non ho nessuno e soltanto il pensiero che ci sei tu mi consola un po’. Tutti i giorni aspetto la tua lettera!”.

In alcune lettere Michailus descrive la cronaca del loro amore. Si conobbero un giorno in cui alla bottega c’era moltissimo lavoro e Kondilenia scese dal padre per annunciare il pranzo. Michailus stava incidendo due vere di fidanzamento. All’interno dell’una doveva scrivere “Vaghitsa” e nell’altra “Orestis”. Lui sollevò lo sguardo dal banco di lavoro e vide la ragazza vestita con un abito azzurro e con i capelli neri che le scendevano fino alle sopracciglia. In quel momento a Michailus mancò il fiato e il cuore cominciò a fremere di dolcezza. Kondilenia, con le braccia sui fianchi e le grazie del suo corpo leggiadro, attraversò la bottega e raggiunse il banco del padre. Infine soffermò lo sguardo sul garzone tremebondo, che lavorava lì accanto, ma nel giro di un attimo gli diede di nuovo le spalle per caricare il meccanismo di un orologio che si mise a suonare l’inno nazionale. Finita la musica, a un tratto si voltò e rivolse di nuovo uno sguardo serio a Michailus, storse le labbra come se volesse fischiare, o forse era una smorfia di disapprovazione, e tornò sui suoi passi. Varcata la porta a vetri, si fermò di nuovo. Incollò il nasino sul vetro, che dall’interno parve una cosa giallastra e informe, e ripeté ad alta voce rivolta al garzone:

«Papà, hai sentito? La minestra è pronta in tavola, la mamma dice di non farla freddare».

Il padre, che per tutto quel tempo aveva continuato a lavorare sugli ingranaggi di un orologio con la lente di ingrandimento incollata sull’occhio, rispose tra i baffi:

«Va bene, va bene, ho capito». Al che Kondilenia fece tamburellare le dita sulla porta a vetri e se ne andò in fretta.

Ecco tutto. A partire da quel momento Michailus se ne innamorò perdutamente, di tutto l’amore che non aveva mai ricevuto nella sua vita di orfano. Se non si era mai dichiarato era per la paura che lei lo prendesse in giro. Quelle labbra rosse che lei aveva deformato in una smorfia gli avevano fatto ribollire il sangue. Ma adesso, grazie alla distanza che c’è tra loro, non ha paura di confessarle il suo amore per iscritto.

Nelle sue lettere Michailus racconta che la sera, quando rimetteva in ordine gli attrezzi prima di abbassare la saracinesca, aveva preso l’abitudine di baciare tutto quello che nella bottega lei toccava o semplicemente sfiorava con l’orlo della veste. Un fiore di melograno che un giorno lei portava al petto e le era caduto per terra, lui l’aveva raccolto e lo bacia ogni sera a mo’ di prezioso amuleto.

Spero che Kondilenia prima o poi si decida a scrivergli. Lui aspetta ogni giorno la lettera della ragazza e quando arriva la distribuzione della corrispondenza, il cuore gli si contorce come un pesce fuor d’acqua.

«Ah, Kondilenia, ti prego, che cosa aspetti a scrivermi? Non dirmi che non prendi sul serio il mio amore per te».

Di questa storia, nella divisione, sono al corrente soltanto io e quando Michailus si è reso conto che con me il suo segreto è in buone mani e che per giunta sto dalla sua parte, si è provato a manifestarmi la sua riconoscenza e il suo affetto in mille modi. Ogni volta che passo davanti alla sua tenda, lui si alza e si mette sull’attenti schiudendo in un sorriso le carnose labbra vermiglie. Le gote infantili si imporporano nel modo tipico delle persone dalla carnagione bruna mentre gli occhietti piccoli e neri mi fissano con silenziosa devozione come quelli di un cane. Ogni tanto mi regala un oggetto lavorato dalle sue mani benedette: un vasetto di bronzo, un tagliacarte simile a una scimitarra in miniatura oppure un anellino di latta. Altre volte invece mi pulisce e mi rimette in ordine l’equipaggiamento oppure si offre di recarsi al torrente per lavarmi la biancheria insieme a quella del suo ufficiale.

Qui tra noi il ruolo di questo giovanotto originario dell’Asia Minore è alquanto singolare. Egli non conosce le piccole astuzie che vanno per la maggiore tra noi soldati ma non è neppure abbastanza autorevole da ottenere il rispetto degli altri. D’altro canto ha un cuore grande così, traboccante d’amore e di buoni sentimenti nei confronti di tutti, oltre che un terrore indicibile per la trincea e una straordinaria forza d’animo, che lo induce a credere fermamente nell’imminente arrivo della lettera della sua Kondilenia.

Un altro segno particolare di Michailus è il forte accento dell’Asia Minore, che il suo ufficiale riesce a imitare alla perfezione tanto che si diverte un mondo a prenderlo in giro facendo sbellicare dalle risate tutto il resto della compagnia. A volte però la cosa sfugge di mano. Tutti quanti ci mettiamo a parlare con Michailus imitandone l’accento e trasformando il nostro compagno nello zimbello di tutto l’esercito. E quando il tesoriere ha scoperto che la cosa che più di tutte fa paura a Michailus è la morte, ha deciso di scaricare la tensione dei suoi nervi sconvolti dall’alcol e dal gioco su quel povero ragazzo.

All’inizio ogni pretesto era buono per offenderlo e rivolgergli insulti pesanti. A un certo punto però, quando ha capito che poteva permetterselo, ha cominciato persino a malmenarlo. Spesso e volentieri lo prendeva a schiaffi e a calci, una volta lo ha addirittura colpito con il frustino del suo cavallo. L’unica reazione di Michailus era ritirarsi in buon ordine e mettersi a piangere da solo.

«Smettila di piangere e restituiscigli pan per focaccia», gli ho detto io in un paio di occasioni. «Fagli rapporto dal generale».

«No», rispondeva lui singhiozzando e con uno sguardo carico di riconoscenza nei confronti della mia indignazione. «Se gli faccio rapporto c’è il pericolo che mi rimandino alla compagnia a combattere in trincea», mi spiegava. «Non ho voglia di morire, voglio tornare a casa, io».

Mi fissava con gli occhi umidi e abbozzando un sorriso che suggellava il nostro segreto. Poi ripeteva:

«Voglio tornare a casa, io».

Così ha preferito rimanere al suo posto, alla completa mercè del tesoriere.

«Animale!», gli gridava il tesoriere dalla tenda.

«Presenteee!», rispondeva all’istante Michailus balzando in piedi e rovesciando la gavetta se era l’ora del rancio, il coltellino a serramanico e lo scalpellino se era impegnato a lavorare i suoi oggettini.

«Agli ordini, signor capitano».

«Animale, chi ti ha insegnato a fare le uova sode? Quelle che hai preparato oggi erano dure come sassi».

«Signor capitano…».

«Lèvati dai piedi, buono a nulla, vedrai se un giorno non ti rimando in trincea…», ribatteva il tesoriere lanciando contro Michailus tutto quello che gli capitava sotto mano: bossoli, libri, calamai, scarponi, anfibi. Allora quel poveraccio correva a impetrare il soccorso degli altri ufficiali, amici del tesoriere, e con le lacrime agli occhi li supplicava di intercedere per lui perché in trincea non ci voleva andare. A volte, quando andavano a farsi dare la paga, il tesoriere non c’era e allora si domandavano:

«Dove sarà mai?».

«Le starà dando di santa ragione a Michailus».

A poco a poco Michailus si è abituato a questo tipo di vita, anzi, ormai è arrivata a considerarla una cosa del tutto naturale, inevitabile, fino a convincersi che il suo destino sia proprio quello di far divertire tutta la divisione. Tanto che a un certo punto è stato lui stesso a scegliere il ruolo del pagliaccio. Ho davvero l’impressione che Michailus abbia acquisito la consapevolezza di essere una specie di burattinaio, di essere lui a distribuire i ruoli a tutti gli altri, in modo del tutto libero e arbitrario. Così quando viene a trovarmi nella mia tenda per sentire qualche parola buona da me, di solito cerco di fare appello al suo orgoglio strapazzato fino a farlo piangere. Ho il sospetto che pianga anche da solo, ma appena esce dalla tenda, al cospetto dei compagni e dei superiori indossa di nuovo la sua maschera di scena e si rimette a recitare il ruolo di Michailus, ridendo anche lui quando gli altri lo prendono in giro e addirittura aiutandoli a farsi prendere in giro da loro.

 

Continuiamo a marciare. Marciamo di notte e ci riposiamo di giorno. Le marce notturne somigliano a delle passeggiate immerse nel silenzio e nella malinconia. Tutto appare più tenebroso, più luttuoso, e pare che qualcuno ti stritoli l’anima. Mentre si marcia, non si parla, e i battaglioni somigliano a un gregge di pecore. Ma la cosa peggiore è che non si vede niente. Nel buio silenzioso si cela una specie di agonia causata dal fruscìo degli scarponi sull’erba e dal grido improvviso degli invisibili uccelli notturni. Tutti marciano come se l’obiettivo finale fosse quello di uscire finalmente dalla cortina di tenebra in cui siamo avvolti, di raggiungere finalmente l’alba, unico e autentico scopo della nostra fatica. Ecco perché marciamo tutti in silenzio e corrucciati, e nessuno rimane indietro, neppure quelli che hanno i piedi tumefatti perché la più grande paura di tutti è restare da soli in terra straniera. Ogni tanto si odono le gavette tintinnare urtando contro gli elmetti, le baionette sbattere contro una zappa e la sgraziata scatola grigiastra con la maschera di gomma dondolare come un turibolo lungo le cosce. Capita a volte che le guide smarriscano l’orientamento e allora cominciamo a vagare per i boschi e per i campi come animali selvatici oppure imbocchiamo all’improvviso un sentiero ignoto. In tal caso il battaglione è costretto a tornare sui suoi passi e a ripercorrere a ritroso lo stesso tragitto perdendo tempo prezioso. Anche in questo caso i soldati non fiatano, la marcia continua nel buio e nel silenzio più assoluto perché nessuno ha il coraggio neppure di imprecare. Anche perché il destino impone che non si smetta mai di marciare fino all’alba. Quando la notte è limpida e il firmamento viene rischiarato dalle stelle, ci sentiamo addosso lo sguardo del cielo, che con i suoi milioni di occhi ci scruta impassibile e assorto mentre marciamo nella notte con il nostro carico di strumenti di morte, silenziosi come criminali. Le notti migliori sono quelle di luna piena. L’atmosfera pullula di denso pulviscolo argentato che offusca la vista nonostante il riflesso sfolgorante della luna. A noi soldati sembra di trovarci in un sogno. La mente è stanca, appannata, e soltanto nell’intimo di ciascuno sopravvive un barlume di logica, nulla più che un mucchietto di cenere nella brace, appena utile ad accendere una sigaretta. E mentre il corpo marcia da solo, come un automa, inciampando oppure scivolando e cadendo, questo barlume di logica si lascia travolgere da fantasticherie disordinate, quasi puerili, che non hanno niente a che vedere con la realtà né con la marcia.

Fu appunto in una notte di luna piena che scoprii di aver marciato esattamente due ore e mezzo continuando ad avvitarmi intorno ai miei pensieri, peraltro sciocchi, che tuttavia in quel momento mi sembravano di importanza capitale.

«A Stavrula hai infilato una calza marrone e una bianca. Le hai infilato una calza marrone e una bianca. Una calza bianca e una marrone…».

Si trattava della tua nipotina, quando venni a salutarvi la sera prima della partenza per il fronte. Lei era con te, ti ricordi? Mi sedetti di fronte a te senza la forza di parlare, con lo zaino legato sulla schiena e il fucile tra le gambe. Lacrime silenziose ti rigavano le guance e per il nervosismo continuavi a massaggiare le manine di Stavrula, seduta sulla poltrona. Le gambine magre della bimba non toccavano il pavimento e dal piede destro le penzolava una calzina marrone. Poi anche lei si mise a piangere senza un perché. Tu allora, pensando forse che piangesse per il piedino scalzo, allungasti una mano verso un cesto, ne tirasti fuori una calza bianca e gliela infilasti al piedino sinistro, con grande meticolosità.

Ebbene, questo dettaglio ho continuato a rimuginarlo per ben due ore e mezzo, senza sosta, prendendolo in esame da ogni punto di vista.

 

Quando ci fermiamo per accamparci, Michailus aspetta che il tesoriere prenda sonno, poi viene a trovarmi nella mia tenda e mi racconta la storia della lettera di Kondilenia, che, su questo è pronto a metterci la mano sul fuoco, prima o poi arriverà. Per lui questa è un’ossessione e ogni volta che arriva la corrispondenza, il primo a mettersi in fila è proprio Michailus, tutto impettito, con la bocca spalancata, gli occhi sbarrati e la mano a imbuto intorno all’orecchio. Questa è la sua posizione preferita, sembra una specie di preghiera che proietta la tensione dell’anima verso il culmine supremo della felicità. Ma purtroppo finora il nome di Michailus non è mai stato pronunciato. Lui allora si abbandona a un respiro lungo e profondo, come se fino a un momento prima fosse rimasto in apnea, e si siede piegando a poco a poco le ginocchia, in preda allo scoramento.

Finché a un certo punto si sente il vocione del capitano.

«Dove sei, animale?».

Allora Michailus scatta in piedi come una molla, come se si svegliasse da un sogno, e corre trafelato.

«Presenteeee!».

Invariabilmente la risposta dell’attendente dà la stura a una cascata di cachinni malvagi, sarcastici, dolorosi come un pugno in faccia, che provengono dalle tende degli altri soldati.

 

Intanto, chilometri dopo chilometro, siamo quasi arrivati a Monastir. È questo il fronte! È questo il paesaggio arido e brullo le cui storie terrificanti e i segreti orribili i soldati mormorano a mezza bocca quando gli ufficiali sono lontani! Nessuno di noi è immune al suo fascino inspiegabile e arcano.

Di giorno nell’accampamento il silenzio regna sovrano. Di notte non possiamo tenere accesa neppure una sigaretta. L’aria trema a causa del rombo assordante e monotono degli aeroplani che squarciano le nubi gravide di fulmini. Sullo schermo del cielo notturno le lucciole dipingono lettere d’oro incandescente con pennellate fugaci di luce. Si tratta dei cabalistici Tekel Ufarsin del Destino scritti nel buio.

Ogni tanto i reparti sostano in mezzo alla pianura simili a giganteschi millepiedi polverosi stroncati dalla fatica. Durante queste soste i soldati guardano, annusano e ascoltano in silenzio il fronte. Nel buio tuona un rombo incessante. È la corrente del Dragor, il gran fiume di Monastir, le cui acque invisibili scorrono fra le selve.

L’eco lontana dell’acqua vivente intrattiene con l’anima uno struggente dialogo. I soldati ascoltano questa voce incessante con la fronte aggrottata e l’aria assorta. Nessuno riconosce che l’anima la comprende e ne è turbata, nessuno se ne accorge.

A un tratto lo sguardo cerca di penetrare l’oscurità, le braccia si allungano verso l’infinito. Grida piene di stupore e di malcelato sgomento mormorano:

«Guardate là!».

Nell’aria alcune luci bianche, fantasmatiche, madreperlacee, brillano, si librano e restano sospese tra il cielo e la terra. Astri enormi sembra che si stacchino e galleggino lievi e luminose come lanterne cinesi. Indugiano lentamente nel vuoto e infine spirano pigramente nascondendosi in fretta dietro le colline, precipitando nell’ignoto dei profondi burroni. Capita spesso che bagliori di guerra del genere si accendano nel cielo sprigionando colori di una dolcezza estrema, nelle sfumature del porpora e del turchese. È il fronte, dove si sta celebrando una festa terribile. Ogni tanto in mezzo a questo silenzio sbigottito si ode un gemito strascicato, fagocitato nelle grotte dei monti.

Sono i cannoni, che, dentro i covi nascosti, protendono il lungo collo mostruoso, simile a quello di una giraffa. Dalle bocche tondeggianti sputano lingue di fuoco facendo tremare l’atmosfera e ruggendo come belve incatenate che non riescono a placare la loro ira.

 

Una mattina ci fermammo presso una gola accanto al fiume. All’ora del rancio ci diedero pane e carne in scatola. Siccome il nostro stomaco non era ancora abituato a quel tipo di dieta, quasi tutti ci sbarazzammo delle scatolette e mangiammo soltanto il pane cosparso di zucchero e di caffè. A volte, mentre marciavamo, ci imbattevamo in qualche campo di granturco o di peperoni, di cui facevamo letteralmente razzìa.

Quel giorno la sosta sarebbe durata soltanto poche ore, cosicché le tende le piantammo alla buona. La mia l’avevo appoggiata presso il tronco di una piccola acacia e vista così sembrava un pipistrello esausto. L’acacia era coperta di fiori e uno sciame dorato di api ne suggeva ebbro il nettare. Le acque smeraldo del Dragor scorrevano con maestosa solennità. La terra, attraente come il corpo di una donna, sprigionava inebrianti aromi della primavera. Nugoli d’insetti si davano un gran daffare in mezzo ai fili d’erba. Io fumavo e gettavo sassolini nell’acqua.

Il tesoriere si era accampato piuttosto lontano, al riparo di un fronzuto pero selvatico che proteggeva la tenda come un ombrello. La giornata era calda e afosa, e carica di tristi presagi.

A un tratto, verso le due del pomeriggio, un debole scirocco si mise a soffiare con raffiche improvvise e irregolari. L’odore del terriccio eccitava i sensi e dai boschi lontani udimmo giungere un mormorìo senza fine. La superficie del Dragor si increspò, la verde epidermide ecquorea parve percorsa da un fremito. Le tende malamente fissate al suolo aprirono le ali nere scalzando i paletti legati all’estremità delle corde. Da tutto l’accampamento si udì provenire un grido gioioso. Le pietre battevano sui pali; i sottufficiali ordinarono ai soldati di rinforzare le tende e di scavarvi intorno dei canali di scolo per l’acqua nel caso fosse caduta la pioggia. Ma prima che obbedissimo, accadde qualcos’altro.

«Soldati, tutti in fila per la distribuzione della corrispondenza!».

I cuori di tutti si misero a battere forte. I soldati corsero come pulcini intorno alla chioccia circondando il sergente furiere e il suo aiutante, che in mano aveva un pacco di lettere.

Michailus, che condivideva la tenda con il tesoriere, fu tra i primi a giungere di corsa e si fermò accanto a me.

«Dici che è la volta buona?», mi domandò con quella sua faccia ingenua.

Gli rivolsi un sorriso e con un cenno lo invitai a tacere perché l’appello era già cominciato. In guerra la distribuzione della corrispondenza somiglia a una grande lotteria.

Alcuni nomi erano scritti male e il sergente furiere faceva fatica a decifrarli.

«Soldato semplice Anton… Antos… Cosa diavolo c’è scritto, qui?».

Allora dalla folla si levavano un mucchio di voci interrogative che fremevano di emozione.

«Antonoglu? Antonakas? Antoniadis? Antonellis? Antonreis?».

Il sergente guardò in cagnesco i soldati, batté lo scarpone al suolo e gridò.

«Fate silenzio!».

A un tratto accadde qualcosa di inatteso. Il sergente lesse una busta.

«Soldato semplice Kàzoglu Michaìl».

Era il nome di Michailus. Mi voltai e lo guardai. Era pallidissimo, aveva gli occhi sbarrati per l’incredulità, agitava la testa, annuiva con tutto il corpo e infine mi disse:

«Ecco… è arrivata… è arrivata…».

«Kàzoglu Michaìl», gridò di nuovo il furiere, che stava per perdere la pazienza.

«Presente!», rispose Michailus alzando un braccio e sgomitando in mezzo ai compagni. Il furiere gli consegnò la lettera e Michailus fece per allontanarsi.

«Ehi, tu!», lo richiamò all’ordine il furiere. «Non ti hanno insegnato che quando si riceve una lettera, ci si mette sull’attenti, si ringrazia e si fa dietro-front?».

Michailus tornò indietro, si mise sull’attenti, avvicinò la mano con la busta alla visiera, poi, accortosi dell’errore, sollevò la sinistra sopra la testa e con un gesto ridicolo prese la busta.

Il furiere non riuscì a trattenere un sorriso mentre i soldati ancora presenti scoppiarono a ridere in modo sguaiato.

Michailus mi raggiunse tenendo stretta tra le due mani una busta azzurra. Era visibilmente commosso e gli occhi gli brillavano.

«Eccola… è arrivata…», balbettò. «Che ti dicevo? Che ti dicevo?», continuava a ripetere rigirandosi la busta tra le mani, esaminandola, annusandola e osservandola da tutti i lati.

In effetti l’indirizzo sulla busta, vergato con inchiostro violaceo, sembrava opera di una mano femminile. Le lettere erano molto sottili e staccate l’una dall’altra, e sul retro campeggiava il nome del mittente: Kondilenia Fanariotu.

«Che cosa aspetti ad aprirla?», lo incoraggiai dal momento che anch’io morivo dalla curiosità. «Smettila di annusarla come se fossi un gatto».

Mi rivolse uno sguardo ebete e mi disse con voce rotta:

«Scusami, ma vorrei restare un po’ da solo. Per me è come chiacchierare di nuovo con lei, dopo tanto tempo… e non voglio che ci senta nessuno… Scusami, eh».

Io mi allontanai con una pacca amichevole sulle spalle. A un certo punto vidi Michailus tirare fuori dalla tasca un coltellino a serramanico e aprire la busta con grande attenzione.

Proprio in quel momento da sotto il pero selvatico si udirono le grida belluine del tesoriere, che agitava le braccia come un ossesso.

«Animale, buono a nulla! Si può sapere dove sei finito?».

Michailus trasalì per la sorpresa, la busta gli sfuggì dalle mani e una forte raffica di vento se la portò via come un uccellino azzurro mandandola a conficcarsi su una spina sul terreno ad alcuni metri di distanza. Per un istante l’attendente fu indeciso se raggiungere il capitano o correre a ricuperare la lettera. Trascorsero alcuni istanti, alla fine dei quali Michailus scattò in direzione della busta azzurra. Allungò la mano per prenderla ma un istante prima di acciuffarla, la vide volar di nuovo via a causa di un’ennesima raffica di vento. Dopo alcune piroette, e altrettanti vani tentativi di Michailus di prenderla, alla fine il vento gettò la busta tra le verdi acque del Dragor, che scorreva poco lontano. L’acqua l’accolse impassibile, assieme a una quantità di altre cartacce, rametti e scatole vuote, che avrebbe trascinato via lontano, lontano…

La città fantasma

Entrammo a Monastir di notte. E di notte ne uscimmo. È una grande città fantasma della Serbia ma i suoi abitanti sono greci. Le strade sono senza lampioni, le case non hanno luce. Gli abitanti di Monastir parlano sottovoce, si muovono guardinghi come ladri, scrutano il cielo terrorizzati e stanno nascosti nei “ricoveri”, ossia nei rifugi che hanno scavato sotto le loro case (è qui che abbiamo imparato questa parola ma ancora non ne conoscevamo l’agghiacciante significato). All’arrivo fummo accolti dalle guide francesi da cui ricevemmo istruzioni. La città di Monastir e il fronte sono una cosa sola. I francesi ci mostrarono i muri delle case danneggiate dagli obici e i resti degli edifici distrutti dalle bombe incendiarie. Queste sprigionano una pioggia di fuoco che non può essere spenta dall’acqua e procura piaghe inguaribili. Gli abitanti di Monastir hanno sempre infilata intorno al collo la maschera antigas, giorno e notte. Dio solo sa come hanno fatto a capire che siamo greci visto che indossiamo divise francesi e il nostro arrivo si è svolto in estrema segretezza. Ci vennero incontro, li vedemmo sbucare come topi dalle loro tane nel terreno, uomini, donne e bambini, ma soprattutto donne e bambini. Ci baciarono le mani, ci accarezzarono i fucili, ci toccarono gli elmetti, ci slacciarono e riallacciarono i bottoni del pastrano, e poi scoppiarono in un pianto sommesso nel buio.

«Siete davvero greci? Nostri fratelli?».

«Ma certo…».

«Sono anni che vi aspettiamo, sono anni che vi sogniamo, che cantiamo le vostre gesta, e non vedevamo l’ora che arrivaste. E adesso che siete qui, fratelli, per favore, non lasciateci nelle mani dei serbi, gente cattiva, che ha in odio noi greci…».

Un vecchio mi raccontò:

«Abbiamo il pane razionato e se ci sentono parlare greco o partecipare alla messa in greco, ci prendono a scudisciate. Violentano le nostre donne… Non ce n’è una che non sia stata violentata. La nostra città è diventata un inferno…».

Non credevo alle mie orecchie. Per quale motivo eravamo scesi in guerra? Per liberare i greci dalla schiavitù dei serbi o per liberare i serbi dalla schiavitù dei tedeschi e dei bulgari? Non ci capivo più niente. Adesso anche noi piangiamo e condividiamo il loro dolore. Ci hanno accolto offrendoci in dono la loro stessa povertà, dai ricoveri si sentiva il profumo dei dolciumi che avevano preparato per noi…

A volte ci raccomandavano con apprensione:

«Fratelli, non dimenticate di portare sempre con voi le maschere antigas. Un paio di giorni fa i bulgari ci hanno attaccato e sei bambini che si erano ritrovati per raccontarsi le favole sono morti asfissiati. Per documentare l’accaduto, i francesi hanno preso i corpicini e li hanno allineati sul marciapiedi, poi li hanno fotografati e filmati tutti con la macchina da presa».

Una fanciulla alta e slanciata come un fuso, con una folta chioma nera e gli occhi morbidi come il velluto, mi infilò nello zaino una tavoletta di cioccolata dicendomi:

«Così quando sarai in trincea ti ricorderai di me, una ragazza di Monastir che non rivedrai mai più…».

«Come fai a saperlo?», le domandai.

Lei scosse la testa e una ciocca di capelli simile a un punto interrogativo le cadde tra le sopracciglia corrugate.

«Lo so e basta», rispose. «Piuttosto dimmi, di dove siete voi?».

«Di Lesbo».

«Lesbo?», ripeté sorridendo come se la notizia la divertisse. «Lesbo, l’isola di Saffo, di Alceo, di Arione, di Pittaco e di Teofrasto…».

Che bello sentire questa teoria di nomi uscire dalla sua bocca. A un tratto quella ragazza mi entrò nel cuore come se fosse l’anima impetuosa di Saffo in persona, l’anima della nostra isola che avevo trovato qui, in Serbia, e mi aveva offerto una tavoletta di cioccolata.

Le presi la mano tra le mie, nel buio, e me la portai alle labbra ove la lasciai a lungo.

«Ti ringrazio di tutto cuore… Dimmi come ti chiami. Non mi dimenticherò mai di te».

In quel momento si avvicinò rapido l’ufficiale del mio reparto, che mi disse:

«Corri dal sergente e preparati, tra cinque minuti si parte».

Mi recai subito dal sergente del reparto, ossia da mio fratello, e la ragazza svanì nell’ombra. Ci incamminammo lungo le rive del bel fiume che taglia in due la città, nel buio, costeggiato da due interminabili filari di acacia. Sono alberi molto grandi e i loro fiori somigliano a mucchi di neve che sparge nelle tenebre un profumo inebriante. Marciavamo senza far rumore, senza fumare, tremanti per la paura. Marciavamo nascosti dietro grandi telai con cartoni colorati e sacchi dipinti. Sono le cosiddette “mimetizzazioni”, che celano la nostra presenza all’occhio e ai cannoni del nemico.

Siamo davvero giunti al fronte. Da qui in poi ad attenderci ci sono soltanto l’ignoto, il mistero e il terrore. Un terrore che investe l’anima con il fantasma di eventi ancora ignoti che l’anima tuttavia intuisce. Per questo frulla le ali come un uccellino su cui incombe l’ombra di un falco in picchiata.

Siamo “nelle tenebre e all’ombra della morte”.

L’occhio di Polifemo

Ti scrivo da un fosso scavato nel fianco della trincea che ci hanno assegnato come alloggio. Devi sapere che questa guerra è un affare alquanto astruso, che bisogna imparare a conoscere a poco a poco. Qui siamo nella terza linea. Se faremo progressi e sapremo abituarci, avanzeremo fino alla prima. Gli ufficiali ci hanno detto sottovoce e con estrema segretezza che questo conflitto non ha niente a che vedere con le guerre balcaniche. Qui l’entusiasmo e il fervore patriottico sono un problema e lasciarsi guidare dall’impulso sarebbe un errore madornale. Qui si combatte una guerra sotterranea, in cui i soldati più valorosi sono quelli che si nascondono meglio. Di combattenti non c’è traccia da nessuna parte, non si vedono né si sentono. Sono tutti impegnati a scavare gallerie sotterranee, se ne percepisce soltanto l’energia e la tensione nervosa. In questo conflitto le virtù richieste ai soldati sono la malizia della volpe, la perseveranza della formica, la pazienza del mulo e l’ostinazione della capra.

Avevamo marciato per ore nelle profonde gole delle montagne e alla fine ci siamo fermati in questa trincea. Dentro questa fossa ci stiamo mio fratello e io, e la usiamo come alloggio. Per me questo è sicuramente un lusso perché lui è un sergente mentre io sono un semplice caporale. Nella parete della trincea abbiamo trovato anche altre buche, assegnate al sergente maggiore e ai sergenti. Il resto della truppa deve accontentarsi di dormire in fondo alla trincea. Quando ci siamo fermati, a causa della stanchezza i soldati sono crollati tutti come sassi, uno sull’altro. A vederli sembrano un mucchio d’ossa sopra il terreno tiepido e li sento russare, imprecare sottovoce, rigirarsi facendo rumoreggiare gli attrezzi di ferro e scorreggiare.

Anche mio fratello dorme.

Il nostro alloggio è una buca scavata nel tufo. Siccome il terreno non è livellato, mio fratello ha assunto una strana posizione e nel tentativo di trovare una posizione comoda, ha finito con il sembrare una marionetta dinoccolata. Il volto però è sereno, il sonno lo ha avvolto con la sua levità. Anche il respiro è lento e regolare.

Ho attaccato la candela sulla bocca del fucile, nell’innesto della baionetta. Quando lo pianti nel terreno, si ottiene un ottimo candeliere. La luce trema sul volto di mio fratello addormentato facendogli danzare ombre sui baffi e sulle lunghe ciglia. A volte il gioco della luce sembra che gli faccia assumere un ghigno spaventoso. Una ciocca di capelli biondi gli è caduta sulla fronte serena. L’ombra della ciocca si trasforma in un granchio con le chele uncinate che sbuca dal buio e cerca di strappargli gli occhi. Poi però il granchio indietreggia e si accinge a sferrare un nuovo attacco. Può sembrare ridicolo ma questo gioco di ombre mi spaventa e ho la sensazione che il pericolo sia davvero in agguato. Mio fratello è perfettamente immobile. Tutto dorme in lui, persino i muscoli duramente provati dalla fatica della giornata. Sembra morto. La mia paura aumenta. Mi viene quasi voglia di svegliarlo. Alla fine lo vedo sorridere e respirare profondamente nel sonno. Faccio un respiro profondo anch’io. Mi rannicchio ancora più all’interno e cerco di occupare il minor spazio possibile per farlo dormire comodamente. Purtroppo il nostro ricovero non è abbastanza profondo, le sue gambe, dal ginocchio in giù, sporgono fuori nella trincea. Esso non è neppure tanto alto, cosicché io, pur essendo seduto, sono costretto a tenere piegata la testa per evitare di ferirmi contro gli spuntoni di roccia del soffitto. Per proteggermi ho indossato l’elmetto. La mia posizione ridicola e umiliante fa pensare a una serpe che striscia. Ho la mente offuscata… A un tratto i ricordi della mia vita passata scompaiono del tutto, come scompaiono tutti coloro che mi stanno intorno. Con essi scompare anche ogni ragionevole motivo che giustifichi la mia situazione attuale. A un tratto è come se aprissi gli occhi e mi ritrovassi prigioniero di un budello di roccia da qualche parte sui monti della Serbia. È notte, fa caldo, intorno a me il silenzio è assoluto, e vedo Antonis Kostulas rannicchiato in una grotta, da solo, abbandonato da tutti, nella desolazione. È seduto dentro una nicchia scavata nella roccia, in testa ha un copricapo di ferro, ha gli occhi appoggiati sui pugni e i gomiti sulle ginocchia. Lo spettacolo di quest’uomo mi riempie di paura e di pietà, e mi fa venire voglia di trarlo in salvo. Perché? Che senso ha tutto questo?

Sento il bisogno di fare una sosta, di lasciarmi avvolgere dalle tenebre come da una coperta. Così forse mi addormenterò anch’io. Ma ecco un sergente francese, che dopo aver calpestato tutti gli uomini che giacciono nella trincea, e dopo essersi sentito mandare al diavolo in tutti i dialetti della nostra isola, è venuto a ingiungermi di spegnere subito la candela.

L’ingresso del mio ricovero, spiega, guarda di fronte lo schieramento nemico e c’è il rischio che qualcuno noti la luce della candela. La sua voce riecheggia nell’oscurità e io mi affretto a spegnere la candela soffiandoci sopra. Di fronte abbiamo un’alta montagna sulla cui vetta si nasconde un posto di guardia. All’interno un paio di occhi che non si chiudono mai vegliano giorno e notte. La mia candela, sebbene nascosta dietro la tenda che ho appeso davanti all’ingresso del ricovero, potrebbe rivelare il nostro arrivo al nemico. In altre parole, basta una lama di luce a farci ridurre in briciole. Questa trincea, riprende, prima del nostro arrivo era una trincea “morta”, come si dice nel gergo militare. Ossia nessuno la usava più, da almeno tre mesi. Per questo i bulgari e i tedeschi hanno cessato di colpirla. Bisogna dunque lasciarli nell’illusione. «Devono continuare a credere che la trincea sia vuota, che noi non siamo qui. Dobbiamo muoverci soltanto di notte, senza far rumore, senza fiatare e senza accendere luci né fumare sigarette. La negligenza si paga cara.

»La trincea in cui ci troviamo non è una trincea qualsiasi. La sua è una storia di fango e di sangue umano, come del resto quella di tutte le trincee. All’inizio l’aveva occupata il nemico, poi l’abbiamo conquistata noi francesi per utilizzarla contro i vecchi occupanti. Per questo i ricoveri sono scavati alla rovescia, nel senso che l’apertura è orientata verso i cannoni dei bulgari invece di volgere loro le spalle. Le nostre tane, dunque, sono opera del nemico. In seguito la trincea è stata affidata a un reparto di italiani chiassosi e disorganizzati. Si comportavano come se fossero a una festa e non in guerra. Così un bel giorno una pioggia di cannonate nemiche se li è portati via dal primo all’ultimo. Di quaranta uomini è rimasta soltanto una poltiglia di carne maciullata mista con il terreno e le pietre della trincea. Bon soir, mon vieux!».

La voce del francese è nel contempo ironica e pastosa, e mentre mi racconta queste storie orribili, le sue parole sortiscono su di me l’effetto di un incantesimo. Quando se ne va, accompagnato anche stavolta dalle imprecazioni dei soldati calpestati nel buio, sollevo un lembo della tenda che ho appeso davanti all’ingresso per dare un’occhiata all’esterno. Mi sento il fresco della notte sulla fronte bollente. Provo a scrutare il fronte opposto indovinando la presenza occulta del nemico nel posto di guardia. Tutto quello che vedo è una stella nel firmamento, una stellina azzurra che palpita e sembra in procinto di precipitare sulla terra.

A poco a poco però la stella comincia a ingrandirsi e infine si trasforma in un gigantesco e tondeggiante occhio azzurro, grande e solitario come l’occhio di Polifemo brancolante nella sua spelonca per scovare i compagni di Ulisse e divorarli. Torno indietro nel ricovero e rimango accanto a mio fratello cercando di dormire.

Il terribile sguardo di Polifemo però continuo a sentirlo incombere su di me e sulla nostra trincea dirupata, insonne, nell’atto di frugare nel buio, senza tregua. A un tratto ho l’impressione che ci abbia intercettati e che con il suo sguardo gelido e azzurro cominci a sfiorare i corpi dei soldati che dormono come cani sul fondo della trincea. È una forza occulta e lontana che ci punta e giunge fino a noi come una proboscide di luce che dalla montagna di fronte si protende nella notte giungendo fino alla nostra trincea. Qui trova i soldati addormentati e ci scruta con ostilità e attenzione, uno per uno. Passa sopra il respiro degli uomini, li conta uno per uno, accarezza le nostre armi, si infila nelle giberne, fruga negli zaini, poi si ferma per ascoltare il battito regolare dei nostri cuori giovanili. Infine, sempre flessuoso come un tentacolo, si ritira nella sua tunica per descrivere quello che ha visto e quello che ha udito ai grandi cannoni, mostri di ferro il cui corpo è in realtà un collo gigantesco, nascosti nelle viscere della montagna di fronte. Allora i cannoni protenderanno a loro volta il collo enorme per vomitare la morte dentro la nostra povera trincea dirupata schizzandone ancora una volta di sangue fresco il terreno e il pietrisco polveroso. Eppure nessuno di noi conosce i soldati nemici né questi hanno mai visto nessuno di noi.

Carogne

Sono già tre settimane che ci troviamo qui. La vita si trascina lentamente, sempre uguale. Faticosa ma sempre uguale. I lavori di scavo, ossia l’unica cosa di cui ci occupiamo, si svolgono soltanto di notte. Di giorno restiamo sdraiati dentro la trincea, nascosti dentro le nicchie e le cavità che ciascuno ha provveduto a scavarsi alla buona come sorta di appartamento privato per sé e per l’equipaggiamento. Il rancio viene distribuito soltanto una volta al giorno, di solito verso il crepuscolo. Non mi lamento della quantità, mi lamento invece della qualità. Il menu non cambia mai, ci danno sempre grossi pezzi di carne in brodo con il riso. Non ne posso più. Per non farci scoprire dal fumo la cucina l’abbiamo sistemata dietro la collina. In questo modo il rancio viaggia tre miglia prima di arrivare a noi freddo, denso, disgustoso, pieno di pietrisco. Di solito tengo soltanto il pane e passo il resto a Mitellis.

Mitrellis è un soldato pallido ed emaciato, ma ha sempre fame e non lascia niente nella gavetta. In cambio lui mi regala le sue sigarette. In questo modo non ho neppure il fastidio di dover lavare la gavetta, che è una delle imprese più difficili qui all’accampamento. L’unica fontanella disponibile si trova dietro la collina e la usano tutti i soldati del nostro settore. Di biancheria pulita non ne ho più ma di fare il bucato neanche a parlarne. L’acqua è preziosa come l’oro e per riempire la borraccia si finsice sempre con il litigare. In ogni caso prima di arrivare alla fontanella bisogna affrontare un mucchio di rischi visto che in molti punti la cosiddetta trincea non è altro che un semplice sentiero ancora da scavare, esposto ai colpi del nemico. Da quando siamo arrivati noi, la fontanella è presidiata da un piantone che ha il compito di impedire a noi greci di accapigliarci per la precedenza. I francesi invece sono abituati a mettersi in fila. Prima che ci fosse il presidio, riempire la borraccia era quasi impossibile: i soldati cominciavano a schiamazzare, si prendevano a pietrate e facevano volare i bastoni che ci servono quando camminiamo la notte. In alcuni casi sono volati persino i coltelli. Un mio compaesano, del villaggio di Plomari, è stato deferito alla corte marziale per aver accoltellato un soldato della Normandia. Il risultato è che la borraccia la riempiamo soltanto una volta al giorno, il che vuol dire che dal giorno in cui siamo arrivati qui abbiamo smesso sia di lavarci sia di fare il bucato.

All’inizio credevo che alla sporcizia ci avrei fatto l’abitudine. Adesso, con il passare del tempo mi accorgo che è una vera e propria sofferenza. Ho le ciglia piene di polvere, il sudiciume me lo sento sotto le unghie quando le passo tra le sopracciglia e la barba, così lunga che mi punge la pelle. La polvere è penetrata ovunque e sembra che siamo invecchiati di decenni in un sol giorno. Non credevo che il non potersi lavare fosse un tormento tanto insopportabile. Ho i capelli pieni di sabbia e terriccio. I pori della pelle si sono otturati, tutto quanto intorno a noi è ricoperto da uno spesso strato di polvere e ogni volta che tocco qualcosa, avverto un brivido sgradevole sulla punta delle dita. Da qualche giorno ci si sono messe anche i pidocchi. Oggi ne ho trovato uno che camminava sulla mia pagnotta. Un disgusto crescente si è impadronito di me, avevo l’impressione che il pidocchio e la polvere mi penetrassero sotto la pelle e vi scavassero un cunicolo fin dentro le viscere. Mi sono anche accorto che ho i nervi a pezzi, un semplice saluto rivolto a un commilitone può scatenare reazioni incontrollate. Le giornate le trascorriamo per intero giacendo al suolo, sotto un sole cocente che ci arrostisce a poco a poco, senza pietà. Sembra quasi che ci provi gusto ad affliggerci in questo modo. Quando per qualche ragione dobbiamo spostarci da un punto all’altro della trincea, lo facciamo muovendoci carponi, come i bambini piccoli o come i quadrupedi. Come ho detto prima, in molti punti la trincea non è ancora stata scavata completamente. Le operazioni di scavo avvengono di notte, ogni notte, ma siccome il suolo è roccioso, la zappa non serve a niente. Poi, giunta l’alba, ci nascondiamo all’ombra delle tende, che con il trascorrere delle ore diventano roventi, e cerchiamo di aderire il più possibile al suono.

Anche dormire è impossibile. I corpi sudati emanano un fetore insopportabile, una specie di lezzo caprino. Molti giacciono faccia a terra per ore intere, in silenzio, con la fronte appoggiata sulle mani intrecciate. Ogni tanto facciamo un respiro profondo, ci grattiamo un piede contro l’altro e sputiamo sul terreno, che è a pochi centimetri di distanza dalla bocca. Alcuni hanno praticato un foro nella tasca delle mutande e ci tengono infilata la mano. Sono sdraiati sulla schiena, con le gambe accavallate, e la mano lavora febbrile dentro la tasca bucata. Finché a un certo punto le sopracciglia si contraggono in una smorfia che sembra di dolore, uno spasmo fa avvicinare le ginocchia l’una all’altra, le mascelle si chiudono all’improvviso facendo digrignare i molari, le palpebre tremolano e i bulbi oculari si rovesciano lasciando in evidenza soltanto il bianco. Segue qualche istante dopo un sospiro profondo, le gambe si rilassano, la fronte si distende e la tensione del volto si scioglie in modo inquietante. Allora qualcuno comincia a raccontare storie piccanti e tutti i compagni si avvicinano a lui, gli si raggomitolano intorno, morsi dal desiderio di ascoltare. Qui in trincea essere sboccati è indispensabile per la sopravvivenza tanto quanto le sigarette e le carte da gioco. Serve a stimolare e a eccitare la fantasia a un livello che sfiora il dolore. Il turpiloquio però funge anche da valvola di sfogo. Per questo qui in trincea ci esprimiamo tutti come scaricatori di porto, alcuni gridando con strafottenza, come fanno gli attaccabrighe, e altri soltanto con il pensiero. Ci sono poi quelli che tengono un diario, che scrivono curiose lettere erotiche con tanto di disegni, un po’ come i carcerati. Sono disegni di natura perlopiù simbolica, come il serpente, il cuore trafitto da una freccia, l’angelo della giustizia, il calderone sfrigolante dell’inferno e il coltello dal manico nero. Il tutto condito da poesiole in rima baciata che si possono leggere soltanto ripiegando il foglio in una certa maniera. Queste lettere riempiono di continuo la scatola della compagnia e altrettanto di continuo ne fanno scempio gli addetti alla censura.

Altri ancora ingannano il tempo e la noia sterminando i pidocchi. Essi prendono molto sul serio quest’occupazione. Li raccolgono tre o quattro per volta e poi, con le labbra deformate in un ghigno d’odio, li uccidono tutti insieme schiacciandoli con le unghie sulla giberna e più i parassiti si moltiplicano, più eliminarli diventa un’ossessione. I soldati innanzitutto frugano nella giacca e quando hanno finito se la tolgono. Poi si tolgono la camicia, la canottiera, i pantaloni e qualche volta anche le mutande. La caccia ai pidocchi può durare anche molte ore, le unghie a poco a poco si imbrattano di sangue, gli occhi si gonfiano e s’infiammano.

Intanto il soldato di prima continua a raccontare le sue storie piccanti, interrotto ogni tanto dai compagni, curiosi di conoscere qualche dettaglio realistico in più o stupiti da alcuni aspetti della narrazione. Finché lui smette di raccontare e i compagni lo guardano con stupore, ammiccano, si accendono una sigaretta e pensano a chissà cosa. Il silenzio collettivo che segue all’interruzione del racconto ha un che di sinistro che si espande intorno a noi e ci avvolge completamente. Tutti ne abbiamo il sospetto anche se non tutti ce ne rendiamo conto con chiarezza. Infatti non passa qualche minuto che qualcuno si mette a chiacchierare in fretta, nervosamente, e allora tutti gli altri provano una sensazione di sollievo, sono grati a quel compagno che ha stornato il rischio del silenzio per riprendere il filo interrotto della conversazione sia pure dicendo le cose più insensate e volgari di questa terra. (Di che cosa ha paura la nostra anima quando resta da sola? Che cos’è quello che non vuole sentire nel silenzio? Forse la sua stessa voce?)

Ogni due ore, regolarmente, qualcuno striscia bocconi sul fondo della trincea. Ιndossa l’elmetto e le giberne, e la spada che fa baccano sulle pietre. È il caporale di servizio. Si avvicina gattonando a uno dei fagotti umani che vede, tira fuori dalla tasca interna un foglio di carta tutto spiegazzato e legge ad alta voce prima un cognome, poi il nome di battesimo e infine un patronimico. Colui del quale è stato chiamato il nome borbotta qualcosa per protestare, si veste con gesti indolenti, si infila gli scarponi e imbraccia le armi. Costui è la cosiddetta vedetta. Sbadiglia spalancando la bocca come un cane che abbaia, sospira e si allontana dal gruppo con passo strascicato.

Di lì a poco scende lentamente la notte…

La notte giunge dal basso, dai visceri del precipizio che ci divide dalla montagna di fronte. Somiglia a una massa conica con due corna che ci si erge davanti simile a un castello titanico che dobbiamo espugnare se non vogliamo esserne sterminati. La cortina del buio sale in fretta verso l’alto, come una bruma livida e fosca che cancella i volti a uno a uno diluendo le sagome, facendo sbiadire i colori e cancellando la linea degli alberi all’orizzonte. La montagna di fronte allora si staglia in tutta la sua imponenza, massiccia e oscura, simile a una spaventosa piramide di buio e di silenzio, che ci opprimono più di quanto ci opprima la mole stessa. Nessuna luce la illumina, nessun rumore se ne sente giungere, nessun segno di vita vi si scorge… Ma è risaputo che quello che non si vede, si percepisce con maggiore intensità. Il nome della montagna è Pelister. Noi la chiamiamo Peristeri che nella nostra lingua vuol dire Colomba. Un nome che ispira pace anche se la sua anima è inquieta, complicata, malvagia, previdente. Perché questa montagna ha milioni e miliardi di occhi che vedono senza essere visti. Occhi sempre aperti, sempre puntati su qualcosa, giorno e notte. E ha anche milioni e miliardi di cuori che battono con odio cieco scandendo il trascorrere della nostra vita. Ogni crepaccio, ogni pietra, ogni fenditura, ogni albero di questa montagna cela un cuore traboccante di odio mortale, occhi alla ricerca di un obiettivo da puntare, e una bocca di cannone che gira a destra e a manca alla ricerca di carne calda da maciullare. Questi sguardi infiniti e instancabili si incrociano nell’aria come una rete immaginaria che avvolge la nostra povera trincea fin quasi a farla soffocare…

 

I lavori di scavo

Le giornate trascorrono monotone, indolenti e faticose, piene soltanto di un tedio inguaribile che abbrutisce i corpi e ammorba la mente. Le notti invece sono dedicate ai lavori di scavo. I soldati attendono a questo compito ingrato senza alcuna voglia, farebbero volentieri qualsiasi altra cosa. Appena scende la notte, le squadre di scavo entrano a due a due in un magazzino sotterraneo ove due francesi consegnano loro rispettivamente una zappa e un badile. I soldati allungano la mano e prendono gli attrezzi senza parlare. Il meccanismo è collaudato, nel giro di pochi minuti l’intera squadra è pronta a mettersi al lavoro. Il tutto è illuminato da una lampada di acetilene speciale, la cui luce non esce dal sotterraneo.

A ciascuna squadra di scavo è stato assegnato il compito di scavare un certo numero di centimetri a notte e soltanto quando li ha scavati, ha il permesso di rientrare per riposarsi. Ai soldati greci scavare la trincea sembra un’umiliazione. Siamo venuti qui per fare la guerra, dicono, per aiutare i francesi e i serbi contro i tedeschi e i bulgari, per scacciare il re, non per scavare le montagne dei serbi. Tanto valeva che restassimo a casa nostra a scavare gli oliveti di nostro padre. Allora i nostri ufficiali e quelli francesi cercano di spiegare loro che la trincea serve a salvarsi la vita. Un capitano lo ha detto a chiare lettere:

«Chi non scava la trincea, si scava la fossa».

Ogni tanto l’eco lontana della guerra arriva fin qui. Sono gli obici che fendono l’aria andando a esplodere da qualche parte. Sono le mitragliatrici che sparano veloci come una macchina per cucire prima di tacere per lunghi istanti. Sono i razzi che fioriscono nella notte come esotici fiori luminescenti, attraversano lentamente l’atmosfera e infine appassiscono scomparendo dietro le colline. Un’altra cosa che ai soldati greci riesce impossibile è smettere di chiacchierare. A un certo punto dimenticano la consegna del silenzio e si mettono a conversare, a bisticciare e a dire sciocchezze. Ai francesi viene un diavolo per capello.

C’è un sergente di nome François assiduo lettore di un foglio cattolico grande come un lenzuolo che si chiama “La Croix”. François è un ragazzo molto devoto al Papa e al re, ed è anche molto pedante. Se fosse greco, sarebbe di sicuro un sostenitore della lingua epurata, praticherebbe il magro tutti i quaranta giorni della Quaresima e leggerebbe la stampa conservatrice. Ecco quello che ci dice: «Delle due l’una. O voi greci siete matti da legare e siete venuti qui a farvi uccidere o non avete capito niente di quello che sta succedendo. Non si spiega altrimenti per quale motivo non riuscite a tenere la bocca chiusa proprio sotto il naso delle mitragliatrici».

Quando François si esprime in questo modo, i nostri smettono subito di parlare o abbassano la voce. Ma tempo qualche minuto e il chiacchiericcio ricomincia. Si capisce che a François viene voglia di lanciare una bestemmia ma siccome è un ragazzo molto timorato di Dio e della Madonna, si limita a esclamare “perbacco”, “perdinci” e altre imprecazioni cattoliche, tutte molto innocenti e timorate come lui.

Ieri però sono bastati pochi minuti a insegnarci una volta per sempre che in guerra bisogna tacere. Una squadra di scavo che non riusciva ad andare avanti a causa del suolo roccioso, a un certo punto ha perso la pazienza. Ha gettato le zappe e i badili al suolo, i soldati si sono sdraiati con le gambe appoggiate al terrapieno della trincea e si sono accesi una sigaretta. Il loro responsabile era il caporale Sgumbìs, un mocciosetto privo di qualsiasi autorevolezza.

«Basta, non ne possiamo più. E tanto meglio se ci mandano alla corte marziale con l’accusa di ammutinamento!».

A un certo punto è sopraggiunta la ronda francese che ha ordinato loro di rimettersi al lavoro.

«Allons, travaillez! Travaillez!».

«Non travaié», hanno risposto i nostri, che dopo aver preso due galloni da caporale maggiore, se li erano appuntati alla manica della giubba con un paio di spilli e adesso li facevano sventolare sotto il naso del francese.

«Moà caporàl, non travaié!», continuavano a ripetere i nostri. Il comandante della ronda francese ha guardato sorpreso i galloni, poi è andato a riferire alla compagnia, i quali gli spiegarono che era caduto vittima di uno scherzo. Così è tornato indietro e ha fatto loro una bella ramanzina, uno addirittura lo ha costretto ad alzarsi in piedi prendendolo per le falde della giubba. Questi però per tutta risposta gli ha assestato un calcio nello stomaco dando inizio a una rissa che in breve ha coinvolto tutta la trincea.

A un certo punto però si è udito un sibilo seguito da un boato. I soldati e il terreno sono diventati una cosa sola e la notte si è riempita di costernato orrore.

L’obice è esploso proprio dentro la trincea, a una cinquantina di metri dal gruppo dei “caporal”. Siamo rimasti a lungo bocconi, tremando come foglie e deglutendo la saliva nel tentativo di mantenere la calma. Credevamo imminente un altro colpo e invece no. Avevano smesso di sparare. Ci siamo sentiti avvolti da un silenzio assordante, interrotto soltanto dal battito dei nostri cuori in subbuglio dentro il petto e subito dopo, da un versante della montagna, abbiamo visto una luce bianca e un fascio luminoso che puntava verso la nostra collina frugando con attenzione tutt’intorno. «L’occhio di Polifemo, l’occhio di Polifemo», continuavo a ripetermi. A furia di ripeterla, questa frase si è trasformata in una specie di preghiera, come quando in chiesa ripetiamo tre volte “Kyrie, eleison, Kyrie, eleison, Kyrie, eleison”. Avevo la sensazione che se quel braccio luminoso uscito dal corpo di tenebra della montagna ci avesse sfiorato, avremmo corso il rischio di morire o di essere stritolati e trascinati via, e dati in pasto alla montagna stessa! Per fortuna però il fascio luminoso non è arrivato fino a noi e si è fermato presso un enorme masso roccioso che sembrava gravare sulla nuca della nostra collina. La mano luminosa lo ha esaminato per bene, si è spostata alcuni metri a destra e a sinistra, ha fatto ritorno al masso per un’ulteriore verifica, vi si è soffermata alcuni istanti come se non fosse convinta di quello che aveva trovato, e infine a poco a poco ha cominciato a ritirarsi e a tornare indietro verso la montagna, come una lingua che si ritrae all’interno della bocca.

Noi intanto avevamo ricuperato il sangue freddo e siccome non avevamo sentito né grida né rumori, credevamo che il colpo dell’obice avesse fatto cilecca. E invece… Il colpo aveva centrato un masso il quale era esploso in mille pezzi uccidendo sul colpo una squadra di scavatori formata da sei soldati del terzo battaglione, il nostro. Di quei poveri sei soldati non era rimasto niente, a stento sono stati riconosciuti i resti di uno di loro. Gli altri erano ridotti in poltiglia. Nel ventre di uno era andato a conficcarsi un elmetto e intorno al manico di un badile le budella di un altro si erano avvolte con tale maestria da sembrare salsicce pronte da servire come antipasto. I resti dei poveri soldati sono stati raccolti e nascosti in una tenda per non compromettere il morale della truppa, e sul punto dell’esplosione è stato cosparso del terriccio per asciugare la pozza di sangue. Stamattina all’alba sono ripassato da lì. Ho notato ciocche di capelli sopra le pietre e la falange di un dito con l’unghia ingiallita a causa del fumo, che era andata a conficcarsi nella parete della trincea. Sembrava che là dietro ci fosse nascosto un soldato e che nel suo tentativo di venire alla luce per combattere fosse uscito soltanto quel dito. L’ho sfiorato con il bastone. È caduto come un verme senza vita e mi sono affrettato a seppellirlo alla meglio.

Adesso sapevamo che cos’era la guerra.

Il sangue versato alla trincea ha sortito in primo luogo l’effetto di scuotere le anime dei soldati, incupite dal terrore e dalle privazioni. Poi con il passare delle ore questo stato d’animo si è trasformato in un silenzio ancora più spaventoso. Le dita della morte avevano lasciato la propria impronta nell’anima di tutti i vivi.

Stamattina Balafaras si è alzato prima dell’alba e si è recato nell’ufficio della compagnia felice come una Pasqua.

«Signor capitano, ha avuto l’onore del battesimo del fuoco! Complimenti alla sua compagnia. Onore ai caduti. Ho dato ordine che ai familiari venga inviata una bella lettera insieme alla medaglia al valore. Ebbene sì, capitano, la memoria degli eroi va onorata. Sono lieto che la mia divisione sia finalmente entrata nel vivo dell’evento bellico».

Quando i soldati sono venuti a saperlo, si sono messi a ripetere le parole di Balafaras scimmiottandone l’accento. L’intento era goliardico ma di divertimento non c’era alcuna traccia.

«Sono lieto che la mia divisione sia entrata nell’evento bellico, ho dato ordine che ai familiari venga inviata una bella lettera…».

Tutti sono diventati più guardinghi, taciturni e riflessivi. Hanno smesso di bisticciare, di gridare, di fare chiasso. Si limitano a scavare, scavano, scavano e scavano. Persino di giorno scavano, sia pure di nascosto. Silenziosi, con un bagliore fugace di terrore che ogni tanto balena nei loro occhi, si muniscono di zappa e badile, e si scavano un riparo entro la cavità rocciosa della trincea, un rifugio ove sentirsi al sicuro. E ogni volta che si ode un sibilo, loro contraggono le spalle e il viso, e smettono di parlare. C’è più sofferenza nella nostra vita. Abbiamo assaggiato la guerra e ne sentiamo ancora l’amaro retrogusto di sangue. Intanto nelle anime semplici dei soldati non smette di risuonare un interrogativo destinato a rimanere senza risposta nonostante le spiegazioni di comodo di volta in volta fornite – e a cui i soldati fanno finta di credere annuendo con il capo: «Per quale motivo siamo venuti fin quassù a farci uccidere?».