La pulsione della guerra e le sue trasformazioni 5/5. Gentile e le due guerre mondiali

La patria non è fine a se stessa, come non è fine a se stesso l’individuo. Fine a se stessa è la realtà che nell’uno e per l’altra si realizza: lo spirito. Dentro alle frontiere e di là dalle frontiere s’agita e vive quella stessa umanità che è tutto il nostro valore […]. Un’opera d’arte distrutta dai nostri cannoni non è perdita del nostro nemico, contro cui combattiamo; è anche perdita nostra. Anzi è tutta perdita nostra: non di quel noi che ci divide, ma di quell’altro Noi, più profondo e più vero, che ci affratella e ci unifica con tutti gli uomini, amici e nemici.

Il pensiero di Gentile è pensiero eminentemente politico[1], in considerazione della sua concezione totalitaria della politica come forma che orienta tutti i problemi umani: dall’educazione alla stessa storiografia filosofica che è parte importante e spesso sottovalutata della produzione del filosofo. Non è un caso che il suo esordio filosofico, a 24 anni, sia stato un confronto con la filosofia di Marx che lo stesso Lenin definì il miglior lavoro prodotto da uno studioso non marxista[2]. È quindi imprecisa la tesi ricorrente che vuole la Grande guerra levatrice dell’interesse politico di Gentile; in realtà l’avvenimento mondiale implementò questo interesse, ma non lo stimolò, né tanto meno lo generò[3]. Gli stessi scritti del periodo del conflitto rivelano, a una lettura non superficiale,

 

come non si risolvano nelle occasioni che li hanno determinati; così, per la loro conformità col pensiero filosofico enunciato negli anni ’14-’16, come, e soprattutto, perché essi mostrano che le tesi affermate negli scritti di dottrina del fascismo degli anni 1927-’32 erano già state pensate dal filosofo fino all’ultima lettera, per quel che è l’essenziale, prima che egli mostrasse di essersi accorto del processo di formazione del fascismo[4].

 

Anche se negli scritti della guerra e dell’immediato dopoguerra, Gentile sembra quasi non essersi accorto del movimento mussoliniano.

Comunque, dopo un primo momento quasi di stasi per osservare meglio il corso delle cose, il filosofo si schierò per l’intervento. Non poteva essere diversamente: lo chiarisce il più importante degli scritti gentiliani del periodo, confluito nel volume Guerra e fede. Si tratta della Filosofia della guerra, una conferenza tenuta nella Biblioteca filosofica di Palermo l’11 ottobre 1914 e in quella di Firenze il 22 novembre successivo, in cui, come è stato notato, Gentile «ci conduce al centro speculativo dell’idealismo attuale, a quell’idea della lotta, che non è l’incontro violento di due corpi, fisicamente intesi, ma è bensì, almeno nell’intenzione teoretica, la mobile e inquieta sintesi di entrambi»[5].

In questo scritto, Gentile distingue tre forme della guerra: quella empirica, come intesa da Kant, della guerra come risoluzione dei conflitti internazionali; quella storica e quella metafisica, che poi sono le forme che interessano a Gentile. La forma storica è quella, ad esempio, della Germania contro Napoleone in virtù della libertà e dell’indipendenza; la forma metafisica è quella che venne intesa da Eraclito come padre di tutte le cose, immanente alla vita naturale e che nessuno sforzo umano può rimuovere. L’errore compiuto da Eraclito è però quello di essere rimasto all’interno del logo astratto e aver posto il conflitto fuori dell’uomo, facendone una legge naturale che gli si impone, quando invece, scrive Gentile, «Io non devo cercar fuori di me l’altro con cui lottare, perché ho in me stesso il mio vero nemico; e come io non posso dividermi da me stesso, così è assurdo che speri di evitare in qualche modo la lotta»[6].

In altre parole, si combatte un altro popolo con una sua personalità storica, non perché si è diversi da questo, ma proprio per la fondamentale medesimezza che si realizza attraverso la diversità.

Nella vita dello spirito, nulla rimane staticamente in quiete, ma tutto è fiamma ardente, secondo la metafora utilizzata anche da Eraclito. Lo spirito è processo incessante, un diversificarsi continuo, un essere sempre se stessi e nello stesso tempo anche altro: un essere in quanto non si è. La guerra in atto è quindi solo un momento del dramma divino, di un momento in cui tutto, anzi il Tutto, è impegnato. D’altronde, un carattere della filosofia gentiliana è quello «della civile responsabilità e della presenza eroica»[7]. Impensabile quindi estraniarsi dal dramma cosmico, soprattutto per gli intellettuali che proprio durante la guerra assumeranno per la prima volta un ruolo pubblico nel servizio propaganda. È uno dei tanti dissensi da Croce che sosteneva, anche per il suo filogermanesimo, la necessità degli studiosi di rimanere au dessus de la melèe. Per Gentile, invece, «il filosofo in quanto tale è lo stesso uomo» e deve filosofare in quanto uomo, «conservando tutti i doveri dell’uomo dentro alla sua stessa filosofia. Oggi non è lecito a nessuno, a nessun titolo, guardare con occhio indifferente alla guerra»[8]. E infatti nei primi di novembre del 1915, Gentile chiese di essere arruolato, sebbene in età non verdissima e nonostante fosse stato esonerato dal servizio militare da giovane per debolezza di complessione fisica. La richiesta venne respinta con foglio provvisorio di congedo illimitato di I categoria, rilasciato il 10 novembre dal distretto di Trapani.

Gentile proseguì allora l’elaborazione intellettuale della guerra che assume, nel suo pensiero, il carattere di un atto assoluto, di un dovere assoluto, di un dovere comune che proprio per questo non deve contare i sacrifici necessari: «Questa è l’ora dell’eroismo»[9]. Persino la sconfitta «sarà benvenuta […] se essa ci aprirà gli occhi. Comunque, la nostra salute non potrà venire se non da una prova seriamente, virilmente, eroicamente affrontata, con cuore unanime e preparato a tutto»[10].

Anche la disfatta di Caporetto è interpretata come conseguenza di un’insufficienza morale, figlia di una scuola positivistica non in grado di formare gli animi, ma che nello stesso tempo deve diventare una stazione della via crucis della nazione, altrimenti, come scrive in Esame di coscienza del dicembre 1917, «un’Italia destinata a morire per effetto di una disfatta militare, non sarebbe stata degna di vivere»[11]. Così come, se il Risorgimento fosse stato solo opera di fortunate coincidenze e il suo scopo quello di consentire a un gruppo di avvocati di sedere in Parlamento a tutelare questo o quell’interesse particolare, «Al diavolo codesta Italia! Affrettarne la fine sarebbe stato un dovere patriottico. E sarebbe stato un alto dovere morale: che è dovere più profondo, e inadempiuto il quale, non è possibile sentirne alcuno verso la patria»[12].

Indizio evidente di come Gentile giudichi l’Italia postrisorgimentale – giudizio comune a molti se non a tutti gli intellettuali, e non solo, dell’epoca – «come una nazione insignificante in un mondo dinamico di crescita industriale ed espansione coloniale […]. La nazione viveva senza scopo ed aveva poca consapevolezza del significato dell’unità»[13].

All’interno di questa considerazione del Risorgimento come rivoluzione tradita, giungeva opportuna la Grande guerra a chiarire che occorreva restituire al movimento che aveva condotto all’Unità il suo slancio morale, smarrito nelle more della costruzione del nuovo Stato che aveva perduto così, inevitabilmente, il suo senso e il suo fine: fare l’italiano nuovo. Un concetto che chiarirà anni dopo, ad adesione al fascismo avvenuta, quando scriverà che la guerra era una sorta di necessità pedagogica, di esercizio propedeutico «per cementare una volta nel sangue questa nazione», la quale, se doveva essere una realtà spirituale, lo poteva diventare nell’unico modo con il quale si realizza una realtà spirituale: «con uno sforzo attraverso il sacrificio»[14].

Visione, questa, della Prima guerra mondiale, talmente etico-pedagogica da essere – ma si tratta di una considerazione retrospettiva, da non prendere alla lettera – non essenziale combattere con o contro la Germania.

La posizione gentiliana è però tutt’altro che guerrafondaia:

 

La patria non è fine a se stessa, come non è fine a se stesso l’individuo. Fine a se stessa è la realtà che nell’uno e per l’altra si realizza: lo spirito. Dentro alle frontiere e di là dalle frontiere s’agita e vive quella stessa umanità che è tutto il nostro valore […]. Un’opera d’arte distrutta dai nostri cannoni non è perdita del nostro nemico, contro cui combattiamo; è anche perdita nostra. Anzi è tutta perdita nostra: non di quel noi che ci divide, ma di quell’altro Noi, più profondo e più vero, che ci affratella e ci unifica con tutti gli uomini, amici e nemici[15].

 

Questo sentimento di umanità che non distingue amici e nemici, ma considera solo esseri umani va sostenuto proprio durante la guerra:

 

Alimentare nell’animo questo sentimento e questo concetto, per cui sia dato vedere anche nel nemico un fratello che divide con noi le dure necessità di un tragico cimento, questo è l’altro essenziale dovere, che incombe a quanti, in un modo o nell’altro, prendiamo parte alla guerra e ne soffriamo l’angosciosa disfatta[16].

 

Pressoché negli stessi anni elaborava ancora, in uno scritto teoretico frutto di un corso di lezioni universitarie nel 1916, questa posizione, chiarendo che se l’egoismo è un’illusione figlia di una «immaginazione materialistica» come quella di Hobbes, pure, a ben vedere, lo stesso presunto egoismo rivela la tendenza irresistibile della volontà verso l’universalità. L’egoista, infatti, vuole imporre la sua volontà «come il Volere, fuori del quale non sia possibile altro volere; che è la forma caratteristica del volere morale. L’egoista sbaglierà, non per cattiva soluzione che egli dia al problema della sua vita, ma per cattiva posizione di questo problema»[17].

Posizione errata dalla quale nasce il conflitto che è sì contrasto di volontà che appaiono particolari, ma che tutte tendono ad ergersi come universali. Difatti il conflitto termina quando una volontà, attraverso il conflitto stesso, si dimostra universale. Perciò Gentile può affermare che «la guerra non ha il proprio fine in se stessa: la guerra è l’instaurazione della pace, risoluzione di una dualità o pluralità nel volere unico, la cui realizzazione è immanente nel conflitto, e ne rappresenta la vera ragion d’essere e il significato profondo»[18].

L’universale, per Gentile, si realizza solo se racchiude in sé il particolare che resiste all’infinito alla realizzazione dell’universale: «Una società che unifichi perfettamente il vario spirituale, senza lasciare più traccia di varietà, è una società che si disfà interiormente e perde ogni vigore spirituale. Anzi, a rigore, è già morta»[19].

È il costante rinascere degli interessi, delle aspirazioni, dei voleri, ad alimentare l’unità dinamica, cioè dialettica, di ogni realtà sociale. Ma proprio perché interna a un rapporto dialettico, l’opposizione non può essere costituita da elementi separati, ognuno per sé, ognuno in rappresentanza di un soggetto estraneo agli altri. Lo stesso contrasto può esserci solo se l’interesse dell’altro è anche il mio; se l’oggetto della mia volontà è anche il suo; anzi, se in gioco non c’è lo stesso volere diviso solo in affermazione e negazione. Per questo un adulto non contende «a un bambino il possesso d’un giocattolo, né Napoleone dichiarerà guerra ad Alessandro Magno»[20].

Questo bilanciare vittoria e sconfitta sui piatti della bilancia etica è conseguente al nazionalismo di Gentile, lontano da ogni concezione biologistica e naturalistica e persino storicistica, quando questa storia si considera già fatta. In Nazione e nazionalismo del 1917, Gentile chiarisce che una nazione determinata da caratteri antropologici o linguistici o religiosi o da tradizioni storiche, sarebbe una cosa assolutamente priva di valore, «un fatto bruto»; questo perché la nazione non è un fatto, ma una coscienza, «un bisogno interiore, un processo morale, un atto insomma di vita»[21]. La nazione non c’è se non in quanto si fa, ed è quella che facciamo noi col nostro impegno, con il nostro lavorare seriamente, senza pensare che essa ci sia già, ma piuttosto pensando che non c’è mai ed è sempre da fare. La nazione, cioè, non è un fatto storico, quanto piuttosto un atto spirituale e quindi dinamico: mai dato una volta per tutte e sempre da fare. In questo, Gentile incontrava Mazzini, in precedenza accusato di «scarsissimo contenuto ideale» nel pensiero; di «poca conoscenza» degli uomini e delle situazioni reali, che spiegano «i suoi errori frequenti, teorici e pratici, e le sconfitte toccategli per la forza degli avvenimenti»[22]. In Mazzini erano molte parole e fantasie, ma insufficiente lo studio della storia e assente un pensiero politico; di conseguenza «I suoi Doveri, recentemente voluti rimettere in onore e introdurre anche nelle scuole, peccano appunto per insufficiente meditazione della razionalità dei problemi morali e pel tono predicatorio ed enfatico, il più disadatto, pedagogicamente, all’edificazione morale»[23].

Un Mazzini quindi ben diverso da quello che ispira già gli articoli del tempo di guerra e che verrà esaltato ne I profeti del Risorgimento del 1923, in cui tutti i giudizi negativi vengono ribaltati nell’esatto opposto. «Cosa avrà contribuito a far cambiare la prospettiva al pensiero gentiliano? Vi contribuì, forse, il momento politico italiano (la I guerra mondiale in primis) che nuovamente richiedeva una voce che parlasse ai cuori col calore della sincerità» oltre alla maturazione del pensiero attualistico sostanzialmente delineato a partire dalla prolusione palermitana del 1911, per il quale «quella che può sembrare una contraddizione non più appare tale se è superata dal pensiero in atto»[24]. La scoperta di Mazzini era funzionale, dunque, a illuminare un momento profondo della filosofia attualistica che ne definiva l’originalità: quello che Del Noce ha definito filosofia spiritualistica della prassi. un incontro che «avveniva alla fine di una guerra che riproponeva il problema del mazzinianesimo e del marxismo»[25].

Se la guerra acquisisce in Gentile un carattere mazzinianamente etico, è evidente come la stessa vittoria debba rappresentare un momento spirituale e non una mera acquisizione di territori. Come scrive ne Per la scuola della nuova Italia del 10 novembre 1918: «L’Italia ha vinto; ma la vittoria non sarebbe fruttifera se la nostra volontà, dopo il lungo sforzo fatto, s’accasciasse e cascasse nei difetti di una volta, incapace di persistere nella vittoriosa energia di disciplina di sé, d’organizzazione e di potenziamento morale»[26].

La guerra è una rivoluzione spirituale che non può che riverberarsi sul piano politico, come scrive in Ammonimenti del 2 dicembre 1918: «Non è dubbio che, per effetto della scossa ricevuta dalla guerra, si senta ormai il bisogno di uomini nuovi che portino al centro della vita politica un sistema di nuove idee e uno spirito nuovo, abbandonando tutti i vieti pregiudizi e le piccole arti e abitudini di un tempo ormai tramontato»[27].

La guerra ha separato le due Italie: quella del dolce far niente, scettica e senza carattere, e l’Italia nuova che vinse unicamente perché voleva vincere e sorprese se stessa e il mondo con una fiera volontà di resilienza, come si direbbe oggi. La prima Italia, quella vecchia, non è stata ancora sconfitta, a differenza dell’Impero austro-ungarico; nel linguaggio religioso di Gentile, il vecchio uomo non è morto, lasciando campo libero all’uomo rigenerato nello spirito. Il che spiega bene il carattere metafisico della guerra, inteso da Gentile, come una perenne lotta interiore dello spirito per superare le forme vecchie e consunte e generarne di nuove e adeguate.

La guerra è un segmento del percorso risorgimentale che fornisce al popolo italiano quello che un’azione di élites politiche non poteva fornire, ovvero

 

la verifica dell’esistenza di una coscienza nazionale condivisa […]. Gentile innalza il tema della guerra dai profitti immediati ad una questione di consapevolezza dell’unità della coscienza nazionale e, attraverso il compimento delle aspirazioni risorgimentali, all’esigenza di un mutamento della “qualità” della classe politica[28].

 

La guerra diventa l’occasione che permetterà alla politica di risolversi nell’etica; e questa prospettiva distingue Gentile da ogni altro interventista e dà al suo discorso «un fascino particolare che va oltre ogni Realpolitik»[29]. Stimolare, attraverso la guerra, il sentimento nazionale: «Qui si manifesta in pieno la posizione del Gentile […]. La guerra per il filosofo dell’attualismo, può avere valore se rinsalda, anzi se genera l’unione del sentire nazionale. La guerra come tremendo mezzo formativo dell’unione nazionale, non ancora del tutto salda a quasi sessant’anni dall’Unità»[30].

Se Croce subisce la guerra, parteggiando poi per la vittoria, ma da italiano e non da filosofo, Gentile invece aderisce al suo tempo, di cui cerca di intendere la razionalità: «La Guerra, pur immane e tragica, ha una sua logica ed è la logica intrinseca a trasformarla non in un’inutile carneficina, ma in un accadimento che ha un senso […]. Da intendere e da spiegare. Cosa che il Gentile fa»[31].

La guerra del 1915-1918 forniva a Gentile «le condizioni più opportune per dimostrare la validità delle sue tesi di filosofia politica. Lo schema attualistico individuo-socialità prendeva un corposo contenuto di esperienze drammatiche e tragiche»[32].

Soprattutto permetteva all’Italia di diventare Stato moderno, ovvero «popolo consapevole della propria personalità, perché tutti gli individui che lo formano si sentono una sola volontà e una sola coscienza; e in questa consapevolezza trova la ragione della sua autorità. E la personalità dello Stato ha tale valore, perché è la stessa personalità dell’individuo conscia della propria universalità»[33].

La seconda guerra mondiale, a differenza della prima, non conobbe l’interventismo della cultura: «Nei mesi della non belligeranza ci furono interventi degli uomini più rappresentativi del regime, ma non manifestazioni di aperto e sincero consenso da parte degli uomini di cultura. Ugualmente, nei primi anni di guerra ci fu partecipazione leale, ma non adesione entusiastica alle ragioni e ai fini della guerra»[34].

Quest’assenteismo della cultura si spiega col fatto che mentre la prima fu una guerra che dal basso andava verso l’alto, in questo caso invece andava dall’alto verso il basso e non richiedeva, né stimolava l’elaborazione culturale. La seconda guerra mondiale era una guerra classica: imposta dal governo al popolo italiano, che obbedì, ma non si entusiasmò, non trovò ragioni di intima partecipazione e di intimo consenso. Ne costituisce una prova l’atteggiamento di Gentile, del tutto diverso rispetto a quello tenuto nel 1915:«non intervenne pubblicamente, con scritti e discorsi, ad incitare alla lotta contro il nemico, non giustificò filosoficamente gli eventi internazionali, non partecipò alla campagna ideologico-propagandistica del regime»[35].

Evidentemente, la guerra del 1940 non poneva dinanzi alla sua coscienza di filosofo nessun problema etico: era una guerra che richiedeva solo la tradizionale obbedienza del cittadino verso il governo e la Patria, ma non interrogava la coscienza, non chiedeva le ragioni dello stare da una parte o dall’altra; conseguenza dell’assenza della dialettica interventismo-neutralismo. Perciò Gentile rimase al suo posto di funzionario, di civil servant. Almeno fino all’intervento del Giappone nel 1941, quando in un articolo su «Civiltà», rivista trimestrale dell’esposizione universale romana, il 21 gennaio 1942, Gentile chiariva come ora la guerra non fosse più, «come poté parere da principio, conflitto tra gl’interessi europei dell’Asse e gl’interessi dell’Inghilterra»[36]; ora la guerra diventava, agli occhi del filosofo, una lotta tra due opposte concezioni della vita e dell’ordinamento economico e politico dell’umanità alla quale prendevano parte tutti i popoli della terra: «Ora il conflitto è veramente mondiale come non fu quello del 1914-18. Ora infatti ciascuna delle due parti sente profondamente che la posta implica tutto, e che si tratta di vita e di morte. Ora può dirsi a ragione che tutti gli uomini vi sono impegnati»[37].

Ora, quindi, Gentile vede nel conflitto la mano di Dio e la guerra si trasformava in necessità storica, non dipendente dalle volontà singole, ma guidata dalla logica che vede l’urto di forze “moralmente” contrapposte. Dalla guerra, perciò, «uscirà una nuova Asia, una nuova Europa, un nuovo mondo» volte a rimuovere gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo e al progresso di tutta l’umanità

 

E riconoscerà il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata a servire, e tutte han diritto, a mano a mano che acquistino coscienza di sé e perciò si elevino al livello della civiltà dominatrice del mondo – che non è la civiltà capitalistica dell’oro e delle macchine, ma la civiltà dello spirito -, a recare all’umano comune lavoro il libero contributo della propria operosità[38].

 

La dimensione etico-religiosa della guerra veniva confermata dagli avvenimenti successivi che mobilitano Gentile, come ai tempi della prima guerra mondiale, come propagandista del conflitto. Quando Carlo Scorza, segretario del Pnf, chiese a lui, come ad altri intellettuali, un intervento pubblico in difesa delle ragioni del conflitto, Gentile aderì col noto Discorso agli italiani pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, nel quale, pur ribadendo la tesi che aveva fatta propria nel Ventennio del fascismo come inveramento e potenziamento della migliore storia d’Italia, non faceva il minimo riferimento al partito, quanto alla patria che unisce al di là delle divisioni. Non fece alcun riferimento alla guerra fascista, alla guerra sociale; riconobbe gli errori e le materiali deviazioni del regime, ma non fece alcuna concessione al vecchio liberalismo, sostenendo che la sua morte non era avvenuta per opera del fascismo, ma per intima consunzione. La guerra veniva descritta come un conflitto di civiltà tra un popolo carico di storia e di civiltà e i nuovi barbari che bombardano in modo terroristico città, chiese, opere d’arte.

Il filosofo ritrovava perciò gli accenti che avevano caratterizzato il suo interventismo nella Grande guerra, ritornando a leggere la sconfitta bellica come cosa diversa dalla sconfitta morale perché

 

quando tutto fosse perduto tranne l’onore, o prima o poi, la storia ce l’insegna, la giustizia si compirebbe perché un popolo che serbi intatta la coscienza della propria dignità, che non smarrisce la nozione di ciò che esso è, e dev’essere, potrà vedersi a un tratto oscurare il firmamento sopra di sé; ma a breve andare le stelle torneranno a brillare nel cielo; ed egli nella sua coscienza tranquilla saprà ritrovare la sua via. E i nemici continueranno a inchinarsi alla nazione che anche attraverso la sventura abbia dimostrato la sua natura immortale[39].

 

Ancora una volta non importava vincere o perdere nel conflitto in atto, ma mantenere intatta la fede nella patria e non smobilitare gli animi. L’importante era comportarsi da veri italiani che combattono e non recriminano sugli errori commessi – non attendendo altro che di potersi mettere da parte – perché riconoscono nella guerra la volontà di Dio. Ai falsi italiani Gentile dice che nessuno ha il diritto di dire: questa non è la mia guerra, io non l’ho voluta; perché una guerra dove sono impegnate tutte le forze del mondo e in cui si riassumono tutte le ragioni storiche dei secoli precedenti, non è concepibile come risoluzione arbitraria di uno o più individui. E se il popolo italiano saprà serrarsi intorno alla sua civiltà millenaria, le città distrutte dalla furia dei nuovi barbari saranno riedificate e, dalle rovine, gli stessi avanzi parleranno e la memoria non potrà perire.

Rimasto al suo posto dopo il 25 luglio, Gentile aderirà alla Rsi dopo un colloquio con Mussolini, diventando presidente dell’Accademia d’Italia e direttore della «Nuova Antologia», continuando nei suoi interventi sui giornali a perorare la causa dell’unità, la stessa causa che aveva caratterizzato la sua attività filosofica.

 

Agli italiani, e non ai fascisti, si rivolge Gentile per l’ultima volta, nell’aprile del 1944, affinché abbandonino il “sofisma dei prudenti”, la comoda posizione degli attendisti e dei disertori, che, per un malinteso realismo, se ne stanno a contemplare il dramma della vita, in cui si combatte e si muore, come semplici spettatori[40].

 

La guerra civile gli poneva dinanzi un nuovo problema filosofico che egli cercò di risolvere più sul piano etico che su quello dialettico: qui il nemico non è l’altro che bisogna riconoscere come noi, ma un noi che ci si pone dinanzi come altro:

 

La guerra, infatti, giunta agli estremi, ha imposto a tutti, ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi giovani e bambini, la sua dura realtà e le sue funeste conseguenze, con una minaccia imminente, urgente: che è l’annientamento del Paese, vinto. E a tutti fa sentire che è ormai in gioco il tutto, e la vita stessa di ogni individuo, anche se questi s’era in passato potuto illudere che in pericolo fosse lo Stato, non lui stesso.

 

L’8 settembre ha ridotto a macerie, più dei bombardamenti alleati, le certezze degli italiani e della loro organizzazione politica, quale l’avevano conosciuta: dalla monarchia – «all’ombra della quale eran nati e pensavano di morire» – alle forze armate. La resa senza condizioni apriva il baratro dinanzi a un Paese diviso in due e teatro di lotta tra eserciti nemici, come ai tempi delle guerre d’Italia del XV e XVI secolo:

 

E allora? Non restava che negare la legittimità della realtà, smentire chi l’aveva perpetrata, puntare i piedi sull’orlo dell’abisso per non cadervi dentro; raccogliere tutte le energie in uno sforzo supremo per riaffermare il diritto dell’Italia ad esistere, per dimostrare che esiste, vive, non abdica alla sua volontà; e che non consente, che resiste e resisterà; che potrà magari soccombere, ma con onore.

 

E rivolgendosi tanto ai fascisti quanto, ma soprattutto, agli antifascisti, affermava che era necessario ricostruire lo spirito nazionale, perché «i partiti ci possono dividere; ma c’è un sentimento che ci unisce: che l’Italia sia, abbia coscienza di sé, come intelligenza, come carattere e personalità morale». Da una parte bisogna evitare la sobillazione, il tradimento; dall’altra la ferocia della repressione e della vendetta per andare piuttosto verso le masse per conquistarne la fiducia e richiamarle alla coscienza del comune dovere[41]. Quello che Gentile chiedeva «è che si evitino le lotte non necessarie, né utili, anzi, certamente dannose, in cui certi elementi fascisti insistono troppo col solo effetto di smorzare e rallentare la fiducia del Paese nel Partito»; per questo riteneva opportuno «un appello alla smobilitazione degli animi, alla concordia possibile, per carità di patria, per la salvezza di tutti»[42]. Gentile teme che la sconfitta militare e la guerra civile facciano smarrire quel senso dell’unità nazionale acquisito faticosamente e fra tanti lutti. Lo schierarsi con la Repubblica Sociale Italiana è conseguenza necessaria del fatto che non possa «non pesargli l’idea che anche lui stia alla finestra mentre la nazione si sfascia, che abbracci la logica di quel particolare che ha sempre condannato. Gli grava pure il senso dell’onore, dell’abbandonare quel Mussolini a cui ha creduto e da cui ha ottenuto fiducia negli impegni culturali»[43].

D’altronde, «essere filosofo significa non solo elaborare una teoria, ma viverla, e l’attualismo è un modo di vivere eticamente, ossia civilmente impegnati»[44].

La morte lo raggiunse, per mano di un commando gappista, il 15 aprile e fu morte, scrive il figlio Benedetto, consapevolmente accettata, quasi che il personale olocausto potesse salvare l’onore di un popolo immerso nell’abisso della guerra civile e insieme quell’unità alla fine della quale lo stesso filosofo, non solo l’uomo, non poteva sopravvivere.

 

NOTE

[1] «Il tema politico è, infatti, fondamentale nel pensiero del filosofo siciliano sì da essere oggetto di considerevole letteratura critica» ed è un tema che non attende né la Grande guerra né il fascismo, «ma è connaturato intrinsecamente alla filosofia del Gentile» (H.A. Cavallera, Ripensare l’attualismo, prefazione a V. Pirro, Filosofia e politica in Giovanni Gentile, a cura di H.A. Cavallera, Aracne, Roma, 2017, p. 15).

[2] Lenin definì il libro di Gentile come tra i più notevoli scritti dedicati al filosofo di Treviri da filosofi non marxisti, considerandolo un libro che meritava attenzione in quanto sottolineava «importanti aspetti della dialettica materialistica di Marx che normalmente sfuggono all’attenzione dei kantiani, positivisti, ecc.» (Lenin, The teachings of Karl Marx, «International Publishers», New York, 1930, p. 45).

[3] Semmai, ciò che cambiò fu l’atteggiamento del “pubblico” che si volse a Gentile dopo aver guardato a Croce, il quale, «neutralista prima dell’intervento italiano, aveva poi aderito lealmente allo sforzo della sua patria in guerra, ma tenendosi alquanto in disparte, specialmente nei primi anni del conflitto, mentre Gentile s’era pronunciato subito per l’intervento e aveva poi partecipato con caldo animo, secondo il suo carattere, all’opera di affiancamento morale dei combattenti. La nazione in guerra si volgeva con simpatia verso chi ne seguiva con partecipazione d’affetto l’immane sforzo. Il temperamento emotivo del siciliano, in quelle ore, era sentito dagli italiani più affine al loro, che non la riflessione, a tutti i costi sobria savia e prudente, dell’abruzzese, ben risoluto a non lasciarsi vincere dalla passione neppure in quelle circostanze» (A. Guzzo, Croce e Gentile, Edizioni CENOBIO, Lugano, 1953, p. 43).

[4] A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna, 1990, p. 344.

[5] G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, il Mulino, Bologna, 1998, p. 61.

[6] G. Gentile, Guerra e fede, De Alberti Editori, Roma, 19272, p. 12.

[7] V. Vettori, La filosofia del combattimento, U. Giardini, Pisa, 1955, p. 10.

[8] G. Gentile, Guerra e fede, cit., p. 17.

[9] Ivi, p. 21.

[10] Ivi, p. 25.

[11] Ivi, p. 69.

[12] Ivi, p. 70.

[13] A.J. Gregor, Giovanni Gentile. Il filosofo del fascismo, Pensa MultiMedia, Lecce, 2014, p. 34. In questa prospettiva, Carlini poteva considerare Gentile una sorta di Fichte italiano che tuttavia attualizza l’Io fichtiano e dà alla sua filosofia un carattere più rivoluzionario per il suo antintellettualismo, secondo il quale il pensiero non è veramente pensiero se non è insieme azione. «Di qui la posizione propria anche nel problema politico. Non c’è bisogno di aspettare il fascismo: la posizione è già chiara e dichiarata sin dal 1914, e negli scritti raccolti nel volume Guerra e fede, uscito in prima edizione nel 1919» (A. Carlini, Studi gentiliani, Sansoni, Firenze, 1958, p. 104).

[14] G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo (1934), ora in Id., Politica e cultura, a cura di Hervé A. Cavallera, Le Lettere, Firenze, 1990, p. 375.

[15] G. Gentile, Guerra e fede, cit., p. 27.

[16] Ivi, p. 31.

[17] G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto (19373), Le Lettere, Firenze, 2003, p. 72.

[18] Idem.

[19] Ivi, p. 74.

[20] Ivi, p. 75.

[21] G. Gentile, Guerra e fede, cit., p. 55.

[22] G. Gentile, Albori della nuova Italia (1923), II edizione riveduta e accresciuta a cura di Vito A. Bellezza, Sansoni, Firenze 1968, vol. I, p. 199. Si tratta della recensione , apparsa su «La Critica», a un libro di Bolton King su Mazzini, pubblicato da Barbera, Firenze, nel 1903.

[23] Ivi, p. 213.

[24] H.A. Cavallera, Immagine e costruzione del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Biblioteca Scientifica Fondazione Ugo Spirito, Roma 1994, p. 54.

[25] A. Del Noce, Giovanni Gentile.., cit., p. 376.

[26] G. Gentile, Dopo la vittoria (1920), Le Lettere, Firenze, 1989, II edizione rivista e ampliata a cura di Hervé A. Cavallera, p. 25.

[27] Ivi, p. 37.

[28] H.A. Cavallera, Giovanni Gentile: la Grande Guerra come conclusione delle guerre risorgimentali, «Annali del Centro Pannunzio», Torino, 2016-2017, p. 44.

[29] Ivi, p. 47.

[30] H.A. Cavallera, L’immagine del fascismo in Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce, 2008, p.24.

[31] Ivi, pp. 35-36.

[32] D. Faucci, La filosofia politica di Croce e di Gentile, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 163.

[33] G. Gentile, Introduzione alla filosofia (19432), Sansoni, Firenze, 1981, pp. 14-15.

[34] V. Pirro, Italia e Germania nel Novecento, Amici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Terni, 2016, p. 268.

[35] Ivi, p. 269.

[36] G. Gentile, Giappone guerriero, «Civiltà», gennaio 1942, p. 5.

[37] Ivi, p. 8.

[38] Ivi, p. 12.

[39] G. Gentile, Dal discorso agli italiani alla morte, a cura e con introduzione di B. Gentile, Sansoni, Firenze, 1951, p. 78.

[40] V. Pirro, Italia e Germania nel Novecento, cit., p. 287.

[41] G. Gentile, Ricostruire, «Corriere della Sera», 28 dicembre 1943.

[42] Una lettera di Giovanni Gentile, «Corriere della Sera», 16 gennaio 1944.

[43] H.A. Cavallera, L’immagine del fascismo in Giovanni Gentile, cit., p. 69.

[44] Ivi, p. 70.