Guerra e mobilitazione totale 3/4. L’ideale kantiano della “pace perpetua” e il problema della guerra nell’era globale

L’ideale kantiano della “pace perpetua” tra passato e presente

 

Nel suo giudizio sull’opuscolo Per la pace perpetua, Carlo Lémmonier parla del «gran successo» che accolse inizialmente questo opuscolo quando «esso comparve nel 1795», ma allo stesso tempo «del profondo silenzio che poi si fece intorno ad esso»[1]. Un “grande successo”, in quanto rispondeva già «col suo titolo al pensiero generale» in atto in una fase storica segnata profondamente dalla tragedia della guerra[2].

«L’Europa – così Lémmonnier – era profondamente stanca della guerra … La Repubblica francese restava vittoriosa, ma a prezzo di quali sacrifici e quali lotte all’estero e all’interno! I re battuti tacevano, i popoli schiacciati aspettavano», con una diffusa «sete di pace», ma allo stesso tempo con «un presentimento delle guerre spaventose del secolo che stava per aprirsi»[3].

A fronte di questo scenario, Kant con il suo opuscolo prospettava l’ipotesi di una «federazione di popoli» in grado «di sostituire, con uno stabilimento giuridico, lo stato di pace allo stato di guerra»[4].

Kant, muovendosi in tale direzione, mirava non semplicemente «alla pace dell’Europa … ma alla pace universale», in quanto «queste due idee sono legate, la vera pace deve essere universale e perpetua»[5], in quanto solo una pace così intesa, una volta realizzata, avrebbe potuto significare la fine di ogni guerra in prospettiva e non semplicemente una fine limitata e precaria della guerra, come quella di solito prospettata dai vari trattati di pace sotto la paura del peggio e insieme col fondato timore di trovarsi in prospettiva al punto di partenza.

Ma tutto questo implicava qualcosa di ben al di là delle semplici ricorrenti trattative di pace dettate da motivi politico-militari, e segnatamente un sottofondo etico-giuridico, per di più, nel caso, sullo sfondo della sua tipica teorizzazione della morale. Qualcosa che, come vedremo più da vicino, non si improvvisa, né tanto meno è da dare per scontato.

Sì che il “senso profondo” di questo ideale «all’epoca in cui comparve l’opuscolo … non poteva nemmeno essere sospettato dal gran pubblico, e che non potendo comprenderlo, si doveva scansarlo come il sogno irrealizzabile d’una filantropia chimerica»[6].

Il che spiegherebbe poi come al «gran successo iniziale» dell’opuscolo sulla pace perpetua finisse per subentrare il «profondo silenzio che si fece poi intorno ad esso»[7].

L’ideale però in esso teorizzato, per non pochi aspetti, visto alla luce dell’evoluzione storica successiva, e ancora più dell’attuale svolgersi della società contemporanea, come rilevato da più parti, ha finito per caricarsi di una nuova significativa valenza per quanto concerne la problematica della guerra nel nostro tempo.

 

L’ideale kantiano della “pace perpetua” tra fondamento giuridico e istanze etico-trascendentali

 

«Lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (status naturalis), il quale è piuttosto uno stato di guerra, ossia anche se non sempre si ha uno scoppio delle ostilità, c’è però la loro costante minaccia»[8].

Esso pertanto è da costruire e, più segnatamente, da costruiren sulla base di un Organismo internazionale, con adeguati poteri e strumenti per prevenire o neutralizzare l’insorgere di eventuali conflittualità. Ciò con inevitabile e progressivo ridimensionamento dei poteri dei singoli stati.

Si tratterebbe per questo verso di una pace “positiva”, sul piano concreto operativo, ma (è doveroso soggiungere) non per la direzione in cui va la logica che fa da sfondo ad essa. La vera pace, quella in grado di porsi oltre la “tregua”, il “trattato di pace” (che di solito tende a configurarsi [lo si è già accennato] come una semplice pausa nella tendenza alla conflittualità tra le nazioni, una pausa resa possibile dalla paura del peggio)[9], è da fondare sulla “fiducia”, evitando “ostilità”, quali «l’impiego di assassini (percussores), di avvelenatori (venefici), la violazione di una capitolazione, l’organizzazione del tradimento (perduellio) nello Stato nemico ecc.»[10]. In definitiva un discorso emergente, sia pure indirettamente, sullo sfondo di quel noto concetto kantiano di persona vista come “fine” e non come mezzo, e non degli uomini «come semplici macchine o strumenti nelle mani di un altro (dello Stato)»[11]. Donde una pace che, se è da costruire sul piano giuridico, altrettanto poi, perché sia “vera pace”, è da supportare con principi che direttamente o indirettamente sono alla base della morale o strettamente collegati ad essa.

Insomma, se la pace non appartiene di per sé allo “stato di natura”, e ciò contrariamente a quanto sosteneva Rousseau, ma è una progressiva costruzione dell’uomo, ad evitare di scadere sul piano della semplice “tregua”, di solito mera pausa, breve o lungo che sia, nella logica della guerra, deve essere perseguita nella luce dei trascendentali principi della morale.

Volendo rapportare tutto ciò a quella che in termini più concreti e specifici si profila come la via da seguire per dirigersi verso l’obiettivo della “pace perpetua”, particolarmente significativo sembra il seguente passaggio del testo kantiano.

 

Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile secondo la ragione pensare di uscire dalla condizione di mancanza di legge, che non contiene altro che la guerra, se non rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui, alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi a pubbliche leggi costrittive e formando così uno Stato dei popoli (civica gentium) … Ma poiché essi, secondo la loro idea di diritto internazionale, non vogliono assolutamente una cosa del genere … allora al posto di una repubblica universale (se non si vuole che tutto vada perduto) c’è solo il surrogato negativo di un’alleanza contro la guerra, permanente e sempre più estesa, che può trattenere il torrente delle tendenze ostili e irrispettose di ogni diritto, ma nel costante pericolo che questo torrente dilaghi[12].

 

Si tratterebbe, nel caso, non proprio di qualcosa di collegabile direttamente all’obiettivo della “pace perpetua”, ma che comunque oggettivamente spinge in quella direzione, al di là dell’eventuale condivisione della logica sottesa ad un cammino in tal senso.

Sì che, per questo verso, più che di una «alleanza contro la guerra» finalizzata all’obiettivo della “pace perpetua”, si dovrebbe parlare di un suo «surrogato negativo», in quanto, nell’ipotesi, tutto si svolgerebbe sulla spinta determinante della necessità di evitare gli orrori della guerra, e non anche e soprattutto, di una concomitante istanza etica. Un «surrogato negativo» rapportato, sia pure in via di fatto (come variamente sottolineato dalla critica) alla realizzazione di una «pace positiva», costruita cioè sul piano meramente giuridico-praticistico, anche se pur sempre passibile di sbocchi in direzione dell’ideale della “pace perpetua”.

Al riguardo si è parlato di una certa latitanza della morale nella teorizzazione kantiana dell’ideale della “pace perpetua”, proprio per questa accentuazione giuridico-praticistica del discorso in materia. Si tratta però di un’accentuazione condizionata verosimilmente dalcomplesso scenario bellico in atto nel tempo, uno scenario drammatico teso a incoraggiare ogni possibile via di uscita dal clima di terrore variamente diffuso. In realtà, come più volte si è avuto modo di rilevare, l’istanza etica nel discorso kantiano sulla “pace perpetua”, anche se in maniera indiretta, è sempre presente sullo sfondo dell’ideale di pace teorizzato.

A conferma, tuttavia, del ruolo determinante del fattore etico nel perseguimento dell’ideale della “pace perpetua”, sembra debba essere interpretata (come già sottolineato da Carlo Lémonnier) la preoccupazione kantiana di affiancare successivamente al testo iniziale un’Appendice sul rapporto stretto tra politica e morale (“oggettivamente” parlando), un rapporto che, se può risultare spesso disatteso nella concreta attività dei politici, non lo può essere però in un’ipotetica realizzazione dell’ideale della “pace perpetua”[13].

Particolarmente significativi al riguardo alcuni passaggi di questa Appendice, tra i quali (a titolo esemplificativo) i seguenti:

 

La morale è già in se stessa una pratica nel senso oggettivo, come le leggi incondizionatamente imperative, secondo le quali noi dobbiamo agire … non può esistere dunque alcun conflitto tra la politica in quanto dottrina pratica del diritto e la morale in quanto anch’essa dottrina del diritto, ma teorica[14],

anche se la conseguente «massima l’onestà è la migliore politica contiene una teoria, con la quale purtroppo la pratica è così spesso in contraddizione»[15].

Sì che «oggettivamente, (nella teoria) non esiste affatto contrasto tra la morale e la politica. Soggettivamente invece (nella propensione egoistica degli uomini … ), questo contrasto esiste e potrà sempre esistere»[16].

 

I presupposti storico-culturali favorevoli alla realizzazione dell’ideale kantiano della “pace perpetua” nell’era della globalizzazione

 

Non si può parlare di un’ «alleanza contro la guerra», quale organismo di supporto ai fini della realizzazione della “pace perpetua”, senza il riferimento a un diritto internazionale, sulla cui base coinvolgere popoli diversi in tale direzione. Donde la necessità di presupposti storico-culturali adeguati allo scopo, presupposti già in qualche modo intravisti da Kant nella realtà del suo tempo, ma che oggi sembrano riemergere con ben altra potenzialità nella prospettiva della “pace perpetua”.

Kant aveva intravisto un primo presupposto nella concreta e comune esperienza dell’atrocità crescente della guerra.

Oggi quest’aspetto si è accentuato al punto da configurarsi, per un certo verso, in termini di ultima spiaggia per la stessa sopravvivenza dell’umanità[17]. Si è parlato del deterrente rappresentato dagli arsenali atomici a servizio di una pace più o meno forzata. Oggi se ne seguita a parlare, ma sempre più timidamente, stante la crescente consapevolezza di un’arma (quella del deterrente atomico) a doppio taglio: distruttiva ed autodistruttiva allo stesso tempo.

Altro presupposto messo in risalto da Kant come atto a facilitare il cammino verso l’ideale della pace da lui teorizzato è quello emergente nel progressivo dilatarsi dei rapporti commerciali tesi, sia pure di riflesso, ad eliminare le distanze tra i vari popoli e, conseguentemente, ad agevolare un loro possibile coinvolgimento in una lega sopranazionale di pace.

Quello che era solo un segno del progressivo retrocedere delle distanze tra i popoli, oggi, con il mercato globale si è tradotto in un vero e proprio azzeramento delle stesse.

Senza dire (ciò che poi non è altro che un semplice risvolto della stessa medaglia) dell’immediatezza della comunicazione a livello globale, grazie alle note e pressoché illimitate possibilità dell’informatica in tale direzione.

Ma c’è dell’altro. A livello globale emergono problemi (quali l’inquinamento atmosferico e simili) per la cui soluzione poco o nulla possono le singole nazioni. Donde la necessità di un loro necessario e reciproco coordinamento.

Tutto questo, come non è difficile convenire, non è altro che un dato di fatto[18] e rappresenta, nell’insieme, un po’ come il motivo prevalente che ha indotto la critica a parlare di attualità dell’opuscolo kantiano sull’ideale della “pace perpetua”.

Pur tuttavia, se per un verso l’ideale kantiano della “pace perpetua”, per i presupposti storico-culturali, a cui si è fatto cenno, sembra riemergere in termini di pregnante attualità, non altrettanto sembra possa dirsi per quella che, sia pure apparentemente non sempre in primo piano, ne costituisce la fonte teoretica ultima: la “ragione” con le sue connesse istanze etico-sociali.

Sì che, se nel passato la “sterilità” dell’ideale kantiano della “pace perpetua” era da attribuire alla mancata maturazione di presupposti storico-culturali volti a facilitare la traduzione in essere di quell’ideale emerso a livello di ragione teoretica, oggi il rischio per una sua attendibile traduzione in termini concreti è dato proprio dal diradarsi di quella “ragione” che ne era alla base o, se si preferisce, da quell’ «eclissi della ragione» (di cui segnatamente parla Horkheimer) o anche, per dirla con altre parole, da quella «crisi delle certezze», di cui tanto si è parlato a proposito della cosiddetta “postmodernità”, con pesanti riflessi sulla valenza teoretica della “ragione”[19].

In questa ottica non può non acquistare particolare significato anche l’esplosione dei vari fondamentalismi (non solo di ordine religioso) tesi a prendere in qualche modo il posto della “ragione” teoretica e di conseguenza a vanificarne l’influsso sulla gestione della vita umana sia a livello individuale che sociale.

Particolarmente significative al riguardo, sia pure solo di riflesso per quanto concerne la specificità di questa breve indagine, alcune affermazioni emerse nel Convegno svoltosi presso il Politecnico di Torino[20]:

 

Ѐ dovere della comunità scientifica e delle persone di cultura (così in una delle affermazioni più sintomatiche) contribuire a far divenire coscienza comune l’idea che la pace nasce solo dalla prevenzione dei conflitti, tramite accordi che risultino accettabili ad entrambi le parti, non dalla vittoria di una parte o dal possesso di armi che possono imporre la pace: il sogno di Nobel e di Einstein dell’«arme che ponga fine alle guerre» si è dimostrato irrealizzabile[21].

 

Donde la necessità di un recupero della piena valenza della ragione teoretica e delle sue connesse istanze etiche al fine di consentire un’efficace attività informativa e formativa allo stesso tempo per la realizzazione di una comune consapevolezza sulla inutilità della guerra (ovviamente sul piano dei principi) in vista di una pace che non si riduca ad una semplice premessa di successivi conflitti o, per dirla altrimenti, ad una semplice tregua delle ostilità.

Donde anche (e soprattutto per questo verso) l’attualità (di solito tesa ad essere relegata nell’ombra) dell’opuscolo kantiano sulla “pace perpetua”, ove la “fiducia” (a cui si è fatto cenno nel corso di questa breve indagine)sembra emergere come punto fermo per un’attendibile operatività in direzione dell’obiettivo di tale “pace perpetua” e, allo stesso tempo (anche se solo implicitamente), come traduzione, sul piano concreto, della massima che impone di considerare «la persona sempre come fine» e mai come mezzo, una delle massime notoriamente poste a base di tutta la morale kantiana.

 

NOTE

[1] C. Lémonnier, Un giudizio sulla pace perpetua, in I. Kant, Per la pace perpetua (Titolo originale: ZumewigenFrieden), trad. di A. Massoni, E. Sonzogno, Milano, 1883, p. 10.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, pp. 10-11.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, pp. 12-13.

[6] Ivi, p. 10.

[7] Ibidem.

[8] I. Kant, Per la pace perpetua (ZumewigenFrieden), Prefazione di S. Vega, traduzione di R. Bordiga, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2017, p. 53.

[9] «Attraverso il trattato di pace, così letteralmente Kant, viene posta fine a questa guerra ma non allo stato di guerra (per il quale si può sempre trovare un nuovo pretesto)» (I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 62).

[10] Ivi, p. 49.

[11] Ivi, p. 47.

[12] Ivi, p. 64.

[13] C. Lémonnier, Un giudizio sulla pace perpetua, cit., p. 13.

[14] I. KANT, Per la pace perpetua, cit., p. 81.

[15] Ivi, p. 82.

[16] Ivi, pp. 93-94.

[17] Su questo aspetto del rapporto tra guerra e pace cfr. segnatamente M. Fossati, Pace e guerra: un binomio indissolubile?, in AA.VV., La città dell’uomo. Storia e idee, vol. III, Edizioni scolastiche B. Mondadori, Milano, 1998.

[18] Su tali presupposti, cfr. in particolare L. Levi, Il significato del “Progetto di pace” di Kant per l’uomo contemporaneo (http://www.peacelink.iteuropace/a/6650.htm, pp. 1-4).

[19] Cfr. al riguardo segnatamente: J.F. Lyotard, La condizione postmoderna (Titolo originale: La condiction postmoderne), traduzione di C. Formenti, Feltrinelli, Milano, 1991; R. Rorty, La Filosofia dopo la filosofia, dal sottotitolo: Contingenza, ironia e solidarietà (Titolo originale: Contingency, irony and solidarity), traduzione di G. Boringhieri, Editori Laterza, Roma-Bari, 1990; G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti Editore, Milano, 1991.

[20] Atti del Convegno: Scudo spaziale, Industria Bellica, Tecnologie Militari: quale utilità, quali interessi in campo? Torino, 24 settembre 2001.

[21] V.F. Polcaro, Armi di distruzione di massa e scudo spaziale: un rimedio peggiore del male?, in “Atti del Convegno su scudo spaziale, Industria bellica, Tecnologie militari: quale utilità, quali interessi in campo?, Torino 2001.