Ventitré uomini, membri della “confraternita” di un corpo di polizia, torturano, terrorizzano, minacciano a morte l’esistenza umana. Foto ANDREA SIMOPOULOS
“Il teatro appartiene allo spettatore. È il suo spazio personale. Non credo nei metodi, nelle scuole, negli insegnanti. Credo nell’esperienza dello spettatore. Fa spettacolo” – Romeo Castellucci
Lo spettacolo “Bros” si svolge nel momento in cui è composto sul Main Stage del Roof. Non c’è testo, né attori professionisti, né prove precedenti della rappresentazione, che richiede ampi spazi scenici, anche aperti, per diffondere in tutta la sua estensione la dimensione della disgustosa violenza che produce. La domanda che Romeo Castellucci suscita nel pubblico del teatro è se possa esistere uno standard di interpretazione scenica, rappresentazione e, in definitiva, convenzione teatrale che costituisca un codice stabile di comunicazione dell’artista con la realtà senza uscita della violenza brutale in ogni aspetto della vita moderna.
L’indagine di una nuova versione del tragico, uno degli elementi della magia dell’opera.
Il regista italiano lavora in armonia con il musicista Scott Gibbons e introduce un nuovo linguaggio, ovviamente post-teatrale. La negazione del codice psicologico e realistico, l’alienazione dagli elementi delle convenzioni tradizionali nella struttura e nella drammaturgia dell’opera teatrale e l’esplorazione di una nuova versione del tragico, costituiscono l’identità e la magia della sua rappresentazione. Come artista con una speciale impronta personale, rinnova il “teatro dell’immagine” attraverso la prospettiva dell’approccio filosofico alle impasse contemporanee. Quello che vediamo in scena, con l’avvento di molte immagini, come quella di S. Beckett, scompone ogni forma di convivenza del linguaggio e della comunicazione. Come nei sogni, così nel suo teatro, lo spettatore dovrà formare le proprie “costellazioni” e risolvere l’enigma posto dal rituale della performance. I suoi debiti con il teatro di G. Grotowski, M. Wilson e anche con il teatro della brutalità di A. Artaud sono evidenti. Il crepitio di una mitragliatrice saluta gli spettatori. Il senso di terrore, il clima di guerra e di violenza e il rumore scioccante giustificano i tappi per le orecchie che troviamo sui nostri sedili. Ventitré uomini, membri della “confraternita” di una forza di polizia, formano gruppi di corpi spesso allineati attorno alla struttura di danza di un’antica tragedia e guidano due o tre di loro, che sono forse gli unici attori professionisti del gruppo. L’unica convenzione che si osserva tra il regista e gli uomini è di obbedire agli ordini che ricevono tutti insieme o in parte dal loro regista, senza che questi ordini vengano percepiti dal pubblico. Non agiscono da soli, non improvvisano, ma come massa armata di persone, corpo omogeneo di esecutori, svolgono l’unico lavoro che conoscono: la violenza. Torturano, terrorizzano, insultano la dignità dei prigionieri, estorcono la libertà, picchiano furiosamente, minacciano fino alla morte l’esistenza umana. La sincronizzazione dei loro corpi pulsanti alla fine è una scena dinamica che raffigura la debolezza che si nasconde sul lato invisibile di tutto il potere. In definitiva, lo spettacolo di Castellucci non denuncia la brutalità della polizia. Lo usa come occasione per portarci a una riflessione: quale posizione prende ciascuno di noi nei confronti della violenza, da qualunque parte provenga. Questo è uno studio sul fenomeno dell’esercizio e dell’abuso di potere. Castellucci combina le immagini con i significati e raggiunge un unico obiettivo, permettere allo spettatore di pensare da solo al suo rapporto con la violenza di tutte le forme. È una forma di introspezione. Noi come soggetti esercitiamo violenza, anche inconsciamente, a volte anche verso noi stessi?
La forma metadrammatica attraversa un interessante ciclo drammaturgico. Il rumeno Valer Dellakeza nel ruolo del vecchio biblico Geremia, vestito di bianco, profetizza all’inizio dello spettacolo che la perdita del sentimento religioso porterà alla fine alla distruzione della specie umana. E il ragazzo nel finale, vestito anche lui con un mantello bianco e con solo le insegne dei F.lli sul petto, viene assorbito dal potere della “fratellanza” delle vesti, privandola di ogni speranza. Dopotutto, i bambini esprimono l’innocenza nell’arte e finché ci saranno degli innocenti, “ci sarà il massacro della loro innocenza”.
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Rhea Grigoriou è dottore di ricerca in Storia – Drammaturgia, professoressa presso il Dipartimento di “Cultura Greca” dell’EAP. Fonte: kathimerini.gr
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