La politica monetaria europea tra ordoliberalismo e New Consensus Model

Nel sistema teorizzato dall’ordoliberalismo il principio base dell’economia è rappresentato dalla presenza di un efficiente sistema di prezzi di concorrenza perfetta. A questo principio base ne vengono affiancati altri sei, dei quali tre attengono a importanti profili di politica economica: il primato della politica monetaria, la costanza della politica economica e il principio dei mercati aperti. Accanto ad essi si pongono i tre principi di natura giuridica: la proprietà privata, la libertà contrattuale, la responsabilità. Oltre a questi principi costitutivi vi sono quelli regolativi, volti al mantenimento di un efficiente ordine della concorrenza.

Autori: Stefano FigueraGuglielmo Forges DavanzatiAndrea Pacella

Stefano Figuera è Professore di Economia Politica presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania.

Guglielmo Forges Davanzati è Professore di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università del Salento.

Andrea Pacella è Professore di Politica Economica presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania.

Fonte: economiaepolitica

1. Introduzione

L’impianto della politica monetaria europea ha risentito delle vicende storiche e del dibattito teorico della prima metà del secolo scorso. Il paradigma ordoliberale che vide la luce in Germania all’inizio degli anni Trenta ha rappresentato a quest’ultimo proposito un importante punto di riferimento. Lo scopo del nostro lavoro è duplice: da una parte esso intende ricostruire l’influsso ordoliberale sulla politica monetaria europea nel corso del tempo, e dall’altro dimostrare come essa sia stata anche condizionata, a diverso titolo, dagli sviluppi del mainstream teorico, dal neoliberalismo al New Consensus Model (NCM).

2.  L’eredità della tradizione ordoliberale

Negli anni Trenta del secolo scorso, ad opera di un economista, Walter Eucken, e di due giuristi, Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth, tutti docenti nell’Università di Friburgo, prese avvio una riflessione sui limiti del liberalismo classico e sul ruolo dello Stato.

In un manifesto programmatico del 1936, intitolato “Il nostro compito”, essi esplicitarono il loro intento, di “rimettere il diritto e l’economia al loro giusto posto”[1], individuando a tal fine alcune linee lungo le quali muoversi.

Nel sistema teorizzato dall’ordoliberalismo il principio base dell’economia è rappresentato dalla presenza di un efficiente sistema di prezzi di concorrenza perfetta. A questo principio base ne vengono affiancati altri sei, dei quali tre attengono a importanti profili di politica economica: il primato della politica monetaria, la costanza della politica economica e il principio dei mercati aperti. Accanto ad essi si pongono i tre principi di natura giuridica: la proprietà privata, la libertà contrattuale, la responsabilità. Oltre a questi principi costitutivi vi sono quelli regolativi, volti al mantenimento di un efficiente ordine della concorrenza.

In uno scritto del 1943[2], Dietze, Eucken e Lampe individuano tre “compiti particolari di uno Stato moderno”: una politica della moneta, una finanza ordinata, e una cooperazione con gli Stati stranieri[3]. Nel medesimo scritto è tratteggiata la posizione ordoliberale in ambito monetario. Emerge nella sua complessità il problema del controllo dell’offerta di moneta.

Un posto di rilievo nella riflessione ordoliberale in ambito monetario va riconosciuto a Eucken[4]. Egli riconnette l’utilità della moneta alla sua funzione di facilitatrice degli scambi[5].

Nella prospettiva euckeniana il sistema imperniato sulla moneta di credito svolge un ruolo supplementare: esso viene ad affiancarsi a quello basato sulla moneta metallica, quando la quantità offerta di questa non è in grado di soddisfare una domanda crescente. Eucken sottolineò come il sistema monetario nel quale la moneta è creata attraverso il credito, pur avendo avuto il merito di favorire una rapida industrializzazione, si potesse rivelare fonte di instabilità e con effetti rilevanti sul rapporto tra risparmi e investimenti[6].

La capacità del sistema bancario di espandere l’offerta di moneta attraverso la creazione di credito rendeva indispensabile ai suoi occhi un controllo sul sistema delle banche.

Le indicazioni di politica monetaria di Eucken[7] sono legate al dibattito sui temi monetari che si sviluppò in Germania a proposito dell’inflazione[8]. Eucken indicò la causa dell’inflazione nell’aumento eccessivo della quantità di moneta, derivante dal deficit pubblico e dalla politica di bassi tassi di interesse[9].

Sulle soluzioni prospettate da Eucken influirono alcuni contributi che caratterizzarono il dibattito del tempo. Egli rivolse la sua attenzione sia al Chicago Plan[10] che al piano presentato da Graham[11], imperniato su una moneta il cui valore era legato a un paniere di merci.

Eucken avanzò una proposta, che era una sintesi delle due ipotesi di riforma e che confermava la sua adesione alla teoria neoclassica. La moneta che egli propone è una moneta merce convertibile in un paniere di beni[12]. La sua quantità va determinata così da assicurare la stabilità monetaria e scongiurare i pericoli dell’inflazione e della deflazione[13]. Le caratteristiche della teoria euckeniana della moneta giustificano una sua collocazione nell’ambito di quello che Schumpeter definì come “metallismo teorico”[14].

Il lascito ordoliberale con le sue implicazioni di politica economica fu ripreso nel secondo dopoguerra dai teorici dell’economia sociale di mercato, che svolsero un ruolo di rilievo nell’indirizzare le scelte tedesche di politica economica[15].

Proprio nella prospettiva dell’economia sociale di mercato e in sintonia con il contributo ordoliberale fu avviata in quegli anni la costruzione europea. La volontà di pervenire a una sintesi tra armonia sociale e mercato concorrenziale sarebbe stata esplicitata nei Trattati dell’Unione con il riferimento a una “economia sociale di mercato altamente competitiva”[16].

3. La politica economica europea tra ordoliberalismo e neoliberalismo

Il tema dell’influsso dell’ordoliberalismo sulle scelte di politica economica è stato al centro del dibattito prima in Germania e quindi nell’Unione Europea, specie in questi anni in cui quest’ultima ha effettuato opzioni diverse da quelle consuete[17].

Ci si è chiesto in che termini la politica economica europea abbia subito l’influsso dell’ordoliberalismo e se il processo di “ordoliberalizzazione” dell’Unione Europea sia stato coerente con le teorie della Scuola di Friburgo.

Com’è noto, contestualmente alla nascita dell’ordoliberalismo si sviluppò in ambito neoclassico un dibattito sui limiti del liberalismo classico e sulla necessità di una sua rielaborazione, il cui esito fu quel neoliberalismo destinato a influire per lungo tempo sulle scelte di politica economica.

Il diverso modo di guardare al ruolo dello Stato ha rappresentato un importante elemento di differenziazione tra neoliberalismo e ordoliberalismo[18]. Mentre nella prospettiva ordoliberale l’intervento statale diventa oggetto di una costituzione che ne specifica il ruolo e gli ambiti, la visione neoliberale della Scuola austriaca è invece più vicina a un approccio imperniato sul laissez-faire.

Il tema del ruolo giocato da questi sviluppi teorici sulla politica economica europea è legato a quello dell’influsso da essi esercitato sulle scelte della Germania nel secondo dopoguerra, Bofinger (2016) ha parlato di un’ombra lunga che Eucken ha gettato sulla politica economica tedesca, soffermandosi sull’influsso su di essa esercitato dall’ordoliberalismo[19].

La classe politica tedesca ha in vario modo mostrato di aver subito l’influsso dell’ordoliberalismo. Se questo non ha mancato di farsi sentire nelle parole di rappresentanti delle istituzioni, occorre vedere se, e in che termini, lo stesso si sia verificato a livello europeo.

Con particolare riferimento alla politica monetaria, Nedergaard (2020) rileva come sia stretta la correlazione tra quanto previsto al riguardo nei trattati dell’Unione Europea e lo statuto della Bundesbank che risente dell’influsso ordoliberale; per entrambe l’obiettivo primo è il controllo dell’inflazione[20].

Secondo Mirowki e Plewhe (2015) se è indubbio che la politica economica europea è stata caratterizzata dall’influsso del mainstream teorico, non va dimenticato che è stato il modello ordoliberale il perno sul quale hanno ruotato le scelte di politica economica della Germania e dell’Unione Europea.

4. Una “banca centrale senza stato” per l’Unione Monetaria Europea

Questi cenni sul contesto nel quale ha preso corpo la politica economica europea costituiscono una premessa per una riflessione sul ruolo assunto dalla BCE e sulla ratio delle scelte da essa adottate.

Sullo sfondo delle scelte europee in ambito monetario si colloca il dibattito in ambito monetario sviluppatosi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.

Tra quanti in ambito neoclassico diedero un significativo contributo in materia vi fu Hayek; egli ebbe con gli esponenti della Scuola di Friburgo intensi rapporti, rappresentando un punto di riferimento per il neoliberalismo. Agli inizi degli anni Trenta egli aveva spiegato l’inflazione come causata da un eccesso degli investimenti rispetto ai risparmi, originato dal fatto che le banche avevano concesso crediti in misura superiore rispetto ai risparmi, venendo così a mancare alla loro funzione istituzionale che le voleva semplici intermediarie tra risparmiatori e imprenditori[21].

Se in Monetary Theory and the Trade Cycle[22], Hayek aveva richiamato la necessità di controllare l’attività delle banche in Denationalisation of Money[23] egli si fece promotore di un sistema che riconosceva alle banche commerciali libertà di emissione monetaria. Ciò alla luce della scarsa fiducia nei riguardi della banca centrale come soggetto cui demandare il controllo dell’emissione monetaria.

Ma è stata la drastica separazione tra politica monetaria e politica fiscale, additata come premessa imprescindibile per il funzionamento di un’economia di mercato e per la tutela della libertà individuale, a costituire un lascito teorico hayekiano del quale molti policy maker europei hanno fatto tesoro.

Accanto all’influsso di Hayek fu il monetarismo a influenzare le scelte europee di politica monetaria. La visione di Friedman dell’autonomia della banca centrale è diversa da quella hayekiana; egli aveva manifestato i suoi timori circa un possibile intervento della banca centrale nella gestione dell’offerta di moneta[24]. Nel 1948 egli aveva proposto una riforma della banca centrale e del sistema bancario con un ben preciso scopo: “eliminare sia la creazione privata o la distruzione di moneta sia il controllo discrezionale della quantità di moneta da parte della banca centrale”[25].

L’influenza dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato sulla politica economica europea ha trovato ampio riscontro nel ruolo attributo alla BCE. Il prevalere di un approccio non keynesiano alla politica monetaria, prima in Germania e poi nell’Unione Europea, ha fatto sì che il ruolo della banca centrale fosse interpretato nella prospettiva del mainstream teorico. Più precisamente è stata la visione ordoliberale (e di Friedman), imperniata su una banca centrale soggetta a precise regole, a prevalere[26]. Essa doveva essere svincolata da un canto dal controllo politico e dall’altro essere impedita da comportamenti che potessero compromettere la stabilità monetaria. La costruzione del sistema monetario europeo è stata così incentrata su un sistema di regole di comportamento cui andava assoggettata una banca centrale indipendente. Ne è derivata l’istituzione di una moneta e di una banca centrale senza Stato.

Si tratta di peculiarità che si inseriscono a pieno titolo nella prospettiva ordoliberale. Il rischio di condizionamenti da parte degli Stati membri è evitato; al tempo stesso è evidente la conseguente impossibilità che le specifiche situazioni delle economie dei Paesi membri siano condizionanti[27].

Anche nell’ambito della politica monetaria europea, in ordine alla stabilità monetaria è stata ribadita la rilevanza dell’insegnamento ordoliberale.

I confini non solo dell’intera politica economica dell’Unione Europea sono in questo passo chiaramente definiti, rendendo esplicito il loro radicamento nell’ordoliberalismo.

5. La politica monetaria europea tra New Consensus Model e “Grande Recessione”

Se nelle scelte di fondo che hanno condotto al Trattato di Maastricht può ravvisarsi l’influsso di una visione “monetarista” del processo inflazionistico e del ruolo della politica monetaria, è pur vero che la BCE ha mutato strategia quando il monetary targeting ha mostrato i suoi limiti. In alternativa ad esso, l’inflation targeting fu proposto come uno strumento fondato sull’annunzio di un obiettivo di inflazione da parte della banca centrale[28].

È nell’ambito del ripensamento, in chiave neoclassica, degli obiettivi e delle regole di politica monetaria che si colloca il fondamentale contributo di Taylor[29].

La regola di Taylor rappresenta sicuramente un passaggio fondamentale per lo sviluppo di un più articolato modello di policy che incomincia a svilupparsi a partire dai primi anni del 2000 e che delinea un nuovo consenso macroeconomico di ispirazione neoclassica noto come New Consensus Model (NCM)[30].

Se, come già ribadito dallo stesso Taylor (1998), l’approccio alla politica monetaria da lui prospettato non vuole rappresentare una vera rottura con la tradizione monetarista, va rilevato che anche il NCM si pone con questa in una prospettiva di sostanziale continuità[31]. Il NCM appare in sostanza come il risultato del processo attraverso il quale parte del mainstream teorico ha ‘metabolizzato’ alcune implicazioni ineludibili che scaturiscono dal carattere monetario dell’economia capitalistica, poste in rilievo dall’analisi keynesiana della moneta o da suoi sviluppi successivi.

Con riferimento alla politica della BCE, va inoltre rilevato che se il passaggio dal monetary targeting all’inflation targeting ha significato il parziale superamento, da parte delle autorità europee, di un’ottica che faceva della teoria quantitativa il proprio punto di riferimento, il ricorso a quest’ultima strategia ha rappresentato una conferma dell’adesione al consensus model e un riconoscimento del carattere endogeno dell’offerta di moneta[32]. Ne è derivata una politica monetaria della BCE da taluni giudicata contraddittoria.

6. Oltre l’ordoliberalismo

L’evoluzione della politica monetaria teorizzata dal mainstream ha significato un importante aggiustamento di rotta. Il flexible inflation targeting ha rappresentato infatti un’ulteriore integrazione della strategia precedente. A un approccio volto alla difesa della stabilità monetaria ne subentrava uno che sanciva la necessità di andare oltre una politica monetaria meramente antinflazionistica[33].

L’azione della BCE è stata così, almeno in un secondo momento, caratterizzata dal ricorso ad una duplice strategia. Ne sono scaturiti i “due pilastri” della strategia di politica monetaria della BCE: l’analisi delle variazioni della quantità di moneta e l’analisi di un insieme di indicatori economici e finanziari[34]. Si tratta di un approccio che se non può dirsi monetarista è certo in linea con una lettura essenzialmente monetaria del fenomeno inflazionistico.

Va a questo punto posta in evidenza la differenza tra la visione della banca centrale dell’ordoliberalismo e quella della BCE.

Sul piano formale l’architettura della BCE risente dell’impostazione teorica che, come visto attribuisce alle regole e all’indipendenza dell’istituzione monetaria i presupposti per la credibilità dell’obiettivo di stabilità dei prezzi. Per tale motivo la politica monetaria europea apparirebbe in linea con quanto argomentato dall’approccio ordoliberale.

Per altri però tale deduzione è priva di fondamento in quanto il principio dell’indipendenza non è condizione né sufficiente né necessaria a garantire l’ordine monetario; per tale ragione la BCE non rispecchierebbe propriamente una visione ordoliberale di banca centrale. Particolarmente significativa è la posizione a tal riguardo espressa da Bibow (2004).

La tesi bibowiana è che l’ordine monetario (così come è inteso da Eucken) è garantito solo se la politica monetaria si serve di uno stabilizzatore monetario automatico. In assenza di questo, all’indipendenza della banca centrale non corrisponderà l’indipendenza del banchiere centrale e qualunque scelta di politica monetaria sarà discrezionale anche se la banca centrale è formalmente indipendente.

Oltre al tentativo di trovare o negare le fondamenta euckeniane della struttura dell’Eurozona e della sua politica monetaria, i teorici ordoliberali si sono recentemente confrontati su un altro aspetto rilevante, ovvero quello di comprendere se le misure non convenzionali abbiano compromesso il mandato della BCE e aperto la strada a nuovi scenari di disordine economico.

Le principali manifestazioni di avversità nei confronti del programma di quantitative easing si reggono sull’idea che esso, consentendo il salvataggio di istituzioni inefficienti, avrebbe generato distorsioni di mercato che altrimenti non avrebbero avuto luogo[35].

A ciò si aggiunge come la sua implementazione avrebbe compromesso la solidità del principio dell’indipendenza e la credibilità quindi dell’obiettivo inflazionistico[36].

Sviluppando le argomentazioni critiche di Bibow si potrebbe poi argomentare che le misure convenzionali non sarebbero meno responsabili di quelle non convenzionali nel rendere inattendibile l’obiettivo inflazionistico. La mancata istituzionalizzazione di uno stabilizzatore monetario automatico renderebbe cioè il disordine monetario un carattere strutturale del mercato monetario essendo che le operazioni di variazione della massa monetaria previste dalla BCE sono attivabili su iniziativa delle banche commerciali o del banchiere centrale, in entrambi i casi quindi sempre e comunque discrezionali[37].

Al contrario, c’è chi sostiene la piena convergenza dell’operato della BCE agli obiettivi prefissati leggendo le misure non convenzionali come strumenti correttivi del disordine economico e non generativi dello stesso.

È da osservare che le scelte europee in politica monetaria hanno subito rilevanti mutamenti alla luce del dinamismo di un sistema capitalistico del quale il sistema bancario nel suo complesso si conferma il perno. È stata la nuova fase neoliberista a spingere verso una politica monetaria non in piena sintonia con le prescrizioni dei modelli visti in precedenza.

La visione del ruolo della banca centrale è infatti, soprattutto negli ultimi decenni, mutata in dipendenza della condivisa esigenza che essa intervenga più attivamente a sostegno del sistema capitalistico. Il pragmatismo della BCE va così interpretato in una più ampia prospettiva che tenga conto del ruolo che il sistema monetario e finanziario è chiamato a svolgere.

Alla prima fase neoliberista, quella degli anni Ottanta del secolo scorso, dominata dal modello monetarista ne è seguita una seconda, che ha preso corpo negli anni Novanta, che ha visto la politica monetaria funzionale nei riguardi di un “nuovo” volto del capitalismo, caratterizzato (secondo Bellofiore e Halevi (2010)) dal duplice tratto della finanziarizzazione e della precarizzazione del lavoro[38]. Esso si è retto “sull’equilibrio instabile (e alla fine insostenibile) tra le tre figure del lavoratore ‘traumatizzato’, del risparmiatore in fase ‘maniacale’, e del consumatore ‘indebitato’”[39].

Il fine primo della politica monetaria diventa allora quello di garantire la realizzazione dei progetti di profitto e di accumulazione delle imprese.

L’intervento del sistema bancario si è rivelato determinante al fine di ‘convalidare’, attraverso il sostegno alla domanda, le decisioni di produzione delle imprese. Tale intervento si è tradotto in un incremento sia del sostegno finanziario alle imprese che del credito al consumo erogato ai lavoratori-consumatori.

La politica monetaria “espansiva” così realizzata ha finito per mettere in ombra il “primato della stabilità monetaria”, fondamentale lascito della tradizione ordoliberale. La banca centrale, per usare l’espressione di De Cecco (1998, 6), oltre ad essere prestatore di ultima istanza, è divenuta “prestatore di prima istanza”, facendosi carico di garantire al sistema economico la liquidità necessaria per la sua stabilità.

L’aumento della fragilità finanziaria del sistema, conseguente al processo di deregolamentazione e all’accresciuta competizione tra i diversi tipi di intermediari finanziari, richiede una presenza continua della banca centrale che consenta al settore bancario di supportare in modo costante le imprese, evitando al contempo contrazioni della domanda di beni di consumo proveniente dai lavoratori[40]. La banca centrale svolge così un ruolo di sostegno al settore delle imprese chiamato a fronteggiare situazioni dominate da incertezza e shock dal lato della domanda e/o da quello dell’offerta. In tale prospettiva, si rivela tanto più condivisibile l’invito a guardare all’aggregato “banca centrale più banche commerciali” come a un settore unico[41]. Le scelte di recente adottate dalle principali banche centrali (compresa quella europea), a fronte della crisi pandemica, ribadiscono tale importante mutamento di rotta.

In tale contesto, segnato da una forte spinta neoliberista, un ruolo determinante è stato svolto dal neomercantilismo. Esso si è retto sulla sequenza moderazione salariale, bassi prezzi di vendita, elevate esportazioni nette, e ha caratterizzato (e in larga misura caratterizza) la riproduzione capitalistica non solo tedesca ma dell’intera Eurozona. I due strumenti fondamentali ipotizzati e attuati per raggiungere l’obiettivo del surplus della bilancia commerciale consistono nel consolidamento fiscale (ovvero la generazione di avanzi primari, mediante riduzioni della spesa pubblica[42]) e nelle c.d. riforme strutturali, nella forma della liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi, nella forma della liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi e della deregolamentazione del mercato del lavoro. Ciò nella convinzione che consentire alle imprese di contenere i costi di produzione sia il presupposto essenziale della loro competitività: ovvero sia il presupposto essenziale per consentire loro di vendere all’estero a prezzi ridotti. È una strategia intrinsecamente deflattiva del tutto in linea con i dettati teorici dell’ordoliberismoche, non a caso, si accompagna, di norma, a politiche monetarie espansive da parte della BCE.

Alla luce di tale quadro, con riferimento al caso italiano possono farsi alcune considerazioni. In primo luogo, la quota delle nostre imprese esportatrici è bassa nella comparazione con i nostri concorrenti dell’Eurozona, ed è concentrata nella classe di imprese di medie e grandi dimensioni localizzate quasi esclusivamente al Nord. Circa la metà delle imprese esportatrici è costituita da im-prese del settore manifatturiero. Se si assume che le nostre esportazioni sono molto sensibili al prezzo (ipotesi niente affatto scontata), la moderazione salariale avvantaggia esclusivamente queste imprese. Per l’ampia platea delle altre imprese italiane, per contro, ovvero per le imprese di piccole dimensioni localizzate nel Mezzogiorno, la riduzione dei salari ha l’unico effetto di comprimere la domanda interna. Da qui: riduzione dei margini di profitto, degli investimenti privati, aumento del tasso di disoccupazione. In secondo luogo, una buona parte delle nostre esportazioni è trainata da fattori che attengono alla qualità del prodotto (e dunque indipendentemente dal prezzo di vendita), la moderazione salariale è, con ogni evidenza, inutile per le imprese esportatrici e dannosa per le tante imprese che operano sul mercato interno.

7. Conclusione

Nella prospettiva dell’ordoliberalismo, come degli altri sviluppi teorici riconducibili al mainstream teorico, che hanno influito sulla costruzione europea, la stabilità monetaria ha rappresentato l’obiettivo primario della politica economica.

Il compito di garante della stabilità monetaria, in una prospettiva che vede il fenomeno inflazionistico solo come conseguenza di variazioni dell’offerta di moneta, è stato così conferito a una banca centrale senza Stato il cui operato ha subito in prima battuta l’influsso della teoria monetarista.

L’emergere dei limiti del monetary targeting ha fatto sì che il modus operandi dei responsabili della politica monetaria europea, specie negli ultimi decenni, sia stato caratterizzato da una seppur parziale consapevolezza del carattere endogeno dell’offerta di moneta, i cui esiti sono stati però scarsamente significativi.

Il legame con il modello teorico egemone non è cessato nemmeno allorché si è affermata, a seguito del manifestarsi della “Grande recessione”, una politica monetaria fondata sul New Consensus Model.

Anche se gli interventi di politica monetaria più recenti non sono apparsi in sintonia con il paradigma neoclassico né tanto meno riconducibili all’approccio ordoliberale, essi si sono piuttosto rivelati coerenti con l’obiettivo far fronte a shock sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta attraverso scelte discrezionali sui flussi monetari da garantire al sistema economico.

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Wilkinson M., (2019), “Authoritarian liberalism in Europe: a common critique of neoliberalism and ordoliberalism”, Critical Sociology, 45, 7-8, 1023-1034.


NOTE

[1] Bӧhm, Eucken, Grossmann-Doerth, 2016, 16.

[2] Si veda Dietze, Eucken, Lampe, 2016.

[3] Ibidem 98-99.

[4] Cfr. Figuera, Pacella, 2021.

[5] Eucken 1951, 146.

[6] Cfr. ibidem, 192-193.

[7] Cfr. Ellis, 1934, 224.

[8] Cfr. Issing, Wieland, 2013.

[9] Cfr. ibidem 426.

[10] Cfr. Angell, 1935.

[11] Cfr. Graham 1947.

[12] Si veda Eucken, 1952, 261. “Il primato della politica monetaria mira alla stabilità del valore del danaro nel quadro di una costituzione monetaria che funzioni «automaticamente», che Eucken vede in collegamento con una moneta di riserva-merce (una forma più raffinata di valuta aurea, in cui il valore dell’unità di danaro dipende dalla scarsità media di un paniere di merci). La costanza della politica economica rinvia alla stabilità delle misure di politica economica e ad una «atmosfera di fiducia», per offrire agli investimenti un quadro certo. Il principio dei mercati aperti serve al meccanismo della concorrenza e all’interscambio al di fuori dell’economia” (Goldschmidt, 2016, 50).

[13] Cfr. Eucken, 1952, 262; Bernholz, 1989, 210-211.

[14] Cfr. Schumpeter 1954. Significativamente Ellis colloca Eucken tra quanti si opposero al filone teorico di Schumpeter e Hahn, rifiutando la “Wicksellian doctrine of the “trailing bank rate””. Cfr. Ellis, 1934, 357.

[15] Cfr. Goldschmidt, Wohlgemuth, 2016, 38.

[16] Si veda: European Union, 2016.

[17] Cfr. Goldschmidt, Wohlgemuth, 2016

[18] A proposito dei rapporti tra la Scuola di Friburgo in senso lato e Hayek, Goldschmidt e Wohlgemuth (ibidem, 31-32) hanno osservato: “Il programma di ricerca del liberalismo delle regole ottiene, con la chiamata di Friedrich August v. Hayek nel 1962 a Friburgo, un nuovo e decisivo impulso. È vero che Eucken e altri ordoliberali già sul finire degli anni’ 20 erano in contatto con Hayek, contatto che si intensificò dopo la guerra con il lavoro comune nella Mont Pélerin Society; tuttavia Hayek sviluppò, a Londra e successivamente negli USA, in forma marcata, idee proprie sulla politica e sulla teoria dell’ordine. Il suo arrivo a Friburgo contribuì a una sfida creativa alla tradizione friburghese, così come si può cogliere per esempio nel concetto hayekiano di «ordine spontaneo» e nella sottolineatura da parte sua dei problemi della conoscenza. La tradizione di Friburgo e la filosofia sociale evoluzionistica di Hayek risultano però nella gran parte dei casi come del tutto complementari e hanno potuto essere ulteriormente sviluppate in una simbiosi creativa anche da parte dei successori di Hayek nella tradizione accademica della Scuola di Friburgo”.

[19] “At first sight the specific macroeconomic policy paradigm is difficult to explain. German university students read the same macroeconomic textbooks as students in other countries and at the advanced level the standard DSGE models are taught and applied. But behind the formal theoretical apparatus one can identify a specific paradigm to economic policy which is called ‘Ordnungspolitik’ and which in this form does not exist in other countries. While there are no university courses on this topic, ‘Ordnungspolitik’ plays an important role in German academic debate on policy issues and actual economic policy” (Bofinger, 2016, 11).

[20]  “The ECB statutes state that the goal of the ECB is primarily to independently ensure price stability, which is an expression of an OL recommendation on monetary policy coinciding with monetarism. The independent ECB corresponds to OL ‘politics by rules’ with autonomous, non-politicised, and technocratic decision-making about monetary policy” (Nedergaard, 2020, 227).

[21] Cfr. Hayek, 1931.

[22] Hayek, 1933.

[23] Hayek, 1990.

[24] Cfr. Friedman, 1948; Friedman, 1965.

[25] Friedman, 1948, 247.

[26] “With its commitment to a de-politicised monetary policy based exclusively on price stability and an independent but limited European Central Bank (ECB) with restricted monetary tools and without the guidance of any supranational economic policy capable of dealing with uneven development, socio-economic heterogeneity, or exogenous fiscal shocks, the Maastricht Treaty attempted to supranationalise ordoliberal principles designed for domestic implementation” (Wilkinson, 2019, 1029). Cfr. Bibow, 2012.

[27] “Monetary union removes the conduct of monetary policy from the direct pressures of national labour markets. Its rule-based conduct appears entirely impartial towards a variety of national labour markets. It grants no privileges and extends no favours to the economic interests, social forces and the member states. Monetary policy is not made for Germany or for Greece. It is made to meet the statutory requirements of the euro as stateless currency of global importance and standing. Nevertheless, by treating differential conditions of labour competitiveness as equal before money, monetary union reinforces existing differentials with potentially devastating effect” (Bonefeld 2017, 137). Cfr. Graziani, 2003.

[28] “The announcement of inflation targets communicates the central bank’s intentions to the financial markets and to the public, and in so doing helps to reduce uncertainty about the future course of inflation (…) By making explicit the central bank’s medium-term policy intentions, inflation targets improve planning in the private sector, enhance the public debate about the direction of monetary policy, and increase the accountability of the central bank” (Bernanke, Laubach, Mishkin, Posen,2001, 22).

[29] Cfr. Taylor, 1993. Cfr. Blinder, 1997.

[30] Meyer (2001) ha parlato di un “consensus macro model” come risposta alle insufficienze dell’approccio monetarista.

[31] “The expanded model also makes clear that there is nothing inconsistent with a stable long-run relationship between money and inflation, as emphasized by monetarists, and the expectations-augmented Phillips curve, a mainstay in Keynesian-type structural models as well as a part of today’s consensus macro model. The monetarist proposition is about an outcome, a result. This conclusion about the long-run relationship between money and prices is implicit in the consensus model, provided the money demand equation is stable. The consensus structural model is also about structure or process. It explains how monetary stimulus raises inflation” (ibidem, 4). Sul “New Consensus Model”, cfr. Fontana, Palacio-Vera, 2005.

[32] Cfr. Fontana, Palacio-Vera, 2003. Arestis e Sawyer (2008, 632) hanno osservato che l’inflation targeting si colloca a pieno titolo nell’ambito del new consensus model “The model as a whole contains the neutrality of money property, with inflation determined by monetary policy (that is the rate of interest), and equilibrium values of real variables are independent of the money supply. The final characteristic we wish to highlight is that the stock of money has no role in the model; it is merely a ‘residual’. In the simple model above, the stock of money makes no appearance: the addition of a demand for money equation would serve to indicate the stock of money determined by the demand for money”.

[33] Cfr. Svensson, 2008, 3.

[34] European Central Bank, 2000.

[35] Cfr. Buiter, 2016; de Haan, Eijffinger, 2017.

[36] Cfr. Issing, 2016.

[37] La politica monetaria europea, va d’altra parte osservato, non sarebbe compatibile con la visione dell’economia sociale di mercato per la quale la politica economica può far ricorso solo a misure “conformi al mercato”. “Non-conforme al mercato” è fissare interessi in modo da dover garantire capitale a un prestabilito interesse a determinati soggetti, conforme al mercato è sovvenzionare gli interessi, ma lasciando libero l’andamento del tasso di interesse sul mercato generale dei capitali” (Müller-Armack, 2016, 59).

[38] Cfr. Bellofiore, Halevi, 2010.

[39] “È emerso nel corso degli anni Novanta un ‘nuovo’ capitalismo ancora una volta centrato sugli Stati Uniti e caratterizzato da una sorta di paradossale keynesismo ‘privatizzato’. Questo ‘nuovo’ capitalismo – nuovo rispetto al capitalismo del Novecento, anche se per certi versi risuscita alcuni aspetti del capitalismo della fine dell’Ottocento – si è mosso sulle due gambe della finanziarizzazione (in questo senso lo si può anche definire un keynesismo ‘finanziario’) e della precarizzazione del lavoro. Esso si è retto sull’equilibrio instabile (e alla fine insostenibile) tra le tre figure del lavoratore ‘traumatizzato’, del risparmiatore in fase ‘maniacale’, e del consumatore ‘indebitato’” (ibidem, 2010, 2).

[40] “La banca centrale corre in aiuto alle istituzioni finanziarie che entrano in difficoltà per incaute collocazioni delle proprie risorse, che in effetti esse prendono a prestito dal pubblico o dai mercati interbancari (…) Essa è chiamata dalla fragilità del sistema a intervenire quasi continuamente per dare liquidità a un mercato in cui operano intermediari che, per massimizzare i profitti e guadagnare quote di mercato, tengono risorse liquide in quantità sempre minori rispetto alla rischiosità del loro attivo” (De Cecco, 2009, 68).

[41] “Le banche centrali vivono in simbiosi con il sistema creditizio e uno dei loro compiti principali è quello di operare in modo che esso funzioni in condizioni di stabilità, pur essendo per sua natura portato a implodere o a esplodere. Le banche centrali sono dunque parte del sistema bancario” (De Cecco, 2007, 189). Cfr. De Cecco, 2009; Graziani, 2003.

[42] Va osservato che la politica fiscale espansiva degli altri paesi, aspramente biasimata dai ministri delle finanze della Germania, si è rivelata preziosa per l’economia tedesca. “The German economy – ha a tal proposito sottolineato Bofinger (2016, 17-18) – is able to follow a passive macroeconomic policy approach as it strongly benefits from macroeconomic policies pursued in other major countries. In other words the German economy is supported by the ‘full employment policies’ of other countries. This is reflected in the very large fiscal deficits in all other major economies in the period after 2007 which successfully helped to avoid a reappearance of the Great Depression. In other words, the German economy is supported by the demand management policies of other countries that are heavily criticized by mainstream German economists”.