Poesie per un uomo 1/3

La raccolta di Poesie per un uomo di Armanda Guiducci si compone di novantacinque poesie. Questa Domenica pubblicheremo le prime trentatre con il seguente ordine:

Uomo,
Brevità degli abbracci,
L’odore dell’amore,
Nudo,
Dalla tua costola,
Come al sole,
Corpo dell’uomo,
I cicli delle primavere,
Il limite e lo spreco,
La sfida,
Certo, l’amore non è tutto,
Il sonno del mattino,

Il peso della vita,
Determinazione,
Eclisse,
Gli occhi,
Silenzi,
L’appuntamento,
Il sonno,
Il consumo della vita,
Il dado,
Risveglio,
Non sempre,
Prima della notte,
In mezzo a tutti, un viso,
Compleanno,
Ritratto,
Il calendario dei sogni,
I fuochi,
Due verità,
Un calcolo sbagliato,
Come un motivo,
Il cielo delle sei,

 

Uomo

Altro da me in tutto … maschio, estraneo,
altra carne, altro cuore, altra mente,
pure, il mio stesso corpo prolungato,
la voce che si sdoppia, e mi continua:
ciò che si oppone, e ciò che mi compone
come un discorso teso, mai concluso,
o l’altro occhio: il raggio che converge
al rilievo, allo scatto delle cose –
mio necessario opposto, crudele meraviglia
è amare te: godere di due vite
in questa sola, avere doppia morte.

 

Brevità degli abbracci

Io giaccio in te, mio spazio d’amore,
e tu giaci in me, con un respiro solo.

Un corpo completo vibra nell’intreccio:
ma a lui è negato di durare.

Perché non esistono le sirene,
né i liocorni, i cavalli marini;

sulla terra, esistono solo forme
che si compongono e scompongono
solitarie, come la luce, la neve.

 

L’ odore dell’amore

Quando bacio il tuo corpo non astratto
s’apre di colpo a me, come in un fiore
– penetrante – l’odore d’una vita
che incarni solo tu – solo tu rendi,
più solenne d’un fiore. Salgono fresche,
godute primavere; con i pensieri
andati e perduti, le parole.

Fragrante passione, si sottrae a te
solo il lunare universo dei corpi
assenti: come gli amori finiti,
le figure lontane, o scomparse.

 

Nudo

Nudo ti porto in me, nudo come sei
veramente – gettata la divisa
del giorno, o se pensi, soffri, ami;
nudo, come nessuno mai t’ha avuto;
come la prima volta che ti vidi
nudo e, dritto in mezzo a quella stanza,
mi offrivi l’irruenza del tuo slancio;
e come tutti gli anni poi venuti
a spogliarci, a segnarci. Nel letto
del riposo, del male, dell’amore.
Quando accelera il battito del petto
o volano le reni. Ti conosco
nudo, come nessun altro cuore sa,
come nessuna spiaggia ti ricorda
– e come tu neppure ti conosci.
Cosi, ti penso: ogni volta nudo
di infinite nudità. Non c’è specchio
che a te renda un corpo più profondo
quanto la durata del mio amore.

 

Dalla tua costola

Dalla tua costola io sono cresciuta
nel pieno corpo che ti rendo adesso,
quando mi cerchi e m’ami. Mai altro
desiderio ebbe forza di scolpirmi
nella carne viva come tu, col tuo
impetuoso amore martellante.
Baci su baci hai modellato il seno;
curvati questi fianchi; hai tornita
l’infantile magrezza delle spalle,
levigato il ventre allo splendore.
Non rimpiangere l’esile figura
degli incontri lontani: ma contempla
in me, piuttosto, la tua stessa passione.

 

Come al sole

Nel grigio universo dei letti a ore
dove il giorno si umilia fra i cavedi
e i cieli murati sui cortili,
tu, gettando le vesti, fosti il sole.

E, come al sole la polverosa luce
esita, attratta, e si scompone,
davanti a te, o nudità splendente,
le succubi stanze dissipavano

il riluttante fruscio delle lenzuola,
le macchie gialle sopra i lavandini,
le squame arrugginite dei bidet,
i rantolii delle parole oscene.

 

Corpo dell’uomo

Misterioso corpo, un lieve bacio
a te basta – perché l’eterno ciclo
si ripeta, e precipiti il frutto
da un autunno a un’estate precoce
o, dai silenzi invernali, la neve
conduca giù un rivolo selvaggio.

 

I cicli delle primavere

Silenzioso, ambiguamente casto,
giaci … Sembra tu ascolti prepararsi
il mormorante suono delle crescite.
Non esita cosi incerto un fiore
cui aria luce terra ignote forze
diano il privilegio di ingrandire.
Non è concesso a te, dal tuo profondo,
ciascuna volta di fiorire – e basta.
Tu, ciclica primavera, getti il seme
ogni volta più lontano dall’infanzia.

 

Il limite e lo spreco

Tutte le possibilità sono fra noi,
ogni momento – ma incerte e oscure,
come ombre indecise se staccarsi.
Le cose poco avute – sporte a un orlo,
com’un bicchiere in bilico; e, sospese,
le non avute, riserva del pensiero
(anche chi muore, ha desideri estremi).
Forse, la vita stessa inclina al limite
e, di colpo, potrebbe rovesciarsi.
(A quarantanni, sibila il segnale:
– in prima linea, sul fronte della morte.
Punta pure la tua pazza carabina.
Cammina: corri sempre allo scoperto.)
Come ombre indecise se staccarsi,
le cose che potrebbero avvenire.

Un colpo d’ala libra le tue reni.
Al regolare sussulto del tuo corpo,
un battito s’accelera. Corre, supera
l’ondeggiare esitante delle sorti,
travolge stami, precipita sprecando
una miriade d’ignote alternative.

 

La sfida

Getta le grige bende … Getta il giorno,
l’affanno polveroso che ti sporca.
La notte ti reclama. Spogliato
(come il buio ci chiede: in solitudine)
rinasci a me, ch’attendo. Nasci ancora
e gambe, braccia, dorso, spalla
che s’inclina, la mano che continua
nel pieno braccio intero, e l’onda
del tuo vigore colmo in abbandono,
sfida coi sensi la tua dissoluzione.

 

Certo, l’amore non è tutto

Certo, l’amore non è tutto.
Ambizione, potenza, vanità
gettano, nel buio, rami d’oro.
Passioni più squillanti inducono
la polvere a salire – dove,
turbinando, il sole acceca,
la morte è una sfida – per domani.
Domani … Quale giorno nemico.
Solo l’oggi (che distrugge) conta
per chi ama. E si distrugge
veloce l’amore, più veloce
della vita – con le mani.
Chi agita sull’ombra i rami d’oro…

Certo, l’amore non è tutto.
Pure, se hai visto un uomo che muore,
solo l’amore avuto prolunga
umano il suo rientrante sguardo.

 

Il sonno del mattino

Ho dormito. Per metà della vita,
ho dormito: sono stata felice.
Finché, morendo, tu non m’hai svegliata
e detto: «Guardalo, il tuo amore. Guarda
che fragile finzione, quel che credi
duraturo, eterno!». E mi ha colpito
il viso il tuo alito guastato.
«Tanto vale non amare. Tanto, credi,
dar fuoco a tutti i ponti.» Dunque, anche tu
dormivi quando m’abbracciavi? Forse,
all’amore giovane, è complice
dei sogni – fitti e illesi – la penombra,
come nel breve sonno mattutino?
Eccoci al giorno che distrugge. Svegli,
ci guardiamo in faccia – ed è ben duro,
continuare, in questa luce cruda.

 

Il peso della vita

Quella vallata più bianca della morte …
Ti portavo neve ad aghi, fra i capelli.
Al curvo bacio, volgevi altrove gli occhi
dolorosi. La semprechiusa finestra
ti inquadrava una realtà irreale:
pura, perfetta – nella distesa intatta
dell’inverno. Io – ti schiantavo, col peso
della vita. E, senza osare saperlo,
tu mi odiavi. «Guarda i miei amici» dicesti
brusco a un tratto: tre becchini uccelli immoti,
neroposati sopra il davanzale. «Va.
Ritorna nella vita.» Cosi, pregasti
– fingendo di ignorare … Forse, ignoravi.
Io, ero la vita – che si ama odiando,
se ci sfugge estranea. «Lasciami solo.
Sono stanco. Sono stanco di morire.»

 

Determinazione

Potrebbe essere. Tu dici che potrebbe
essere stato tutto diverso – al punto
di non sfiorarci neppure quella volta,
nella vita; quell’unica volta data
per tutte (e che noi sapemmo fermare
con occhi, con cuore veloci); non vederci;
e, ritenere destino il possibile,
è una colpa di ottusa presunzione.
Chissà. Tu avresti amato un’altra donna,
e saresti stato ugualmente felice.

Non parliamo di me. Io, il probabile
– accaduto, lo chiamo, caparbia, destino,
né riesco a immaginarne altro diverso
dal caso che ha dato scatto alla mia vita.
Tu, ami l’improbabile … Io, il destino
afferrato al volo solo quella volta.

 

Eclisse

Tremulo filo nel cavo d’una lampada
folgora e spezza, la corsa della luce.
L’estraneità del buio – che interrompe
le curve belle, ogni visione chiara –
fu tra di noi chiarezza fulminata.
Poi, uno sprazzo. Il filo incandescente
si è riteso a brillare. Ora, sappiamo
le intermittenze, le cecità del cuore,
e che niente di intatto, sulla terra,
regge la luce a lungo. Il tramonto,
è del giorno. Il sole, porta l’ombra,
il sole stesso … E interi astri oscura,
a intervalli, il disco d’un pianeta.

 

Gli occhi

Al mattino, tu porti occhi verdi
come una donna una fresca camicetta
da cui irruente splendore si promette,
di specchio in specchio, sui vetri della strada.
Alti nel viso, e verdi. Li riabbassa
la sera; li rabbuia (e molte pieghe
v’ha inciso intorno l’ombra che scolpisce).
Ma, ora, sono verdi, verdi, verdi …
Verde bellezza alta del mattino.

 

Silenzi

Siamo cosi diversi … Come tutti
e da sempre, io mi domando quale
mai filo equilibri due vite. Forse
il sentimento è altro da una voce
più forte, pronunciata sopra il buio?
Resta il buio: che rode e che divora.
Chissà, il vischioso ragno dell’inconscio
ci tesse, annoda fili notturni?
Allora, siamo giocati a dadi
e rimbalziamo ad insaputa
nel lungo giorno che crediamo vivere.
Oppure è nostro amico il giorno?
Il sole che rischiara – e imitiamo
con pallidi raggi, nostri pensieri?
Ma, come l’alto disco dell’inverno
scorre fra le nuvole, intermittente,
fioco, e indicibili silenzi
slanciano, vibrante, la betulla; cosi,
rompe la neve il cuore, caldo seme,
e mai ragioni fecero un amore
né vero né prezioso né felice.

 

L’appuntamento

«Fra dieci anni, è qui l’appuntamento.»

Dieci anni … Che sfida. Breve eternità,
i figli avranno le spalle squadrate,
i vecchi di oggi – disfatti … e noi?
quali altri pesi, pene, porteremo?
E la gente, in che cosa crederà
fra dieci anni? Poi che, pazzo, il tempo,
ora, ingoia uomini e cose
con ingorda furia, e mai la vita
è scorsa più veloce ed effimere
le idee, gli anni che speri sono troppi

per ritrovarci vivi. (Non nel corpo,
dico, nel cuore. Nel cuore capace
di sfide, o di promesse.) Se il corpo
lo potrà, agli anni detti, sarò qui,
ad aspettare – i tuoi occhi di oggi.

 

Il sonno

Giaci. Con la fatica nelle mani
e il lungo giorno scritto sopra il viso,
dormi. Neppure il sonno ti distende,
che invochi a riparo della morte.
Negli intervalli del respiro rauco
scorre la mezzanotte. Ti ascolto,
e ascolto il tempo che consuma, mentre
tu ti abbandoni, assente; il tempo
che scivola lungo gli addii, le voci,
lungo il ronzio della canna dell’acqua,
e si rapprende, infine, nel silenzio
(il silenzio che abbruna ogni portone,
nell’immensa città, e, per le scale
vuote, appende lampade furtive;
ma non è mai placato – mai, silenzio
veramente, poiché non muore, il tempo).
Sentilo: rode – di fruscio in fruscio,
o, lente e sorde, distilla le gocce
che, implacabili, scavano la notte.

La solenne notte che ci riposa e uccide
è questa … questo lavorio d’un topo o
d’un tarlo dai ridicoli canini.
La schiusa larva, non s’ode: la massa
animale dei respiri che erompe
dall’intero emisfero occidentale
nel vivo guscio spaccato della terra.
Sonno, controfigura della morte,
dacci almeno dei sogni – più pietosi
della ironica sorte che ci tocca:
confondi il tempo tu, per una notte
raddoppiaci, riuniscici al passato.

 

Il consumo della vita

Sempre gettato all’estremo delle cose
da una furia bianca, esorbitante.
Riposo, è il centro: perfezione
che atterrisce; che, calma, in sé riposa
– come, su un viso, la palpebra composta.
Attrazione oscura … Tu la fuggi,
duplicando lo slancio: il moto
insaziato e l’invenzione
astratta delle tangenti chiare
o dell’ellisse, che allunga il percorso.
Questo tormentoso movimento
del quale vivi – è il vortice che succhia
le tue energie contate… È lo spreco,
il lusso, di concedersi una vita.

 

Il dado

Cadde fra noi un giorno come un dado
e, da quel giorno, il tempo s’è mutato
stranamente – anche se gli anni i mesi
i giorni, durano anni, giorni, mesi.

Da allora, ogni istante, ogni minuto,
tutto il futuro potrebbe fermarsi,
se tu mancassi. Sí: ogni volta può
esser sempre l’ultima volta, adesso.
Misuro il tempo sul ritmo del cuore,
del tuo cuore che pulsa, frusta sangue
cupovenoso e avanza e arretra
insieme, a ogni tonfo – (mentre l’astro
che esplode da millenni resta fermo,
padrone del cielo, inconsumato).
In risposta, il tempo si dilata
per me e si restringe, a ogni abbraccio.
Non posso che sbagliare, giacché il cuore
scandisce tempi sempre troppo brevi
perché si sia felici, e mai una corsa
fu più perduta prima della gara.

 

Risveglio

La più pura luce del mattino
gualcisce l’ira, la notte, del tuo viso.
Cosí saluti chiarezza, splendore:
con pupilla furiosa, labbra strette
e una repressa voglia di ferire
chi, amando, t’augura il buongiorno.

O chiarità del cielo, non inganni
lui come me, tesa alla finestra
a tessere canestri con le nuvole,
fresche e rugose figure del vento.

 

Non sempre

Il cielo è cosi antico … e questa
invenzione appena incominciata
(riuscire se stessi amando un altro)
mi stanca a tale punto. Occorre
la forza impossibile dei sogni,
per essere reali. Amarsi
richiede un alto grado di realtà,
ed arte, passione per il vivere,
ed io non sempre … Ah, incapace
– o interdetta – d’estro, fantasia,
o pigra, inerte – non ogni giorno,
non sempre, non ogni giorno t’amo.

 

Prima della notte

Dammi la mano, prima che il buio
si tenda – come un arco mortale –
nella stanza. E sia la notte, poi
– l’oscura freccia. Ma l’infantile
pausa delle dita che salgono,
si sfiorano (ragnatele gettate
o sfida dondolante), fletta
l’invisibile un attimo: il tempo
d’un respiro, d’un buio caldo …
lo spazio di sentire che io
mi perdo, ma tu resisti ancora.

 

In mezzo a tutti, un viso

Per me, tu sei il più bello in mezzo a tutti
sempre, da anni – anche se un uomo
m’attrae lo sguardo col netto profilo
che ti sfida e dichiara gioventù.
Non so perché. Tanti rapidi volti
si promettono, e pure … Son rapidi
– non hanno la bellezza d’una storia
quale racconta il tuo, ogni qual volta
s’alza verso di me. Solenni fatti
avvenuti ridicono i tuoi occhi
in una nuova luce, balenando.
Cosi il tuo viso non è mai finito.

 

Compleanno

Giorno di fine giugno … Il cielo entrò
nel Cancro, quarantanni or sono,
come infinite volte precedenti.
Solo, una scintilla, o un clic,
lo scatto imprevedibile del caso,
un attrito che ci resta ignoto,
dal gravitante ritmo delle stelle
esplose la tua vita, quella volta.

Ed ora, fermo, esisti, incarni
il mio destino, non credi al cielo,
e ridi degli auguri che ti faccio.

 

Ritratto

In un antico cortile di Trastevere
brillano, fra le foglie, lampadine. Pezze
turchine cadono – dal cielo – alle ringhiere,
fra le strida dei gatti che s’arruffano.

Tu sbricioli del pane … Alzi la testa,
freni le dita, esclami in uno scatto:
Mi travolge, quest’odore della vita,
che cresce, cresce a dismisura. Vecchio,

cosa vuol dire? Cento vite non bastano
a farne una! E chiudi il pugno, a sfida.
Io, inseguo la torma delle briciole
a zig zag, con la punta del coltello.

Tu parli come il vino. Io ti sorseggio
adagio. Uva scura splendono i tuoi occhi,
ora che taci, che in silenzio fermenti.
Ma già ribolli. Già esclami: Lo so,

il destino, a me, nega di invecchiare.
Come una brocca rovesciata, inclino
verso di te: un’ultima goccia, sento,
che si spande … Ma di cupo trionfo

s’allarga la tua voce, e dice: Lo so,
che morirò, stroncato, per la strada.

 

Il calendario dei sogni

Come, come devo essere invecchiata.
Me ne accorgo dai sogni. Talvolta, fra noi due,
si ripete – in una stanza strana –
la stessa situazione: con cupo slancio,
ma muti, e fermi i corpi, ci guardiamo.
Il tempo brucia. Il silenzio infuoca.
Ma nulla avviene. Niente è ancora nostro.
Mio padre, infatti, appare sulla porta.

Ora che ai piedi del letto, docile,
il tempo s’accovaccia; e che la porta
resta sempre chiusa (come voleva
il cieco desiderio), perché mai torna
– gioiosa, e toccante più d’un sogno –
quella pena d’allora, quella non-vita?

Ecco. Quella porta chiusa – è troppo chiusa.
E il bel viso, che il sogno mi riporta,
l’hai ceduto alla notte, barattato
in cambio della vita che ti ingrigia.

Poiché il cuore fugge sempre troppo avanti
o troppo indietro, e mai il momento è giusto
per dire: sono libero e felice
– avanza o indietreggia il desiderio
dentro i sogni. Ma se dà d’un passo indietro,
come nel mio, è segno che si è vecchi.

 

I fuochi

Tutto l’amore dato; i baci consumati;
le invenzioni gaie; i fuochi degli amanti;
questo – che fu il meglio: la terra rischiarata,
– in quest’eterno istante, che ritenti e vivi,
discende nelle dita. Un caro suono antico
rende ogni mano che trema sopra un seno.

 

Due verità

È assurdo: assurdo, chiederti di vivere
perché, senza di te, io non potrei …
La vita che ti è data – è solo tua.
Io non sono che una retta parallela,
tracciata per caso e per pazienza.
La nostra corsa non tende all’infinito,
e dunque … Ammettiamo il zig zag.
Sia pure, l’oscura divergenza,
il tratto brusco che devia. Come
tutto questo – che è vero, e suona chiaro
alla forte ragione, ulula
basso, tetro, planando verso il cuore.

 

Un calcolo sbagliato

Hai tratto una rapida somma dai mesi,
dagli anni. Scherzando, hai detto al tuo amico:
«Pensa un po’» (io, già con vergogna, aspettavo)
«son vent’anni che lei vive con me!».
«Troppi» ha riso l’amico. «Sí, son troppi
davvero» ho concesso. – Ripensandoci,
che calcolo sbagliato! Dovevi, caro,
duplicare per le notti: tutte quelle
che ho vissute nei sogni con te.
Allora – rifai i conti: quasi il doppio
sono gli anni che abuso del tuo cuore.

 

Come un motivo

Come un motivo cantato senza voce
adesca il corpo in taciturna musica,
e la musica sale e si rigira,
e dolcemente infuoca una spirale,
e tace, la bocca – tace, la bocca chiusa
anche se lente si disegnano figure
d’una danza intrecciata, e se quel battito
le stringe – crescendo – più veloci, veloci
a ridosso di te, più strette, più veloci,
turbinio di figure … Tace la bocca,
e il viso non tradisce. Questa creduta
musica, che ad ogni giro m’avvicina
al tuo corpo lontano – come a un motivo
amato (ma niente, in me, tradisce),
mi insegna come inganni, il desiderio.

 

Il cielo delle sei

Floscio cuscino che premi sulla bocca,
mi soffocai col cielo delle sei,
d’inverno – nel tempo ch’è passato.
(Conoscevo l’attesa, non il tuo nome.)

Poi, alle sei d’ogni sera, ti conobbi
o ti incontrai. Vampe di silenzi
stordivano il cielo … – che dimise
l’irrimediabile tristezza delle sei.

Ora, altri inverni, è sera,
il cielo che si inoltra sulle sei,
e molli chiaroscuri – come un cuscino
gualcito da una testa irrequieta.