C’è un carattere totalitario e omologante del linguaggio globale che accompagna le relazioni di dominio. Ma è all’interno della lingua stessa che la lingua va combattuta, sviata. Abbiamo bisogno, per dirla con Barthes, di imparare a sovvertirla, per liberarla dal dominio del mercato, per farne un bene comune, un luogo palpitante in continuo divenire.

 

Linguaggio e potere: un rompicapo

Il numero primaverile di Jacobin Italia (14/2022) è largamente dedicato al rapporto tra linguaggio e potere. Tema quanto mai intrigante. Esordisce l’editoriale: “ogni conflitto sociale, ogni lotta che si ponga il problema di mettere in discussione gli assetti dati di potere, è anche una battaglia attorno alla lingua”. E proprio su questa lunghezza d’onda s’intrecciano una serie di interventi in cui vengono declinate le possibili articolazioni di questo conflitto avente come centro la lingua. Di molto si parla e, soprattutto, da diversi punti di vista: ad esempio del rapporto tra linguaggio e diseguaglianze, con le proposte dal “basso” – da parte di chi si trova marginalizzato/a – per sanare tali fratture nonostante i continui ostacoli che stanno incontrando le esperienze di inclusione linguistica; dell’impoverimento e del degrado delle potenzialità espressive di una lingua, fino alla drammatica estinzione di molti idiomi minori; dei meccanismi di washing linguistico pianificato da esperti di marketing e, all’opposto, della cancel culture denunciata da opinionisti reazionari. Di questo e di altro possiamo leggere. Alla fine l’auspicio è che i diversi contributi presenti costituiscano una fertile base di partenza per rilanciare una riflessione sempre più polifonica sul tema, in grado di arricchire il discorso attraverso altri interventi, anche da angolature differenti in modo da rendere sempre più multicolore il confronto.

Quanto segue desidera inserirsi in questa discussione, semplicemente un altro tassello all’interno del mosaico (o rompicapo, che si voglia dire) di interventi sul tema linguaggio e potere, ribadendo come queste considerazioni non sono divagazioni gratuite, aggiunte superflue dinanzi all’incombere di ben altre necessità, ma tutt’altro. Oggi ci troviamo di fronte alla presenza invasiva di un global language, apparentemente democratico, ma in realtà eterodiretto ed escludente, produttore e amplificatore di un impoverimento espressivo. Non a caso Andrea Zanzotto, poeta e insegnante, negli ultimi anni della sua vita denunciava i pericoli di questa neo-lingua da lui definita, con ironica rassegnazione, un “linguaggio pentecostale”, pan-terrestre, dominato dal mercato.

“La langue est fasciste”

È un dato acquisito che molti autori appartenenti al pensiero francese post-strutturalista godano attualmente di una certa attenzione per gli strumenti che permettono di leggere e operare sulla complessità odierna. Ad esempio Michel Foucault è sicuramente importante per un discorso riguardante il potere come sistema relazionale, quindi anche in merito alle incidenze sul piano linguistico. Ma è stato Roland Barthes, proprio in quanto linguista e semiologo, a sondare maggiormente le possibili e imprevedibili relazioni tra linguaggio e potere. Da lui vorrei partire, anche perché si tratta di un autore oggi rimasto in buona parte sullo sfondo.
Correva, non a caso, l’anno 1977 quando tenne dinanzi a un pubblico affollato la lezione inaugurale al Collège de France, al quale era stato da poco ammesso. E nel corso dell’intervento, per nulla accademico, c’imbattiamo in un’affermazione che fece non poco scalpore. La riporto (riprendo la traduzione da un’edizione pirata uscita in quegli anni, a cura di Stampa Alternativa, a riprova dell’interesse che suscitò ben al di fuori dal mondo degli addetti ai lavori):

“la lingua (…) non è né reazionaria, né progressista: è semplicemente fascista, perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a dire”.

Affermazione decisamente forte. Con ciò Barthes intendeva denunciare il carattere totalitario e omologante del linguaggio, a partire da tutte le relazioni di potere veicolate dalle regole grammaticali e dal lessico ereditato. Ma allora, se le cose stanno in questa maniera, per non divenire vittime/carnefici di un simile intreccio di linguaggio/potere che possibilità ci sono per comunicare, essendo noi sia animali sociali che animali parlanti?

Ciò che prospetta Barthes non è l’approdo a un’opzione apofatica, analoga a quella a cui era giunto Wittgenstein, quando nelle righe finali del Tractatus, dopo aver affermato che ciò che era dicibile andava detto chiaramente (cioè proposizioni delle scienze naturali), concludeva dicendo che su ciò di cui non si può parlare è opportuno tacere, sottintendendo però che le cose di cui non si poteva parlare erano le più importanti nella vita di un essere umano. Scartata questa opzione, il rapporto di odio/amore per tutto ciò che concerne il linguaggio conduce Barthes a esplorare altra via per giungere a una possibilità di un fuori-potere del linguaggio. Lui, molto semplicemente, chiama questo luogo letteratura. Perché proprio la letteratura? Cosa c’è di salvifico nella pratica della scrittura? Ciò che avviene è un corpo a corpo con la lingua, la quale può essere smontata e rimontata per raggiungere a una maggiore creatività ed espressività. Non è fuori, ma proprio all’interno della lingua stessa che la lingua va combattuta, sviata; impariamo a barare con la lingua, dice Barthes, per sovvertirla. Questo, in fondo, è quanto la letteratura ci trasmette, invitando a entrare nel gioco, non spettatori passivi del potenziale metamorfico del linguaggio ma soggetti attivi. Barthes vuole intrecciare qui, e lo dice espressamente, il “cambiare la lingua” di Mallarmé con il “cambiare il mondo” di Marx.

Ma la riflessione del grande semiologo non si limita a denunciare le relazioni e le implicazioni storicamente deducibili tra linguaggio e microfisica del potere, come fa Foucault. Va più in là. C’è un altro passaggio, potremmo dire da Foucault a Lacan, e al rapporto tra il linguaggio e ciò che linguaggio non è, il reale. Giusto per intendersi: ciò che chiamiamo reale per Lacan non è propriamente rappresentabile, sfugge sempre al soggetto in quanto cogito; in questo senso il reale è l’impossibile, poiché non si riesce a far coincidere un ordine pluridimensionale, composto da sensazioni, odori, colori, forme, suoni ecc., all’interno di un ordine unidimensionale e tutto sommato poco fluido, come il linguaggio. Ma il linguaggio attraverso la letteratura sta a testimoniare proprio questo desiderio senza fine: sfidare l’impossibile, giocare a rappresentare e comunicare ciò che non è rappresentabile. Del resto anche un autore molto differente come Benjamin, in uno scritto giovanile, sottolineava come nella lingua oltre al comunicabile transita sempre un aspetto non-comunicabile, esprimibile attraverso simboli. Merita pure osservare che il testo in questione (il cui titolo è già un programma: Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini) era fortemente influenzato dalla mistica ebraica, a riprova che non sempre la mistica si realizza nel silenzio.

Una funzione utopica del linguaggio

In questo senso il cercare di rappresentare l’irrapresentabile, inseguendo una serie di slittamenti progressivi ma senza fine, porta Barthes a proporre, in maniera un po’ ironica, l’individuazione di una differente funzione del linguaggio, ulteriore a quelle individuate e riconosciute nel mondo dei linguisti (funzione referenziale, emotiva, conativa ecc.), comunemente presenti nelle grammatiche e insegnate a scuola: Barthes parla qui di una funzione utopica del linguaggio.

Allora le pratiche di cui si parla nel numero di “Jacobin”, nate ai margini e nel mezzo di conflitti, attraverso le quali si rinominano le cose (“guerriglia linguistica” viene non a caso definita), come la creazione di neologismi o l’uso dello schwa o dell’asterisco come forme inclusive in mancanza nella lingua italiana del genere neutro, sono a pieno titolo collocabili all’interno di questa funzione utopica del linguaggio. In un testo precedente – Il piacere del testo – Barthes parlava anche della realizzazione di una “babele felice”, in cui la coabitazione di una pluralità di lingue non è più una punizione, come nel racconto biblico, ma una ricchezza da cogliere, un gioco a cui prendere parte. Ma, è bene aggiungere, affinché questa babele possa davvero dirsi felice e non marchio gergale di incomunicabilità, è necessario procedere in maniera dialogica e intersezionale, attraverso semplici ma indispensabili passaggi come l’ascolto e il confronto con chi si trova coinvolto/a in prima persona, come sottolinea Vera Gheno nel suo intervento sempre su “Jacobin”. Tutto questo è ciò che Barthes in fondo descrive nella sua lezione come una rivoluzione permanente del linguaggio. Ecco, questo situarsi dentro i passaggi cruciali, divenendo parte viva e attiva di un processo in costante divenire può realizzare la rivoluzione permanente del linguaggio, condizione necessaria e sufficiente per condurre a ciò che Donatella Di Cesare, nel medesimo numero della rivista, chiama il “comunismo della lingua”, bene comune, luogo palpitante in cui tutti siamo ospiti e nessuno proprietario, vera alternativa a quel global language del nuovo impero a cui si riferiva Zanzotto.

FONTE: comune-info.net