La nuova arte della guerra

 

Alla fine della guerra fredda, a ridosso della prima guerra del Golfo, negli ambienti militari e diplomatici statunitensi venne elaborata una nuova dottrina bellica. Questo nuovo campo di studi, centrato sulle frontiere tecnologiche e digitali che l’evento bellico in quegli anni si accingeva a toccare e superare, e coltivato soprattutto nei think tanks americani in coordinamento con gli stati maggiori degli eserciti occidentali, definiva un nuovo concetto di guerra, sintetizzato dall’acronimo RMA (Revolution in Military Affarirs)[1].

Nel corso degli anni questa formula è stata utilizzata per indicare non solo la nuova strategia di guerra aerea condotta nei confronti armati affrontati dagli Stati Uniti a ridosso del crollo dell’URSS, ovvero la prima guerra del Golfo e l’attacco alla Serbia nell’ambito della guerra civile in Kosovo, ma in generale per identificare il progressivo processo di digitalizzazione del fenomeno bellico. Parti fondamentali della RMA sono i sofisticati strumenti digitali di rilevazione dei satelliti militari e la massiccia introduzione di apparecchi aerei privi di pilota, ovvero i droni (UAV)[2], capaci non solo di sorvegliare interi teatri bellici, ma di condurre operazioni di attacco in condizioni di totale invulnerabilità per il personale militare.

Questa nuova dottrina di guerra è oggi un dato condiviso da tutti gli eserciti. Il sapere bellico, condensato indistintamente in riviste di politica internazionale, in quelle specializzate in armamenti, in manuali ad uso esclusivo delle Accademie Militari o in think tank come la Rand Corporation, si muove a partire da questa rivoluzione tecnologica. In questo modo, la prospettiva di Clausewitz, ovvero l’immagine di una guerra come continuazione della politicacon altri mezzi, è stata completamente obliterata[3]. L’adagio clausewitziano, che già Antoine Henri de Jomini, l’altro grande teorico ottocentesco della guerra, aveva contestato, proponendo la formula compromissoria di “politica militare”[4], si è trasformato nel seguente: la guerra come condizione permanente della politica e del capitalismo tecnologico.

A distanza di più di quarant’anni dalla sua prima formulazione, l’inversione dell’aforisma di Clausewitz proposta da Michel Foucault trova una tragica conferma. Proprio quando la dinamica politica della ragion di stato, che ha guidato i conflitti dalla pace di Westphalia fino alla metà del Novecento, ha trovato il suo esaurimento di fronte al filo spinato e alle camere a gas dei lager nazisti o staliniani e alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la guerra ha rivelato pienamente l’aspetto “funzionale” della politica nei rapporti di potere. Guerra allora come sostrato permanente dei rapporti di potere, di cui semmai la politica è una continuazione[5].

La soglia fondamentale che questa rivoluzione tecnologica ha fatto varcare agli eserciti e alle politiche è oggi un dato condiviso da tutti gli stati maggiori nel mondo. Non a caso, già alla fine degli anni Ottanta e poi agli inizi della decade successiva, la principale riflessione sulla RMA è venuta proprio dal fronte non occidentale, in particolare da teorici militari sovietici e da pensatori politico-militari cinesi.

Nel 1992, in un report dello stato maggiore russo, si ammetteva che con la nuova tecnologia digitale dei droni i confini fisici, geografici e politici della guerra venivano trasformati in modo radicale e inedito: «Interi paesi diventeranno campi di battaglia. La distinzione fra fronte e retrovie scomparirà con la ricognizione (sc. dei droni). Nelle guerre del futuro ci saranno solo “bersagli” e “non-bersagli”»[6].

Da questo punto di vista Guerre senza limite. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, il libro di Liang Qiao e Xiangsui Wang[7], due colonnelli dell’esercito cinese autori di una profonda riflessione sulle nuove frontiere dell’evento bellico nel XXI secolo, si può considerare un testo epocale e simbolico: fondamentale per comprendere le nuove prospettive della guerra digitalizzata, il libro ha circolato dapprima segretamente nelle cancellerie occidentali, ed infine è stato pubblicato in occidente grazie alla traduzione delle agenzie di intelligence statunitensi. In questo testo i due autori cinesi delineano chiaramente i tratti delle guerre ibride di oggi, ove l’indistinzione regna sovrana fra frontiera e retrovia, fra civili e militari, fra teatro di guerra e paese non belligerante ecc.

La nuova e recente digitalizzazione dell’evento bellico ha condotto, e sta sempre più attuando, la sovrapposizione di sfere un tempo separate. La stessa introduzione dei droni aerei, con la loro capacità di sorveglianza continua, la capacità microfisica di individuazione, gli armamenti sofisticati e letali, la capacità di rendere invulnerabile l’attaccante e il sorvegliante, hanno fatto saltare categorie come teatro di guerra, fronte, retrovie, tempo di pace, esercito belligerante, obiettivo ecc. E’ sufficiente vedere Eye in the Sky (Il diritto di uccidere), il bel film del 2015 di Gavin Hood interpretato magistralmente da Helen Mirren, per rendersi conto non solo delle inimmaginabili capacità di controllo e identificazione dei nuovi sistemi d’arma unmanned, ma anche delle sostanziali nuove e altrettanto inimmaginabili zone di indistinzione che l’uso di queste tecnologie comporta.

Una prima area di indistinzione è quella che riguarda le istituzioni armate. Sempre di più negli ultimi decenni le polizie nazionali hanno assunto caratteri militari e sempre di più gli eserciti operano e si comportano come polizie[8]. Si possono qui proporre tre aspetti paradigmatici. L’introduzione nelle polizie di reparti speciali (SWAT) è avvenuta nelle polizie statunitensi, che hanno capitalizzato le nuove tecniche di controguerriglia dell’esercito nella guerra del Vietnam.

A partire da questo tragico evento la polizia di Los Angeles, negli anni Settanta, ha introdotto l’uso dell’elicottero per la sorveglianza della megalopoli californiana, uso poi esteso a tutte le polizie mondiali[9]. Infine il concetto di Red Line, ovvero l’idea di un perimetro inaccessibile e invalicabile all’interno dello spazio urbano, è stato mutuato dall’uso che di questo concetto hanno fatto gli eserciti sin dalla seconda guerra mondiale. Oggi sempre più le polizie hanno armamento e addestramento militare e sempre di più gli eserciti intervengono in operazioni di polizia, sia con finalità “antiterrorismo” o di contrasto al traffico di stupefacenti, sia nell’ambito delle cosiddette operazioni “umanitarie”. Le esercitazioni militari oggi prevedono la dottrina del “3 block war in 3 dimensions”, ovvero la conflazione in un unico movimento di operazioni di guerra vera e propria (combat), operazioni di polizia volta alla repressione di insurrezioni e rivolte (riot suppression) e operazioni di salvataggio di profughi (humanitarian relief).

Inoltre le dottrine e le regole di ingaggio oggi operative presso tutti gli stati maggiori implicano la prevalenza di teatri urbani, un tempo campo esclusivo della polizia, e prevedono una pletora di nemici potenziali che si sostanzia in un’immagine proteiforme del nemico capace di includere, sovrapponendoli, attori diversi: insorgenti, trafficanti di stupefacenti, serial killers, bande paramilitari e folle sediziose, manifestanti, dissenzienti ecc[10].

La guerra è ormai fra la gente, come ammette il generale britannico Rupert Smith: «non c’è un campo di battaglia a sé stante su cui si confrontano gli eserciti, e neppure ci sono necessariamente eserciti, certamente non da entrambe le parti in conflitto. […] La guerra fra la gente […] è la realtà in cui le persone nelle strade, nelle case, nei campi, qualsiasi persona, in qualsiasi luogo – sono il terreno di battaglia. Le azioni militari possono avvenire ovunque: in presenza, contro o in difesa dei civili. I civili costituiscono sia i bersagli, gli obiettivi da conquistare, sia una forza d’opposizione»[11].

Aree di indistinzione riguardano anche il tempo e lo spazio. Tempo di guerra e tempo di pace si sovrappongono. Oggi le guerre si dilatano teoricamente all’infinito. La finalità della guerra non è più la conquista di un territorio o il controllo politico di un’area, quanto piuttosto l’assicurazione di interessi vitali per una popolazione e il controllo di un’altra popolazione. La guerra, divenuta un fenomeno biopolitico, assume le dimensioni temporali della vita, sia quella di un individuo che quella di una intera popolazione, rendendo di fatto non necessario un termine specifico per le operazioni miliari.

Anche lo spazio bellico ha subito una conflazione epocale. Non esistono più retrovie e fronte, tantomeno una limitazione di quello che un tempo era il teatro di guerra. La contrazione fra vicino e lontano, fra amico e nemico, fra politico e bellico trova qui compimento, sovvertendo la nozione di guerra come momento circoscritto della vita politica degli stati.

Se oggi le nuove strumentalità unmanned consentono di operare in un teatro, magari su di un singolo individuo considerato un obiettivo o un potenziale obiettivo, che si sposta inconsapevole in qualche parte del pianeta, – e operano in modo che il pilota sieda in un hangar a migliaia di miglia dal punto dove operano obiettivo e drone, mentre il comando delle operazioni e il centro di intelligence per l’identificazione del bersaglio sono collocate in diversi punti distanti del pianeta, – è fin troppo evidente che la distinzione fra linea del fronte e guerra, fra tempo di guerra e tempo di pace diventa non solo obsoleta ma inutile.

Oggi il teatro di guerra può coincidere con il singolo corpo dell’individuo puntato dai sistemi robotizzati del drone (in gergo militare le kill-box[12]) o con l’intero pianeta monitorato da strumenti satellitari: il teatro di guerra coincide con la biosfera. Come giustamente sostiene Gregoire Chamayou[13], la guerra ha assunto un carattere cinegetico: si tratta di una caccia al singolo uomo o ad un’intera popolazione, e se l’obiettivo umano è ridotto allo stato di preda che si muove nel terreno di caccia, è l’intero pianeta a diventare la riserva di caccia, è l’intera umanità a diventare un obiettivo da colpire e abbattere.

Le guerre, proprio per queste caratteristiche, sono ormai definite ibride. La stessa distinzione fra popolazione civile ed armata sfuma quanto quella fra fronte e retrovia. Gli algoritmi che consentono ai droni di operare non distinguono fra civile e militare, ma fra obiettivi tout court. Questa radicale e totale indistinzione consente oggi di individuare nell’attività bellica una radice necropolitica e tanatopolitica, oltre che biopolitica[14]. L’individuo o la popolazione sono obiettivi di sorveglianza, o di attacco, da parte del drone con lo scopo di dare la morte piuttosto che la vita. D’altra parte, gli algoritmi in uso nei sistemi di individuazione e puntamento dei droni sono tarati sull’individualizzazione del bersaglio e sulla differenza tra bersagli e non-bersagli.

Nell’ambito di queste molteplici indistinzioni la popolazione migrante è stata coinvolta come obiettivo dell’operare bellico. Data la dilatazione della guerra nel tempo e nello spazio, la trasformazione degli individui in popolazione migrante, in masse di rifugiati o di profughi, assume carattere permanente e non è più riconducibile ad un fenomeno bellico circoscritto.

La migrazione è parte di una trasformazione della popolazione nell’ambito di metamorfosi dell’evento bellico in condizione biopolitica. Sostanzialmente la guerra produce oggi come ieri popolazioni rifugiate e migranti, ma oggi in modo calcolato e sistematico, agendo in virtù di una distinzione fra vite immuni e vite di scarto che possono essere mantenute in vita o respinte nella morte.

Da questo punto di vista, proprio in relazione ai migranti assistiamo ad una nuova dimensione di tempo e spazio di guerra che ha sostituito la no man’s land, la terra di nessuno che separava due linee opposte di trincee con l’orripilante spettacolo di crateri e brandelli di corpi. Ciò che limitava questo spazio dell’indistinzione, questo spazio della nuda vita, era il filo spinato, che in masse contorte e impenetrabili proteggeva le opposte trincee. Innalzato al di sopra dei sacchetti di sabbia collocati al margine dei sistemi difensivi trincerati, il filo spinato limitava, fisicamente e simbolicamente, uno spazio di morte, ovvero uno spazio dove si faceva assoluta l’indistinzione fra la politica e la morte, fra la vita da sacrificare e quella da preservare. Si trattava dello spazio di una tanatopolitica, ovvero lo spazio di quella trasformazione del biopotere in puro potere di morte in nome della vita[15].

La Terra di nessuno è una formula linguistica che compare la prima volta durante la prima guerra mondiale. In esso, caratterizzato da un desolante succedersi di crateri provocati dall’esplosione di granate di artiglieria, qualsiasi individuo avvistato o sorpreso a muoversi poteva essere oggetto di tiro da parte di cecchini e sentinelle dalle opposte trincee. Il timore che guastatori si introducessero in questa zona per tagliare il filo spinato in previsione di un attacco successivo, rendeva necessario sparare a vista su chiunque o qualsiasi cosa si muovesse in quello spazio. Sostanzialmente chiunque venisse sorpreso in quella zona poteva essere ucciso senza che il tiratore dovesse ricevere un ordine espresso per mirare e far fuoco.

No man’s land quindi in quanto zona de-umanizzata, sottratta alla ricerca dell’umano e consegnata ad un diritto di morte assoluto. Una zona sottratta al diritto e consegnata alla morte. In questo senso l’individuo intrappolato in una no man’s land ricorda la figura dell’homo sacer indagata e individuata da Giorgio Agamben. La disumanizzazione della no man’s land è il risultato della riduzione dell’umano a massa biologica da governare, una riduzione da sempre insita nel filo spinato.

Nell’acuta analisi genealogica sul filo spinato Olivier Razac ha riconosciuto in questo strumento una pratica di potere essenziale per la modernità. Una pratica che traduce fisicamente alla perfezione lo stato di eccezione permanente nel quale la modernità ha trasformato il tempo e lo spazio: «Il filo spinato viene a innestarsi su dispositivi che gli preesistono – protezione dei campi e delle mandrie, separazione fra bianchi e Indiani, trincea e internamento – allo scopo di aumentarne l’efficacia disgiuntiva. La storia di questi usi successivi chiarisce il ruolo decisivo del filo spinato nella radicalizzazione del fenomeno di separazione dello spazio. Da semplice strumento ausiliario, è diventato l’elemento essenziale di una frontiera tra la vita e la morte. Gli Indiani, i soldati tedeschi o francesi, e i prigionieri dei campi di concentramento non sono stati semplicemente esclusi dalla società e respinti verso la sua periferia. Non si tratta di definire dei cittadini di serie B, né degli esseri con minori diritti. Per loro, essere al di là o all’interno dei fili spinati non significa trovarsi in una condizione degradante, ma in una non condizione assoluta. … Nello stesso tempo, la violenza di queste esclusione è sempre correlata a una forza inclusiva. Non si esclude che per includere e non si può includere senza escludere»[16].

Questo è lo spazio de-umanizzato che caratterizza la guerra ai migranti. In qualsiasi latitudine questa guerra venga condotta, dalla Striscia di Gaza alle coste del Mediterraneo, dalle barriere in Marocco davanti a Ceuta alla linea di confine fra Messico e Stati Uniti, dalle isole prospicienti l’Australia alle zone di confine fra Siria e Turchia, ciò che caratterizza questi teatri bellici è la produzione di una terra di nessuno. In questi contesti abbiamo due cortine fisiche opposte, attrezzate sia con filo spinato che con vere e proprie barriere in cemento armato, linee elettrificate, fossati ecc. Due frontiere che non delimitano una zona di interdizione politica e militare, come poteva accadere alle frontiere successive alla Pace di Westphalia, ma una vera e propria zona franca in cui la politica è azione militare esercitata sugli individui che vi transitano. Chiunque attraversi queste zone diviene vittima di omicidio senza assassinio e senza assassini. L’odierna no man’s land definisce la guerra biopolitica contro i migranti.

Il filo spinato, o i suoi epigoni tecnologici (zone di sorveglianza a raggi infrarossi, telecamere a circuito chiuso, ecc.), sono d’altra parte la caratteristica saliente degli altri spazi di guerra ai migranti: i centri di identificazione ed espulsione.

Questi spazi si collocano nella linea genealogica dei campi di concentramento. Il lager[17] nasce con alcuni eventi bellici, collocati cronologicamente fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, caratterizzati da una trasformazione in senso totalizzante della guerra. Utilizzati per la prima volta dagli Inglesi nella guerra dei Boeri e dagli Spagnoli nella rivolta a Cuba e nelle Filippine, i campi di concentramento fin dall’inizio sono delimitati dal filo spinato: il loro scopo è circoscrivere uno spazio destinato alla popolazione civile sottratta alla cittadinanza e consegnata a un non-luogo geografico e giuridico. Il campo di concentramento è, sin dai suoi esordi, parte della trasformazione della guerra in evento totalizzante che colpisce la popolazione civile più che gli eserciti, e che colloca gli individui in un limbo di umanità mutuato direttamente dai campi di battaglia trincerati. In questo senso il filo spinato che circonda il lager determina simbolicamente e fisicamente il livello biopolitico assunto dalla guerra a partire dal Novecento.

Gli Hot Spots, i centri di accoglienza, come i lager nel recente passato, sono vere e proprie zone di indefinizione, dove i migranti vengono raccolti e trattenuti senza aver commesso reati. Il filo spinato delimita spazi di tanatopolitica. Doppio è il meccanismo di potere che include escludendo, e che uccide senza mettere a morte, come ha dimostrato Michel Foucault nei corsi al Collége de France della seconda metà degli anni Settanta. Da una parte il paradigma del lebbroso escludeva nel Medioevo alcuni individui dalla città separandoli dal corpo sano della popolazione. Dall’altra il paradigma dell’appestato a partire dal XVII secolo includeva separando parti della popolazione in spazi chiusi. I migranti sono presi in questo doppio dispositivo: lebbrosi e appestati allo stesso tempo, sono respinti nella no man’s land, ma allo stesso tempo sono rinchiusi nei Centri di identificazione ed espulsione.

Conviene ricorrere ancora all’analisi acuta di Razac sulla capacità moderna di coniugare sovranità (l’esclusione del lebbroso) a biopotere (l’inclusione dell’appestato): «Gli esclusi della modernità sono trattati come degli ammalati di peste, ma restano dei lebbrosi rispetto al resto della popolazione, su cui il potere si esercita come se vivesse in una città in quarantena. Con l’intensificarsi dei meccanismi di sicurezza e di protezione della biopolitica, veniamo tutti trasformati in ammalati di peste, sottomessi a meccanismi di separazione, di ripartizione gerarchica, di cernite selettive al fine di assicurare benessere. Queste differenziazioni della normalità riproducono in diciottesimo il gesto sovrano dell’esclusione dei lebbrosi, che entra in gioco in ogni spostamento gerarchico»[18].

Droni che sorvegliano non visti popolazioni da governare come appestate, no man’s land delimitate da filo spinato per escludere popolazioni migranti da governare come lebbrosi. Nel drone e nel filo spinato si compie la microfisica e la macrofisica del potere nel XXI secolo.

 

La “cura” italiana

 

L’Italia, vero laboratorio di sperimentazione normativa, in questo senso è esemplare, e nelle politiche sull’immigrazione possiamo leggere l’evoluzione del razzismo di stato nella versione più aggiornata che accomuna paesi dell’est, del nord Europa e del Mediterraneo.

Nel 1998 la legge 40, “Turco-Napolitano” istituisce i Centri di Permanenza Temporanea che assumono la realtà di centri di detenzione per chiunque giunga in Italia da “irregolare” e diventano il modello di reclusione adottato da molti paesi europei.

Nel 2002 la legge “Bossi-Fini” istituisce i Centri di Identificazione, legalizza la detenzione di migranti e richiedenti asilo violando la Convenzione ONU sui rifugiati e sancisce l’espulsione con accompagnamento alla frontiera, l’ottenimento del permesso di soggiorno legato ad un lavoro effettivo, l’uso delle impronte digitali e l’uso delle navi della marina militare per contrastare “l’immigrazione clandestina”. L’edificazione dei CIE e la definitiva criminalizzazione degli stranieri opera la separazione tra migranti “buoni” e “cattivi”, regolari e irregolari, possibili cittadini e criminali, – separazione che si riproduce all’interno dello stato tra cittadini con pieni diritti e marginali, pericolosi, anormali.

Dopo il 2005, vengono adottati i Common Basic Principles redatti dal Consiglio Europeo, nella forma del Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione, con cui si stauisce il principio della cosiddetta Civic integration. Si tratta del principio secondo cui le persone provenienti da paesi non U.E. devono soddisfare specifici requisiti, relativi alla conoscenza della lingua del paese ospitante, delle sue istituzioni e dei valori che lo caratterizzano. In Italia il testo prodotto dal governo parla di adeguamento alle regole e riconoscimento dei valori della comunità di arrivo e la civic integration conosce una più intensa torsione culturalista e autoritaria.

Nel 2007 la Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione è il provvedimento del Ministro degli interni Amato, per fronteggiare il rischio del “terrorismo islamico” attraverso la “soglia di tolleranza e sicurezza”. Prevede di assimilare ad un sistema di valori le diversità percepite conflittive. L’adesione ai valori è misurata attraverso un vero e proprio muslim test.

Nel 2009 il “pacchetto sicurezza” (Legge 94) del ministro Maroni attua la trasformazione dello straniero da soggetto di diritto a individuo condizionato e garantito dal permesso di lavoro. La prima selezione di “indesiderabili” avviene nei paesi di partenza e non di sbarco, mentre la selezione dei residenti potenzialmente pericolosi comprenderà in maniera informale attivisti, reti di movimento, studenti e giovani nelle strade e fuori dai locali della movida.

La securizzazione del territorio urbano, considerato territorio di guerra, consiste nel riconoscere allo straniero diritti a disposizione del legislatore e variabili nel tempo in quanto considerati una conseguenza del rapporto derivato e temporaneo con lo Stato sulla base del mantenimento del soggiorno regolare.

Nel 2010 il Patto per l’integrazione nella sicurezza introduce misure obbliganti sulle condotte e sulla correzione degli stili di vita “stranieri”, giustificate dalla “salvaguardia dell’italianità” e dalla «rinnovata capacità di governo del fenomeno migratorio» attraverso il governo rafforzato dei confini e la creazione selettiva e meritevole di cittadini produttivi e docili. Queste misure sono l’educazione e l’apprendimento della lingua e dei valori, l’ottenimento di un lavoro sul mercato interno ed esterno l’alloggio e l’accesso ai servizi essenziali e l’attenzione ai minori.

Nel 2015, l’Agenda europea sulle migrazioni prevede il rimpatrio e la cooperazione nella “gestione dei flussi” con i paesi terzi strategici, di transito e origine dei flussi (Grecia, Turchia e Niger, Nigeria, Mali, Etiopia, Sudan, Libia); il rafforzamento di Frontex e la “gestione condivisa” della guardia costiera con i paesi di transito; l’istituzione di hotspot «per controllare gli abusi dovuti ai processi di asylum shopping», in realtà per attuare l’espulsione nei paesi d’origine e transito; il «rafforzamento dei canali per la migrazione legale qualificata».

Sulla scia della dissoluzione degli accordi di Dublino sull’obbligo di asilo nel paese di sbarco, e del rifiuto di accoglienza dei paesi est-europei che si raccolgono nel “gruppo di Vysegrad”, il governo italiano propone il Migration compact che prevede il rafforzamento dell’accordo UE-Turchia e l’esternalizzazione della frontiera mediterranea in base allo slogan “aiutiamoli a casa loro” in Niger, Nigeria, Senegal, Mali, Etiopia e un piano di investimenti pubblico-privati che subordina i finanziamenti alla cooperazione alle “politiche di impedimento” delle partenze e di riammissione per coloro che tentano di entrare nel territorio europeo.

Il Memorandum di intesa dello Stato italiano con la Libia del 2017 siglato con Al Sarraj e l’accordo Italia-Niger per bloccare la rotta transhariana a cui si aggiunge la chiusura delle frontiere a Ventimiglia e al Brennero sanciscono le politiche di respingimento.

La legge Minniti-Orlando del 2017 combina le regole di ingresso dei migranti “forzati” con il “decoro urbano”, che ha introdotto severe limitazioni alla libertà di movimento e ha rafforzato il potere di ordinanza dei sindaci tramite cui sono stati sgomberati edifici e spazi considerati abusivi.

Ha introdotto un Daspo urbano, per il quale vengono allontanate dal territorio persone che mettono in atto «condotte che impediscono la fruizione di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico». Il lavoro gratuito volontario è entrato ufficialmente nella normativa.

Gli effetti dei “decreti Minniti” sono stati gli accordi con le bande criminali in Libia per limitare le partenze e gli sgomberi nelle città e la criminalizzazione delle ONG – fino a qualche anno fa sussidiarie degli Stati nella gestione dei flussi migratori con un ruolo istituzionale.

Lo scorso 4 ottobre diventa legge il Decreto Salvini su sicurezza e immigrazione che sotto la rubrica “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata limita lo status di protezione internazionale in conseguenza dell’accertamento di gravi reati con norme idonee a scongiurare il ricorso strumentale alla domanda di protezione.

Limita il rilascio dei permessi di soggiorno a casi speciali rendendoli temporanei e consente il rifiuto del permesso laddove esistono convenzioni con altri paesi quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti.

Istituisce presso i tribunali la sezione specializzata in materia di immigrazione, per la trattazione della controversie in materia di rifiuto di rilascio, diniego di rinnovo e di revoca del permesso di soggiorno.

Prolunga la durata del trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio da 90 a 180 giorni. Adotta misure per la tempestiva esecuzione dei lavori per la costruzione, il completamento, l’adeguamento e la ristrutturazione dei CPT, con spese a carico delle amministrazioni locali. Sostituisce il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) con il sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, perché i richiedenti asilo non saranno più ammessi alle pratiche di formazione e inserimento sociolavorativo.

Estende il DASPO urbano ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive
 e in specifiche aree urbane e prevede sanzioni per chi blocca una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada. I comuni possono inoltre deliberare di assegnare in dotazione l’arma comune ad impulsi elettrici (taser).

Il decreto dispone in materia di occupazioni di immobili
 la pena della reclusione fino a quattro anni congiuntamente alla multa da 206 euro a 2.064 euro, nei confronti dei promotori e organizzatori dell’ “invasione” di immobili nonché di coloro che hanno compiuto il fatto armati.

Con la chiusura dei porti e il divieto di salvataggio alle imbarcazioni delle ONG, le ordinanze contro i comuni che organizzano l’accoglienza e l’integrazione, il razzismo di stato introdotto dal Decreto Minniti diviene realtà effettiva.

Ma non basta.

Il 5 agosto 2019 con l’approvazione del senato il “Decreto Sicurezza bis” diventa legge. Dispone l’inasprimento delle misure contro i trafficanti di esseri umani e il potenziamento delle operazioni sotto copertura per contrastare l’immigrazione clandestina. Sanzioni che vanno dai 150 mila euro fino a un milione per il comandante della nave «in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane». Come sanzione aggiuntiva è previsto anche il sequestro della nave.

L’articolo 2 prevede alcune modifiche al codice della navigazione: viene attribuito al ministro dell’Interno il potere di «limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili o unità da diporto o di pesca nel mare territoriale per motivi di ordine e sicurezza pubblica e comunque in caso di violazione» di alcune delle disposizioni della Convenzione di Montego Bay.

All’articolo 3 il decreto vuole contrastare l’organizzazione dei trasporti di migranti irregolari. Sono stanziati 500mila euro per il 2019, un milione di euro per il 2020 e un milione e mezzo per il 2021 per il contrasto al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per operazioni di polizia sotto copertura.

L’articolo 4 prevede lo stanziamento di 2 milioni di euro nel triennio 2019-2021 per il finanziamento degli «oneri conseguenti al concorso di operatori di polizia di Stati con i quali siano stati stipulati appositi accordi» per lo svolgimento di operazioni sotto copertura «anche con riferimento alle attività di contrasto del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».

L’articolo 5 interviene sul Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, inasprendo le sanzioni conseguenti ai reati di devastazione, saccheggio e danneggiamento, commessi nel corso di riunioni effettuate in luogo pubblico o aperto al pubblico.

L’articolo 6 prevede maggiori tutele per gli operatori delle forze dell’ordine impiegati in servizio di ordine pubblico, attraverso l’introduzione di nuove fattispecie delittuose. Il decreto inoltre trasforma quelle che attualmente sono contravvenzioni in delitti e prevede inoltre l’inasprimento delle sanzioni: «chiunque nel corso di manifestazioni.. per opporsi a pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio.. utilizza scudi o altri oggetti di protezione passiva ovvero materiali imbrattanti o inquinanti è punito con la reclusione da 1 a 3 anni»; ovvero, «chiunque lancia o utilizza illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile… ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti è punito con la reclusione da 1 a 4 anni».

Il capo III (dall’articolo 13 in poi) si occupa di violenza nelle manifestazioni sportive. Il decreto stabilisce che il questore può disporre che a «coloro che risultino denunciati per aver preso parte attiva a episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza» possa essere vietato di accedere alle manifestazioni sportive. Il divieto si allarga alle manifestazioni sportive che si svolgono all’estero e, per quelle che si svolgono in Italia, dalle competenti autorità degli altri Stati Ue. Il decreto inoltre prevede che ai club di tifosi venga vietato dare sovvenzioni, biglietti omaggio e contributi di varia natura a coloro che hanno ricevuto un Daspo.

NOTE

[1] E. Cohen, A Revolution in Warfare, in «Foreign Affairs», 75, 1996, pp. 37-54; P. Singer, Wired for War: the Robotics Revolution and Conflict int 21st Century, Penguin, New York, 2009; Guerre nuove, nuovissime anzi antiche, o dei conflitti armati contemporanei, «Philosophy Kitchen», numero monografico “Wargames, strategie, relazioni, rappresentazioni”, 2, 2015, http://philosophykitchen.com/2015/09/wargames-strategie-relazioni-rappresentazioni-wargames-strategies-relationships-representations/.

[2] Per un’analisi esaustiva del Drone come strumento bellico e di governo vedi G. Chamayou, Teoria del drone, Principi filosofici del diritto di uccidere, trad. it. Marcello Tari, DeriveApprodi, Roma, 2014.

[3] C. von Clausewitz, Della Guerra, trad. it., Einaudi, Torino, 2000, pp. 27 e sgg.

[4] A.H. de Jomini, The Art of War, engl. trans., Legacy Books Press Classics, Kingstone Canada, 2008, p.2.

[5] M. Foucault, Bisogna difendere la società, trad. it., Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 22 e sgg., p. 47 e pp 144 e sg.

[6] A. Rogers – J. Hill, Unmanned. Drone Warfare and Global Security, Pluto Press, Toronto, 2014, p. 136.

[7] L. Qiao e X. Wang, Guerre senza limite. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, trad. it., Casa Editrice LEG, 2001.

[8] H. Giroux, Neoliberal Violence in the Age of Orwellian Nightmares, in «Counterpunch», 24 nov 2014, http://www.counterpunch.org/2014/11/24/neoliberal-violence-in-the-age-of-orwellian-nightmares/.

[9] O. Jensen, New “Faucauldian Boomerangs”: Drones and Urban Surveillance, in «Surveillance and Society», 41, 2016, pp. 20 – 33.

[10] «In 1999, 6000 marines and 700 sailors carried out a four-day assault and occupation of a defunct naval base in Oakland, California, to rehearse “3 block war in 3 dimensions”. The concept of “3 block war” refers to the ability to simultaneosly combine humanitarian relief with other activities such as riot suppression and actual combat in the same urban area. The 3 dimension refer to buildings, streets and underground tunnels and sewers where marines conducted operations amongst a hired urban population of local people playing various roles from refugees and angry civilians to journalists», M. Carr, Slouching towards Dystopia: the New Military Futurism, in «Race & Class», 51, 2010, pp. 13-32.

[11] R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, trad. it., Bologna, Il mulino, 2009, p. 46, citato in V. Coralluzzo, Guerre nuove, nuovissime anzi antiche, o dei conflitti armati contemporanei, in Wargames, strategie, relazioni, rappresentazioni, «Philosphy kitchen», 2,3 2015, pp 11-30, p. 17.

[12] G. Chamayou, Teoria del drone, Principi filosofici del diritto di uccidere, trad.it. Marcello Tari, DeriveApprodi, Roma, 2014, p.30

[13] G. Chamayou, The Manhunt Doctrine, in «Radical Philosophy», 2011, 169, pp. 1-8.

[14] J. Allinson, The Necopolitics of Drones, in «International Political Sociology», 2015, 9, pp. 113-137.

[15] A. Mbembe, Necropolitics, in «Public Culture», 220, 15, pp.11-40.

[16] O. Razac. Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere, trad. it., Ombre Corte, Verona, 2017, p. 63.

[17] J. Hyslop, The Invention of the Concentration Camp: Cuba, Southern Africa and the Philippines, 1896-1907, in «South African Historical Journal», 2011, 63, pp. 251-276 .

[18] O. Razac, Storia politica del filo spinato, cit., p. 96.