Angoscia. Radiografia e ricognizione del presente 1/2. Noi siamo Angoscia

In uno scenario quasi apocalittico, tempestati da continue news sul Covid-19, il nemico sconosciuto, invisibile e dilagante, abbiamo la percezione di lottare impotenti. Ma se, da un lato, la minaccia del pericolo ci invita a prendere coscienza e a difenderci, dall’altro, proviamo sensazioni che non ingannano e che ci mostrano fratture del reale e vuoti fuori controllo. Il volume, delineando un percorso attraverso i nomi di Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Freud, Anders, Jonas, Weil, Kafka, Jung, Fromm, Lacan e Cioran, scandaglia in profondità il concetto di angoscia con cui, proprio in questo preciso momento storico, ognuno di noi è chiamato a confrontarsi per rielaborare la propria identità.

Indice: 1. Una specie di prologo, • 2. Due metafore dell’angoscia: Franz Kafka, • 3. Angosciose esplorazioni: Jean-Paul Sartre, • 4. Martin Heidegger, • 5. Søren Aabye Kierkegaard, • 6. Al di qua del principio dell’angoscia: Sigmund Freud, • 7. Jaffier o l’angoscia nel cuore, • 8. L’individuo angosciato, 28 • 9. Qualche ultima considerazione.

Io venia pien d’angoscia a rimirarti. (G. Leopardi, Alla luna)

Come può succedere che soltanto nell’angoscia io sia pienamente me stesso? Sono stato educato all’angoscia? Soltanto nell’angoscia mi riconosco. Una volta superata, essa diventa speranza. Ma è angoscia per altri. Ho amato le persone per la cui vita sono stato in angoscia. (E. Canetti, Il cuore dellorologio)

Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia. (S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e delloppressione sociale)

 

1. Una specie di prologo

 

Se si dovesse cercare un motto per descrivere la condizione contemporanea incalzata dalla pandemia, potrebbe essere questo: oggi viviamo nell’epoca della capacità di sentire l’angoscia. A seguito dell’esplosione dell’epidemia, abbiamo scoperto l’angoscia, ma di essa si parla ancora molto poco, forse perché è un’esperienza traumatica, come Freud ci insegna, un groviglio di contraddizioni, «un punto nodale, nel quale convergono tutti i più svariati e importanti interrogativi, un enigma la cui soluzione è destinata a gettare un fascio di luce su tutta la nostra vita psichica»[1]. Tuttavia, la percezione è ben reale, ma sembra rimanere a un livello soffuso, senza che sia vissuta direttamente. Tra psicoanalisi e filosofia, tra letteratura e antropologia, la questione dell’angoscia assurge a categoria ideal-tipica dell’epoca presente.

A partire da questo quadro di sospensione della vita comunitaria, da questo grado-zero della civiltà, si era già espresso il grande pensatore tedesco Günther Anders, che lamentava indignato la generale indisponibilità dell’angoscia a farsi sentire, proprio a causa di un deficit emotivo dell’immaginazione: sebbene impegnati in grandiosi programmi per il futuro supportati dalla tecnica, ci troviamo a non avere consapevolezza emotiva delle conseguenze delle nostre azioni. Siamo esseri insensibili ed anestetizzati, tanto che Anders interpreta la nostra come «lepoca dellincapacità a provare angoscia»[2].

Oggi siamo immersi nella minaccia del Covid-19 e domani chissà. Viviamo minacce presenti e future: si impone concreta e tangibile quella folgorante immagine leopardiana del formidabile deserto del mondo, evocata in una lettera a Pietro Giordani del 1819. Il variare delle modalità della circolazione epidemica e del contagio pestilenziale (dalla collera degli Dei, nell’Iliade omerica, che sparge la peste nel campo acheo, alla collera della natura in tante fasi della storia) ha influito nelle faccende umane sia nei tempi antichi sia nei tempi moderni. Il pianeta sembra non reggere più la deregolamentazione ecologica globale, i cui effetti sempre più massicci (riscaldamento climatico, massacro della biodiversità, inquinamento dell’aria e degli oceani, esaurimento delle risorse naturali) già colpiscono l’insieme del vivente e delle società umane. L’ecosistema è impazzito, i confini tra l’umano e il bestiale sono saltati, la natura sembra voglia vendicarsi del genere umano, come se ci stesse buttando con violenza fuori dalle sue ali protettive, dal suo grembo rassicurante.

Ora, dobbiamo recuperare il sentimento dell’angoscia per acquisire piena consapevolezza della nostra fragilità e vulnerabilità, per generare quel significato e quell’attenzione per le cose del mondo, per coabitare con il nostro deficit di esistenza. Il secolo XX ha conosciuto due guerre mondiali, l’olocausto, l’atomica: eventi traumatici, tellurici, che hanno imposto la necessità di ripartire dalla radice, la necessità di un cambiamento epocale. Quello che è successo dopo il 1945 è stato un mutamento epocale segnato dall’incombente minaccia di morte, estesa all’intero genere umano e all’ecosistema che ne riproduce la vita. Oggi, c’è un nuovo mutamento epocale. Il genere umano è esposto alla furia devastante di una pandemia che può cedere il passo ad altre pandemie, negli anni a venire. Come ammonisce Günther Anders, è tempo di dismettere la veste di Titani della natura che indossiamo da quando è iniziato il nostro dominio.

 

Quella che era stata la cosa più importante per i nostri genitori, “ultimi uomini”, è diventata senza valore per noi figli, i “primi Titani”; i loro sentimenti più cari ci sono estranei […]. Noi, uomini d’oggi, siamo i primi uomini a dominare l’Apocalisse, perciò siamo anche i primi a subire senza posa la sua minaccia[3].

 

Dall’Apocalisse atomica all’Apocalisse naturale il passo è stato breve. Sporgiamo sullorlo dellabisso[4]. Quanto più si è cresciuti in potenza, tanto più si è sviluppata una tecnologia non più dominabile. Il futuro non si presenta più in termini di progresso, ma d’incertezza.

 

Il pianeta è sovrappopolato, ci siamo presi troppo spazio, siamo penetrati troppo nell’ordine delle cose. Abbiamo turbato troppo l’equilibrio, abbiamo già condannato troppe specie all’estinzione. La tecnica e le scienze naturali ci hanno trasformati da essere dominati dalla natura a dominatori della natura[5].

 

In pericolo è la vita stessa, non esclusivamente la vita umana, bensì l’incolumità del pianeta, dell’ambiente che ci accoglie; tanti sono i problemi globali (il sovraffollamento, l’esaurimento delle materie prime, il danno all’atmosfera per l’emissione di gas nocivi, il degrado del suolo, delle acque e degli ecosistemi vegetali e ora i virus) che minacciano le generazioni future e la sopravvivenza della specie. In tempi antichi e meno antichi, ci si metteva al riparo dagli eventi imprevisti della natura, oggi i rischi e i pericoli per l’umanità dipendono dalle nostre decisioni. C’è il rischio tangibile che nei prossimi anni l’umanità precipiti in nuovi tempi bui, per riprendere la celebre espressione di Hannah Arendt, in occasione di una conferenza che tenne ad Amburgo nel 1959, per il conferimento del premio Lessing. La grande pensatrice ebreo-tedesca registrava negli anni del dopoguerra la bancarotta dell’etica e della politica, dopo i disastri del secondo conflitto mondiale, il genocidio degli ebrei, l’atomica su Hiroshima e Nagasaki. I nuovi tempi bui dell’età in cui viviamo ci impongono nuovi compiti e nuovi obblighi, nuovi parametri di azione e di pensiero. Il Covid-19 segna un prima e un dopo del XXI secolo, perché è il primo vero blackout della civiltà contemporanea, il grado zero di una storia che si fa evento o un insieme di eventi che non hanno più direzioni sensate, o forse il vero inizio del Millennio che si prospetta nella sua fase apocalittica. Abbiamo sempre evaso da questi pensieri e allontanato da noi il pensiero della nostra stessa mortalità. René Girard, in uno dei suoi ultimi libri, Portando Clausewitz allestremo[6], riflette sulla dinamica apocalittica del mondo, concentrandosi sugli sviluppi della guerra moderna a partire da Hiroshima, sul terrorismo e sulle catastrofi ecologiche. Egli riconosce segni evidenti preannunciati dagli scritti apocalittici del Nuovo Testamento, precisando che tali profezie descrivono una minaccia puramente umana.

 

Due guerre mondiali, l’invenzione della bomba atomica, svariati genocidi, una catastrofe ecologica imminente non sono stati sufficienti a convincere l’umanità, e in primo luogo i cristiani, che i testi apocalittici, pur senza avere alcun valore predittivo, ci parlano del disastro in corso. Che fare perché vengano ascoltati? Sono stato accusato di ripetermi troppo, di rendere la mia teoria un feticcio, di usarla per spiegare tutto. Eppure essa si è sforzata di descrivere dei meccanismi che le recenti scoperte della neurologia confermano: l’imitazione è primaria, e, più che essere appresa, è il mezzo essenziale dell’apprendimento. Non si sfugge al mimetismo se non comprendendone le leggi: solo la comprensione dei pericoli dell’imitazione ci permette di pensare un’autentica identificazione con l’altro. Eppure noi prendiamo coscienza di questo primato della relazione morale nel momento stesso in cui si compie l’atomizzazione degli individui, in cui la violenza è ulteriormente aumentata per intensità e imprevedibilità[7].

 

Questo è il punto della questione. Dinanzi ai pericoli e alle minacce che possono indurre facilmente alla disperazione, occorre riabilitare il primato della relazione morale e ritornare a riappropriarci della nostra umanità. Come? Bisogna imparare a sentire l’angoscia, la quale non è un deficit di esistenza, semmai la sua vetta, il suo lato più misterioso e primordiale. Noi siamo angoscia.

 

2. Due metafore dellangoscia: Franz Kafka

 

Leggiamo un brano delle prime pagine dello straordinario racconto-frammento di Kafka, La tana, che è una potente metafora della condizione umana contemporanea:

 

Ho costruito la tana; sembra riuscita bene. Da fuori a dire il vero, si vede solo un gran buco; ma quel buco non porta da nessuna parte, già dopo qualche passo si incontra solida pietra naturale. Non voglio vantarmi di essermi intenzionalmente servito di quest’astuzia, si tratta più che altro del residuo di uno dei molti vani tentativi di costruzione, ma alla fine mi è sembrato vantaggioso lasciare scoperto quell’unico buco […]. A un migliaio di passi di distanza da quel buco, coperto da uno strato mobile di muschio, c’è il vero ingresso alla tana, un ingresso sicuro quanto, al mondo, qualcosa può esser messo al sicuro […] e la mia vita, anche ora che si trova al culmine, non ha una sola ora di vera pace; in quel punto nel muschio scuro io sono mortale e nei miei sogni, spesso, un muso avido fiuta là attorno senza tregua[8].

 

Il racconto, composto dallo scrittore praghese pochi mesi prima di morire, nel 1924, è una messa in scena dell’angoscia, una sua plastica rappresentazione. Un animale, ossessionato dall’idea prevalente di essere aggredito, costruisce un rifugio sotterraneo, non riesce a staccarsi dalla tana, se ne allontana e poi torna sempre a sorvegliarla. Nell’incipit del racconto dominano tre movimenti. «Ho costruito la tana; sembra riuscita bene»: è il primo movimento; poi c’è una falsa tana per sviare l’eventuale aggressore, la minaccia del nemico; l’indizio fuorviante è il secondo movimento. L’animale è angosciato, pressato dall’esterno, avverte dentro di sé che la sua vita non ha una vera pace: si tratta del terzo movimento. Kafka condensa in questi tre nuclei tematici tutta la trama del racconto.

 

La casa del roditore è il suo bunker chiuso. In questo senso per Kafka – che scriveva in tempi pre-bellici – la casa appare sempre casa armata, e l’abitare implica la difesa dal nemico, o dal predatore. La casa è roccaforte oltre che tomba: è sepolcro blindato. Questa modalità di abitare fortificato ha due controindicazioni, l’una reale, l’altra simbolica. Quella reale è la mancanza di aria, l’elemento che serve a sopravvivere. Quella simbolica è l’abbattimento dei ponti con l’altro, col soggetto del mondo esterno a noi. Perché l’altro qui è il predatore della casa, è il nemico. La difesa del territorio-casa è tutt’uno con la scoperta del nemico, che ti può stanare ed espropriare della tua autonomia. Il roditore teme l’invasione della casa, ma la casa è lui, il suo stesso corpo violabile e invisibile, e tra l’altro commestibile così come le prede lo sono per lui[9].

 

L’altro è l’oscura minaccia. Chi costruisce la tana, scioglie ogni legame con il mondo esterno. In questo spiazzo fortificato si raccolgono tutte le provviste per sopravvivere, gran parte del tempo, attanagliato dall’ansia per ciò che gli può capitare, che può rompere la tranquillità e la pace che la fortezza dovrebbe garantire: «sono irritato e commosso al contempo quando mi capita si smarrirmi per un istante nella mia creazione»[10]. Ecco un’immagine dell’angoscia: smarrirsi per un istante nella propria creazione, l’inabissarsi nei lati oscuri della mente. Non si è mai sicuri, né nella tana e né fuori.

 

Se solo cammino in direzione dell’uscita, sebbene ancor separato da essa da gallerie e spiazzi, già credo di entrare nell’atmosfera di un grave pericolo, talvolta mi pare che la pelliccia mi si assottigli, come se fossi sul punto di restar là con la carne spoglia e nuda ed esser salutato in quell’istante dall’urlo dei miei nemici. Certamente, tali sensazioni vengono suscitate di per sé dall’uscita, dal cessare della protezione domestica, ma è anche quell’ingresso così costruito che particolarmente mi tortura[11].

 

Nella tana kafkiana, il presidio esterno offre il controllo dell’entrata e, nel contempo, consente l’uscita, cioè di venire alla luce, dove il tempo e lo spazio sono sempre giorno e notte. L’indistinto e l’indistinguibile scorrono ora nella luce dei giorni e delle notti che si succedono, senza mai arrestarsi: non sono più il sigillo della fine o del mai cominciato. Le condizioni della tana sono quelle della lotta senza respiro contro nemici, interni ed esterni, che lasciano scarso tempo e scarso spazio alla ricerca della sicurezza e della tranquillità. La tana viene convertita in un presidio da godere dall’interno e da controllare dall’esterno.

 

Ma in realtà non sono all’aperto; è vero che, anziché strisciare nell’angustia dei corridoi, corro nella foresta aperta, sento nel mio corpo nuove forze per le quali, in certo qual modo, non c’è spazio nella tana, neppure sullo spiazzo fortificato, anche se fosse dieci volte più grande; inoltre là fuori il cibo è migliore, la caccia certamente più difficile e il successo più raro, ma il risultato è superiore sotto tutti gli aspetti; non nego nulla di tutto questo e so rendermene conto e goderne, almeno quanto chiunque altro, ma probabilmente molto meglio, perché io non vado a caccia come uno straccione per incoscienza o disperazione, bensì miratamente e con calma. Inoltre non sono destinato alla vita all’aperto, né abbandonato al suo potere, bensì so che il mio tempo è misurato, che non sono costretto a correre qui all’infinito, ma che, in certo qual modo quando voglio e quando sono stanco di questa vita, verrò chiamato da qualcuno al cui invito non saprò resistere12.

 

La tana kafkiana è un labirinto, un luogo claustrofobico che simboleggia i lati più inesplorati della natura umana. Non si può uscire dalla tana perché si continua ad essere assediati dal terrore di essere aggrediti. Ma non ci si rende conto che il nemico non è fuori, ma dentro di noi. Allora la tana diventa un ambiente-incubo, una prigione da cui vorremmo evadere. Ha ragione Albert Camus quando scrive che «Kafka esprime la tragedia, per mezzo dell’elemento quotidiano, e l’assurdo, per mezzo di quello logico»13. In un altro breve racconto (postumo), La partenza (1922)14, che può essere letto specularmente a La tana, lo scrittore praghese, descrive l’andar via, una fuga possibile senza destinazione. Abbandonata la tana, si esplora l’uscita da cui, però, non si intravvede alcun orizzonte.

 

Comandai di andar a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi comprese. Andai io stesso nella stalla, sellai il cavallo e montai in groppa. Udii sonare una tromba in lontananza sentii e domandai al servo che cosa significasse. Egli non lo sapeva e non aveva udito niente. Presso il portone mi trattenne e chiese: «Dove vai, signore?». «Non lo so» risposi. «Pur che sia via di qua, via di qua, sempre via di qua, soltanto così posso raggiungere la meta». «Dunque sai quale è la tua meta?» osservò. «Sì» risposi. «Te l’ho detto. Via-di-qua; ecco la mia meta». «Non hai provviste con te» disse. «Non ne ho bisogno» risposi. «Il viaggio è così lungo che dovrò morir di fame, se non trovo nulla per via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente straordinario»15.

 

Il protagonista dà un ordine netto, ma non viene capito dal suo subordinato. Perché? Potrebbe trattarsi di un servo sciocco o distratto. Poco dopo il testo ci riferisce che un misterioso suono di tromba viene udito solo dal partente. Ciò deporrebbe di nuovo a sfavore del servitore. Eppure questi è sollecito verso il padrone. Gli chiede dove va e poi osserva giustamente che lui deve conoscere la sua meta. Possiamo allora pensare che l’uomo si muova di rado, tanto che il suo ordine non è stato compreso; potrebbe essere una persona che forse all’improvviso raccoglie le forze che gli restano per compiere un viaggio importante, meravigliando chi lo conosce. Un viaggio che intraprende da solo. Quel «via-di-qua» ribadito quattro volte segna una cesura netta tra due mondi, tra il noto e l’ignoto. Il viaggio è infinito, immenso, non ha termine. Kafka scava nell’angoscia del mondo e di ciascuno di noi. Oltre l’angoscia delle proprie patrie, c’è l’ignoto.

 

3. Angosciose esplorazioni: Jean-Paul Sartre

 

L’angoscia è la categoria più saccheggiata dalla teologia, dalla letteratura, dalla filosofia e dalla psicoanalisi. Scrive Jean-Paul Sartre nella sua grande opera del 1943, Lessere e il nulla16:

 

Possiamo dare a questo problema una risposta immediata: è nell’angoscia che l’uomo prende coscienza della sua libertà o, se si preferisce, l’angoscia è il modo d’essere della libertà come coscienza d’essere, è nell’angoscia che la libertà è in questione nel suo essere in quanto tale17.

 

Le pagine sartriane sull’angoscia danno la sensazione di scalare una cima: nell’angoscia la libertà si angoscia di fronte a se stessa, in quanto non è mai sollecitata né impedita da niente. Sartre sostiene l’irriducibilità dell’angoscia alla paura: la paura si dirige verso gli esseri del mondo, investe gli oggetti, l’angoscia è sempre un rapporto con se stessi. La paura è uno stato d’animo che scaturisce da una situazione concreta, tangibile; l’angoscia invece si correla ad un malessere non meglio definito, a una sensazione di sventura o di estraneità del mondo o delle cose. Se sono davanti a un precipizio, da temere non tanto è di cadervi quanto di gettarmici lo stesso, nel senso che diffido delle mie reazioni di fronte al pericolo. Mi avvicino al precipizio e gioco coi miei possibili. Ma come ci si ritrae dal precipizio? Impossibile.

 

Fuggiamo l’angoscia tentando di coglierci dal di fuori come altro o come una cosa. Ciò che si suole chiamare rivelazione del senso intimo o intuizione prima della nostra libertà, non ha niente di originale: è un processo già costruito, espressamente destinato a mascherare l’angoscia, il vero “dato immediato” della nostra libertà18.

 

Non possiamo dissimulare l’angoscia perché, spiega il pensatore francese, noi siamo angoscia. La fuga dall’angoscia è solo un modo per diventare coscienti. Non c’è modo per sfuggire all’angoscia. Di cosa si ha angoscia? A differenza della paura che è riferita a un oggetto determinato, nell’angoscia non c’è nessun oggetto: essa evoca in modo del tutto inaspettato una distanza. L’angoscia non vede, né vuole vedere l’oggetto. Vede solo se stessa.

E tuttavia fuggire l’angoscia ed essere l’angoscia non possono affatto essere la stessa cosa: se io sono la mia angoscia per fuggirla, ciò presuppone che io posso decentrarmi in rapporto a ciò che sono, che posso essere l’angoscia in modo da “non- esserla”, che posso disporre di un potere annullatore in seno all’angoscia stessa. Questo potere annullatore annulla l’angoscia in quanto la fuggo, e s’annulla da sé in quanto io la sono per poterla fuggire. E ciò che si chiama la malafede19.

 

     Bisogna che il nulla mi sia dato in qualche modo. E come mi è dato il nulla? Per Sartre, il nulla non si oppone all’essere, come invece avveniva nella tradizione hegeliana, ma è una componente complementare dell’essere. In tutto questo, la malafede si presenta come uno dei modi in cui il nulla si manifesta nel mondo per mezzo dell’intervento umano. In ultima analisi, essa è un atteggiamento, ma prima ancora è una particolare operazione mentale dove la coscienza mette in pratica un vero e proprio procedimento di negazione del sé. I motivi, facilmente intuibili, rispondono al bisogno di mascherare una verità spiacevole o scomoda, oppure che vorremmo semplicemente diversa. La malafede è una bugia che non si racconta agli altri, ma a sé stessi.

 

Non si tratta dunque di cacciare l’angoscia dalla coscienza, né di costituirla come fenomeno psichico incosciente: semplicemente io posso dispormi in malafede nell’apprendere l’angoscia che sono e questa malafede, destinata a riempire il nulla che io sono nel mio rapporto con me stesso, implica precisamente quel nulla che sopprime20.

 

Nei suoi meccanismi psichici, essa è poi perfettamente equiparabile a una fede, per cui ciò che si realizza con la malafede è una tipica situazione di credenza.

 

Il vero problema della malafede proviene evidentemente dal fatto che la malafede è fede. Essa non può essere né menzogna cinica né evidenza, se evidenza è possesso intuitivo dell’oggetto. Se si chiama credenza l’adesione dell’essere al suo oggetto, quando l’oggetto non è dato o è dato in modo indistinto, la malafede è credenza e il problema essenziale della malafede è un problema di credenza21.

 

La malafede è una fuga da se stessi, non ha nulla a che vedere con una riprovazione moralistica. L’essere umano scopre la sua scissione, la sua inconsistente consistenza, il suo sporgersi o specchiarsi nel nulla.

 

Ciò che qui conviene notare è che la libertà, che si manifesta con l’angoscia, è caratterizzata da un’esigenza continuamente rinnovata di rifare l’io che costituisce l’essere libero22.

 

Nell’angoscia la libertà si angoscia di fronte a se stessa, perché non è sollecitata né impedita da niente. La libertà sartriana spinge l’essere umano a una solitudine estrema, a un agire gravoso, ma privo di senso. È una libertà senza appoggio e senza balaustra, senza norma, senza necessità logica. «Parimenti, la libertà appare come una totalità inanalizzabile»23. La scoperta veramente angosciante è che questo vuoto è in noi stessi.

 

4. Martin Heidegger

 

L’angoscia è anche la categoria fondamentale di Heidegger che viene declinata in più luoghi dell’opera del pensatore tedesco: si affaccia nella conferenza del 1924 su Il concetto di tempo, per essere ripresa e sviluppata in Essere e tempo, del 1927, e in Che cosè metafisica, del 1929.

Nel paragrafo 40 di Essere e tempo, leggiamo:

 

Il «davanti-a-che» dell’angoscia è completamente indeterminato. […] Nell’angoscia non si incontra questo o quell’ente presso cui sia possibile una qualsiasi appagatività rispetto alla minaccia che reca con sé. Perciò l’angoscia non ha occhi per «vedere» un determinato «qui» o «là» da cui si avvicina ciò che è minaccioso. Ciò che caratterizza il «davanti-a-che» dell’angoscia è il fatto che il minaccioso non è in nessun luogo24.

 

Heidegger porta a termine in questo paragrafo l’analisi della situazione emotiva dell’Esser-ci, soffermandosi su una condizione esistenziale estrema che si rivela attraverso l’angoscia. L’angoscia non sa, non vede, non ha occhi per vedere, non fa esperienza di nulla di utilizzabile nel mondo. Questo nulla esprime la solitudine del soggetto di fronte alla sua esistenza, al suo esser-ci in quanto essere-nel-mondo.

Se da una parte l’angoscia sfugge a qualsiasi determinazione, a qualsiasi oggettivazione, dall’altra apre direttamente il mondo come mondo. Spiega Heidegger che il davanti-a-che dell’angoscia diventa angoscia-per25. Il per dell’angoscia è l’essere-nel-mondo come tale. L’angoscia isola l’Esserci nel suo essere-nel-mondo.

In un altro luogo della sua opera, Heidegger sottolinea il senso di spaesamento dell’essere-nel-mondo.

 

Nell’angoscia, noi diciamo, «uno è spaesato». Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’«uno»? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che nell’angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo «nessuno»26.

 

Nel momento in cui smette di riferirsi a se stesso come parte del discorso quotidiano che lo include nel modo di pensare di tutti, L’Esserci non è più a casa sua nel mondo e non ha altra casa. L’angoscia è dunque il sentimento esistenziale più autentico, normalmente celato dai diversivi offerti dalla vita comune. Esso è talmente forte da manifestarsi attraverso tutte le forme di estraneazione. L’esistenza umana, in quanto essere-nel-mondo, si esperisce essa stessa come estranea al mondo. Lo spaesamento è il non-familiare che genera nell’essere umano turbamento, inquietudine, l’estraneo che si insinua nella nostra casa. Das Unheimlich è la parola di Freud che vi dedica nel 1919 una celebre conferenza27, di cui si parlerà nel prossimo paragrafo.

 

Col termine angoscia non intendiamo quell’ansietà (Ängstlichkeit) assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. E poiché è propria della paura la limitatezza del suo oggetto e del suo motivo, chi ha paura ed è pauroso è prigioniero di ciò in cui si trova. Nel tendere a salvarsi da questo qualcosa di determinato, egli diventa insicuro nei confronti di ogni altra cosa, cioè, nell’insieme, «perde la testa»28.

 

L’angoscia rivela il niente. Noi siamo “sospesi” nell’angoscia. Il modo originario del nostro essere-presso-di-noi è, quindi, l’estraneità a noi stessi. Questa estraneità fa comprendere la quotidianità e la nostra comprensione stessa, a partire dalle cose che ci attorniano. La quotidianità, segnata dall’angoscia, si caratterizza come una fuga davanti a noi stessi. L’angoscia fa sì che il senso dell’ente nel suo insieme si dilegui. Essa nega il senso della quotidianità che ci è dato e sollecita a interrogarci sulla nostra condizione. Nell’angoscia avviene il cambio di disposizione fondamentale che ci trasforma e da cui scaturisce la domanda filosofica. Chi sperimenta l’angoscia conosce la caducità del nostro essere, sospeso nel Niente.

    

5. Søren Aabye Kierkegaard

 

Il primo a cogliere e descrivere con proprietà e acume filosofico questa affezione umana è stato il grande pensatore danese dell’Ottocento, Søren Aabye Kierkegaard. La sua opera, Il concetto dellangoscia (1844), fornisce una spiegazione di questa categoria che diventerà un punto di riferimento per le ricerche psicoanalitiche, psichiatriche e per l’intero esistenzialismo moderno. Questo testo straordinario che apre la grande riflessione filosofica moderna sull’angoscia è già nel titolo un enigma. O l’angoscia o il concetto. Delle due l’una. Kierkegaard sa bene che dell’angoscia non si può dare nessun concetto, non si può categorizzare uno stato di sofferenza. Per diretta ammissione dell’autore che sceglie lo pseudonimo, Vigilius Haufniensis, l’angoscia sfugge alla presa scientifica definitiva e può essere al massimo oggetto di una descrizione psicologica nelle sue tonalità emotive.

 

L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso. Così l’angoscia è la vertigine della libertà che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso29.

 

La situazione in cui l’uomo si trova di fronte al tuffo nell’abisso e il vivere la travolgente sensazione di finitudine è riassunta da Kierkegaard con la parola vertigine. È su questo terreno che fiorisce l’Angst, l’angoscia, secondo il filosofo danese. Così l’angoscia non è semplicemente uno stato psicologico, uno stato d’animo o un sentimento, ma è una struttura ontologica essenziale dell’essere umano: il segno indelebile della libertà umana. Ricorda il pensatore danese che in una favola dei fratelli Grimm si racconta di un ragazzo che andò in cerca di avventure per imparare a sentire l’angoscia.

 

Vorrei dire, però, che questo [l’imparare a sentire l’angoscia] è un’avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece imparò a sentire l’angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta30.

 

Il senso dell’esistenza umana è strutturalmente orientato all’angoscia. Nelle prime righe dell’«Introduzione», l’Autore precisa che l’angoscia è un problema che interessa la psicologia e tale rimando suggerisce alla psicoanalisi di raccogliere l’indicazione kierkegaardiana. «L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia»31. L’angoscia è un’esperienza psicologica, completamente diversa dalla paura e da concetti affini. Non c’è angoscia negli animali o negli Angeli rilkiani.

 

L’angoscia è la possibilità della libertà […]. E nessun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanto astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte32.

 

6. Al di qua del principio dellangoscia: Sigmund Freud

 

L’oggetto angoscioso è consumato dall’attesa che fa dell’angoscia un sentire prima della determinatezza del sentimento vero e proprio. In Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Freud considera l’angoscia segnale affettivo del pericolo, una sorta di inciampo, da parte dell’io. L’angoscia, si potrebbe dire, è un campanello d’allarme sempre acceso. Prendiamo in esame due luoghi freudiani sull’angoscia: la lezione 25 da Introduzione alla psicoanalisi e Il perturbante.

Anche Freud sulla scia di Kierkegaard pensa che l’angoscia prescinda dall’oggetto, mentre la paura richiama l’attenzione proprio sull’oggetto. L’angoscia è anzitutto un affetto che è un concetto limite, un accadimento interno tra lo psichico e il somatico, percepito come emozione nella superficie interna della coscienza e come stato somatico sulla superficie esterna.

 

Un affetto comprende in primo luogo certe innervazioni, o scariche motorie, e in secondo luogo certe sensazioni; queste ultime sono di natura duplice: le percezioni delle azioni motorie che si sono verificate e le sensazioni di piacere, come si dice, la nota fondamentale e di dispiacere, che danno all’affetto33.

 

L’affetto non è una reazione immediata ad una determinata situazione, ma piuttosto la ripetizione di un’esperienza significativa già vissuta in precedenza. Il nucleo dell’affetto è la ripetizione che riproduce

 

l’atto della nascita, nel quale ha luogo quel misto di sentimenti spiacevoli, di impulsi di scarica e di sensazioni corporee che è divenuto il prototipo dell’effetto prodotto da un pericolo mortale e che da allora viene ripetuto come stato d’angoscia34.

 

Gli organi corporei più frequentemente associati con l’angoscia sono il cuore e gli organi della respirazione. L’affetto dell’angoscia esprime perciò un disagio, anche a livello fisico, dovuto alla sensazione di un pericolo interno imminente, «uno stato speciale di dispiacere associato a atti di scarica e percezione di questi atti»35. Qualcosa dall’interno viene vissuto come un pericolo, e questo qualcosa ha a che vedere con la pulsione e con il desiderio. La sensazione di un pericolo interno è ciò che contraddistingue l’affetto dell’angoscia e che la differenzia dagli altri affetti, che potrebbero sembrare simili, quali la paura o l’ansia. Freud collega l’angoscia al trauma della nascita, perché la prima non fa che ripetere la percezione di una perdita e, al tempo stesso, la percezione di un pericolo imminente o la reazione a qualcosa di estraneo, di perturbante che si connette all’origine36.

Nel saggio Das Unheimliche (Il perturbante, 1919), il padre della psicoanalisi esplora la natura estranea e scandalosa dell’oggetto angoscioso o perturbante a partire dall’analisi linguistica dell’aggettivo tedesco unheimlich. La stesura del testo scaturisce da situazioni angosciose vissute dal padre della psicoanalisi: gli orrori della grande guerra, con riferimento alle nevrosi da trauma, e la perdita prematura della diletta figlia Sophie. Sono gli anni della grande svolta freudiana che culminerà nel saggio Al di là del principio del piacere, che uscirà nel 1920: a dominare è il grande tema della morte che si affianca alla pulsione di vita. Eros e Thanatos formano la dualità costitutiva della vita psichica, non un’opposizione, ma una duplicità all’interno di unico principio. La radice fondativa dell’aggettivo heimlich (familiare), spiega Freud, sviluppa il suo significato in senso ambivalente fino ad arrivare, in alcuni casi, a declinarsi nel suo stesso contrario, unheimlich. Il perturbante è definito «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Il risvolto teorico di questa indagine linguistica è la complicità tra il familiare e l’estraneo, nel senso che il primo termine contiene il nucleo dell’estraneità nella forma del nascondimento e il secondo termine, quello della familiarità, nella forma del consueto e dell’ovvio. Questo intreccio genera turbamento, disorientamento. L’angoscia ha qui la sua radice.

 

Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso37.

 

Esso è l’irrompere di una estraneità solo apparente, situata nel cuore stesso della scena da tempo immemorabile. L’unheimlich è l’osceno nascosto dietro la rassicurante compostezza della quotidianità familiare. Il «rimosso che ritorna» ed affiora in un «perturbante sentimento di morte». Tuttavia, Freud fa capire che questo termine, unheimlich, è un mistero che non si lascia catturare in una trama di significati ben definiti: estraneo, inquietante, strano, ignoto, spaventoso. Questa costellazione semantica tuttavia non coglie la densità e la specificità dell’unheimlich.

L’angoscia esistenziale si annida e cova in questo involucro linguistico. Umberto Curi, commentando il saggio di Freud, scrive:

 

Vi è un’unica lingua nella quale è possibile incontrare un termine che corrisponde esattamente alla polisemia di unheimlich. Questa lingua è il greco classico. E il termine è xenos. Lo stesso termine che abitualmente viene tradotto con la parola “straniero”. Ne consegue che tutto ciò che abbiamo colto nella ricerca compiuta a proposito del termine unheimlich – quanto è emerso riguardo alla sua inquietante prossimità, alla sua vicina lontananza, alla sua assenza presente – va riferito al termine con il quale, nella Grecia antica, si alludeva allo straniero38.

 

L’angoscia freudiana ha molto a che fare con questo nascondimento/disvelamento, con questa inquietante prossimità. Il pericolo, forse, siamo noi stessi. Ciò che avvertiamo come pericoloso è qualcosa che ci riguarda da vicino.

 

7. Jaffier o langoscia nel cuore

 

Chi è Jaffier? Un congiurato che diventa tale per amicizia. Jaffier è il personaggio principale di un potente dramma storico, Venezia salva, di Simone Weil, unico testo teatrale composto dalla grande pensatrice francese nell’estate del 1940. Racconta di una congiura ai danni di Venezia ordita dagli spagnoli nel 1618. Una città isolata di fronte a un nemico potente e dispotico: come Parigi, assediata dalle truppe naziste, nel 1940. La città sarebbe stata saccheggiata, tolta ai veneziani e consegnata alla Spagna, proprio nel giorno della festa della Pentecoste. Un sogno che acceca, una sete di potere che divora. Ma qualcosa arresta i piani. Lo stesso Jaffier rivela al Consiglio dei Dieci la congiura, mosso da pietà, giustizia… forse dalla bellezza inviolabile della città.

Si distacca dal sogno, osserva Venezia dall’alto, forse riflette sul reale… La città, il suo splendore, la gioia nel cuore di Violetta che attende la festa della Pentecoste come il giorno più felice della sua vita. A lei, ignara di tutto, spetta l’ultimo monologo della tragedia incompiuta. Ma nel frattempo Jaffier è incorso in un’ulteriore sciagura: denunciando la cospirazione e impedendo il massacro, ha dato la morte ai suoi amici congiurati, seppure avesse chiesto come unico favore quello di risparmiarli. L’eroe si è affacciato sul crinale, forse quello fra bene e male, fra reale e immaginario. Ha compiuto una scelta e sacrificato potere, amicizia, fedeltà, credendo di agire nel giusto. Gli è andata peggio che a tutti gli altri: non gli è stato concesso morire. Ma ecco Violetta all’alba dei festeggiamenti:

 

Vieni e vedi, città, la tua gioia ti attende, / sposa dei mari, vedi, lontano e più vicino […]. Tra un attimo la festa colmerà i nostri voti. / Il mare calmo attende. O bellezza sul mare / Dei raggi dell’aurora!39. 

 

     Venezia è salva, Violetta pure. La bellezza, la speranza, intatte. Jaffier è un eroe tragico che ricorda Antigone di fronte a Creonte. Angosciato per aver mandato a morte i cospiratori, suoi ex compagni, Jaffier è ingiuriato e minacciato di morte da coloro a cui ha salvato la vita. Il bene, fa capire la pensatrice francese, non è di questo mondo, è fuori del normale, il male invece è normale. Il suo gesto è esemplare, perché è l’assunzione di una grande responsabilità: trattenersi dall’agire contro il mondo. La resa di Jaffier di fronte alla bellezza notturna di Venezia è un gesto di salvezza e di redenzione.

     Leggiamo questi versi di Maria Antonietta Vito, scrittrice e raffinata commentatrice dell’opera di Simone Weil. Sono estratti da un suo Oratorio, liberamente ispirato a Venise sauvée. I personaggi della pièce sono tre: Jaffier, Violetta e la stessa Simone.

    

Simone:

Come sono strane queste parole,

Lo riconosco… è lui, è Jaffier!

Il vento umido della sera mi porta la sua voce,

Tendo l’orecchio, riesco perfino a fissarlo in volto,

Getto uno sguardo nell’angoscia del suo cuore,

Un gran freddo mi corre per la schiena,

Scivola sotto la mia pelle il suo tormento…

Sì, Jaffier ha aperto gli occhi… e ha visto la città!

L’ha vista debole e sola,

Come una vergine in preghiera

Ai piedi di un altare,

Avviluppata in un velo bianco di sventura.

Certo, dall’alto di una torre

Hai la distanza giusta dalle cose.

Finalmente puoi leggerli, Jaffier,

I segni del dolore,

Puoi guardarli come si guarda

Un paesaggio nuovo,

Una terra dove non eri mai entrato,

Grigia, sassosa, inaridita…

Puoi vederne i solchi, le fenditure,

Se guardi attentamente, arrivi

Fino alle profondità più oscure40.

 

Il sacrificio di Jaffier insegna lesperienza del saper vedere e del saper morire. La sua angoscia non inganna, anzi scuote e salva. L’angoscia nel sapere Venezia data alle fiamme porta Jaffier ad un conflitto interiore che lo consuma.

 

Senza ritorno io m’allontano dai luoghi dei viventi. Non c’è alba dove io vado, né città41.

 

Jaffier è ridotto allo stato di cosa, sente di non essere più un vivente. Quell’agonia che non ha voluto per Venezia diventa la sua agonia. Il suo sacrificio non è stato uno scambio vantaggioso, per cui egli ha sacrificato qualcosa per ottenere qualcos’altro. Jaffier è l’alter ego di Simone che si lascia morire in un sanatorio di Ashford, fuori Londra, rifiutando cibo, nell’agosto del 1943. Il sacrificio di Jaffier e di Simone è un atto etico che obbedisce all’appello del mondo.

 

8. Lindividuo angosciato

 

Cosa significa provare angoscia nel cuore come il tormentato personaggio weiliano? Come si manifesta l’angoscia? Che cosa accade dentro di noi, quando ci angosciamo. C’è un linguaggio dell’angoscia? La prima sensazione dell’individuo angosciato è uno stato di malessere generale, di agitazione psichica e fisica; poi c’è una seconda sensazione che è di solitudine. L’angoscia separa, rompe le relazioni, allenta ogni legame con il mondo. La percezione di una minaccia imminente fa precipitare l’essere umano in un non-luogo di esclusione. In psicopatologia, l’attacco d’angoscia rientra nell’ambito dei disturbi del pensiero: l’angoscia diventa un’ossessione, un contenuto di coscienza non intenzionale, da cui il soggetto non riesce a liberarsi. Stiamo parlando del pensiero anancastico, o ossessivo, di cui è stato teorico lo psichiatra e psicoterapeuta tedesco Viktor von Gebsattel. Appartenente a una famiglia di antica nobiltà bavarese, Gebsattel fu un intellettuale dai molteplici interessi e di grande erudizione, uno dei protagonisti della stagione di Weimar negli anni ’20 e contribuì enormemente a dare impulso alla psichiatria fenomenologica, nella figura di Ludwig Biswanger. Nel 1926 aveva fondato una nuova clinica per la cura delle malattie nervose, lo Schloss Fürstenberg. Nel 1938, mentre cala la notte sull’Europa, pubblica un saggio, Il mondo dellanancastico42, in cui elabora l’ossessione d’angoscia o anancastica attraverso casi clinici esemplari. L’uomo anancastico vede la minaccia di una dissoluzione delle forme vitali, combatte con la sua ombra, cioè con se stesso.

 

L’intero mondo si raggrinza per assumere una fisionomia repulsiva che affiora pressoché da e in ogni contenuto, angosciandolo e costringendolo in pari tempo ad usare ogni sua energia per difendersi43.

 

L’uomo affetto da ossessione d’angoscia vede il mondo in decomposizione in modo omogeneo, mondo che perde la sua articolazione, finché restano solo il “male” ed il rifugio che l’ossessivo tenta di proteggere e il disgusto indica la distanza dell’ossessivo dalla vita e la conseguente introduzione di una inclinazione alla morte.

Riportiamo degli esempi calzanti presi in prestito dalla letteratura per capire che l’uomo angosciato non capisce la vita, ma la teme. Il primo esempio è un racconto di Čechov, il titolo è Paura (1892). Il protagonista, Dimitrij Petrovič Silin, è spinto a guardarsi dentro. Confessa a un amico:

 

Da amico vi confesso che a volte, in momenti di angoscia, mi sono immaginato la mia ultima ora, con la mia fantasia che produceva visioni nerissime a migliaia, e sono arrivato fino a provare uno stato di esaltazione penoso, un vero e proprio incubo ma, v’assicuro, non mi pareva più spaventoso della realtà. Che dire, i fantasmi fanno paura, ma anche la vita44.

 

Dimitrij è angosciato perché ammalato di paura della vita. Ѐ preso da incubi, fa fatica a dare un senso alle sue azioni. La sua angoscia non ha oggetto; e se l’avesse non è di certo afferrabile. La psicoanalisi, a partire da Freud e sulle tracce di Lacan, ha spiegato che la finzione letteraria offre la migliore articolazione per descrivere l’angoscia o altre manifestazioni della malattia psichica45. Del resto, l’angoscia è ciò che genera il percorso psicoanalitico, e dunque il lavoro dell’analisi. Il personaggio cechoviano non sa dare forma ai suoi fantasmi, ma sente l’angoscia nel corpo, a riprova che l’angoscia è un affetto, dunque qualcosa che si sente nel corpo e che il corpo sente come una pietra di inciampo.

Il secondo esempio è un estratto da La peste (1947), il celebre romanzo di Albert Camus. Quello della peste è il tema onnipresente in letteratura, in antropologia, in storia, nei miti e nei riti di tutto il mondo. Protagonista è Bernard Rieux, medico francese residente a Orano, e il romanzo è condotto come una cronaca scritta in terza persona dallo stesso Rieux. C’è, infine, Raymond Rambert, un giovane giornalista francese che cerca disperatamente da Rieux un aiuto per tornare in Francia.

 

«Sia certo che la capisco», disse infine Rieux, «ma il suo ragionamento non corre. Io non posso farle il certificato in quanto ignoro se lei ha o no la malattia e in quanto, anche in tal caso, non posso attestare che tra il minuto in cui lei uscirà dal mio studio e il minuto in cui lei entrerà in prefettura lei non sarà contagiato. «E poi anche?» disse Rambert. «E poi, anche se le facessi il certificato, non le servirebbe a niente». «Perché?» «Perché ci sono in questa città migliaia di uomini nella sua situazione, e tuttavia non si può lasciarli uscire». «Ma se, loro, la peste non l’hanno?». «Non è una ragione sufficiente. La storia è stupida, lo so bene, ma riguarda tutti noi. Bisogna prenderla com’è». «Ma io non sono di qui!». «A cominciare da ora, purtroppo, lei sarà di qui, come tutti»46.

 

In questo dialogo stringente c’è l’esatta percezione dell’oggi. Rambert vuole ritornare a casa e unirsi ai suoi affetti. Ma non può lasciare la città. Il virus è un nemico invisibile che può colpire chiunque e non c’è possibilità alcuna di sapere chi è contagiato e chi no. Improvvisamente l’anormalità diventa normalità. La quarantena costringe tutti a riconsiderare la propria vita: c’è la paura del contagio, il terrore di morire, l’angoscia della solitudine. Da ultimo cè il naufragio, per dirla con Karl Jaspers, c’è l’assenza di terreno sotto i piedi. Gli esseri umani non si orientano più nel mondo che in sé e da sé non si lascia più comprendere.

Rieux è un medico coraggioso che vive in prima linea, solo, sradicato dai suoi affetti (la moglie è partita da Orano prima del dilagare dell’epidemia); egli è consapevole che può morire in qualsiasi momento. La sua angoscia è l’angoscia di tutti gli abitanti di Orano. La vita scorre ritmata da un tempo biologico, fatto di sere e di mattine. Poi c’è l’allentamento o la fine dell’epidemia e Rieux decide di scrivere una cronaca per testimoniare a favore degli appestati. Infatti, solo alla fine del racconto, il lettore apprende che la narrazione si basa sui taccuini del dottore.

 

Ma egli sapeva tuttavia che questa cronaca non poteva essere la cronaca della vittoria definitiva; non poteva essere che la testimonianza di quello che si era dovuto compiere, contro il terrore e la sua instancabile arma, nonostante i loro strazi personali, tutti gli uomini che non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere flagelli, si sforzano di essere dei medici47.

 

Il romanzo di Camus è una sorta di cartella clinica del presente, di ogni presente della storia dell’umanità che ha sempre conosciuto morbi, epidemie, carestie, flagelli di ogni genere; in altri termini, è la diagnosi impietosa di una crisi di civiltà.

 

I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati48.

 

Il flagello può riconfigurare il senso dello stare al mondo, una volta che gli esseri umani hanno dismesso l’habitus dell’onnipotenza.

 

9. Qualche ultima considerazione

 

Al termine di questo excursus, l’angoscia non sempre si lascia imbrigliare ed addomesticare in una griglia di categorie: si tratta di un’esperienza esistenziale, psicologica e clinica da contenere e da addomesticare, ma ineludibile se vogliamo sentirci umani, se vogliamo sentire il gemito del nostro esistere da cui possono lampeggiare bagliori di saggezza.

L’angoscia non può essere occlusione dei sensi o assoluto ripiegamento su di sé, ma è il punto oscuro di passaggio verso la sola sicurezza di ciò che noi siamo, il nome che avvolge la nostra vulnerabilità, il terreno sporgente sull’estremo rischio per vivere consapevolmente nella contingenza, affrancati per sempre da ogni illusione.

NOTE

[1] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, tr. it. di M. Tonin Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1978, p. 355. (La citazione è tratta dalla Lezione 25 dedicata all’angoscia). Cfr. E. Borgna, Angoscia in Aa. Vv., I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 2002, pp. 19-29. Qui, leggiamo: «Langoscia non è la paura. L’ansia e l’angoscia sono espressioni che rimandano a comuni stati di cose e sono talora usate come sinonimi, e talora come indicatori di emozioni diverse. […] Angst è la sola parola di cui il tedesco dispone per significare gli stati d’animo che corrispondono ad ansia e angoscia; mentre in inglese al termine anxiety, ansia, si accompagna anche il termine anguish, che significa angoscia, tormento interiore» (p. 20). Cfr., inoltre, E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a cura di C. Gallini, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 30-31.

[2] G. Anders, Luomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2007; vol. I: Considerazioni sullanima nellera della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dallapiccola, p. 249.

[3] Ivi, pp. 226-227.

[4] Cfr. H. Jonas, Sullorlo dellabisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 2000.

[5] Ivi, p. 7.

[6] Cfr. R. Girard, Portando Clausewitz allestremo. Conversazione con Benoît Chantre, tr. it. di G. Fornari, Adelphi, Milano 2008.

[7] Ivi, pp. 12-13.

[8] F. Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), a cura di A. Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 312-313.

[9] R. Caracci, Le figure dellabitare in Kafka in Aa. Vv., Moderno e postmoderno, a cura di A. Meccariello, G. Baptist e A. Bonavoglia, Manifestolibri, Roma 2016, p. 183.

[10] F. Kafka, Il silenzio delle sirene, cit., p. 320.

[11] Ibid.

12 Ivi, pp. 320-321.

13 A. Camus, Il mito di Sisifo, in Id., Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura di R. Grenier, Bompiani, Milano 2000, p. 326.

14 In F. Kafka, Tutti i racconti, a cura di E. Pocar, vol. II, A. Mondadori, Milano 1970.

15 Ivi, p. 177. Cfr. U. Curi, Via di qua. Imparare a morire, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 188-189.

16 Cfr. J.-P. Sartre, Lessere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, cura di F. Fergnani e M. Lazzari, tr. it. di G. del Bo, il Saggiatore, Milano 1975.

17 Ivi, p. 66.

18 Ivi, p. 82.

19 Ivi, p. 83.

20 Ibid.

21 Ivi, p. 110.

22 Ivi, p. 73.

23 Ivi, p. 548.

24 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 234.

25 Cfr. ivi, p. 235.

26 M. Heidegger, Che cosè metafisica, in Id., Segnavia, a cura di F.-W. von Hermann, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 67.

27 Cfr. S. Freud, Il perturbante, a cura di C. Musatti, Theoria, Roma-Napoli 1984.

28 M. Heidegger, Che cosè metafisica, cit., p. 67.

29 S. Kierkegaard, Il concetto di angoscia. La malattia mortale, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1966, p. 74. Cfr. A. Cavalletti, Vertigine. La tentazione dellidentità, Bollati Boringhieri, Torino 2019, pp. 150-171.

30 Ivi, p. 193.

31 Ivi, p. 50.

32 S. Kierkegaard, Il concetto di angoscia, cit., p. 194.

33 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Id., Opere, vol. VIII: Introduzione alla psicanalisi e altri scritti (1915-1917), a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1976, p. 357.

34 Ibid.

35 S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, in Id., Opere, vol. X: Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti (1924-1929), a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1978, pp. 280-281.

36 Cfr. S. Natoli, Lesperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2002. Per l’autore l’angoscia si collega all’ontologia del dolore e traduce la situazione di rischio in sentimento della precarietà. «L’angoscia volge in stato affettivo, e perciò in interiorità, gli aspetti traumatici del dolore e quindi i suoi momenti materiali, vincolandoli al sentimento della precarietà implicato nella perdita» (p. 35).

37 S. Freud, Il perturbante, cit., p. 12.

38 U. Curi, Straniero, Cortina, Milano 2010, p. 55.

39 S. Weil, Venezia salva, a cura di C. Campo, Adelphi, Milano 2007, p. 106.

40 M. A. Vito, Il silenzio di Jaffier, in «Prospettiva Persona», 2009, n. 69-70, p. 68.

41 S. Weil, Venezia salva, cit., p. 105.

42 Cfr. V. von Gebsattel, Il mondo dellanancastico, in E. Minkowski – V. von Gebsattel – E. Straus, Antropologia e psicopatologia, Anicia, Roma 2013, pp. 43-113; cfr. A. Ballerini, Ossessione, voce in Aa. Vv., Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, vol. II, Einaudi, Torino 2007.

43 V. von Gebsattel, Il mondo dellanancastico, cit., p. 112.

44 A. Čechov, Paura, tr. it. di F. Sigona, Stampa alternativa, Roma 1996, p. 12. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro X. Langoscia. 1962-1963, a cura di J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, nonché J.-A. Miller, Langoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, tr. it. di L. Ceccherelli, Quodlibet, Macerata 2006.

45 «Un soggetto non angosciato è un soggetto che non è più disponibile al lavoro analitico». In C. Soler, La direzione della cura: linizio e la fine dellanalisi, in «La Psicoanalisi», 1990, n. 7, p. 80.

46 A. Camus, La peste, cit., p. 438.

47 Ivi, p. 615.

48 Ivi, p. 400.