Quale sovranità digitale? Con la crisi energetica difficile persino produrre chip

La fabbricazione di circuiti integrati richiede decine e decine di complessi passi tecnologici. Sono operazioni a livello nanometrico (miliardesimi di metro) di protezione selettiva di fette di silicio, deposizione di materiali, diffusione o rimozione di materiali da regioni non protette. Il tutto con accurati sistemi di attacco chimico, con forni con temperature che vanno da centinaia a più di mille gradi, e ambienti ultra-puliti con continui ricicli di aria. Ad esempio, il grado di pulizia della classe ISO-1 non ammette più di 2 particelle di 0,2 micron per metro cubo d’aria (per fare un confronto, le camere operatorie usate per fare trapianti sono ISO-5 con 2370 particelle da 0,2 micron per metro cubo). Le macchine usate per la fotolitografia hanno costi altissimi (un sistema EUV, Extreme UltraViolet, della AMLS ha le dimensioni di un autobus e costa fino a 150 milioni di euro).

Il corpo della fabbrica poggia su enormi basi di calcestruzzo che evitano la pur minima vibrazione. Il tutto ha costi che crescono a dismisura con l’avanzare dei processi tecnologici.

Una fabbrica completa (edificio e attrezzature) che costava un miliardo di dollari Usa agli inizi del 2000 ora costa tra otto e i quindici miliardi di dollari Usa.

Costruire una fabbrica per chip non è allora una cosa da poco, e come vedremo, non è rilevante solo da un punto di vista economico, ma anche politico e strategico.

La delocalizzazione di fabbriche taiwanesi recentemente stimolata ha una motivazione prevalentemente politica; avere la produzione a Taiwan così vicina alla Cina è un rischio per i clienti, in particolare, quelli occidentali. Per questo Taiwan ha dovuto accettare, certo a malincuore, di costruire nuove fabbriche in Giappone, Europa e Usa.

Per capire le motivazioni strategiche, in subordine a quelle politiche, bisogna analizzare costi e benefici. I costi riguardano la disponibilità di mano d’opera specializzata, le necessità di acqua e energia, e i problemi ambientali.

Per la mano d’opera, serve personale altamente qualificato disposto a fare turni che coprono le 24 ore di ogni giorno dell’anno; le fabbriche costano parecchio e devono operare in continuazione. Questo è un problema negli USA: una delle più grosse difficoltà di TSMC, che sta costruendo una mega fabbrica in Arizona, è il “conflitto di cultura del lavoro” [1]. I taiwanesi accettano di lavorare in turni di otto e più ore, “scafandrati” per muoversi negli ambienti ultra-puliti. Gli americani sono, al contrario, riluttanti. Trovare laureati disposti a fare la vita di un operaio turnista è difficile e impiegare laureati taiwanesi non è certo una soluzione. Quindi, dato che il lavoro è “disagiato”, le fabbriche devono nascere in regioni dove si trovano (o si spera di trovare) dipendenti “Taiwan-like“.

Una fabbrica di semiconduttori ha bisogno di grosse quantità di acqua. Un articolo di Williams, Ayres e Heller del 2002 [2], stima che servano dai 18 ai 27 litri per centimetro quadro di chip prodotto. Se la produzione di una mega-fabbrica è 1,6 milioni di fette da 12 pollici equivalenti, si hanno 1,13 miliardi di centimetri quadrati di silicio. Con 20 litri di acqua ultra-purificata per centimetro quadro, si arriva a 22,6 miliardi di litri d’acqua, ovvero, 22,6 milioni di metri cubi. Supposto che il 75-80% sia riciclato, la necessità è tra i 4,5 e 5,6 milioni di metri cubi di acqua all’anno. Il consumo quasi raddoppia ogni avanzamento tecnologico. Dato che dal 2002 ci sono state cinque transizioni, è lecito supporre che, pur tenedo conto di un migliorato riciclaggio, il consumo di acqua odierno sia dieci volte superiore: 45-56 milioni di metri cubi. Il risultato è pari al consumo di 450-560 mila persone (100 metri cubi all’anno per persona).

Consideriamo ora la necessità energetica. Questa dipende dal nodo tecnologico; come indicato da M.G. Bardon e B. Parvais dell’IMEC [3], l’energia richiesta è 850 kWh per fetta per il nodo 5nm. Valore che va a 1150 kWh per il 3nm. I dati sono per una produzione di 210 fette all’ora, ovvero, circa un milione all’anno. Il consumo diventa allora 850GWh per i 5nm e 1,15TWh per il nodo 3nm. Dato che il consumo medio annuo per famiglia è 2700 kWh, una fabbrica 5nm consuma ogni anno come 314 mila famiglie. Si sale a 426 mila famiglie per i 3nm.

L’ impatto ambientale è sorprendente. Il citato articolo di Williams, Ayres e Heller stima un uso di 45,2 grammi di sostanze chimiche ogni centimetro quadrato di chip realizzato con una tecnologia consolidata. Queste sostanze comprendono formule chimiche (come l’arsenico) in quantità minima, ma anche 7,8 grammi di acido solforico al 96%, 7,6 grammi di soda caustica, 4,3 grammi di acqua ossigenata al 30%. I prodotti vengono smaltiti all’85% con circa sei grammi residui dispersi nell’ambiente. Con 700 milioni di centimetri quadrati di produzione annua (un milione di fette), si hanno 4,200 milioni di Kg di materiale chimico, in parte pericoloso, dispersi in un anno. L’articolo di Bardon e Parvais fornisce informazioni sulle emissioni di gas per i processi avanzati. Usa come parametro il CO2 equivalente che è la quantità di anidride carbonica che ha lo stesso impatto ambientale del gas emesso. Per il nodo 5nm si hanno 250 kg/fetta di CO2 equivalente, per il 3nm si sale a 310 kg/fetta. Con un abbattimento del 95% e un milione di fette all’anno si ha un residuo di 12,5 milioni di kg e 15,5 milioni di kg per i nodi 5nm e 3nm rispettivamente, pari al CO2 emesso da un’auto che brucia 5,5 milioni e 6,7 milioni di litri di benzina (2,3 kg di CO2 per litro).

I benefici dipendono dalle condizioni operative. Se la fabbrica offre servizi ad altri, ad esempio le “fab-less“, e opera in regime di monopolio tecnologico, si hanno buoni margini. TSMC, ad esempio, monopolista di fatto dei nodi sotto 20nm, ha alti margini operativi (nel primo trimestre del 2021 ebbe un utile record del 39.5% [4]). Nel caso in cui esistano molte fabbriche con uguali potenzialità tecnologiche, il servizio di fabbricazione non è un affare. Avere una fabbrica per i propri prodotti ottimizza la produzione e protegge la proprietà intellettuale.

I profitti non vengono dalla fabbrica, che invece è un onere finanziario, ma dai prodotti che, con prestazioni superiori, battono la concorrenza.

Le soluzioni ottimali sono allora due:

1) essere una fonderia di silicio con processi estremamente avanzati.

2) avere fabbriche proprietarie con processi avanzati che soddisfano le necessità produttive, possibilmente dislocate nelle regioni dove si trova personale con una adeguata conoscenza, disponibilità di acqua ed energia e, eventualmente, dove ci sono rilassate regole di protezione ambientale. Se poi le regioni ospitanti offrono co-finanziamenti o benefici fiscali, è ancora meglio.

Quanto sopra porta a concludere che costruire fabbriche in Europa avrebbe una rilevanza sia politica che strategica. Per l’appunto, Intel sta costruendo in Germania (a Magdeburg) due fabbriche per un costo stimato di 17 miliardi di dollari Usa (fonte Reuters). C’è anche in corso una trattativa (un po’ segreta) per costruirne una fabbrica Intel in Italia con un contributo sostanziale del governo. L’americana Global Foundries ha un accordo con l’italo-francese STM per duplicare la fabbrica di Crolles in Francia. È previsto un grosso sostegno finanziario francese, ma la produzione sarà condivisa (42%-58%).

Il condizionale “avrebbe rilevanza sia politica che strategica” del paragrafo precedente è d’obbligo: l’esagerato aumento del costo dell’energia potrebbe scombussolare i piani di realizzazione di fabbriche per produrre chip.

NOTE

[1] https://www.eetimes.com/tsmcs-arizona-culture-clash/

[2] The 1.7 Kilogram Microchip:  Energy and Material Use in the Production of Semiconductor Devices, https://pubs.acs.org/doi/10.1021/es025643o

[3] https://www.eetimes.com/the-environmental-footprint-of-logic-cmos-technologies/

[4] https://seekingalpha.com/article/4419241-i-remain-bullish-on-taiwan-semiconductor-post-earnings

Franco Maloberti ha conseguito la Laurea in Fisica (con lode) presso l’Università di Parma, Italia, nel 1968, e il Dottorato Honoris Causa in Elettronica da Inaoe, Puebla, Messico, nel 1996. È stato Professore di Microelettronica presso l’Università di Pavia, è stato il TI/J. Kilby Analog Engineering Chair Professor presso la Texas A&M University e Distinguished Microelectronic Chair Professor presso l’Università del Texas a Dallas. Attualmente è Professore Emerito presso l’Università di Pavia, e Professore Onorario all’Università di Macao, Cina SAR. Ha più di 600 pubblicazioni scientifiche, ha pubblicato dieci libri ed è titolare di 40 brevetti. È il Direttore della Divisione I dell’IEEE, è stato Presidente dell’IEEE CASS e dell’IEEE Sensor Council. Ha anche servito l’IEEE in numerose posizioni di responsabilità. Nel 1999 ha ricevuto l’IEEE CAS Society Meritorious Service Award, la CAS Society Golden Jubilee Medal nel 2000 e la IEEE Millenium Medal. Ha ricevuto l’IEE Fleming Premium nel 1996, l’ESSCIRC 2007 Best Paper Award e l’IEEJ Workshop 2007 e 2010 Best Paper Award. Ha ricevuto il premio Mac Van Valkenburg della IEEE CAS Society 2013. È Life Fellow di IEEE.