UberFiles: pratiche mafiose smascherate da una massiccia fuga di documenti

Le pratiche di Uber che potrebbero mettere in pericolo la vita dei suoi dipendenti, così come le labirintiche connessioni clandestine con politici come Emmanuel Macron e alti funzionari dell’UE, sono messe in luce dalla fuga di 124.000 documenti aziendali riservati al quotidiano Guardian . L’azienda modello della sharing economy è stata più volte accusata di essere in prima linea nella violazione dei diritti fondamentali del lavoro, ma le nuove rivelazioni vanno oltre ogni immaginazione. Secondo la corrispondenza interna dei suoi dirigenti, la società ha alimentato gli scontri dei suoi conducenti con gli automobilisti tramite la metropolitana sostenendo la contro-raccolta delle proteste dei tassisti. “La violenza assicura il successo”, ha affermato l’ex CEO dell’azienda Travis Kalanick. Sembra che abbia creato una gigantesca rete di attività di lobbying contro politici e governi che ostacolavano le pratiche anti-lavoro dell’azienda. Particolarmente disposto a collaborare è stato Emmanuel Macron (prima di diventare presidente), che ha promesso di intervenire a nome dell’azienda quando era nei guai con la legge, facendo accordi segreti anche con i suoi oppositori politici per portare avanti gli interessi dell’azienda americana. Quasi come un dipendente dell’azienda, però, sembra che operasse anche l’ex vicepresidente della Commissione europea, Nelly Kruse, che l’azienda usava per esercitare pressioni su paesi come i Paesi Bassi. Il ruolo di Kruse era così centrale per l’operazione di Uber in Europa che una serie di lettere affermava che la sua identità e il suo ruolo dovevano rimanere strettamente confidenziali. Si dice che Kruse abbia aiutato l’azienda durante il periodo di 18 mesi dopo che ha lasciato la Commissione, quando ai funzionari dell’UE è stato impedito di svolgere tali attività commerciali. Dopo la sua partenza dalla Commissione, Kruse è stata assunta da Uber con uno stipendio che si avvicinava a $ 200.000 all’anno.

La fuga di notizie rivela anche l’enorme influenza che la società ha esercitato su politici come Obama e l’attuale presidente Joe Biden, che secondo quanto riferito ha cambiato i suoi discorsi dopo gli incontri con alti funzionari dell’azienda. Caratteristica delle pratiche dell’azienda è che disponeva di un sistema speciale chiamato Kill Switch che distruggeva automaticamente documenti pericolosi e reti di comunicazione interne in caso di controlli a sorpresa della polizia nei suoi uffici. I documenti venuti alla luce coprono il periodo dal 2013 al 2017. In risposta alle rivelazioni, Uber ha affermato di aver modificato la sua politica ma non ha negato la maggior parte delle denunce contro di essa. Tuttavia, dai documenti emerge che la “meraviglia infantile” della Silicon Valley era basata su una fornitura di liquidità di dati storici senza precedenti da parte del sistema finanziario globale, ma anche su relazioni ingiuste con l’establishment politico di diversi paesi. Come con le criptovalute e altri “miracoli” della nuova sharing economy, mentre il flusso di liquidità si allontana, emerge la palude del business neoliberista alimentato dallo stato.

 

L’operatore della piattaforma per auto a nolo avrebbe approcciato anche l’attuale presidente Usa, Joe Biden, l’attuale cancelliere tedesco Olaf Scholz e l’ex ministro delle Finanze britannico, George Osborne. Nell’indagine finisce anche l’ex commissaria europea Neelie Kroes. L’inchiesta si focalizza sulle attività che il cofondatore di Uber, Travis Kalanick, ha effettuato per cercare di inserire il servizio nelle maggiori città del mondo, “usando la forza bruta — dice ancora il quotidiano — anche se significava violare le leggi e le normative che regolamentano i servizi di taxi”.

Sempre secondo il Guardian, in una comunicazione con altri dirigenti di Uber, che erano preoccupati dall’idea di inviare autisti del portale a una protesta in Francia, per il rischio che subissero violenze da tassisti, Kalanick rispose “penso che ne valga la pena: la violenza garantisce successo”. Ma su questo un portavoce del manager ha smentito che Kalanick abbia mai suggerito l’ipotesi che la compagnia potesse trarre vantaggi a spese della sicurezza del suo personale e che ipotesi in tal senso sono false. Le documentazioni citate dal quotidiano contengono anche scambi tra Kalanick e Macron che avrebbe aiutato Uber quando era ministro dell’Economia e con cui avrebbe nel 2014-2016 avuto scambi frequenti, in persona o tramite il suo personale. Macron avrebbe anche detto alla società di essere riuscito a stringere un patto segreto con i suoi oppositori nell’allora governo francese a favore del portale.

Interpellata dallo stesso quotidiano, per parte sua la società ha ammesso “errori e scelte sbagliate” sull’accaduto ma a rivendicato di essere profondamente cambiata dal 2017, sotto la leadership del nuovo amministratore delegato, Dara Khosrowshahi. Secondo l’indagine, poi l’ex commissaria europea Kroes aveva avviato discussioni per entrare nella dirigenza di Uber prima della fine del suo mandato. E successivamente avrebbe operato segretamente a favore del gruppo, potenzialmente in violazione dei codici di condotta dell’Ue. Kalanick alla fine venne allontanato nel 2017.

L’opposizione francese ha attaccato il presidente dopo la rivelazione del Guardian. L’accusa nei confronti di Uber è di aver violato leggi e di aver fatto pressioni su governi stranieri per espandersi globalmente. Il materiale passato alla stampa chiama in causa direttamente il capo dell’Eliseo, all’epoca ministro dell’Economia, che aveva una collaborazione stretta con l’azienda Usa mentre questa cercava di aggirare le regole per potersi imporre sul mercato francese. Uber France ha confermato che le due parti erano in contatto e che gli incontri con Macron erano normale amministrazione dal momento che rientrava nella sua sfera di competenza. Ma da Mathilde Panot del partito della sinistra radicale France insoumise al leader del partito Comunista Fabien Roussel sono partiti gli attacchi contro il “lobbista” Macron al servizio di “una multinazionale americano che voleva deregolamentare permanentemente il diritto del lavoro”. Il deputato comunista Pierre Dharreville ha lanciato la richiesta di un’inchiesta parlamentare sulla vicenda, ripresa anche da Le Monde.

C’è anche un risvolto italiano nell’inchiesta ‘Uber files’ che ha unito più di 180 cronisti di 44 testate internazionali, tra cui l’Espresso in esclusiva per l’Italia. ‘Italy – operation Renzi – rivela l’Espresso – è il nome in codice di una campagna di pressione organizzata dalla multinazionale, dal 2014 e il 2016, con l’obiettivo di agganciare e condizionare l’allora presidente del consiglio e alcuni ministri e parlamentari del Pd. Nelle mail dei manager Usa, Matteo Renzi viene definito “un entusiastico sostenitore di Uber”. Per avvicinare l’allora capo del governo italiano – spiega ancora il settimanale – la multinazionale ha utilizzato, oltre ai propri lobbisti, personalità istituzionali come John Phillips, in quegli anni ambasciatore degli Stati Uniti a Roma. Il leader di Italia Viva ha risposto di non aver “mai seguito personalmente” le questioni dei taxi e dei trasporti, che venivano gestite “a livello ministeriale, non dal primo ministro”. Renzi conferma di aver incontrato più volte l’ambasciatore Phillips, ma non ricorda di aver mai parlato di Uber con lui o con altri lobbisti americani. E comunque il governo Renzi – precisa l’Espresso – non ha approvato alcun provvedimento a favore del colosso californiano.