Poesie per un uomo 3/3

La raccolta di Poesie per un uomo di Armanda Guiducci si compone di novantacinque poesie. Questa Domenica pubblichiamo le ultime ventinove con il seguente ordine:

Scritto sulla mano
Bouquets
Supponiamo
Vino leggero
Le stanze
Non altro tempo
Un punto, un segno
Due giovinezze
Letture
Cento vite
Addizione
Adagio
La tua ombra
La cenere e la scintilla
L’albero
Odio la coscienza
Il violino
La creazione del cuore
Parità
Infinito presente
Anamnesis
L’isola e il vento
Parole nascoste
Ridammi
Il tuo pensiero
Andando
L’immaginazione
L’invenzione
II sogno della ragione

Scritto sulla mano

Linee bizzarre sul palmo delle mani
richiamano il segreto delle foglie.
Un tempo, chi lesse la mia mano, disse:
«Avrai molto amore, tu. Ma questa croce
ahi, che interrompe lo slancio del disegno …»
Un destino trapunto sulle mani
quale beffa sarebbe! Io non ci credo.
Io non lo credo … È, dunque, assurdo? …
Il tempo passa. Ho avuto molto amore.

 

Bouquets

Ai semafori, ragazzi con narcisi
offrono stralci della primavera.
No – dico alle loro voci da campagna.
Io non compro mai fiori, per principio.

Dal giorno che ti dissi: le viole,
hai legate le veloci primavere
– gioioso, puntuale come un prato –
coi fragili fili che serrano i mazzi

e, ai presagi delle luci smorte,
annunciati gli autunni coi ranuncoli.
Conterei le stagioni d’una vita,
se contassi tutti i mazzi che mi hai dato.

Me ne restano pochi. Che mi rendano
dalle tue mani – gli sciocchi fiori docili
che seguono chiunque: i vivi e i morti –
chiari segnali del tempo e dell’amore.

 

Supponiamo

Mi venisse concesso il privilegio
(o l’astuta tortura) di rinascere,
me stessa, daccapo, un’altra volta;
rilanciata in bianco a risalire,
con la gola che batte, la discesa –
basterebbe un niente … e la memoria
mi tradirebbe, forse, al primo passo.
Rivedessi i tuoi occhi: larghi, chiari,
rialzarsi su di me, corrermi incontro
– conoscendo il resto: quali grinze,
impietosi scatti, lampi d’odio –
pietrificata in volo ricadrei,
balzo per balzo, inerte, la scarpata.
Meglio morire una sola volta.

 

Vino leggero

Come un vino leggero, che stordisce,
è scorso il tempo. Con meraviglia,
risalgo i tuoi capelli; discendo
la ruga verticale sulla fronte.

Se un amore dura – solo perché
il corpo tramonta, e mai la neve
si posa eguale due volte su un ramo,
più lenta non è che la sua fine.

 

Le stanze

Ci amammo in una stanza tutta rossa,
dipinta dalla tua speranza allegra,
la prima volta. Stanze, son fuggite
dietro le nostre spalle … Le han distrutte
i respiri di tante nostre notti.
Ma in una solo bianca ci fu detto
addio – non dalla nostra voce. S’alzò,
inaudita, la voce del silenzio.
Da là – dove la neve intatta dura
più dei respiri, dei soffi, dei venti –
al tuo cuore spaccato incerto iroso,
con i corvi in attesa alla finestra.

 

Non altro tempo

Poiché la vita stessa ci tradisce,
non ho più tempo per esserti fedele
che questo – che congiura, ogni minuto,
contro l’alleanza che ci ha uniti.
Non ho altro tempo per dirti la lealtà,
altro per confessarti l’amicizia,
altro tempo che questo: stretto, in gola.

 

Un punto, un segno

Dammi una traccia qualunque sulla terra,
un cerchio sulla polvere, anche un punto,
un segno graffiato sulla neve
o sull’acqua un sughero, gettato
a dispetto di mutevoli correnti

ed io verrò – se tu, caro, mi aspetti.
Incontrarti, non fu nulla di diverso.

 

Due giovinezze

Schermi grigi, le tempie … Il tempo, con la luce,

dilava, sbiadisce i bei colori.
Ma il cuore resta rosso, fino all’ultimo,
mentre il sangue inazzurra, cede prima.

È incominciata la corsa della spugna
anche per te – il gesto che cancella.
È chiaro, dunque: abbiamo già vissuto
quanto basta per l’inizio di morire.

Quale contrasto. Mai più vivo, il cuore
ha martellato d’impeto più idee,
aggrovigliando ire, sogni, furie,
nell’amarezza di sentirsi perso.

T’ho abbracciato ragazzo. Ora mi dai
una tale disperata giovinezza
che, grazie a te, mi dico:
«Quale mai tempi, l’uomo
astrae in sé, a furia di morire».

 

Letture

Ho consumato notti dentro i libri,
lune, e perfino primavere;
chinato il capo, e udito
l’insidiosa eco del pensiero.
Conosco i rischi; le perdite; i furti.
Ma neppure la lettura più azzardata
ha messo in dubbio te – come fai tu
ogni volta sull’asse di una pagina
che ti sposti un sistema costruito.
T’ammiro, cosí astratto, e provo orrore
della tua incerta furia – forza maschile
e debolezza insieme; mancanza di natura
che mi relega in nota – a pie di pagina.

 

Cento vite

Forse ci siamo sbagliati. Forse insieme
abbiamo strappato al sole troppi raggi
e peccato, per difetto di umiltà
o – chi sa – per eccesso d’amore.
E umbratili parole incertamente
carezzanti il senso delle fini
– come funi fischianti all’insaputa,
reti, lacci, legarono gli dei –
come corde d’oro si ritorsero.

Cari occhi mortali, ora tu piangi,
leggi funesto il segno delle corde.
M’hai dato la tua vita: altro non resta,
o resta poco – non tempo per rifarsi,
solo un terreno tempo per capire
che invano il sole può essere ingannato
e che “domani” è una parola audace.

Ogni scelta rinfaccia: Sei mortale.
Hai deciso una vita? Hai perdute,
mentre sceglievi, le tue altre: tutte.
Questa che hai preso, hai data: una volta
per molte – questo, sí. E, per molte
altre vite, la mia sola in cambio
serra con forza … Anch’io non ho che questa.

 

Addizione

Se, come l’odio, l’amore si sommasse
qua sulla terra … e il tempo lo portasse
come i semi il vento – brevi abbracci
concessi ai fiori, non permessi all’uomo –
ogni incontro non sarebbe violazione
né sofferenza, offesa; più, tormento
del non vissuto; di quanto, a noi sfuggito,
sigilla vite ostili, separate,
perpetuando ombre – nostre rivali.

Avremmo, allora, scampo da noi stessi.
Allora, avremmo mani, bocche vere
e parole capaci. Avremmo forze,
indicibili adesso. Noi saremmo
uomini e donne: questa meraviglia.

 

Adagio

Vorrei esistere adagio, certe volte.
Non turbarti. Rispettare le grinze
dei silenzi che invecchiano il tuo viso.
Un puro fianco porgere, a riposo.
Essere quella che ogni uomo sogna
una volta almeno, quando è stanco.

Non posso. Stendo subito le dita
per frugare, per spianare le tue rughe,
mentre il fianco mi scatta. Eppure,
dovrei saperlo: m’abbandoni il corpo,
tu, non sempre tutti i tuoi pensieri.

Non sei che un uomo, un solitario,
uno, che cede a strappi nell’amore;
ed una donna, io – una, che si illude
di placare l’ira e il male della vita
con il cuore dell’uomo posseduto.

 

La tua ombra

Ali improvvise, cieli sconosciuti
s’impennano nei sogni.
Icaro gode nelle braccia tese;
fluttuando, la terra si distacca.
Chiuso stormo fuggente, le figure
non hanno ombre, nei sogni.
Tu ridi, più gaio delle èliche,
e tuttocielo morde il tuo profilo.
Alta volando in mezzo a neri soli
son sfuggita a me stessa – quante notti?
Fra questi cirri astratti, penso: vivo.
Lo giura la tua ombra, giù dal sole.

 

La cenere e la scintilla

Sono felice d’essere vissuta
per una sola cosa: averti amato.
E, bruciata, cosi, nel vero fuoco,
come una pazza, un’allegra scintilla,
se cenere m’aspetta, è il mio destino.
Ma più luce, per un attimo, ha gettato
l’incandescente globo della vita.

 

L’albero

Senza che neppure mi accorgessi,
hai gettato rami come un albero
dentro di me, a scatti silenziosi
– ogni respiro dato, ed ogni abbraccio.

E, se una danza di venti insinuanti
m’ha circuita – e io ho cercato
di piegarmi altrove, mille radici
indietro e, nelle braccia, mille
inarcate braccia più tenaci,
con imprevista forza m’han respinta
indietro – dove verdeggi in me.

 

Odio la coscienza

Odio in me la coscienza, che non mente
quando t’abbraccio: che misura, e sa;
alleata col tempo – che non t’ama.
«Su: goditi gli abbracci! Son contati.
Nella coppa dei baci scintillante
il vino della vita si consuma
ad ogni sorso.» A ogni breve gioia,
il veleno sottile di sapere
le tue labbra spiate … Altre braccia
nelle braccia protese – come rami
sprezzanti un rovo, irto, biforca –
in uno strappo contrastano le tue.
Chi resta, ora, con te? Una strana
fissità felice, una me stessa
che disdegna il tempo, e che s’aggrappa
ostinata al tuo collo. Caro, eterno!
Simile alla freccia in volo, ferma
di momento in momento, scomponi
in lei infinita una durata,
cosí, sarai sempre quello che tu sei
adesso, e che, adesso, io amo.

 

Il violino

Fin che la morte non t’ebbe toccato
nel nascondiglio furioso del cuore,
amarti – fu ascoltare un suono
puro e profondo, chiaro sulla vita.
Quando sul mio petto batte forte,
ora, il tuo cuore ferito, sento
sussulti, strappi rauchi, note sporche,
come da un violino sconquassato
dissonanza sfrenata, che trionfa.

 

La creazione del cuore

T’ho amato cosi poco – e già è passata
l’età irruente in cui si crea il cuore.
Io in te, tu in me, una, più volte, nacqui
e rinacqui, sorpresa da un abbraccio,
come la luce slanciata a suscitare.
Ora, la luce riposa sulle forme
chiuse, finite. Il cuore ha già compiuto
la curva ardita che ascende nel disegno
e conclude da sé … : lui, nostra bellezza,
precipita coerente, per finirsi.
Ogni creazione dura a stento un uomo.

 

Parità

Ed ora tu mi dici (è la tua voce,
la voce che è l’affetto mosso in suono),
con la tua voce calda tu mi dici
(la voce dei momenti più preziosi,
la voce che mi lega in mille nodi),
con quella lunga voce tu mi dici:
«Non sono ora, e non fui mai felice,
nonostante te, completamente».

Tu chiedi l’uomo in me: che io capisca,
ad onta di me stessa … e disconosca
la mia mitica forza: essere donna
– orgoglio ch’è più antico del pensiero.

Posso capirti, distratto in altre vite
e progetti di vita. Se neghi me,
tu ti rinventi sulla carta bianca.
Io, suggerisco un’unica versione.
Io sono ciò che hai. E, se mai gioia,
– di un’esistenza sola, limitata.
Forse, ogni donna è immagine di morte,
senza saperlo, più stretto abbracci un uomo.
Dunque, ho compreso te – e sono esclusa.
Che crollo costa, la parità con l’uomo.

 

Infinito presente

Non avrò detto ancora nulla quando
a te, a me, «io t’amo», detto,
il suono-freccia abolirà il percorso
e ronzerà gradevole all’orecchio
un’ape, un miele, un fiore conosciuti.

Io non coniugo verbi, nel profondo.
Vivo, e ti sento – (il battito dell’essere
chiede il presente, perduto all’infinito).
Come quando t’abbraccio unendo il corpo,
con te divido l’intero della vita.

 

Anamnesis

Fosse dato il ritorno … Sulla terra,
avrei un vago ricordo di te,
come di un sogno incerto. Il sogno,
il sogno solo ci avverte delle tenebre
che abbiamo respirato ad insaputa
e ci salva la vita, con figure.
Tu, vago, saresti una certezza
(sufficiente, per farmi ritentare).

Era solo un’ipotesi. Pure –
(mi rendo conto adesso) non fu cosi,
una volta? Cosi – ho già sognato.

 

L’isola e il vento

Come un’isola emersa od una terra
dai cedevoli flutti,
sorge il tuo corpo sull’onda del respiro.
Ancorato sull’acqua, m’offre un porto. Ed io
come il vento – che erode ciò che ama –
mi abbandono su te, disegno il tempo.

 

Parole nascoste

Ammira la gettata: oscilla l’invisibile
per concentrici giri in chiara forma.
Cosí sottile, (quasi inafferrabile)
si tesse dalla voce la parola
mai detta prima (o dal pensiero
taciuto a chi si ama, detto ad altri)
e, tremando, salda bave, fili,
là dove era il vuoto o solo un soffio,
una mezza promessa, un quasi, un niente.
È una lucida trama, una figura
alta e coerente – più del tuo volere.

 

Ridammi

Ridammi il tuo cuore chiaro, il tuffo
di un’impudica gioia a capofitto …
Ridammi ciò che ho avuto. Ah, io chiedo
l’impossibile: che l’amore raddoppi,
proprio ora – che s’assottiglia, la vita.

 

Il tuo pensiero

Dal profondo del corpo il tuo pensiero
più veloce del sangue, del respiro,
come un uccello in volo verticale
sfonda la luce alta … libra gli occhi.
Se li cerco, li fermo e in loro indugio,
tenerissimi lampi combattivi,
è il colpo d’ala che m’attrae – e scopro,
vertiginosa a piombo, la tua carne.

 

Andando

Andiamo. Vieni, andiamo per le strade
di questa che fu un tempo la mezzana
di sospirosi crocicchi. Clandestine
nuvole battevano il tuo passo
sui marciapiedi bagnati
e sussurri di promesse dentro i bar
appannavano i cristalli. Vapore,
alti fiotti di vita che chiamava
calde luci gialle stanze amore
fra i fischiettii di Mozart
ai compiacenti alberghi occhibendati,
accaldava l’inverno sulle porte
trasudanti di sere.
Lunghe sere, lunghi abbracci …
Davanti a noi, ridente, un infinito.

 

Immaginazione

Ti disegno con gli occhi sul cuscino,
e il tuo respiro, il tuo fumo nella stanza,
ogni piega modellata sul lenzuolo,
la bella mano in riposo sul tuo petto.

Ti disegno con gli occhi; e, col pensiero,
il tuo abbandono io colmo di parole:
le parole che salgono alla fronte
e si rompono affrante all’acqua scura

di una notte che stagna – e che tu temi.
E io quaggiù, e non esserti vicina,
qua, a tracciare nell’aria le figure
della notte e di te. Immaginazione,
sei buona in arte, non plachi mai in amore.

 

L’invenzione

Se non ci fossi tu, ti inventerei,
credimi, esattamente come sei.
Ti inventerei a furia di dolore
come si fa con dio o quelle cose

di cui l’esempio manca, e l’uomo crea:
il pensiero, l’immagine, il ricordo,
la parola, la danza, il dolce suono,
poiché l’amore stesso è un’invenzione.

 

Il sogno della ragione

Mi domando se si dicessero
tutte le sottili deviazioni,
le ombre, rapide e durevoli,
i distacchi, gli scatti repressi,
tutto quanto – amando – ci allontana
l’uno l’altro, uomo, donna,
più di due pianeti
che, attratti, si reggono nel vuoto
fedeli ad orbite perfette.
Tu, le tue oscure tentazioni …
Io, le mie fughe. E le figure
suadenti che hanno attraversato,
in tant’anni, i silenzi del cuore.
Varrebbe la pena? mi domando.
La crudeltà mi tenta. La chiamo
verità. La verità fa male,
non c’è scampo, ma … L’omissione storpia.
Non siamo pianeti, ma uomini.
«Abbi pietà, tu dici, esisto.»
«Inutili torture» affermi.
«Non è la verità, che conta.» è vero.

La crudeltà mi tenta. La chiamo
verità. Forse, è la stessa cosa
ma altrove – dove spazia
chiaro il sogno della ragione.
Inutili torture – e difendi
con un gesto reciso distanze
ed omissioni.
Sarebbe come il giorno che, alzato
su di me uno sguardo crocefisso,
dicevi: «Abbi pietà. La pietà,
sí, conta, se s’ama veramente».
Quel precipitare nel silenzio
d’una grave, offensiva alterità …
Quel ritrovarsi vicini e remoti
condannati a essere se stessi
– a dispetto d’una intera vita
e di una implacata tenerezza.
Sarebbe quel rivivere a ritroso
le ferite non date, le morti
non osate. Ciascuno, la propria negazione
nel cuore dell’altro,
cosí amato.
Sarebbe quel morire le morti
a metà date – fino in fondo.
Chiarezza che distrugge, verità,
risplende altrove – dove spazia
chiaro il sogno della ragione
e il tuo corpo non conta – e tace
l’offesa, il rancore dei sensi,
nel puro silenzio.

 

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