Avviare processi di decarbonizzazione non piace alle imprese e quindi neanche ai governi. Non c’è scampo: per spezzare il circolo vizioso più crescita, più disastri ambientali, più povertà, bisognerebbe riuscire a immaginare in basso un nuovo sistema sociale fondato su valori non economici, su relazioni internazionali non egemoniche, demilitarizzando gli stati, e su stili di vita non consumistici.
A ben pensarci, chi ha stabilito che un barile di petrolio vale oggi 114,89 dollari e una tonnellata di C02 emessa in atmosfera 83,08 euro? Il mercato, direte voi, secondo la regola della domanda e dell’offerta, più le “tasse” che per un motivo o un altro vengono imposte dai decisori pubblici. E se invece stabilissimo, molto semplicemente, un tetto netto annuo (Cap senza possibilità di Trade) in diminuzione delle emissioni (modulato come meglio si crede, tra i settori e le attività) oltre il quale si spengono le ciminiere, si tappano i tubi di scarico, si azzerano le emissioni dagli allevamenti, si chiudono i condizionatori e così via? Niente da fare, mi direste subito. Si provocherebbe una fuga di imprese in paesi più tolleranti, ovvero diminuirebbe l’occupazione, quindi i redditi, quindi… si verificherebbe quel “bagno di sangue” che il nostro ministro contro la transizione ecologica continua a paventare. Meglio rischiare una siccità ogni estate e una alluvione ogni cambio di stagione. Tanto più che il caldo fa aumentare gli acquisti di bibite gasate e le alluvioni fanno crescere la spesa pubblica per riparare i danni. Il Pil aumenta anche grazie ai disastri. E alle guerre.
Ma – ipotizzo io, da economista con le scarpe grosse del contadino – stabilire una tabella di marcia rigorosa alla decarbonizzazione dell’economia farebbe salire di molto il valore dei beni e dei servizi alternativi (utili ad aumentare l’efficienza degli impianti esistenti, necessari per ricavare energie da fonti rinnovabili, per spostare i consumi e così via), poiché – secondo le leggi del mercato – salirebbe la loro richiesta. Quindi il bilancio complessivo del monte valore economico perduto sul versante dei fossili verrebbe rimpiazzato da quello creato sul versante della sostenibilità. Così come il bilancio statale che potrebbe liberare parte delle spese oggi impegnate per riparazioni, risarcimenti, incentivi.
Troppo semplice, direte ancora voi. Le merci che incorporano un alto contenuto di carbonio (a causa del loro processo produttivo e di trasporto) potrebbero rientrare dalla finestra con le importazioni. Dal collasso climatico non ci si salva da soli. Cina, India, Brasile, Turchia… chi li ferma? Potremmo farlo noi, paesi ricchi, imponendo una tassa sul carbonio a quei prodotti importati che non soddisfano determinati standard climatici nella produzione. Ma nemmeno questa ragionevole proposta della Commissione europea (Carbon Border Adjustment Mechanism, si chiama) è stata approvata dal parlamento di Bruxelles. Il rischio è che i prodotti di importazione, notoriamente più economici (e sappiamo perché) possano subire forti aumenti di prezzo e sarebbero proprio i consumatori più poveri a subirne le conseguenze in termini di minore capacità di acquisto.
Non c’è scampo: per spezzare il circolo vizioso: più crescita, più disastri ambientali, più povertà, bisognerebbe riuscire a immaginare un nuovo sistema sociale fondato su valori non economici, su sistemi di scambio non finanziarizzati (evitando l’emissione di monta creata come debito), su relazioni internazionali non egemoniche (demilitarizzando gli stati) e competitive, sulla diffusione gratuita dei ritrovati tecnologici (limitando diritti d’autore e brevetti), su modi di produzione cooperativi e democratici (liberando il reddito dalla prestazione di lavoro salariato), su stili di vita non consumistici (mettendo al bando l’obsolescenza programmata e la pubblicità ingannevole).
Insomma, dovemmo riuscire a immaginare un modello di società postcapitalista. Questione tanto epocale, quanto urgente.