Dalla guerra delle fazioni al confronto tra i partiti. Presupposti della stasiologia di Maurice Duverger

Indice: Introduzione, 1. La lettura classica della stasis, 2. Il Leviatano e la città, 3. L’avvento della rivoluzione, 4. I partiti come male necessario all’anestetizzazione del conflitto

 

Introduzione

Per comprendere il nesso tra virtù politica e guerra civile, sembra utile ricordare il celebre mito della distribuzione dei doni degli dei agli umani e della conseguente nascita della città, paradigma monumentale e istituzionale della civiltà greca, contenuto nel dialogo Protagora di Platone.

Non appena tutte le stirpe mortali vennero alla luce, Protagora ricorda come gli dei ordinassero a Prometeo ed Epimeteo di distribuire con misura e in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali che avrebbero dovuto garantire loro la sopravvivenza. Quest’ultimo si incaricò personalmente di effettuare la distribuzione, ma una volta arrivato all’uomo si accorse di aver esaurito i doni a sua disposizione.

 

Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco — infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco — e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.

Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano[1].

 

Appare allora evidente come sin dalle sue origini la riflessione politologica aveva focalizzato, nell’armonia interna, la condizione indispensabile della sopravvivenza della città. Nel Protagora di Platone si racconta infatti che l’assenza delle virtù politiche determini negli uomini quella incapacità di vivere insieme. Il possesso della perizia tecnica consente loro di costruire l’architettura monumentale di una città e per analogia di determinare anche quella istituzionale ma non poteva alimentare la nascita di quelle virtù politiche alla base della convivenza umana.

«Una discordia intestina è tanto peggiore di una guerra condotta con unità di intenti di quanto la guerra sia peggiore della pace»[2]. Poteva stigmatizzare allora Erodoto consapevole del fatto che proprio l’assenza delle virtù politiche avrebbe determinato l’impossibilità di intraprendere quel cammino di progresso urbano peculiare della civiltà greca.

Ma il testo del Protagora suggerisce qualcosa di più inquietante. Gli uomini sebbene dotati di una perizia tecnica capace di costruire città e di alimentarsi attraverso l’agricoltura, una volta abbandonata la polis e precipitati di nuovo nella natura selvaggia, tornano ad essere facile preda delle fiere che la abitano. Il motivo risiede nel fatto «l’arte politica … comprende anche quella bellica» e quindi l’assenza della prima generare l’incapacità di difendersi. In questo senso il sofista di Abdera sembra anticipare il celeberrimo aforisma del generale prussiano Carl von Clausewitz «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi»[3].

Non possedendo alcuna virtù politica, gli uomini non possono ne’ abitare le città che hanno costruito ne’ affrontare i pericoli della natura selvaggia e rischiano così di perire. Temendo per la loro sorte, Zeus intervenne ordinando ad Ermes di infondere in loro aidos e dike, il senso della misura, ovvero il sentimento del pudore e della vergogna che si prova di fronte agli altri quando si trasgrediscono le leggi comuni, e la tensione alla realizzazione della giustizia sociale, creando le premesse per la loro trasformazione in cittadini, zooi politikoi.

Nella consapevolezza della importanza di tali doni, il padre di tutti gli dei chiese, inoltre, a Ermes di istituire una legge divina che punisse con la morte chiunque si fosse rifiutato di partecipare di un simile dono, accusato di essere os vosos poleos, come peste della città[4]. Chiunque si fosse rifiutato di confrontarsi con i propri concittadini, a partire da una base comune di condivisione, solidarietà e rispetto dei valori, ispirati a una superiore giustizia sociale, doveva essere considerato quale fonte della più pericolosa delle malattie, la discordia, e, quindi, essere ucciso per volere divino.

La stasis, così descritta, diventa, pertanto, un concetto da rimuovere dalla storia, «da Solone ad Eschilo una piaga profonda al fianco della città»[5], da consegnare all’oblio della memoria.

Da allora, salvo alcuni anatemi politici e poche descrizioni, tese più che altro a distinguerla dalla polemos[6], della stasis, come oggetto di riflessione politologica, si è persa sostanzialmente traccia. Del resto, «che una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi»[7].

 

1. La lettura classica della stasis

 

L’analisi della stasis sembra soffrire di un curioso paradosso: tanto questa viene analizzata da un punto di vista storiografico quanto invece sembra essere sottovalutata, se non persino rimossa da quella politologica. Le motivazioni di una tale lacuna epistemologica devono probabilmente essere ricercate nella impostazione riduzionistica che affliggeva la lettura del fenomeno, svolta dagli stessi autori greci, in particolare dagli storiografi, quali Erodoto, Senofonte e Tucidide[8].

Le opere di tali autori sembrano infatti accumunate dal curioso espediente di ricondurre le guerre civili, pur cruente e devastanti di cui sono stati testimoni

 

sempre e comunque in termini di pura lotta per il potere fra democratici e oligarchici o tra filoateniesi e filospartani, come se la forma di governo o la scelta di campo in politica estera costituissero degli obiettivi da perseguire di per sé e non, almeno nella maggior parte dei casi, degli strumenti da usare per conseguire altri fini[9].

 

Nel tempo, l’analisi politologica ha preferito appiattirsi sulle esigenze della ricostruzione storiografica, sottovalutando i rischi di della eccessiva semplificazione della lettura del fenomeno, che finisce con il sostanziarsi nel protagonismo distruttivo delle varie fazioni al fine di stringere, con uno dei due grandi contendenti, Atene e Sparta, una alleanza che fosse risolutiva del conflitto interno alla stessa polis.

Quando vi erano delle discordie, ogni volta era possibile ai capi dei democratici chiamare gli Ateniesi e agli oligarchi i Lacedemoni». Ricorda infatti Tucidide:

 

In tempo di pace non avrebbero avuto il pretesto e non avrebbero osato chiamarli, ma quando le due parti erano in guerra e ciascuna aveva a sua disposizione una alleanza per danneggiare gli avversari e per aumentare allo stesso tempo la sua forza, facilmente si otteneva che fossero inviate truppe in aiuto di coloro che volevano effettuare qualche mutamento politico[10].

 

Una simile impostazione, del resto, viene adottata per leggere il fenomeno delle lotte civili tra guelfi e ghibellini che hanno angosciato la penisola italica nel Basso Medioevo, laddove, evidentemente, il Papato e l’Impero prendono il posto di Atene e Sparta.

In tal senso, la chiosa esplicativa con la quale Machiavelli liquida il fenomeno, appare, chiaramente, significativa dell’arretramento del protagonismo storico e della diminuzione della rilevanza politologica, che il circolo vizioso della discordia cittadina e della lotta intestina comporta:

 

Le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e perciò furono sempre dannose; né stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto la setta inimica era viva; ma come la vinta era spenta, non avendo quella che regnava più paura che la ritenesse né ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva[11].

 

date queste premesse, non sembra essere più così singolare la superficialità epistemologica nei confronti della stasis, da parte di una analisi politologica che pare aver accettato e metabolizzato tutti i limiti di una impostazione storiografica dei termini della questione.

Peraltro, a ben vedere, sembrerebbero esistere anche altri motivi, questi di natura squisitamente politica per i quali la questione potrebbe dirsi risolta. Esaminiamoli in ordine che potrebbe essere definito, in questa sede e comunque con un certo senso, cronologico.

 

2. Il Leviatano e la città

 

Il primo motivo, volto a sostenere la plausibilità di una tale rimozione, risiede nelle caratteristiche che dovrebbe avere il rapporto che lega sovranità e potere, nella lunga stagione politica introdotta dal pensiero di Thomas Hobbes.

È proprio la famigerata immagine del mostro biblico torreggiante sulla città a suggerire l’ipotesi che tanto della stasis, quanto di una sua analisi, sia il cittadino che lo studioso possano farne a meno. Una immagine che riempie il frontespizio, legandosi al testo in una misura tale da andare oltre il mero valore simbolico o descrittivo.

Del resto, suggerisce Horst Bredekamp, nel suo Thomas Hobbes Der Leviathan. Das urbild des modernen states und seine gegenbilder 1651-2001, che il filosofo tedesco non avesse voluto semplicemente illustrare la sua opera, cercando una immagine capace di combinare gli attributi mitologici della bestia biblica con le esuberanti prerogative di quell’uomo artificiale, ma, soprattutto, che lui stesso non fosse capace «di pensare lo stato moderno, senza farsene un’immagine». La complessità della costruzione necessitava di una immagine mentale, capace di colmare «il vuoto tra rappresentante e rappresentato e [provvedesse] con ciò a eliminare il difetto simbolico del Leviatano in base al quale, nonostante esso sia un corpo, non è come tale rappresentabile»[12].

In questo senso il frontespizio disegnato da Abraham Bosse non è solo un topos culturale destinato a rendere riconoscibile l’idea e a fissarla presso l’immaginario collettivo, ma diventa parte integrante del successivo testo scritto, quale compendio critico, capace di elevare l’atto iconico a quello linguistico. Sin dall’inizio, grazie al magnetismo dell’immagine mostruosa, lo sguardo e la lettura del destinatario dell’opera, sebbene possano essere sempre distinguibili, ben difficilmente potranno essere separati[13].

Non è certo questa la sede per ripercorrere le diverse interpretazioni che sono state date alle numerose figure che compongono il disegno, ma, tuttavia, agli scopi del presente scritto, si impone la sottolineatura di un particolare, apparentemente secondario: la città sulla quale troneggia il mostro artificiale è sostanzialmente deserta. La città, che con le sue passioni commerciali e le tensione culturali tende alla eterogeneità culturale diventa rischiosa fonte di divisioni e quindi appare necessario, anche visivamente nell’immagine, che essa si svuoti[14]

Anche nel frontespizio De cive si può assistere ad una sintesi visiva dei cardini della riflessione politologica. In particolare, nel grande drappo a forma di anfora posto tra la rappresentazione tra l’anarchia della libertà dello stato di natura e la compostezza dell’imperium della vita civile, proprio sotto il titolo dell’opera, si legge una citazione biblica tratta dai Proverbi: «Per me Reges regnant et legum conditores iusta decernunt» [15]. Trattasi del versetto centrale di una terna che, in modo estremamente significativo, pretende di delineare gli attributi divini di quel Leviatano, che sarà chiamato nella storia ad interrompere l’eterno ripetersi del ciclo della violenza, per inaugurare finalmente il tempo della pace.

Un tempo che sorge artificiosamente, solo quando tutti i cittadini decidono di cercare rifugio nel corpo di quel mostro che li può proteggere.

 

E’ così possibile leggere il frontespizio [del Leviatano] non solo come la rappresentazione dello stato ma, soprattutto, come l’atto della sua continua fondazione. Se si pone attenzione all’immagine del frontespizio si nota, infatti, che la città e gli accampamenti che si trovano adagiati al cospetto del mostro sono vuoti, perché tutti i cittadini sono chiamati all’atto di istituzione dell’autorità che gli consentirà di vivere in pace e che gli imporrà di abbandonare, almeno parzialmente, le loro occupazioni private. In questo modo, appare chiaro che il dominio, che il Leviatano impone sulla dimensione dell’eterno conflitto tra gli uomini, non avviene una volta per tutte, ma è un atto che si ripete continuamente e necessariamente, proprio sulla scorta del fatto che gli uomini avranno in eterno la vocazione a farsi la guerra[16].

 

Per questa via, si può insinuare come l’immagine del Leviatano non declini solo la rappresentazione della mostruosa divinità, capace di intervenire sull’eterno corso delle cose naturali, stabilendo, una volta per tutte, come nuovo punto fermo della storia, un originale ordine di pace; ma, attraverso la solidità della sua costituzione del colosso, nell’evidente duplice significato, sia fisico che giuridico, possa anche esprimere quella tensione dinamica[17], necessaria all’esercizio effettivo del potere e, quindi, la capacità di intervenire nei momenti di grave incertezza politica e sociale e addirittura di crisi della stessa sovranità. Che per Thomas Hobbes potevano essere le successioni dei regnanti e per i contemporanei, invece, mutatis mutandis, i momenti elettorali.

Per superare tali momenti, appunto, diventa determinante che la compattezza degli anelli della corazza o delle squame della pelle del drago[18], che dir si voglia, sia priva di smagliature e, per questo, c’è bisogno che la città si svuoti e tutti i cittadini si stringano al mostro a paradossale garanzia della sua persistenza.

A ben guardare, però, la città non appare completamente vuota. Alcune figurine si mostrano in modo, invero, enigmatico e provocatorio allo sguardo attento del lettore, sono alcune guardie armate e due medici.

 

Francesca Falk ha richiamato l’attenzione sul fatto che le due figurine che stanno in piedi di fronte alla cattedrale portano la caratteristica maschera a becco dei medici della peste. Il particolare era [già] stato notato da Bredekamp, che non ne aveva tratto alcuna conseguenza; Francesca Falk sottolinea invece a ragione il significato politico (o biopolitico) che i medici acquistavano durante una epidemia: la loro presenza nell’emblema ricorda “la selezione e l’esclusione e la prossimità nell’immagine fra epidemia, sanità e sovranità”[19].

 

Non sembra, allora, neppure il caso di ricordare e approfondire l’accostamento della stasis al concetto di malattia nel pensiero politico greco[20]. Basterà qui accennare al celebre passaggio della Repubblica nel quale Platone descrive, con cinico realismo, le cause della metabolè politeion, il rivolgimento costituzionale, che segna il passaggio da una forma di governo all’altra.

 

Come dunque a un corpo debole basta ricevere una piccola spinta dall’esterno per ammalarsi, e talvolta è indisposto anche senza cause esterne, così anche la città che si trova in una situazione analoga si ammala ed è in conflitto con se stessa per un futile motivo, mentre gli uni invocano l’alleanza di una città oligarchica o gli altri quella di una città democratica, e talvolta scoppia la rivolta anche senza interventi esterni[21].

 

Come Thomas Hobbes ben sa, la naturale bellicosità degli uomini rende precaria la coesione e, per questo, il rinnovo del pactum subiectionis deve essere quotidiano, al fine di supportare dinamicamente la garanzia della pace. Nell’architettura costituzionale, che disegna la nuova città ideale, non c’è spazio per una agorà dove discutere e dividersi, l’un contro l’altro armati, né tanto meno un libero accesso per invocare l’intervento di un alleato.

Che la peste della discordia provenga dall’esterno o si alimenti dall’interno, poco importa. Quello che più rileva, per il filosofo britannico, è che la città, nei momenti più importanti e decisivi, quelli delle crisi socio economiche o quelli della successione del potere, sia sorvegliata da guardie armate ed anche, ma potremmo dire soprattutto, da medici.

 

3. L’avvento della rivoluzione

 

Se queste premesse possono essere ritenute accettabili, diventa più semplice comprendere come nell’orizzonte politico dell’era moderna la stasis abbia dovuto cedere il posto alla rivoluzione. Sia nella realtà dei fatti come nella analisi politologica, evidentemente.

Il vincolo negoziale caratteristico dell’era inaugurata dal pactum subiectionis non ammette, continue, disordinate e conflittuali revisioni delle clausole relative all’architettura costituzionale o all’ordine sociale, ma solo una eventuale riscrittura dell’intero contratto. Una riscrittura radicale, quanto violenta. Prima della edificazione del Leviatano, la società politica poteva muoversi in un orizzonte temporale ciclico, dove la violenza, per quanto brutale, si manifestava solo come un corollario di quel cambiamento di potere che appariva ai commentatori, come agli stessi cittadini, del tutto fisiologico.

Del resto, non è che

 

il termine rivoluzione fosse sconosciuto al linguaggio politico dell’età precedente. Ma secondo l’uso degli antichi, risalente in particolare al libro V della Politica di Aristotele dedicato all’analisi delle varie forme di trapasso da una costituzione all’altra, il termine rivoluzione era abitualmente adoperato per indicare ogni forma di mutamento, fosse anche soltanto politico e non anche sociale, fosse anche soltanto un cambiamento dei detentori del potere e non pure della forma di governo, e la sua estensione coincideva con quella del termine classicheggiante, proprio degli scrittori del rinascimento, “mutazione”, che traduceva l’aristotelico metabolé[22].

 

Come il Leviatano ebbe la forza di rivelarsi nella storia, si interrompe l’eterno ed immutabile ciclo delle alternanze dei regimi politici, quella anaciclosi elaborata da Polibio, che tanta fortuna aveva avuto nel mondo classico e in età umanistico-rinascimentale[23], e con la sua fine si predispone la surrogazione di un arcaico e rozzo strumento di redistribuzione del potere, quale era stata la guerra civile, con uno nuovo, ideale per le esigenze di palingenesi culturale e sociale che ci si apprestava a vivere, la rivoluzione. La nozione di progresso, come sviluppo lineare, non lascia spazio allo sterile ripetersi di sanguinose contese per la mera detenzione del potere, ma apre a profonde rivoluzioni, che, a dispetto della originaria etimologia del termine, diventano strumentali per la inaugurazione di un novus ordus seclorum. «Per arrivare alla prima rivoluzione che si dichiarasse tale, bisogna aspettare il 1789, e nel dichiararsi tale la Rivoluzione Francese rovesciò il significato astronomico del termine: “rivoluzione” non era più un movimento ritornante ma all’opposto un urto dirompente»[24].

Del resto, tale era l’assolutezza della cessione dei diritti prevista da quel contrattualismo, che va da Hobbes a Rousseau, che il fallimento delle promesse contenute nel patto diventa la premessa di un nuovo agire violento, rivoluzionario, appunto, indirizzato a cancellare radicalmente il passato e, soprattutto, a riscrivere una storia completamente nuova, per affermare un fine che non sia la mera redistribuzione del potere ma risponda a quegli obblighi ideali di giustizia sociale che avevano finito, in precedenza, con l’essere disattesi.

 

Il carattere ideologico della moderna concezione della rivoluzione consiste proprio in questo orientamento a considerare l’innovazione politica non semplicemente nei termini di un rivolgimento dell’organizzazione statale ad opera di forze politiche che contrastano con successo la legittimità del tradizionale detentore del potere, ma come ribellione della società civile portatrice dei valori del progresso contro lo Stato, strumento della oppressione e della conservazione […] “La révolution – afferma Robespierre – n’est que le passage du regne du crime á celui de la justicie”[25].

 

La presunta esistenza di una causa ideale di giustizia alimenta la superiorità etica delle rivoluzioni nei confronti delle guerre civili e si erge come cifra della sostituzione, nella storia politica come nella analisi politologica.

Appare, da ultimo, non privo di rilievo, il fatto, poi, che le stesse rivoluzioni stiano, invero, scemando e rischino anche loro di essere un retaggio di un passato non più ripetibile.

In occasione del ventennale del Sessantotto francese,

 

parlando dell’Occidente in generale e della Francia in particolare, Jacques Denoyelle aveva affermato che l’esperienza del socialismo autoritario e l’avvento dell’individualismo democratico si combinavano nel fare della ribellione violenta un residuo del passato un’utopia spogliata di belletti. In tempi di consumismo e di Stati forti, i dissidenti dei vari paesi europei non sembravano in grado di fare molto, salvo mettere qualche bomba, scribacchiare sui muri, imprecare sottovoce o mollare. Riforma e repressione, forse, rivoluzione mai. Le pietose parodie rivoluzionarie del ’68 non lo avevano dimostrato a sufficienza?[26].

 

L’analisi storica, del resto, per quanto provocatoria potesse apparire, era già stata anticipata dalla previsione scientifica. Era stato Max Weber, agli inizi del Novecento, ad evidenziare come l’affermazione del paradigma organizzativo della gestione burocratica del potere avrebbe reso

 

sempre più impossibile, sia da un punto di vista puramente tecnico che mediante la sua struttura interna completamente razionalizzata, una “rivoluzione” intesa nel senso di una creazione violenta di formazioni di potere assolutamente nuove; ed esso – come la Francia mostra in modo classico – ha sostituito alle “rivoluzioni” i “colpi di Stato”, e infatti tutte le trasformazioni si sono avute in questa forma[27].

 

Attraverso le sue riflessioni, il sociologo tedesco aveva finito con l’inaugurare quel florido filone epistemologico che, nel giro di pochi anni, avrebbe portato a sancire l’affermazione di un dominio tecnocratico, capace di annichilire tanto i sogni utopici quanto le pulsioni rivoluzionarie.

 

4. I partiti come male necessario all’anestetizzazione del conflitto

 

Il terzo motivo che renderebbe l’analisi politologica della stasis un mero esercizio intellettuale, artificioso e astratto, è da ascriversi alla rivalutazione del partito come istituzione garante della società democratica del diciannovesimo secolo.

L’argomento sembra invero paradossale, soprattutto per quanti abbiano familiarità con quella letteratura invero vasta e accurata che lega gran parte della crisi della democrazia rappresentativa alla degenerazione della partitocrazia.

Sin dagli albori della politologia, la parola evoca il ricordo negativo della fazione irriducibile e della passione corrosiva che erodono pericolosamente l’unità organica del corpo sociale, tanto della polis greca quanto del comune medievale. Solo con grande difficoltà l’istituzione aveva potuto superare un simile pregiudizio ed offrirsi, alla metà del diciannovesimo secolo, come veicolo privilegiato delle esigenze e delle opportunità offerte dalla moderna rappresentanza[28] e, quindi, come strumento, per certi versi, unico della congiunzione e della conciliazione tra le esigenze della libertà individuale e le ragioni dello stato moderno.

Lo stesso Benjamin Costant aveva ammonito nei suoi Principes de Politique a non illudersi di poter, allo stesso tempo, eliminare le fazioni politiche e conservare le libertà, ed invitava, semmai, ad operarsi per prevenire la loro pericolosità sociale e per mitigare le conseguenze delle loro affermazioni elettorali, ponendo le basi per una teoria politica che garantisse il pluralismo ed evitasse una dittatura della maggioranza, per usare una terminologia cara a Tocqueville[29].

Date queste premesse, si può comprendere come, sul finire del diciannovesimo secolo, i partiti potevano essere al massimo considerati un male necessario[30].

 

Dove e quando la libertà non è più in piazza ma sale e si ordina in parlamento, secondo una formula cara a Cesare Balbo non meno che a Marco Minghetti, alle “parti” subentrano i partiti: gli istituti nei quali si attua la rappresentanza sono da essi verificati e vivificati ogni giorno; quelle che in piazza potevano risultare come lacerazioni distruttive dell’unità collettiva diventano in parlamento occasioni e condizioni per costruire una unità collettiva non immobile e non uguale a se stessa, fondata sulla varietà, sulla diversità, sulla libertà[31].

 

Nel XIX secolo, il parlamento assurge a un inedito protagonismo politico diventando «un soggetto capace di educare la società, di plasmarla, di trascinarla verso un futuro di progresso»[32].

Al pari di Ermes, per continuare il linguaggio metaforico con il quale è stato iniziato il presente saggio, sembra possibile affermare che il partito si sia arrogato l’incarico di diffondere quel antico senso di aidos e dike nella cittadinanza. Senso di pudore e di equità che in termini più prosaici dovrebbero tradursi nella consapevolezza della necessità di aggregare gli interessi particolari in una proposta complessiva omogenea e funzionale alla ricerca di un bene più ampio ed inclusivo

In questo senso, si può comprendere perché Maurice Duverger, proprio in conclusione della sua opera monumentale Les partis Politiques, auspicasse lo sviluppo di una specifica scienza dei partiti politici da chiamarsi addirittura stasiologia[33], ponendo in essere una operazione semantica che, aggiornando lo studio del conflitto politico agli strumenti concessi dalla moderna democrazia, finiva con il porre la parola fine a qualsiasi velleità di restituire interesse politologico a quella antica patologia ormai finalmente debellata.

La stasis come paradigma epistemologico diventa funzionale per enfatizzare la profonda differenza che divide il partito moderno dalla antica fazione:

 

se il primo è un gruppo di uomini unito per promuovere, attraverso, tentativi congiunti, l’interesse nazionale sulla base di alcuni particolari principi, sui quali sono tutti d’accordo, la fazione è un gruppo, senza alcun principio pubblico, che dispensa favori e piaceri; il primo serve a collegare la rappresentanza alla nazione, la seconda a dividerle. Attraverso i partiti si articola l’influenza dei grandi interessi [dello stato …], mentre le fazioni hanno solo una funzione disgregatrice del tessuto sociale[34].

 

Ma soprattutto aggiorna l’analisi al fine di superare le cristallizzazioni del costituzionalismo metodologico per indagare con maggiore elasticità e realismo i rapporti sia di natura conflittuale che cooperativa che descrivono il protagonismo delle diverse soggettività politiche partecipanti alle diverse fasi del policy cycle.

 

NOTE

[1] Platone, Protagora, 322. Per ogni citazione del dialogo si faccia riferimento a Platone, Protagora, a cura di M.L. Chiesara, Rizzoli, Milano, 2010, pp. 127 e ss.

[2] Erodoto, Storie, VIII, 3.

[3] C. Von Clausewitz, Della Guerra, Mondadori, Milano, 1970.

[4] Platone, Protagora, 323.

[5] N. Loraux, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Neri Pozza, Vicenza, 2006, p. 73.

[6] La distinzione tra i due eventi è tracciata chiaramente nel libro V della Repubblica di Platone. «Come esistono questi due nomi, polemos e stasis, così mi pare che esistano due entità corrispondenti a due diversi tipi di contesa. Per queste due entità io intendo la parentela e l’affinità di stirpe da una parte, l’estraneità di stirpe e di sangue dall’altra. All’inimicizia fra parenti è stato dato il nome di stasis, a quella fra stranieri il nome di polemos […] Io sostengo che la razza greca è parente e affine a se stessa, ma estranea per sangue e per stirpe a quella barbarica […] Pertanto, quando i Greci combattono contro i barbari e i barbari contro i Greci, diremo che si fanno guerra e sono nemici per natura, e a questa inimicizia va dato il nome di polemos; ma quando una cosa del genere avviene tra Greci, cioè tra uomini amici per natura, diremo che in tale circostanza la Grecia è ammalata e agitata da lotte intestine, e a questa inimicizia va dato il nome di stasis». (Platone, La Repubblica, Libro V, 470, M. Vegetti (trad. e a cura di), Vol. IV, Bibliopolis, Napoli, 2005.). Sul tema la letteratura è davvero vasta qui basti D. Taranto, Il pensiero politico e i volti del male. Dalla “stasis” al totalitarismo, FrancoAngeli, Milano, 2014; C. Bearzot, Stasis e Polemos nel 404, in Aa. Vv., Il pensiero della guerra nel mondo antico, M. Sordi (a cura di), Vita&Pensiero, Milano, 2001.

[7] G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Bollati Boringhieri, Torino, 2015 p. 9. Sul tema si veda soprattutto R. Schnur, Revolution und Weltbürgerkrieg. Studien zur Ouverture nach 1789, Duncker & Humblot, Berlin 1983, trad. it. Rivoluzione e guerra civile, a cura di P.P. Portinaro, Giuffrè, Milano, 1989.

[8] Erodoto, Storie, VIII, 3, L. Annibaletto (a cura di), Mondadori, Milano, 2007. Senofonte, Elleniche, II, 4, 19 e ss., M. Ceva (a cura di), Mondadori, Milano, 1996. Tucidide, La guerra del Peloponneso, III, 70, trad. di F. Ferrari, note di G.D. Rocchi, BUR, Milano, 1985.

[9] M. Moggi, ‘Stasis’, ‘prodosia’ e ‘polemos’ in Tucidide, pp. 41-72, in M. Sordi, Fazioni e congiure nel mondo antico, Vita&Pensiero, Milano, 1999, pag. 54. Da segnalare l’opinione contraria dello storico britannico Andrew Lintott che sminuisce il fattore esterno come innesco di una guerra civile ed esalta il protagonismo esclusivo della aristocrazia, risolvendo la Stasis ad un conflitto tra oligarchie interne alla polis. A.W. Lintott, Violence, Civil Strife and Revolution in the Classical City, Cromm Helm, London & Camberra, 1982.

[10] Tucidide Le Storie III, 82, G. Donini (a cura di), UTET, Torino, 1982, p. 539.

[11] N. Machiavelli, Le Istorie fiorentine, VII, 1, A. Montevecchi, (a cura di), UTET, Torino, 2007.

[12] S. Rodeschini, Leviathan and its Pictures. Review of Horst Bredekamp, Thomas Hobbes der Leviathan. Das Urbild des modernen Staates und seine Gegenbilder (1651-2001), Berlin, Akademie, 2006, in «Governare la paura. A Journal of Interdisciplinary Studies», 2008, p. 1.

[13] Sul tema confronta H. Bredekamp Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Raffaello Cortina, Milano, 2015; E. De Vito, L’immagine occidentale, Quodlibet, Macerata, 2015.

[14] In tal senso si confrontino il dialogo tra Glaucone e Socrate sulla città dei porci e la città opulenta (Platone. La Repubblica 369d-374c.) e il passaggio, particolarmente insistito quanto estremamente critico sulla die grosse stadt in Nietzsche nel paragrafo intitolato Del passare oltre ne Così parlò Zarathustra.

[15] «A me appartiene il consiglio e il buon senso, io sono l’intelligenza, a me appartiene la potenza. 15 Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti; 16 per mezzo mio i capi comandano e i grandi governano con giustizia». (Proverbi 8,14 La Sacra Bibbia edz. CEI).

[16] S. Rodeschini, op. cit., 2008, p. 14.

[17] In questo senso può apparire suggestivo il recupero del vocabolo italiano stasi, nel significato medico di interruzione della vitale circolazione del sangue, che condivide in modo ambiguo la stessa etimologia della parola greca stasis.

[18] F. Rigotti, Lo Stato-mostro in Hobbes, Nietzsche, de Jouvenel in Il potere delle immagini. La metafora politica in prospettiva storica, F. Rigotti, P. Schiera, W. Euchner (a cura di), il Mulino, Bologna, 1993.

[19] F. Falk, Eine gestische der Grenze. Wie der Liberalismus an der Grenze an seine Grenzen Kommt, Fink, Paderborn, 2011, p. 73, in G. Agamben, op. cit., p. 55.

[20] «Nel Sofista è posta esplicitamente la domanda se nosos, malattia, e stasis siano la stessa cosa; e la risposta è positiva, perché la stasis non è altro che “la dissoluzione (diaphthorá) di ciò che è congenere per natura, prodotta da una qualche divergenza (diaphorá)” (228 a 4-8). L’equivalenza di nosos e stasis non era una scoperta platonica: Erodoto, ad esempio, parlava di Mileto che si era “ammalata” piombando in una stasis estrema (V, 28). Allo stesso modo in Tucidide (IV, 61, 1) è chiara la concezione della stasis come una delle cause principali della dissoluzione (phtheirein) della città. La salute tuttavia era assunta da Platone quale situazione ottimale, nella quale non sussistono né conflitto né opposizione. Essa è la norma, dalla quale si allontana il processo patologico, che disgrega l’unità cooperante del corpo e dell’anima, come quella tra le parti della città». In G. Cambiano, Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 122

[21] Platone, La Repubblica, Libro VIII, 556e, M. Vegetti (trad. e a cura di), Vol. VI, Bibliopolis, Napoli, 2005.

[22] N. Bobbio, Riforme e Rivoluzione, in Id., Teoria generale della politica, M. Bovero (a cura di), Einaudi, Torino, 2009, p. 546.

[23] Cfr. G. Galli, Storia delle dottrine politiche, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 26.

[24] G. Sartori, La corsa verso il nulla, Mondadori, Milano, 2017, p. 14.

[25] P.P. Portinaro Introduzione: Preliminari ad una teoria della guerra civile, in R. Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè, Milano, 1986, p. 10.

[26] C. Tilly, Le rivoluzioni europee 1492-1992, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 8. Il riferimento è tratto da J. Denoyelle, Post-Modernity and Economic Crisis: a Shock Duet towards the End of Revolt?, in Aa. Vv., Révolte et société, Actes du IVe colloque d’histoire au present, Paris, mai 1988, vol. 2, Publications de la Sorbonne, Parigi, 1989.

[27] M. Weber, Economia e società, Edz. di Comunità, Milano, 1974, II, p. 291. Per la differenza tra rivoluzione e colpo di stato si rimanda alla distinzione operata da Pasquino che afferma come la prima «si distingue dal colpo di stato perche questo si configura soltanto come il tentativo di sostituire le autorità politiche esistenti all’interno del quadro istituzionale, senza nulla o quasi mutare dei meccanismi politici e socio economici». In G. Pasquino, Rivoluzione, voce del Dizionario di Politica, N. Bobbio, N. Matteucci (a cura di), Utet. Torino, 1976, p. 880.

[28] Cfr. S. Cotta, La nascita dell’idea di partito nel secolo XVIII, in «Rivista bimestrale di cultura e di politica», 3, maggio-giugno 1959, pp. 445 – 486. Si veda inoltre Aa. Vv., L’istituzione parlamentare nel XIX secolo. Una prospettiva comparata, a cura di A. Gianna Manca e W. Brauneder , il Mulino, Bologna, 2000.

[29] «On ne peut se flatter d’exclure les factions d’une organisation politique, où l’on veut conserver les avantages de la liberté. Il faut donc travailler à rendre ces factions les plus innocentes qu’il est possible, et comme elles doivent quelquefois être victorieuses, il faut d’avance, prévenir ou adoucir les inconvénients de leur victoire». (Nel testo trad. mia). Cfr. B. Constant, Principi di politica applicabili a tutte le forme di governo, a cura di S. De Luca, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007.

[30] Cfr. R.J. Dalton, S. Weldon, L’immagine pubblica dei partiti politici, un male necessario?, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXXIV, 3, dicembre 2004, pp. 379 – 404.

[31] L. Compagna, L’idea dei partiti da Hobbes a Burke, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 13.

[32] D. Palano, La democrazia senza partiti, Vita e Pensiero, Milano 2015, p. 11.

[33] M. Duverger, I partiti politici, Edz. di Comunità, Milano, 1975, p. 512.

[34] N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, Utet, Torino, 1976, pp. 161 e ss.