E’ arrivato il momento di cambiare il corso della storia, partendo dal passato”. Da qualche mese, negli spazi pubblicitari della metropolitana di Londra si legge questa scritta, in rosso su sfondo arancione. Non si tratta di qualche trovata strana, bensì della pubblicità di uno dei testi più innovativi, radicali e stimolanti degli ultimi anni. Forse di sempre.

Tradotto e pubblicato in italiano dalla Rizzoli, “L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità” (in inglese: The Dawn of Everything. A New History of Humanity) è il libro scritto a quattro mani da David Graeber e David Wengrow, frutto di oltre dieci anni di lavoro da parte dei due autori. Un flusso continuo, tra scambi di testi e conversazioni che da quotidiani sono diventati sempre più intensi con l’andare del tempo, come ricorda David Wengrow nella prefazione del libro, dedicato alla memoria dell’amico. “Il progetto era di scrivere un sequel di almeno tre libri”, scrive Wengrow, ma la prematura scomparsa di Graeber ci ha lasciato con questo unico volume, ricco di stimoli e domande aperte da continuare ad approfondire.

La sfida dei due autori, un antropologo e un archeologo, ruota attorno ad alcune delle domande che molte e molti di noi si pongono, guardando alla società in cui viviamo e a un modello estrattivista dove concentrazione e accumulazione di ricchezza e di potere viaggiano mano nella mano, guidando la nostra società verso il collasso ambientale e climatico, ma anche sociale. Una società, la nostra, profondamente diseguale, che le scienze sociali da Jean-Jacques Rousseau in poi ci dicono essere inevitabilmente così. Siamo sicuri che questa sia una verità incontrovertibile? L’evidenza raccolta dagli scavi archeologici negli ultimi decenni sembrerebbe raccontare delle realtà diverse. Quelle di società estremamente organizzate, in cui per migliaia di anni donne e uomini hanno vissuto in insediamenti anche molto grandi, che continuano a rimanere fuori dalla narrazione mainstream della storia dell’umanità. L’assenza di grandi palazzi tra i ritrovamenti ha fatto desumere che non ci fosse accumulazione di ricchezza, che forse per questo si trattasse di forme sociali “semplici”. La loro complessità, dicono gli autori, facendo riferimento per esempio agli insediamenti nella regione del Mar Nero, stava nelle strategie adottate per prevenire che qualcuno traesse vantaggio dal surplus generato dalle attività economiche. Ovvero l’evidenza dice che un surplus venisse generato, ma negli otto secoli in cui migliaia di persone, fino a 10mila, hanno vissuto qui tra il 3000 e il 4000 AC, non c’è evidenza di guerre o di ascesa di élite. L’apparente uniformità delle costruzioni, la struttura a cerchio dell’insediamento, ci raccontano che queste antiche città sono state costruite dal basso, attraverso un processo decisionale locale, e che ciascuna famiglia condivideva la cornice concettuale dell’intero insediamento. Oggi la struttura a cerchio esiste ancora ad esempio nei tradizionali insediamenti baschi sugli altipiani dei Pirenei, nel sud-ovest della Francia. In queste società, dicono gli autori, la forma circolare enfatizza l’idea di eguaglianza tra le abitazioni e le famiglie: “tutti abbiamo un vicino a destra e uno a sinistra. Nessuno viene per primo, e nessuno per ultimo”.

Per migliaia di anni, ben prima dell’Illuminismo, donne e uomini erano attori politicamente coscienti che sperimentavano modelli di società diversi, passando con flessibilità da una tipologia a un’altra. Dalle grandi pianure del continente americano fino all’Europa centrale e all’Asia, l’evidenza sembra suggerire che le forme organizzative potessero essere legate in alcuni casi alla stagionalità: le famiglie delle grandi pianure si riunivano per la stagione della caccia al bufalo, dotandosi di strutture gerarchiche e di una polizia, per poi disperdersi in gruppi piccoli e mobili per il resto dell’anno. Graeber e Wengrow ricordano che sono molti gli antropologi professionisti ad avere segnalato l’inadeguatezza di un metodo che studia le società dividendole tra semplici e complesse. Tuttavia, sottolineano, nessuno di questi professionisti ha proposto delle alternative. Lo sguardo degli autori radica ogni osservazione in centinaia di paper accademici scritti negli ultimi decenni, peer reviewed da centinaia di professionisti archeologi e antropologi, e poi messi cautelativamente da parte dall’accademia mainstream. Pur di non mettere in discussione i numerosi assunti su cui la narrazione dominante si fonda, per esempio quella della storia dell’umanità come una serie di tappe successive, marcate da “rivoluzioni” – da quella agricola a quella industriale – che avrebbero segnato il passo della civiltà europea e che le evidenze degli ultimi decenni sembrerebbero mettere in discussione.

Una delle domande che gli autori si pongono, e su cui scelgono di condividere le proprie riflessioni, è particolarmente rilevante oggi, in un contesto in cui non sembra esserci lo spazio politico per rivedere la struttura delle nostre società nonostante le sfide epocali che stiamo vivendo. Se il nostro modo di vivere deve cambiare profondamente, cosa possiamo tenere e di cosa invece ci dobbiamo liberare? Siamo sicuri che le istituzioni attuali siano le più ad adatte ad affrontare sfide globali come i cambiamenti climatici? Se sfruttamento e disuguaglianza sociale continuano a crescere, forse non ha senso interrogarsi sulla loro origine, ma su come siamo finiti in una situazione in cui ci siamo bloccati in una forma sociale che le rende strutturali. Per immaginare nuovi modi in cui potremmo vivere, è importante ricordare che per migliaia di anni chi è venuto prima di noi ha saputo cambiare con una flessibilità che fatichiamo a ritrovare. Forse è proprio da alcune di queste domande che avrebbe senso ripartire.