Guerra e mobilitazione totale 1/4. La guerra e i soldi: l’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra (1920-1923)

Più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace. (XIV secolo, Dino Compagni, Cronica delle cose correnti ne’ tempi suoi).

 

Introduzione: un problema storiografico

Nell’estesa bibliografia sulla Prima guerra mondiale e sul primo dopoguerra, pochissimo spazio è stato dedicato a una vicenda sintomatica dello sviluppo industriale italiano in un periodo particolarmente delicato, di transizione dal liberalismo al fascismo: i sovrapprofitti di guerra di cui hanno beneficiato i cosiddetti “pescecani”, oggetto di un’apposita Commissione d’inchiesta, fortemente voluta da Giolitti, operante dal 1920 al 1923[1]. Scarsi i testi sulla questione: oltre a una recente monografia di Fabio Ecca[2], in precedenza, a cura di Carlo Crocella e Filippo Mazzonis, era comparsa una selezione degli atti della Commissione, preceduta da corposi studi degli stessi curatori e di altri[3]. Riferimenti più o meno generici erano sparsi in vari volumi relativi alla Prima guerra mondiale, alla storia dell’industria, alla storia politica del primo dopoguerra[4], ma per una trattazione sistematica occorre attendere il 2002, i volumi di Crocella e Mazzonis, che ricostruiscono complessivamente la storia della Commissione d’inchiesta. La relazione finale della Commissione, infine, è stata resa disponibile al pubblico in forma digitale solo recentemente, unitamente ad altri documenti[5]. Si tratta di un materiale imprescindibile per chi voglia occuparsi della storia d’Italia dal 1914 al 1923. In questa presentazione, ho cercato soprattutto di collegare il cambiamento di clima politico avvenuto in Italia dalla fine della Prima guerra mondiale all’avvento del fascismo con le vicende della Commissione, evidenziando, nelle parole di Mazzonis, “un dramma borghese”, ovvero l’occasione persa per la borghesia italiana di dare vita a un rinnovamento dell’intera vita pubblica, in feroce e accanita difesa dei propri interessi particolari ritenuti superiori a ogni bene comune. Il sostegno della borghesia al fascismo, ben evidenziato dalla lettera della Confindustria alle organizzazioni dipendenti, il 29 ottobre 1922[6], costituisce il suggello di questo percorso.

 Il clima politico nel primo dopoguerra

Nel primo dopoguerra, l’Italia risultava la più indebolita delle potenze vincitrici, soprattutto a causa della relativa arretratezza economica e dell’enorme sforzo bellico compiuto negli ultimi tre anni del conflitto[7]. Era in particolare grave la situazione debitoria del paese, in particolare nei confronti di Inghilterra e Stati uniti[8]. Il disavanzo statale «era passato dai 2 miliardi e 907 milioni del 1914-15 ai 23 miliardi e 345 milioni del 1918-19»[9], mentre rispetto al 1913 i prezzi erano quintuplicati[10]. All’inflazione si aggiungeva il problema della disoccupazione, dovuta sia alla lentezza o, in certi casi, all’impossibilità delle riconversioni industriali, sia alla smobilitazione, tanto che nel novembre del 1919 i disoccupati toccarono la cifra record di due milioni. Malgrado la retorica della “vittoria” si aveva l’impressione che gli unici ad aver tratto vantaggio dalla guerra fossero stati i “pescecani”, ovvero la grande industria impegnata nella produzione di guerra, oltre che i borsaneristi: i soli veri vincitori di un conflitto costato oltre un milione e duecentomila vittime, senza contare le vittime della “spagnola”, quasi un milione di mutilati e invalidi, e un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita della popolazione civile. La guerra è stata però anche il volano che ha permesso il rafforzamento delle industrie chimica e siderurgica e sostanzialmente la nascita dell’industria aeronautica nazionale. Tuttavia, se per la grande industria in genere la guerra è la situazione ideale a massimizzare i profitti, dato che tutta le merce prodotta, anche se di infima qualità (come vedremo) ha uno sbocco certo sul mercato a prezzi definiti dal fornitore e spesso agisce in situazione di monopolio, per il resto della popolazione è stata fonte di sofferenze e lutti poco mascherabili con la retorica della vittoria.

Nonostante questa situazione di crisi, che la rendono vulnerabile sul piano nazionale e internazionale, la diplomazia italiana, diretta da Sonnino ma a cui si accoda il primo ministro Orlando, si presenta al tavolo delle trattative di Parigi aspirando a un ruolo di grande potenza al pari delle altre nazioni vincitrici (Stati uniti, Inghilterra e Francia). Dando seguito al Patto di Londra e di fronte all’imprevedibile, alla vigilia della guerra, fine degli imperi ottomano e austroungarico, l’Italia ambisce a diventare l’unica grande potenza nel Mediterraneo orientale, occupando il ruolo geopolitico dei due imperi crollati, in particolare nei Balcani. Ambizione frustrata dagli ormai ex alleati e particolarmente dal presidente degli Stati uniti Wilson. Ciò che mancò nella delegazione governativa, ai trattati di pace, fu la consapevolezza dei mutati rapporti internazionali, in seguito all’assurgere degli Usa come maggior potenza imperialista globale. Pur se importante sul piano militare, infatti, ancor più decisivo era stato il sostegno economico statunitense agli alleati europei. Delle nazioni coinvolte nel conflitto solo gli Stati uniti avevano mantenuta intatta la loro capacità produttiva, senza aver subito danni economici, risultando anzi, alla fine della guerra, la principale potenza creditrice delle nazioni del vecchio continente, vincitrici e sconfitte in ugual modo. Il fallimento delle trattative di pace, che la delegazione italiana sperava concretizzassero in pieno il Patto di Londra, costituirono una delle cause della fine del governo Orlando. Crisi industriale postbellica, disoccupazione, problema del reinserimento dei reduci, questione contadina irrisolta, inflazione e aspirazioni nazionaliste frustrate, e ora crisi politica: passata la sbornia della retorica, ciò che restava della vittoria era ben poco. Di fronte a questa situazione, si moltiplicarono da una parte le proteste operaie e contadine contro il carovita, la disoccupazione e per la riforma agraria, ispirate in larga parte dalla vittoriosa rivoluzione russa[11], dall’altra le manifestazioni nazionaliste, come la criminale occupazione dannunziana di Fiume (una città che peraltro non rientrava neppure nei patti segreti di Londra). La “vittoria mutilata” divenne il refrain delle agitazioni nazionaliste e della richiesta di un’aggressiva politica estera, a dispetto o in opposizione degli alleati.

Il ritorno di Giolitti

In questo quadro, sinteticamente delineato, che vede l’avvicendarsi di tre governi in due anni e prefigura un’instabilità politica e istituzionale di cui non si intravede soluzione, avviene il ritorno di Giolitti sulla scena politica. Ormai settantasettenne, lo statista di Dronero nel 1914 si era opposto all’ingresso dell’Italia in guerra e per questo da tempo era rimasto isolato e muto, oggetto delle contumelie nazionaliste e dell’ostilità all’interno del suo stesso partito. La situazione nella quale versava il Paese tuttavia sembrava dargli ragione. L’opposizione di Giolitti aveva riguardato sia il merito della guerra che il metodo con il quale ne era stato deciso l’ingresso, mediante un vero colpo di Stato ai danni del Parlamento, del quale invece Giolitti rivendicava la centralità. In vista delle elezioni di novembre 1919, il 12 ottobre, parlando a Dronero, suo feudo elettorale, Giolitti presenta un programma di ricostruzione della nazione di vasto respiro, che sarebbe riduttivo definire semplicemente un programma elettorale. Si tratta di uno dei più ampi discorsi tenuti dallo statista piemontese, che delinea la rinascita dell’Italia dalle macerie della guerra e in particolare presenta la necessità di una rigenerazione politica, economica e morale dell’intera classe dirigente, alla quale si attribuiva la responsabilità di aver profittato della tragedia del popolo italiano al solo scopo di moltiplicare i profitti. Del discorso, integralmente pubblicato sulla «Stampa» del 13 ottobre[12], ecco la sintesi che ne fornisce lo stesso Giolitti, nelle Memorie:

 

Per quanto riguarda la politica finanziaria, avevo rilevato l’enorme aumento del debito dello Stato, che si poteva allora calcolare in circa novantaquattro miliardi, ai quali altri poi se ne sono aggiunti per il mancato raggiungimento del pareggio del bilancio. (…) Per la politica estera io insistevo sulla necessità di assicurare la pace, ancora assai dubbia per noi per la mancata soluzione del problema dei nostri confini orientali; e rilevavo la strana contraddizione dei nostri ordinamenti politici, pei quali,   mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, nè creare o abolire una Pretura o un semplice impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del Parlamento; può invece, a mezzo di trattati internazionali, assumere, a nome del paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo senza l’approvazione del Parlamento, ma senza che nè il Parlamento nè il Paese ne siano o ne possano essere in alcun modo informati. (…) Avevo pure richiamato l’attenzione sulla necessità di accrescere l’autorità del Parlamento contro il quale i partiti reazionari avevano condotta una campagna di diffamazione, a cui si era aggiunto il fatto che quattro anni di pieni poteri governativi avevano di fatto soppressa l’azione del Parlamento italiano, in un modo che non aveva avuto riscontro negli altri Stati alleati. (…) La pace doveva chiudere quel periodo così deleterio pel prestigio del Parlamento e così dannoso al Paese, ed aprirne uno nuovo di attività eccezionale. La rappresentanza nazionale, dopo così grave esperimento di governi senza controllo, avrebbe dovuto sentire fortemente l’autorità sovrana che le è delegata dal paese; ed a mio parere, come suo primo atto, essa avrebbe dovuto deliberare inchieste solenni per accertare le responsabilità relative alla guerra; esaminare il modo con cui erano stati esercitati i pieni poteri; come erano stati stipulati ed eseguiti i grandi contratti di forniture tanto all’interno quanto all’estero, e fare conoscere chiaramente al paese come erano state spese le immani somme di decine di miliardi, delle quali fino allora nessun conto era stato dato.[13]

 

Il programma giolittiano per la ripresa economica, oltre al recupero del debito e alla ricostruzione industriale prevedeva una patrimoniale mobiliare e immobiliare, l’imposta sulle successioni, la distribuzione ai contadini delle terre demaniali incolte, e una Commissione d’inchiesta sulle spese di guerra. Lungi dall’essere un programma “bolscevico”[14] come è stato tacciato, in termini estremamente sintetici si chiedeva alla classe dirigente e al capitalismo italiano di assumere le proprie responsabilità come “classe generale” della nazione, rinunciando ai propri privilegi particolari e un rinnovamento morale, di fronte all’impressionante livello di corruzione della Pubblica amministrazione che, allo scopo del profitto, non aveva mostrato nessun rispetto neppure per la vita dei soldati nelle trincee[15].

Governo Giolitti e nascita della Commissione

Le elezioni del 1919 segnarono un generale arretramento delle varie formazioni liberali e l’avanzata dei partiti di massa, socialista e popolare. Seguirono mesi di incertezza politica caratterizzati dalla pratica impossibilità di formare un governo stabile. In un’intervista alla «Tribuna», il 27 maggio 1920, Giolitti ribadiva i concetti del discorso di Dronero e poneva esplicitamente la propria candidatura al premierato[16]. Contestava al presidente in carica Nitti, in particolare, «il discredito del Parlamento e le disastrose condizioni della finanza»[17]. Infine il quinto (e ultimo) governo Giolitti vide la luce il 15 giugno 1920: vennero avviate tre Commissioni parlamentari d’inchiesta: sulle spese di guerra, sulle terre liberate e sulle condizioni della pubblica amministrazione. Il Disegno di legge per la costituzione di una Commissione d’inchiesta sulle spese di guerra fu presentato il 24 giugno. Tra le ragioni che spinsero Giolitti a formarla, c’erano senz’altro le divergenze all’interno del liberalismo sul ruolo da attribuire al Parlamento, sull’ingresso e la conduzione della guerra, sul ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale. Non si trattò però solo di una resa dei conti tra le varie anime del liberalismo italiano, ma soprattutto di un’occasione, persa come si vedrà, per imprimere un diverso e più trasparente modello di sviluppo alla nazione, liberando l’Amministrazione pubblica dalla corruzione e dalla connivenza con il capitalismo arrembante. Scrive Carlo Crocella: «Alle ragioni personali di Giolitti … si aggiungeva l’indignazione diffusa per l’arricchimento di alcuni, mentre tutto il paese si era sottoposto a grandissimi sacrifici economici e a quello che era stato chiamato tributo di sangue»[18](234).

Dopo ampio di battito parlamentare[19], finalmente il disegno di legge venne approvato alla Camera il 16 luglio, con 223 voti a favore e 13 contrari. In Senato la votazione conobbe esiti differenti, dato che il progetto venne approvato, il 17 luglio, con soli 90 voti favorevoli e 40 contrari, in un’aula che appena due giorni prima aveva concesso all’unanimità la fiducia al governo Giolitti. Già gli esiti di questa votazione mostrano le difficoltà nella quale si troverà ad operare la Commissione.

La legge istitutiva della Commissione, la n. 999 del 18 luglio, si proponeva di accertare gli oneri a carico dello Stato per le spese di guerra; rivedere i contratti ancora in essere; appurare eventuali responsabilità morali, politiche e amministrative; proporre provvedimenti per il reintegro delle somme eventualmente versate in eccesso[20] e, infine, individuare le responsabilità degli sprechi.

Composta da 15 deputati e 15 senatori, sotto la presidenza di Giulio Di Rodinò, si divise in 6 sottocommissioni (dalla A alla F), ognuna con propri compiti specifici e una propria struttura[21], corrispondenti alle categorie di spesa del bilancio dello Stato. Le parole maggiormente utilizzate in questa prima fase furono “impegno” ed “entusiasmo”. Varie furono le fonti cui si ricorse per ricostruire la contabilità: documenti, contratti, verbali, contabilità aziendali, testimonianze, ecc., ma anche tutta la stampa in periodo di guerra e in particolare la stampa clandestina e antimilitarista. Si lavorò alacremente, tanto che nel febbraio 1921 erano già pronte alcune relazioni[22]. Si trattò anche dell’occasione di un ampio dibattito pubblico sul destino dell’industria pesante, sulle origini dell’industria aeronautica e chimica, e in generale sul rapporto tra capitalismo privato e interesse pubblico, dal quale si sperava potesse nascere una nuova consapevolezza etica del ruolo della classe dirigente.

Dalla presidenza Rodinò alla presidenza Mazzolani

Chiamato al Ministero della guerra, Giulio di Rodinò lasciò l’incarico di presidente della Commissione nell’aprile del 1921. Gli subentrò, nel luglio dello stesso anno, Filippo Meda, il quale però si dimise improvvisamente e “irrevocabilmente” il 9 agosto, lasciando il posto a Carnazza, già vice dei due precedenti. Nel frattempo, il governo Giolitti era caduto, sostituito da Bonomi. Tra i vari problemi che si trovò ad affrontare la Commissione in questo frangente, il più urgente restava l’emanazione, da parte del governo, di un decreto eccezionale che potesse permetterle di intervenire nell’opera di recupero delle somme illecitamente lucrate. Mentre infatti tra i suoi compiti erano indicati i recuperi, il Governo tardava a emettere una legge ad hoc che li permettesse. In tal modo, la Commissione avrebbe dovuto seguire le vie amministrative ordinarie, con conseguente allungamento dei tempi. Il problema sembra risolto con la legge del 29 dicembre 1921, che nel contempo proroga i poteri della Commissione fino a tutto il 1922, e col decreto regio del 24 maggio 1922. Come scrive Mazzonis, «a questo punto, e sono passati quasi due anni dalla sua istituzione, la Commissione può dirsi finalmente e veramente nel pieno delle proprie funzioni»[23]. Tuttavia, con la caduta del quinto governo Giolitti, il 4 luglio 1921, e i successivi instabili governi Bonomi e Facta, il clima politico era notevolmente cambiato: la Commissione è costretta ad abbandonare definitivamente il programma di “rigenerazione e rinnovamento” delle classi dirigenti, come aveva indicato lo statista di Dronero, mentre il contesto nel quale si trova ad operare diventa via via più ostile. Come ha notato Mazzonis, «i dibattiti appassionati svoltisi sul finire del ’21 … hanno costituito l’ultima grande occasione di interesse del mondo politico – parlamentare per l’inchiesta sulla guerra»[24].

Lungi dall’aderire all’appello di Giolitti, e procedere a quel rinnovo etico che lo statista piemontese auspicava, la grande borghesia, ostile a qualsiasi tentativo di riforma e spaventata dall’avanzare dei socialisti, andava orientandosi sempre più verso un’opzione autoritaria, rappresentata in quel momento dal fascismo, che garantisse, nel caso degli illeciti commessi,   l’intangibilità dei profitti e l’immunità per i responsabili. Al dibattito parlamentare in occasione dell’approvazione della legge del dicembre 1921, il fascista Giovanni Giuriati si dichiarava nettamente contrario a un decreto d’emergenza che riconoscesse poteri eccezionali alla Commissione. Erano lontani i tempi nei quali i Fasci di combattimento proponevano il sequestro dei profitti di guerra: il fascismo si era decisamente orientato verso il grande capitale. Contemporaneamente, la Confindustria dichiara l’opposizione al decreto, in una missiva all’allora presidente Carnazza, argomentando che «gli industriali hanno servito la patria durante la guerra e qualsiasi tentativo di indagare sui loro profitti costituisce un attentato agli interessi nazionali»[25]. E anche dall’interno del Parlamento si sollevano in maniera crescente voci contro l’operato della Commissione, da parte di deputati legati alla grande industria che agiscono da veri e propri lobbisti dei “poteri forti” che si ritengono danneggiati nei loro interessi. Alla Confindustria fanno eco le dichiarazioni del senatore Conti[26], riprese con enfasi dalla stampa nazionale, in occasione delle comunicazioni di insediamento del governo Facta. Dopo aver criticato la “demagogia” dei provvedimenti Giolitti, che tuttavia non furono mai attuati, con la quale si attaccano gli interessi industriali, l’intervento del senatore di concentra sull’unico organismo ancora attivo, la Commissione appunto, della quale propone la pura e semplice abolizione.

A ostacolarne i lavori non sono solo deputati e senatori legati alla grande industria, come i fascisti e la destra liberale, ma numerosi interventi esterni, in particolare la grande stampa, anch’essa legata ai gruppi industriali oggetto dell’inchiesta, e da settori e sedi istituzionali preoccupati dalle implicazioni che i lavori della Commissione possono avere e profondamente implicati in un tentacolare contesto corruttivo. Esemplare è il caso dell’Ilva, che, allo scopo di far digerire la propria posizione di monopolista nel settore dell’acciaio, aveva finanziato, in vario modo, ben 211 periodici, in modo da garantire la benevolenza dell’opinione pubblica. Oltre un milione di lire vennero investiti per addomesticare la stampa[27].

Come dimostra l’esempio dell’Ilva, durante la prima guerra mondiale e nel primo dopoguerra vengono anche impiantate le radici di molti degli intrecci di affarismo e politica che governerà l’Italia almeno fino alla caduta del fascismo[28], se non oltre. E in questi rapporti, senz’altro rilevante è il ruolo della stampa. La Commissione ebbe ben chiaro quale fosse il grande potere politico dei giornali e il ruolo che avevano le sovvenzioni della grande industria privata ai periodici, tanto da scrivere, in relazione al caso dell’Ilva «Bisognava, mediante la sapiente propaganda giornalistica, persuadere l’opinione pubblica del paese che la siderurgia è un dono offerto alla provvidenza alla nostra vita nazionale» e preparare quindi l’opinione pubblica e di conseguenza i governi, a sostenerne le ragioni anche sul piano legislativo, mantenendo, per esempio, le alte tariffe protezionistiche e le commesse statali. Cosa che avvenne. Evitando, in ogni caso, di indagare sui soprapprofitti di guerra.

Ma non sono solo la grande industria, la stampa e i parlamentari ostili a opporsi ai lavori. Dalla caduta di Giolitti in poi, in assenza di protezioni governative, se si esclude forse il Ministro della guerra Di Rodinò, qualsiasi tentativo della Commissione di portare a compimento la propria missione incontra dovunque ostacoli e impedimenti di vario genere, dai ministeri all’apparato burocratico. La inchieste sui magazzini militari e nelle sedi periferiche dell’esercito trovano l’opposizione delle autorità locali; l’inchiesta sulle spese sostenute in Libia incontra la decisiva opposizione del Ministro delle Colonie; lo stesso dicasi delle inchieste sulle spese in Albania, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. La corruzione, lungi dal limitarsi a qualche caso, emerge come un fenomeno socioculturale assai diffuso e si ritrova in ogni ambito di indagine delle sottocommissioni, anche se, in certi casi, per ragioni di opportunità, nelle relazioni se ne sottovaluta la profondità e il peso.

È la stessa Commissione a lamentare gli ostacoli frapposti da chi avrebbe invece dovuto facilitarne il compito:

 

la Commissione dovette vedere rallentato, e talvolta frustrato, il suo lavoro dalla difficoltà di procurarsi i documenti, sui quali doveva portare il suo esame: il disordine di molti archivi, che hanno subito dopo la pace i più tumultuari trasferimenti, e che non hanno potuto sempre essere affidati a funzionari provetti, non può essere descritto. E talvolta questo stato di cose fu aggravato dal malvolere di uffici, di funzionari, restii ad assoggettarsi a questo eccezionale (mentre dovrebbe essere consuetudinario) controllo parlamentare[29].

 

Come scrivono Crocella e Mazzonis nella nota introduttiva:

 

… l’entusiasmo e la generosità dei commissari si scontra con un terreno ostile, dapprima più evidente negli apparati ministeriali e nelle forze armate, poi via via irrobustito con il saldarsi di interessi politici, economici e burocratici. Le elezioni del 1921 e la caduta del governo Giolitti segnano l’inizio della parabola discendente del prestigio politico della Commissione[30].

Il fascismo affossa definitivamente la Commissione

Gli attacchi alla Commissione non si limitarono alle critiche e all’ostruzionismo, ma si cercò di colpire anche personalmente il presidente Carnazza, posto sotto accusa da parte di vari deputati per irregolarità nella sua elezione in Sicilia[31], episodi che i membri della Commissione associarono immediatamente al lavoro del Presidente nell’inchiesta. Con l’insediamento del governo Mussolini, fu chiaro che ormai le sorti della Commissione erano segnate. Carnazza venne chiamato al Ministero dei lavori pubblici e costretto quindi a lasciare la presidenza, sostituito da Ulderico Mazzolani. Dopo la “marcia su Roma”, le riunioni della Commissione assumono un ritmo incalzante: tra novembre e dicembre si tengono ben diciannove “adunanze plenarie”, per cercare di completare il lavoro entro il termine perentorio del 31 dicembre, stabilito dal Decreto regio del 19 novembre 1922, che peraltro smentiva un precedente disegno di legge nel quale si stabiliva una proroga al 30 giugno 1923[32]. Alla Commissione inoltre veniva imposto di riferire solo al governo e non al al Parlamento, pena una multa “non inferiore” a 5000 lire e l’arresto “non inferiore” a sei mesi[33]. Ma non basta!

Le ultime relazioni sono anche le più addomesticate: il fascismo non poteva permettere che i suoi finanziatori e le icone della guerra fossero messe sotto accusa. Si consideri il solenne encomio riservato dalla Commissione al generale Alfredo Dallolio, unico responsabile per quasi tutta la guerra del settore Armi e munizioni (prima Commissariato, poi Sottosegretariato, poi Ministero) fino al maggio 1918, che si era reso colpevole, secondo numerose relazioni che puntavano al suo settore di competenza, di inadempienze, mancanza di controllo e negligenze varie che avevano causato notevoli danni all’erario[34]. Appare chiaro che il giudizio sul generale sia stato ispirato direttamente dal nuovo regime, che infatti nel febbraio 1923 lo nomina generale di corpo d’armata e, in seguito, lo incarica di presiedere il Comitato per la mobilitazione nazionale[35]. Ancor più stupefacente e contraddittorio appare il giudizio sull’Ansaldo, altra azienda implicata in illeciti e in una vera e propria truffa, come si vedrà in Appendice, e sui fratelli Perrone, ai quali vengono da un lato riconosciute grandi benemerenze, dall’altra si dichiara che «il fervore patriottico … non impedì loro di compiere il tentativo (in parte realizzato) di assicurarsi lucri indebiti ed eccessivi»[36]. Gli ultimi giorni della Commissione registrano una divisione sostanziale tra chi vorrebbe continuare nel lavoro di indagine, e protesta contro la sottrazione di competenze al Parlamento, e chi invece è pronto a passare armi e bagagli nella nuova maggioranza.

La spaccatura diventa evidente nell’ultima riunione plenaria del 29 dicembre[37]. Lo stesso verbale riporta il rammarico per non essere riusciti a portare a termine l’intero programma di inchiesta, notando come, per mancanza di tempo, varie inchieste siano rimaste incompiute o sfuggite alle indagini della Commissione. La relazione finale, con accluse le relazioni delle sottocommissioni, verrà pubblicata negli atti parlamentari della Camera il 10 marzo. Mancano le relazioni speciali della “commissione E”, in particolare riguardanti la liquidazione del materiale bellico, oggetto di traffici da parte di affaristi legati a Mussolini[38]. Chi espresse piena soddisfazione per la conclusione dei lavori fu Confindustria, in un ordine del giorno apparso sul «Corriere della sera» del 23 marzo, nel quale si autoassolve da ogni addebito mosso dalla Commissione[39]. Le omissioni della relazione finale sono all’origine di una polemica pubblica giornalistica, che stanno a indicare una faida all’interno del regime e, probabilmente tra gli stessi ministri, alla quale non fu estraneo Mussolini. Resta la questione dei recuperi, che il decreto regio del maggio 1922 aveva affidato alla Commissione. Anche in questo caso il Parlamento viene esautorato, e i Governo delega al recupero delle somme ad una commissione istituita presso il Ministero delle finanze. Che, dal canto suo, trascorre l’intero anno 1923 a rivedere al ribasso i conti della commissione, senza intraprendere praticamente alcuna azione finalizzata al reintegro delle somme illecitamente lucrate. L’epilogo (“tristissimo” nella valutazione del Mazzonis) si ha nell’autunno del 1923, quando alla vigilia del processo contro Carlo Bazzi[40], direttore del filofascista Il nuovo paese, Ulderico Mazzolani, che si apprestava a testimoniare contro Bazzi, venne prelevato da una squadra diretta da Amerigo Dumini, condotto in una zona isolata e sottoposto alla tortura dell’olio di ricino[41]. Solo dopo l’assassinio Matteotti, Mazzolani si deciderà a denunciare l’accaduto, sul quale però si potrà fare piena luce soltanto nel 1947, in occasione della revisione del processo Matteotti[42].

Alcuni casi di illeciti profitti

Senza la pretesa di essere esaustivi, si forniscono qui alcuni esempi di illeciti profitti ottenuti dalle aziende e dalle industrie belliche private ai danni dello Stato e di sprechi inutili. Si tratta dei più evidenti, ma sono sintomatici della superficialità e della leggerezza con la quale venivano dilapidate somme talvolta ingenti, a scapito non solo dell’erario ma anche della vita stessa dei militari al fronte.

Spese in Albania

Nella Relazione generale, la Commissione lamenta che non si siano potute appurare con precisione le spese sostenute per l’impresa in Albania, con la seguente motivazione:

 

Ma se dai bilanci e dalle relative contabilità si è potuta ricavare con approssimazione una cifra relativa alle spese esclusivamente sostenute per l’Impresa di Albania, non è stato possibile accertare l’ammontare di altre somme considerevoli, erogate anche a cagione della spedizione albanese; ma conglobate nelle maggiori somme spese per tutto l’esercito operante. Si rifletta alla scomparsa di infinite carte contabili distrutte negli sgomberi di terre albanesi; alla dispersione di altre infinite per tutti gli archivi militari e civili del Pegno; all’impossibilità di rintracciare ora i particolari riferentisi all’Albania nelle spese globali del mantenimento delle truppe, ospedali, opifìci, cantieri, navi, ecc.[43]

 

Fin dalla sua terza seduta, il 17 gennaio 1921, la sottocommissione A prese atto di fatti gravi e impressionanti a carico di alcune autorità italiane e incaricò Ferraro di recarsi a Valona; in seguito lo stesso Carnazza si sarebbe recato in Albania per le conclusioni dell’inchiesta. Si calcolò, approssimativamente, per l’Albania «una spesa di circa 13 miliardi, che è andata completamente perduta. L’Italia da essa non ha tratto alcun vantaggio né diplomatico né militare»[44] per merci lasciate deperire, in particolare sul porto di Valona, per infrastrutture mal progettate e soprattutto abitazioni e arredi di lusso a uso di alti funzionari e ufficiali dell’esercito. La responsabilità maggiore ricadeva sul generale Ferrero, il quale oltre a commettere evidenti errori militari che costarono inutilmente la vita a un numero notevole di soldati, aveva tollerato un ingente sperpero di somme. Si verificarono evidenti casi di corruzione, raccomandazioni e sprechi. Questa vicenda rischiava di causare un’insurrezione generale dell’Albania contro l’Italia. Il sen. Mariotti (membro della Commissione) compila una relazione sulla condotta italiana in Albania, a partire dal “proclama di Argirocastro” (3 giugno 1917), con il quale Sonnino, all’insaputa del governo, proclamava il protettorato italiano sull’Albania. La relazione di Mariotti poneva sotto accusa l’intera condotta della guerra in Albania che rischiava di compromettere le aspirazioni italiane nei Balcani anche agli occhi degli alleati europei, oltre che degli albanesi. D’altronde, era indispensabile per richiedere al governo albanese il recupero delle somme spese dall’Italia. Dopo vari rinvii e circa un anno di discussioni, che trovarono l’ostruzionismo di gran parte dell’Amministrazione pubblica, tra cui il Ministero delle colonie, la relazione approvata, il 23 dicembre 1922, è molto diversa dalle conclusioni emerse nel gennaio 1921: le spese vengono ridotte a 2 miliardi (dai tredici originari)[45]; da responsabile degli sprechi e di una disastrosa condotta militare, il generale Ferrero diviene vittima di ordini contraddittori, e viene elogiato per la sua abnegazione. «Una così radicale inversione di tendenza si deve porre in relazione con una più matura valutazione degli interessi internazionali dell’Italia, … ma anche con il nuovo clima politico»[46] determinato dall’avvento del fascismo.

Aratri e trattori nordamericani

Nelle pieghe della negligenza della pubblica amministrazione, trova ampio spazio la corruzione di funzionari pubblici e di ufficiali, che lucravano compensi non dovuti. Questa fenomeno si è verificato, ad esempio, nella propaganda dell’Italia all’estero, che si intensificò dopo il 1917, coinvolgendo varie personalità, le quali agivano più per tornaconto personale che per difendere le ragioni della guerra italiana.

Oppure nel caso di forniture assolutamente non necessarie. Un caso eclatante è rappresentato dall’acquisto di trattori e aratri negli Usa, tra la metà e la fine del 1917. Venne affidata la missione a Gaetano Pietra, che per sua ammissione non aveva mai visto un trattore in vita sua:

 

e qui cade opportuno accennare che il Pietra, e ciò per sua stessa confessione, non solo non era un tecnico, ma ignorava persino il funzionamento dei moto-aratri, non avendone mai visto alcuno; né, d’altra parte, conosceva la lingua inglese che dovette apprendere sopra luogo[47].

 

Pietra, nell’autunno 1917 acquistò alcune centinaia di trattori obsoleti, pesanti e ingombranti, poco adatti ai terreni italiani e, nel 1918, procede, senza autorizzazione ministeriale, all’acquisto di ben 4000 trattori, privi delle caratteristiche richieste. In seguito avrebbe comprato altri 72 trattori, già rifiutati dalla Russia, che per questo giacevano da un anno abbandonati sulle banchine di New York esposti alla ruggine e alle intemperie, oltre a circa 400 aratri, tra penta e esavomeri, di dimensioni esagerate. Al prezzo d’acquisto di questa merce occorreva aggiungere un 40% per i trasporti, la manutenzione e le assicurazioni. In breve si ha l’impressione di una colossale truffa ai danni di un governo italiano poco attento alle spese. La merce acquistata ammontava a circa 84 milioni di lire, mentre la Commissione stabiliva che il fabbisogno fosse di meno della metà[48]. Del tutto analogo fu l’acquisto in Italia di 50 motoaratri Galardi Patuzzo, in un numero doppio del necessario.

L’acquisto di quadrupedi in Nord America

A causa dell’insufficiente approvvigionamento dagli allevatori italiani, si decise di procedere all’acquisto di cavalli e muli negli Stati uniti. La prima commissione inviata negli Usa per l’acquisto di quadrupedi ebbe il mandato di rifornirsi di 28.000 cavalli e 10.000 muli, destinati a opere di trasporto e belliche. Nell’estate del 195 giunsero in Italia solo poche migliaia di quadrupedi, perlopiù a costi esorbitanti rispetto al previsto: se ogni cavallo trasportato in Inghilterra costava 47 dollari, questo prezzo in Italia aumentava del 60%. E molti giungevano morti o erano assolutamente inadatti. Le rimonte di cui si occupò la Commissione furono tre. Le prime indagini riguardarono, all’inizio del 1915, una partita di 771 cavalli, imbarcati sui piroscafi Rappanoek e Shenandoek. Di questi sopravvissero alla traversata atlantica solo 376, una cifra infima, anche considerando le condizioni del viaggio, e altri morirono di lì a poco, dopo lo sbarco in Italia. Dei sopravvissuti, del resto, molti non erano adatti agli scopi per i quali erano stati acquistati o perché fisicamente inadatti, o perché troppo vecchi.

Alcuni mesi prima di questo arrivo, del resto, un altro piroscafo proveniente dalla Virginia, il Lilly, era approdato a Livorno: dei 235 quadrupedi imbarcati, solo qualche decina era rimasto in vita. L’indagine rivelò particolari raccapriccianti, giungendo alla conclusione di una probabile truffa ai danni dello Stato, mediante l’imbarco di cavalli vecchi e malconci, non ferrati e senza cavezza, in navi inadatte al trasporto dei quadrupedi[49]. Venivano alla luce non solo alcuni casi di corruzione di funzionari, ma anche l’intervento della malavita organizzata nelle operazioni illecite. In seguito a questo primo insuccesso, si cercò di evitare la mediazione di incaricati d’affari americani, molti dei quali collusi con la delinquenza locale, o essi stessi malfattori, e prendere contatto direttamente con gli allevatori di cavalli. Tuttavia, anche in questo caso, l’operazione si rivelò non così vantaggiosa come le premesse indicavano. Infatti, gli allevatori scelti spesso si rivelavano fiduciari dei brockers newyorkesi e pretendevano costi aggiuntivi (per la marchiatura e il trasporto ai porti di partenza) rispetto al prezzo di vendita. Come se non bastasse, i carichi di quadrupedi venivano affidati a mezzi di trasporto quanto meno inadeguati, come fu il caso del piroscafo Evelyn, naufragato poco dopo la partenza del porto di New York, col suo carico di 900 quadrupedi, scaricati in mare e abbattuti.

Coperte spagnole e inglesi

Dalla Spagna sono state acquistate alcune partite di coperte da campo e da casermaggio che erano già state rifiutate dalla Francia perché inservibili. In un primo momento la commissione di collaudo respinse l’acquisto, ma tuttavia l’accolse in un secondo momento previo lavaggio di quelle intrise di sostanze oleose e uno sconto del 18% su quelle infeltrite. Il responsabile dell’acquisto era il conte Francesco Parra, che percepiva una commissione di una lira per ogni coperta. Ma la Commissione d’inchiesta appurò anche le responsabilità di non poche altre persone nella corruzione. Fatto sta che le coperte spagnole, inutilizzabili e rovinate, vennero pagate più delle coperte vergini acquistate poco tempo prima da una ditta italiana, e in presenza di ulteriori forniture offerte da altre aziende italiane. Non migliore sorte ebbe la vicenda di analoghe coperte acquistate in Inghilterra, quasi tutte riconosciute inservibili. Come scrive la Commissione nella sua Relazione finale:

 

È avvenuto così che quando la Commissione d’inchiesta si è trovata di fronte a fornitori inglesi che avevano consegnato allo Stato coperte di lana nelle quali la lana era un semplice ricordo e che erano state dichiarate inservibili a qualunque uso, ha dovuto riconoscere la impossibilità di ogni azione di recupero, perché le clausole contrattuali avevano imposto allo Stato il pagamento integrale anticipato della merce sulla semplice dichiarazione di un perito inglese[50].

Panni grigio-verde

Più scandalosa ancora, forse, fu la vicenda dei panni grigio-verde. Nell’autunno del 1915, pervennero alla Direzione generale dei servizi logistici, inviati dai reparti operanti in montagna, esemplari di vestiario in panno grigio-verde che lasciavano passare l’acqua e, in caso di neve, o di freddo intenso, si trasformavano in “corazze di ghiaccio”. In particolare, la Commissione notava una percentuale di “imbevimento”, che andava fino al 200%. Nel dicembre del 1915, una Commisione ad hoc, nominata per l’esame dei panni, notava che

 

  1. tutti i campioni esaminati non rispondevano ai requisiti regolamentari; 2. tutti i fabbricanti facevano largo uso di lana meccanica o rigenerata, vietata dal contratto; 3. tutti i panni esaminati si erano mostrati permeabilissimi ed eccessivamente avidi di acqua”, una seconda Commissione, costituita in seguito, appurò che i panni erano composti solo per il 24% di lana genuina e per il 76% di fibre scadenti, e che, alle prove di imbevimento, solo 3 panni risultavano impermeabili, mentre 15 manifestavano una resistenza zero all’acqua, 18 resistevano meno di un minuto, 16 tra 1 e 5 minuti, soltanto 3 più di 10 minuti. Alle prove di imbevimento, si concluse che quasi tutti i panni “si comportavano come spugne[51].

 

Il generale Gigli, che aveva presieduto la Commissione di collaudo, concluse nella sua relazione che la grande maggioranza degli industriali tessili aveva usato materiale scadente per accrescere in modo esagerato il guadagno. Nel maggio del 1916 Gigli venne trasferito al fronte. Acquisita la relazione Gigli nel 1920, la Commissione dovette tuttavia rinunciare a trascinare in giudizio i lanieri perché il reato di frode era, nel frattempo, prescritto e nessuna delle industrie coinvolte venne quindi condannata per questo che configurava un vero e proprio tradimento. All’intera vicenda, con l’elenco delle ditte coinvolte, quasi tutte piemontesi e in particolare del biellese, sono dedicate circa 40 pagine della relazione finale[52].

Ilva e Ansaldo

I due casi più complessi, che maggiormente hanno occupato i lavori della sottocommissione C furono quelli dell’Ilva e dell’Ansaldo. L’inchiesta sulla siderurgia, della quale si è occupata la sottocommissione C, ha costituito il nucleo centrale delle relazioni della Commissione d’inchiesta e anche il più difficoltoso, dato che ha riguardato l’intera mobilitazione militare industriale, col coinvolgimento del Ministero armi e munizioni.     

L’Ilva e l’Ansaldo erano tra le principali industrie siderurgiche italiane e le maggiori fornitrici di armi e munizioni: in entrambi i casi si verificarono illeciti profitti, giungendo a vere e proprie truffe, causate dall’opacità della legislazione e dei controlli.

Scrive Di Girolamo:

 

La sottocommissione individuò tra le cause più importanti alla base delle omissioni, delle frodi e degli episodi di maggior malcostume, e di illeciti arricchimenti, il generalizzato sistema … di non redigere regolari contratti, ma di limitarsi all’accordo anche verbale, per dar corso senz’altro alla esecuzione[53].

 

Nella Relazione generale sulla amministrazione delle armi e munizioni, si legge che dalla tipologia di contratti messi in essere era facile operare ogni tipo di frode e di abuso, concetto su cui ritornava la Relazione finale

 

Il sistema, così generalizzatosi, di non redigere regolari contratti, ma di limitarsi all’accordo anche verbale, per dar corso senz’altro alla esecuzione, se spesso potè essere spiegato e giustificato dalle necessità pressanti della guerra (sembra che la maggiore sua intensità si verificasse dopo Caporetto) indubbiamente in molti casi fu cagione di abusi e di frodi con gran pregiudizio finanziario dello Stato. Gravi invero erano gli effetti dannosi che da tale sistema derivavano fin dall’inizio e durante lo svolgimento dei rapporti contrattuali conseguenti[54].

 

Per ciò che riguarda l’Ilva, gli illeciti si sono concretizzati soprattutto nello scarto tra il materiale richiesto per la produzione di acciaio e il materiale utilizzato, che aveva garantito un 20% circa di sovrapprofitti, oltre che in una politica monopolistica dei prezzi, che danneggiava direttamente lo Stato. Il tutto avveniva nel quadro di un “assalto” all’Ilva da parte di manager senza scrupoli, al fine di usare l’industria siderurgica per fini di privato arricchimento. Che alla fine l’hanno condotta al fallimento.

Vale la pena riportare le conclusioni della Commissione sulla questione dell’Ilva, che individuava in 44 milioni di lire il danno erariale da rifondere allo Stato, ma anche le difficoltà frapposte alle indagini da truffe contabili:

 

La Commissione afferma la responsabilità giuridica, in solido con la Società Ilva, per il debito superioramente accertato, di tutti i membri della Commissione Direttiva [dell’Ilva, ndr] composta dei signori conte Rosolino Orlando, comm. Max Bondi, ingegnere Arturo Luzzatto, ingegnere Cesare Fera avvocato Giorgio Olivetti, nonché del commendator Lodovico Mazzotti Biancinelli; (…)

La Commissione deplora i signori Max Bondi, Arturo Luzzatto, Cesare Fera, per non avere, mentre il Paese era tormentato dalla guerra, mutato menomamente il loro atteggiamento di speculatori impassibili, dinanzi ai dolori della patria, e per aver cercato con ostinazione e callidità incomparabili di assicurare all’azienda da loro amministrata i più larghi guadagni possibili; (…) perchè, a guerra finita, si condussero nei confronti dello Stato come contraenti di mala fede, tentando con ogni mezzo di ottenere somme favolose che all’Ilva non erano dovute, e di negare e celare quelle dovute dall’Ilva allo Stato; dimenticando anche i particolari obblighi verso il Paese, loro imposti dal fatto di amministrare una azienda, debitrice della sua esistenza ai privilegi dello Stato; (…) che l’esercizio della industria sia diventato solo secondario di fronte alla attività borsistica della Società; che, in contravvenzione alla legge, in urto con l’onestà commerciale, in contrasto col dovere di cittadini, i signori Bondi, Luzzatto, Fera e Mazzotti abbiano preordinato tutta la loro azione, e siano in parte riusciti alla eliminazione di ogni concorrenza, non solo nella industria dall’Ilva stessa direttamente gestita, ma anche in quelle dipendenti o sussidiarie, venendo così ad aggravare le condizioni fatte alla economia nazionale dalla protezione statale; deplora che tale preordinato disegno sia stato formato nel momento, in cui più gravi erano le condizioni dell’economia nazionale, e che esso si sia potuto attuare senza nemmeno la attenuante del rischio personale[55].

 

Ancor più macroscopico, forse, il caso dell’Ansaldo. I fratelli Perrone, figli del fondatore dell’azienda, si erano sforzati con successo di costruire sapientemente il mito di un’industria “italianissima”, che aveva permesso alla patria di risollevarsi, in particolare dopo la disfatta di Caporetto, fornendo armi e munizioni a un esercito allo sbando dopo la controffensiva austriaca (e come tale erano stati lodati pubblicamente dalla Commissione nella relazione finale). Tuttavia, il loro patriottismo non impedì la realizzazione di illeciti lucri a danno della patria che stavano servendo con così tanto zelo, quantificati in circa 40 milioni di lire. I due casi esaminati dalla Commissione, per la quale si chiedeva il recupero, riguardavano la questione dei noli marittimi, per i quali i Perrone lamentavano ingenti spese, omettendo il particolare che la Società di navigazione era di loro proprietà (e quindi pagavano a loro stessi), e alcune forniture militari.   Particolarmente odiosa fu la vicenda della doppia vendita di cannoni 381/40. Già nel 1913 l’Ansaldo aveva concluso con la Marina un contratto per la fornitura di dieci cannoni del calibro 381/40, incassando i rispettivi anticipi. Nel corso della guerra, la Marina militare aveva ceduto all’esercito la partita di cannoni non ancora consegnati. L’Ansaldo girava dunque all’Esercito la stessa partita di cannoni, chiedendo un prezzo quadruplo rispetto a quello fissato per la Marina. Di fronte alle contestazioni della doppia vendita di cannoni, la ditte dei Perrone si rassegnava a restituire 9 milioni di lire indebitamente incassati, al netto però degli interessi dovuti non versati[56].

L’ingegner Oscar Sinigaglia, già collaboratore del generale Dallolio, esperto in siderurgia, chiamato a testimoniare dalla Commissione, scriveva nel suo promemoria:

 

I fabbricanti di cannoni avevano assunto fin da principio un atteggiamento di salvatori del paese ed erano riusciti ad imporsi alla debolezza del gen. Dallolio in modo che spadroneggiavano in modo assoluto, profittando dell’ignoranza degli Uffici tecnici che dovevano fissare prezzi e condizioni. Ogni tanto minacciavano di non poter produrre per mancanza di pagamenti da parte del Min[istero] e questo, invece di di profittare di questa situazione, per imporre alle ditte di dimostrare i loro prezzi di costo effettivo per la determinazione dei prezzi contrattuali, pagava degli acconti su contratti inesistenti, a prezzi sconosciuti[57].

Collusione tra pubblici funzionari con imprese private

Dai lavori della Commissione emerge un quadro inquietante di collusione tra funzionari dello Stato e ditte private in tutti i casi esaminati. Lo stesso memoriale dell’ing. Sinigaglia mostra un impressionante intreccio di interessi e corruzione che coinvolge i pubblici funzionari e imprese private interessate alle produzioni belliche, in vari campi[58]. Tanto che il presidente della Commissione si sentiva in dovere di stigmatizzare il comportamento di tanti funzionari pubblici che, invece di difendere gli interessi dell’Amministrazione, si avvantaggiavano personalmente contro lo Stato che avrebbero dovuto servire. È il caso del colonnello Stiatti, per la vicenda dei panni grigio-verde, del colonnello Marchionni, per il caso dell’Ansaldo, dei deputati Dallolio e Bianchi, dei generali Clavarino e Martini, del generale Laviosa per il caso della ditta Conti Giorgi, operante a Genova, di Gino Olivetti e Salvatore Orlando, per il caso dell’Ilva, del capitano Maggi per il caso dell’acquisto di quadrupedi negli Usa, ed altri, per i quali si rimanda al citato saggio di Crocella. E, in almeno un caso, quello dell’acquisto dei quadrupedi in America, è stata provato il coinvolgimento di esponenti della malavita organizzata. Emerge che, nei casi presi in questione, il superprofitto privato abbia potuto realizzarsi con la complicità di funzionari infedeli dello Stato, oltre che dell’inefficienza dei controlli, della farraginosità della burocrazia. In genere si ha l’impressione di un capitalismo privato che utilizza lo Stato per i suoi scopi personali. Il periodo bellico vide un picco negli episodi di corruzione e la guerra costituì un fattore di accelerazione nei furti e nelle frodi ai danni dello Stato.

Nel saggio di Crocella sono evidenziate le statistiche di questo fenomeno[59]: l’emergenza bellica ha provocato una sospensione della morale e l’emergere di quella che l’autore chiama «il venir meno delle certezze sui principi»[60]. C’è da rimarcare, comunque, che il rapido e per certi versi improvviso sviluppo dell’industria, favorito dalle vicende belliche, si è verificato in un contesto di assenza di regole, nelle quali spesso i normali controlli contabili sono stati sospesi. La stessa amministrazione statale conobbe una crescita tumultuosa: nel periodo della guerra, dal 1914 al 1920, i dipendenti pubblici quasi raddoppiarono[61] con la conseguente esplosione della spesa pubblica. Questa improvvisa e abnorme espansione dell’industria e della pubblica amministrazione sfuggiva al controllo della politica e fu una delle concause degli impressionanti fenomeni di corruzione e malaffare che caratterizzarono i tempestosi anni della guerra.

Liquidazione dei residuati bellici

La questione dei residuati bellici, di cui si è occupata la sottocommissione E, possiede un’importanza politica particolare, dato che, come si vedrà sinteticamente, si trascina per circa quattro anni e sarà una delle maggiori espressioni di quell’intreccio di affari, burocrazia statale e potere politico affermatosi nel primo dopoguerra e caratterizzante l’ascesa del fascismo al potere

Vale la pena riportare la testimonianza resa alla Commissione dal deputato Gasparotto, il 20 dicembre 1920:

 

… Ho potuto constatare la spudorata incetta fatta di ogni genere di materiale da parte di accaparratori, i quali con la delittuosa connivenza di funzionari preposti alle vendite, sono riusciti ad acquistare a prezzi bassissimi grandi quantità di materiali per rivenderle poi a prezzi esagerati. Tale incetta è stata specialmente fatta nel Friuli, dove è diffusa l’opinione che per acquistare dallo Stato fosse necessario essere un disonesto, che trovasse modi di guadagnarsi mediante corruzione l’animo degli impiegati dai quali dipendono le concessioni di vendite. […] Non sembrerà esagerata l’affermazione che con cognizione di causa io faccio: che cioè i due più grossi scandali del dopo guerra in Italia sono rappresentati dalla ricostruzione delle terre liberate e dall’alienazione del materiale residuato dalla guerra[62].

 

In primo luogo, la Commissione lamenta la mancanza di inventari della merce da liquidare per un valore stimato di circa 5 miliardi di lire, non solo di un inventario generale, ma anche di inventari parziali. Furti e sperperi furono favoriti da questa inefficienza. Una circolare del 31 marzo del 1919, inoltre, prevedeva che la liquidazione venisse effettuata «a trattativa privata e in deroga delle norme fissate dalla legge sulla Contabilità Generale dello Stato»[63]. In tal modo contratti, anche milionari, potevano sfuggire ai normali controlli fiscali ed evadere le tasse di registro. Mentre in teoria il governo perseguiva interessi di bilancio, in pratica, con la disorganizzazione e l’incapacità di un’amministrazione efficiente, forniva adito a sperperi e lucri privati ai danni dello Stato. In un primo tempo la gestione della liquidazione dei residuati bellici era stata appannaggio di una commissione interministeriale, in seguito venne affidata alle Ferrovie dello Stato, che la mantenne fino al giugno del 1922 per passare poi ad una commissione ministeriale presieduta dal fascista Lanfranconi. In questo caos amministrativo vennero istituiti consorzi e cooperative, spesso fittizie, che dovevano servire da intermediari tra lo Stato e i privati interessati all’acquisto dei materiali residuati. Il meccanismo era semplice: in generale i privati partecipanti ai consorzi acquistavano a prezzi irrisori il materiale per poi rivenderli, spesso senza neppure cambiarli di magazzino, a prezzi esorbitanti, o utilizzarli per le proprie attività imprenditoriali. Infatti non si trattava di “rottami” (i quali venivano venduti come materiale riciclabile a prezzi infimi), ma di macchinari nuovi o che il puù delle volte necessitavano solo di qualche minima riparazione.

Tra i tanti casi presi in esame dalla Commissione, alcuni furono particolarmente eclatanti, come quello del naviglio ceduto a prezzi irrisori alla cooperativa Garibaldi; la Fiat lamentò allegre liquidazioni a favore di ditte concorrenti; 80.000 sacchi usati vennero venduti a prezzi irrisori alla ditta Amadoro, con una banale declassificazione del materiale. Il caso forse più macroscopico, documentato dalla Commissione, riguarda una partita di materiali acquistati per 11 milioni e settecentomila lire dalla SCAT, mai ritirati dai magazzini di quest’ultima, e rivenduti alla stessa SCAT per 1.500.000 lire. Tuttavia, per quanto macroscopica fosse stata la speculazione fino al passaggio sotto la direzione Lanfranconi, secondo Augusto Battioni, un ispettore di Ps incaricato di un’indagine sui residuati bellici nelle terre strappate all’Austria, la più sfacciata avvenne proprio sotto la direzione del deputato fascista[64], che permise il finanziamento del fascismo attraverso il traffico dei residuati bellici anche nei primi anni del suo potere[65]. Questo fenomeno allunga le sue ombre fino al delitto Matteotti[66]. È ormai un dato consolidato della storiografia che all’origine del delitto Matteotti ci sia stato non solo il famoso intervento del 30 maggio 1924, nel quale denunciava i brogli elettorali, ma soprattutto il timore, da parte del governo, per il discorso che il dirigente socialista avrebbe dovuto tenere alla Camera in occasione della sua riapertura l’11 giugno, nel quale sarebbe finita sotto accusa la politica economica di Mussolini e gli illeciti legami del fascismo con la speculazione, le tangenti e il sottobosco affaristico che si era consolidato nel dopoguerra. Ai quali non era estraneo il ministro De Stefani, nelle cui mani erano state consegnate le relazioni speciali della Commissione, mai pubblicate, lo stesso che procedeva, in quegli anni, al salvataggio con denaro pubblico dell’Ilva e dell’Ansaldo. Come sintetizza Bergognone:

 

Due erano le principali vicende in cui il gruppo dirigente fascista si trovava coinvolto: la prima riguardava il traffico di eccedenze militari; la seconda consisteva nell’insediamento in Italia della compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil. Nel primo caso, armamenti, munizioni, veicoli e vestiario militare erano stati venduti a basso prezzo, dietro versamento di adeguate mazzette[67].

Considerazioni conclusive

I danni erariali accertati dalla Commissione furono 324.210.748 lire. Il che può sembrare poca cosa, di fronte a una guerra costata oltre 130 miliardi di lire. Tuttavia, occorre notare che la Commissione non ebbe la possibilità sia per mancanza di tempo che per gli impedimenti di varia natura, di indagare tutto il complesso di contratti e spese affrontate dall’Amministrazione: in particolare alla Commissione venne impedito di investigare sulla questione della liquidazione dei residuati bellici, come si è visto, e sui sussidi alle famiglie dei mobilitati; due aspetti che toccavano direttamente il fascismo e il suo capo. L’ultimo presidente, Mazzolani, parla ad esempio di mezzo miliardo di lire. Ma anche questa è una stima al ribasso.

Il bilancio che emerge dalla storia della Commissione è altamente contraddittorio per diversi motivi. Indubbiamente, nella breve stagione del quinto governo Giolitti, la Commissione ha potuto svolgere il proprio lavoro senza troppi impedimenti, godendo della protezione governativa. Caduto Giolitti, sono emerse le difficoltà, gli intoppi e gli ostacoli, frapposti non solo dagli industriali, arroccati nelle loro posizioni di privilegio derivate dagli affari condotti durante la guerra, ma anche dai vari apparati dello Stato, i quali tutti hanno evidenziato ampi fenomeni di corruzione. Lo strumento sono state spesso le somme extrabilancio, ovvero non soggette alla revisione della Corte dei conti o ad altri organismi di controllo. Un aspetto ha costituito un ulteriore ostacolo alla determinazione esatta del danno. Sinteticamente, la commissione indicava le seguenti aree nelle quali si è maggiormente sviluppata la corruzione: negligenza, funzionari che lucrano compensi non dovuti, a causa anche del moltiplicarsi di enti e commissioni che si occupavano degli acquisti, acquisti di forniture inutili o non idonee, forniture pagate a prezzi più alti, forniture di qualità scadente o non conforme alle specifiche contrattuali, collusione di funzionari pubblici con imprese private, furti e, nel caso degli acquisti negli Usa, anche collusione con organizzazioni criminali.

Come sottolinea la stessa Commissione nell’Introduzione alla relazione finale, la guerra venne considerata l’occasione per impiantare stabilmente industrie sovvenzionate dallo Stato, senza limitarsi al periodo di guerra: numerosi sono gli esempi riportati nella relazione finale[68]. All’invito di Giolitti, di un “rinnovamento politico e morale” della classe dirigente, questa classe dirigente è rimasta assolutamente insensibile, cercando di svuotare i lavori della Commissione di ogni spinta rinnovatrice. Il lavorìo dei settori coinvolti della borghesia, attraverso i suoi organi di stampa, le sue pressioni, il lavoro lobbistico dei parlamentari, le minacce e i ricatti economici, contro le indagini della Commissione si è via via fatto più intenso con i governi Bonomi e Facta, fino a quando il governo Mussolini ha posto la pietra tombale, le sue inchieste e i progetti di recupero delle somme illecitamente percepite, tanto da arrivare a sottoporre a tortura e minacce a scopo intimidatorio, come si è visto, l’ultimo presidente, Mazzolani. Con il fascismo si realizza la definitiva rivincita di quelli che oggi chiameremmo i “poteri forti”. La liquidazione della Commissione fu uno dei tasselli della “normalizzazione” del fascismo, che rassicurava così gli industriali di cui cercava il sostegno e, nello stesso tempo, si guadagnava l’appoggio e l’adesione dell’alta burocrazia statale, di settori politici del vecchio sistema liberale del quale il nuovo regime ereditava i metodi affaristici e clientelari. A parte ogni altra considerazione, ampiamente studiata e indagata dalla storiografia, con il fascismo si inaugura il ventennio di uno dei più corrotti governi dell’Italia postunitaria[69].

C’è una guerra che viene raccontata ed è diventata praticamente luogo comune, la guerra degli eroi, l’onore e la Patria, la Quarta guerra d’indipendenza, l’esaltazione futurista della velocità e della distruzione del vecchiume, la guerra sola igiene del mondo, celebrata ancora oggi come epopea di una nazione che si libera. È il racconto che la classe dominante fa di se stessa, occultando il fatto che a morire ha mandato contadini e operai, che non sentivano loro quella patria che ne chiedeva il sacrificio, mentre ad arricchirsi è stata un’intera classe dirigente che, posta sotto accusa e sentita minacciata nei suoi interessi, si rivolse alla dittatura, da questa ricambiata. La macabra retorica dell’Italia di Vittorio Veneto, della “vittoria”, che era costata oltre un milione di morti, sulla quale il fascismo ha costruito le proprie fortune, non poteva consentire che emergessero gli episodi di corruzione e malaffare che avevano accompagnato lo sforzo bellico e dei quali si erano resi colpevoli l’intera classe dirigente e in particolare gli industriali che in quel momento sostenevano il governo di Mussolini. Un mito nazionalista, che per certi versi resiste ancora oggi e che ha prodotto una resistenza culturale all’indagine approfondita dei fenomeni di corruzione e di “assalto all’erario” da parte di una parte consistente della borghesia industriale. Una tara che l’intero sviluppo economico italiano è costretto a trascinare con sé nei decenni.

 

 

NOTE

[1] Per una prima bibliografia, v. F. Mazzonis, Un dramma borghese. Storia della Commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra, in C. Crocella e F. Mazzonis (a cura), L’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra (1920 – 1923), 3 volumi Camera dei deputati, Archivio storico, Roma, 2002, vol. 1, p. 3 n1 e 4 n2; F. Ecca, Lucri di guerra. Le forniture di armi a munizioni e i “pescecani industriali” in Italia (1914 – 1922), Viella, Roma, 2017, riporta in appendice un’estesa bibliografia.

[2] F. Ecca, Lucri di guerra. Le forniture di armi a munizioni, cit.

[3] C. Crocella e F. Mazzonis (a cura) L’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra, cit.

[4] Cito, solo a titolo esemplificativo, il volume di G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Laterza, Bari, 2006 (2^, la prima edizione è del 1967). Rochat si sofferma particolarmente sulla liquidazione dei residuati bellici.

[5] Camera dei deputati, Relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra, Atti parlamentari, Legislatura XXVI, doc. XXI, sessione 1921 – 1923, Tipografia della Camera dei deputati di Carlo Colombo, Roma, 1923, consultabile in https://grandeguerra.camera.it/inventario_spese_guerra.html, visitato il 15 settembre 2019 (d’ora in poi citato come Relazioni della Commissione parlamentare).

[6] N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, in G. Galasso (a cura), Storia d’Italia, vol. XXII, Utet, 1995, p. 306.

[7] Per un giudizio sulla situazione finanziaria delle potenze vincitrici, v. D.H. Aldcroft, Storia economica. Tra le due guerre mondiali 1919 – 1939, Etas Libri, Milano, 1983, p. 31.

[8] V.A. Pirelli, Il dopoguerra. 1919 – 1932, s. e., Milano, 1961.

[9] N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo cit., p. 173.

[10] Sull’inflazione v. P. Frascani, Politica economica e finanza pubblica in Italia nel primo dopoguerra (1918-1922), Giannini, Napoli, 1975.

[11] Per gli avvenimenti di questo periodo, G. Maione, Il biennio rosso. Autonomia e spontaneità operaia nel 1919-20, Il Mulino, Bologna, 1975.

[12] Giovanni Giolitti espone il il suo programma politico tra le ovazioni del popolo, «La Stampa», 13 ottobre 1919, p. 1- 3.

[13] G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano, 1945, p. 590 ss.; il discorso di Dronero, oltre che sulla «Stampa» del 13 ottobre, è stato anche riportato nel volume di C. Pavone, Dalle carte di G. Giolitti, III, Dai prodromi della Grande guerra al fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962, p. 263-266 e in G.G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Torino, Einaudi, 1952, p. 294-327, v. anche V. Gigante, L. Kocci, S. Tanzarella, La grande menzogna, Dissenssi, Viareggio, pp. 25-27; una sintesi si trova anche in https://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-5-2010/item/2275-giolitti-le-conseguenze-per-l%E2%80%99italia-della-grande-guerra.html (visitato il 6 agosto 2019).

[14] G. Gentile, voce «Giovanni Giolitti» in Dizionario biografico degli italiani, v. 55, Treccani, Roma.

[15] C. Crocella, Etica e amministrazione: due crisi che si intrecciano, in C. Crocella e F. Mazzonis (a cura) L’inchiesta parlamentare, cit.

[16] N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, cit. p. 209; ma v. anche, per gli aspetti che interessano il presente saggio, G. Marongiu, La politica fiscale dell’Italia liberale (1861 – 1922), Giappichelli, Torino, p. 261 ss.

[17] N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, cit. p. 209.

[18] C. Crocella, Etica e amministrazione, cit. p. 234.

[19] Per il dibattito parlamentare, v. F. Mazzonis, Un dramma borghese. Storia della commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra, in C. Crocella e F. Mazzonis, L’inchiesta parlamentare, cit. p. 62.

[20] Relazioni della commissione parlamentare, cit., vol. I, p. 6.

[21] Per le sottocommissioni e i rispettivi ambiti di intervento v. id. p. 4 – 5; F. Mazzonis, Un dramma borghese, cit. pp. 106 – 107; F. Ecca, Lucri di guerra. Le forniture di armi e munizioni e i “pescecani industriali” in Italia, Viella, Roma, 2017, pp. 18-19.

[22] F. Mazzonis, Un dramma borghese, cit. p. 114.

[23] Ivi, p. 159.

[24] Ivi, p. 164.

[25] Ivi, p. 163, Lettera di Confindustria al Presidente Carnazza, 2 giugno 1922.

[26] Lo stesso Conti era tuttavia oggetto di indagine per omissioni e superficialità, che avevano danneggiato l’erario.

[27] Relazioni della commissione parlamentare, cit. vol. II, p. 234; in appendice l’elenco dei periodici finanziati dall’Ilva; v. anche C. Crocella, Etica e amministrazione pubblica, cit. pp. 319 – 320.

[28] Tra gli altri cfr. M. Canali, Mussolini e i ladri di regime, Mondadori, Milano, 2003 e P. Giovannini e M. Palla (a cura), Il fascismo dalle mani sporche, Laterza, Bari – Roma, 2019.

[29] Relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta, cit. vol. I, p. 5.

[30] C. Crocella e F. Mazzonis (a cura), L’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra, cit. p. XIII.

[31] L’intera vicenda è ricostruita in F. Mazzonis, Un dramma borghese, cit., p. 166 ss.

[32] Ambedue i documenti sono riportati in C. Crocella e F. Mazzonis, cit., vol. II, pp. 542 – 544.

[33] Ibidem.

[34] F. Mazzonis, Un dramma borghese, cit. p. 208.

[35] Ivi, p. 209.

[36] Citato in idem, p. 197.

[37] Verbale n. 61, 29 dicembre 1922, riprodotto in C. Crocella e F. Mazzonis, L’inchiesta parlamentare, cit. p. 980.

[38] M. Canali, Il delitto Matteotti, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 92 e ss.; anche per il ruolo di Carlo Bazzi nell’intera faccenda.

[39] Le responsabilità per i materiali di guerra. Polemiche sulla portata e sugli effetti delle risultanze d’inchiesta, «Corriere della sera», 23 marzo 1923.

[40] M. Canali, Il delitto Matteotti, cit., p. 92 e ss., Id. Cesare Rossi. Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, il Mulino, Bologna, 1991, pp. 381 – 382.

[41] Ivi, pp. 381 – 382. Lo stesso Bazzi aveva fornito a Dumini l’auto con cui era stato rapito Mazzolani.

[42] F. Mazzonis, cit., p. 224.

[43] Relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta, cit., vol. II, p. 561.

[44] Verbale n. 8, 18 marzo 1921, in C. Crocella e F. Mazzonis, cit., p. 660.

[45] Relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta, cit., vol. II, p. 561.

[46] C. Crocella, Etica e amministrazione, cit., p. 278.

[47] Relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta, cit., vol. II, p. 587.

[48] Ivi, p. 591.

[49] Per i particolari, v. D. Biocca, La preparazione militare «occulta»: l’acquisto di quadrupedi in Nord America, in C. Crocella e F. Mazzonis, cit., pp. 316 – 389.

[50] Relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 22; Per l’intera vicenda v. C. Crocella, Etica e amministrazione, cit., pp. 306 – 307.

[51] Ivi, p. 308.

[52] Relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra, cit., vol. I, pp. 474 – 512.

[53] P.N. Di Girolamo, Pescecani o patrioti, in C. Crocella e Filippo Mazzonis, cit., p. 394.

[54] Relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra, cit., vol. II, p. 76.

[55] Ivi, Vol. II, p. 244; v. anche Verbale 32, in C. Crocella e F. Mazzonis, cit., p. 777; sull’Ilva, v. anche A. Carparelli, La Siderurgia italiana nella prima guerra mondiale: il caso dell’Ilva, in «Ricerche storiche», a. 8, n. 1, gennaio – aprile 1978.

[56] N. Di Girolamo, Pescecani o patrioti, cit., p. 454; la vicenda dell’Ansaldo è stata ricostruita nella relazione della sottocommissione C, in Atti parlamentari, vol. II, cit., p. 268 ss.; l’Ansaldo si fece anche rifondere due volte dei semilavorati del cannone da 102/35.

[57] O. Sinigaglia, Promemoria per la Commissione d’inchiesta per la guerra. Sottocommissione C., 15 ottobre 1921, in C. Crocella e F. Mazzonis, cit., p. 1013.

[58] Ibidem.

[59] C. Crocella, Etica e amministrazione, cit., p. 327.

[60] Ivi, p. 329.

[61] Ivi, p. 330.

[62] Relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., pp.778 – 779, come accennato sulla ricostruzione nelle “terre liberate” era stata formata un’altra Commissione d’inchiesta, voluta da Giolitti.

[63] Ivi, p. 782.

[64] Citato in M. Canali, Il delitto Matteotti, cit. p. 92.

[65] Per la ricostruzione di questi aspetti, v. idem pp. 87 – 137.

[66] Ivi, p. 136; ma su questo caso, senza pretesa di esaurire la storiografia, v. anche R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere ( 1921 – 1923), Einaudi, 1966, p, 624; G. Romanato, Un italiano diverso. Giacomo Matteotti, Longanesi, Milano, 2011, pp. 260 – 263; G. Mayda, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dumini, sicario di Matteotti, Il Mulino, Bologna, pp. 164 e ss.; v. anche N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, cit., 1995, p. 336 ss.

[67] G. Bergognone, Come nasce una dittatura. L’Italia del delitto Matteotti, cit., p. 71.

[68] Camera dei deputati, Relazioni della Commissione d’inchiesta per le spese per la guerra, cit., p. 23 e ss.

[69] Numerose sono le pubblicazioni sugli intrecci tra affarismo e politica che hanno caratterizzato il ventennio fascista. Tra le altre, ricordiamo il citato M. Canali, Il delitto Matteotti, G. Padulo, I finanziatori del fascismo, «Le carte e la storia», quaderno n. 1, 2010, M. Canali e C. Volpini (a cura), Mussolini e i ladri di regime, Mondadori, E-book, 2019; G. Salotti, Affarismo e politica intorno alla liquidazione dei residuati bellici (1920 – 1924), in «Storia contemporanea» a. XXI (1990) n. 5; G. Borgognone, Come nasce una dittatura. L’Italia del delitto Matteotti, cit., M.J. Cereghino e G. Fasanella, Tangentopoli nera, Sperling & Kupfer, Milano, 2016.