A colui il quale gli anni hanno concesso la chance di diventare testimone oculare della propria vecchiaia e di starsene a guardare come la sua carne, che si è comunque già immeritatamente conservata tanto a lungo, inizia, oggi qua e domani là, a deteriorarsi – come a costui possa rimanere estraneo il pensiero del morire, mi è incomprensibile. È davvero sorprendente quanto lontano, nella coscienza dell’uomo contemporaneo, l’idea di «morire» si sia sviluppata da quella di «malattia», e in particolare di «vecchiaia». Un tempo, qualsiasi contadino sapeva più di quanto noi sappiamo oggi. E ciò detto, non voglio certo esprimermi in favore di una concezione della vita come «malattia mortale», oppure della pretesa di Heidegger di vedere nella morte, anziché l’uomo con la falce, quello con la frusta che – per così dire – ci infligge l’«esistenzialità» a suon di colpi.
Che le ferie dal nulla che si chiamano «vita» abbiano una fine, naturalmente non dovremmo dimenticarlo. Ma, durante le ferie, godiamoci la colazione sul lago. Conviene. Se invece ci proponessimo, e già nel viaggio di andata, di trascorrere le quattro settimane col pensiero che dovremo presto tornare a rintanarci nell’ufficio del non-essere, in questo caso le ferie non le avremmo meritate. Nessuno ne ha sempre e comunque diritto. E quel che nel proverbio italiano vale per Napoli: «prima la vedi e poi muori», vale anche per l’esser-ci in quanto tale.
Vienna, 1959
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In questi brevi frammenti con testo originale a fronte, Günther Anders riflette con un tono a metà tra la gaiezza e il pessimismo sul futuro destino dell’uomo e dell’umanità, a partire dalla loro odierna condizione morale ed emozionale. In essi giungono a massima espressione tanto il suo profondo acume filosofico quanto la sua notevole virtù letteraria che avevano indotto Cesare Cases a parlare di Anders come dell’“unico sopravvissuto di quella generazione di ottimi fabbri tedeschi del parlar materno che va da Simmel a Bloch”.