Il punto di arrivo della traiettoria dell’inazione è già segnato. Non fare nulla ora contro le emissioni di gas serra per giungere presto al collasso climatico (ma il discorso vale anche per una qualsiasi delle altre crisi ecologiche in atto) porterà la gente a chiedere ai governi di intervenire d’autorità con qualsiasi tipo di tecnologia. Sull’onda dell’emergenza (letali ondate di calore, carestie da siccità, inondazioni delle città costiere, pandemie, migrazioni bibliche…) arriverà il momento in cui verranno accettate anche le tecnologie più estreme, rischiose e costose. Verranno messi da parte sia i pregiudizi morali sulla liceità delle azioni volte a modificare i cicli vitali del pianeta, sia i dubbi scientifici sulle loro effettive conseguenze e si allargheranno invece i cordoni della borsa degli stati a disposizione di interventi da “ultima ora”. Loro, le società del business della bio-geo-nano-ingegneria lo sanno bene e si stanno da tempo preparando con soluzioni pronte all’uso. Per i decisori pubblici, infatti, è più facile accettare di intervenire modificando le leggi della natura, piuttosto che mettere in discussione l’uso dei combustibili fossili e gli stili di vita dei propri elettori.

Elisabeth Kolbert, giornalista e divulgatrice scientifica del New Yorker, già nota in Italia con La sesta estinzione di massa (Beat, 2014), torna ora con Sotto un cielo bianco. La natura del futuro (Neri Pozza, 2022, pag. 238, euro 18). Una dettagliata inchiesta su alcuni casi di “evoluzione assistita” della natura: la inversione del corso del fiume Chicago e la regimentazione del Mississippi, le tecniche di reimpianto e di “re-designer genetico” di alcune specie animali, gli impianti per la cattura del carbonio dall’atmosfera, i progetti di geoingegneria solare e altri ancora. Ne esce un catalogo degli incubi dei moderni dott. Frankenstein, ma anche, più prosaicamente, ci si può intravvedere il listino dei prezzi che la natura dovrà ancora pagare per la colonizzazione della stratosfera, degli oceani, del genoma degli esseri viventi. La distruzione degli spazi vergini per consentire l’espansione costante dell’accumulazione primaria del capitale (al ritmo del calcolo degli interessi composti) sembra davvero non avere fine.

Mi limito qui a segnalarvi alcune informazioni che Elisabeth Kolbert ha raccolto su ciò che sta accadendo nell’”aria”. E non da ora. Fin dal 1965 un rapporto governativo consegnato al presidente Lyndon Jonson avvisava che l’utilizzo massivo di combustibili fossili costituiva inconsapevolmente “un gigantesco esperimento geofisico” che avrebbe determinato “significativi cambiamenti nella temperatura”. Soluzione? “Apportare deliberatamente cambiamenti climatici compensativi”. Come? Disperdendo minuscole particelle riflettenti della luce nell’atmosfera e/o negli oceani. Tecniche, del resto, già sperimentate dalla Air Force non solo in Vietnam.

Rosalie Bertell, scienziata femminista nonviolenta, autrice di Pianeta Terra. L’ultima arma di guerra (Asterios editore, 2018), aveva già denunciato in ogni sede le sperimentazioni militari segrete, e non solo quelle nucleari, quali il tentativo fallito nel 1961 delle forze armate Usa di costruire uno “scudo di telecomunicazione” nella ionosfera, per contrastare l’interferenza del vento solare con le radio-comunicazioni. “Hanno portato nella ionosfera 350 trilioni di aghi di rame lunghi 2-4 cm, tentando di costruire una fascia di 10 chilometri (6 miglia) di spessore e 40 chilometri (25 miglia) di larghezza per formare una cintura”.

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Ora vi sono scienziati delle università di Yale, Harvard e di New York e una schiera di ingegneri nei laboratori finanziati dalle fondazioni di Bill Gates (Stratospheric Controlled Disturbance Experiment, SCoPEx) che scalpitano per mettere in pratica sistemi di Stratospheric Aerosol Injection. Una flotta di superjumbo pronta a scaricare particelle di calcite (carbonato di calcio), o di solfato (anidride solforosa), o di ioduro d’argento, ma potrebbero andare bene anche minuscole gocce di acqua salata cristallizzata, con proprietà ottiche tali da provocare l’effetto dell’eruzione di un “vulcano artificiale”: sbiancare il cielo e oscurare il sole. Il raffreddamento della superficie terrestre sarebbe pressoché immediato. Le popolazioni accaldate plaudirebbero entusiaste. Dice un geologo intervistato dalla Kolbert impegnato in questi progetti: “La gente dovrebbe smettere di chiedersi se approva o meno la geoingegneria solare. Quello che deve capire è che non possiamo scegliere. Gli Stati Uniti non possono scegliere. Se sei un leader mondiale ed esiste una tecnologia in grado di eliminare la sofferenza e il dolore o di ridurli, dovresti essere fortemente tentato di implementarla” (p.200). Non è forse questa la logica consueta che presiede l’introduzione delle innovazioni tecnologiche?

La Groenlandia ha abbastanza ghiaccio da poter aumentare di sei metri il livello globale dei mari, ci ricorda Kolbert. E il suo scioglimento è assicurato anche a emissioni ridotte a zero, poiché i tempi di permanenza della CO2 in atmosfera sono molto lunghi. Quindi: “non c’è scelta” al controllo artificiale del clima tramite la geo-bio-ingegneria. “Oscurare quel cazzo di sole potrebbe essere meno rischioso di non farlo” ha detto il direttore della Solar Radiation Management Governance Initiative alla Kolbert.

In attesa dello sdoganamento dell’ingegneria solare, un folto gruppo di imprese stanno mettendo a punto sistemi di rimozione per estrazione diretta del carbonio presente nell’aria come CO2, stoccaggio (meteorizzazione come carbonato di calcio) e/o recupero e reimpiego. La loro filosofia è ben spiegata da un ingegnere del Center for Negative Carbon Emission: “L’anidride carbonica dovrebbe essere considerata alla stregua dei liquami (…) Finché le emissioni saranno viste negativamente i responsabili saranno sempre colpevoli” (p. 167). Insomma, una volta “naturalizzate” le emissioni dei gas da combustione – consumare energia fossile farebbe oramai parte del “metabolismo sociale”, per usare un’espressione marxiana – i macchinari per la loro cattura andrebbero considerati normalmente come lo sono ora i depuratori delle acque reflue. Una soluzione contemplata anche dallo Ipcc e ben accolta anche dai sostenitori del New Green Deal, ecosocialisti compresi. Il prossimo passo sarà una maschera d’ossigeno d’ordinanza o una cupola geotermica con aria condizionata sopra le città?

Più “naturale” la tecnica di cattura tramite riforestazione (Bioingegneria con cattura e stoccaggio di carbonio). Piantagioni di specie vegetali geneticamente modificate (per esempio, alberi con il fogliame di colore più chiaro per riflettere meglio i raggi solari) verrebbero coltivati e al momento della loro massima capacità di assorbimento della CO2 tagliati e sotterrati in enormi trincee. È stato calcolato che per dimezzare le emissioni di CO2 basterebbe riforestare una superficie di nove milioni di chilometri quadrati, ovvero una distesa di legno grande come gli Stati Uniti (p. 175). Non è forse così che in ere geologiche passate si sono formati i giacimenti di carbone e petrolio?

Con questo approfondito lavoro di inchiesta la nostra autrice intende metterci in guardia da almeno due grossi pericoli della via tecno-ottimistica alla soluzione delle crisi ecologiche: quello di intervenire solo sugli effetti a valle (e non modificare le cause a monte), generare una spirale perversa di progressivo “controllo del controllo della natura” (p.18) che finisce per irrigidire il sistema e lo spinge verso ecosistemi-sempre-meno-naturali. Come darle torto!

Il libro della Kolbert andrebbe letto assieme ad altri testi. Innanzitutto, quello già ricordato della Bertell che riteneva che le armi di distruzioni di massa a disposizione dei militari, più pericolose delle stesse bombe atomiche, siano quelle capaci di modificare i cicli naturali della Terra attraverso la geoingegneria. Poi ricordiamo di Christopher Preston, L’età sintetica. Evoluzione artificiale, resurrezione di specie estinte, riprogettazione del mondo (Einaudi, 2018), in cui si dice che: “Stiamo fabbricando nuove strutture atomiche e molecolari per creare materiali con proprietà completamente nuove. Stiamo modificando la composizione delle specie presenti negli ecosistemi, sperimentando al contempo le tecniche per riportare in vita animali estinti. Stiamo studiando come utilizzare tecnologie che possano riflettere la luce del Sole per mantenere fresco il pianeta. In ciascuno di questi modi l’umanità sta imparando a sostituire alcune delle attività naturali”. Dovremmo quindi: “decidere fin dove dovremmo spingerci nel rifacimento della Terra”.

Ricordiamo anche i fondamentali articoli di Silvia Ribeiro, tradotti e pubblicati su Comune, che ci informa – tra l’altro – come uno studio del Karolinska Institutet (che conferisce il premio Nobel per la medicina) ha dimostrato che manipolare le cellule umane con le tecniche dell’editing genetico (Crispr) può essere molto nocivo per animali, piante e cellule umane, al punto che Georges Church, un pioniere della biotecnologia che lavora all’Università di Harvard, nel 2019 ha chiamato questo strumento un’ascia non affilata, il cui uso è “vandalismo genómico”.

Infine, va tenuto sempre sottomano il Manifesto Against Geoengineering (2018).

Fonte: comune-info

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