Pandora, amore mio 1/3

La trasgressione intellettuale è ciò che ci rende umani, è la radice profonda della scienza

Tecnologia e scienza si sovrappongono. Un eccesso di tecnologia potrebbe farci dimenticare perché si tenta di perseguire la conoscenza. Questo saggio esprime dubbi e certezze al riguardo. Una lunga pratica di genetica molecolare mi ha rese chiare le difficoltà nel comprendere la natura più nascosta della vita; e, messe a fuoco in questo quadro generale, le difficoltà che si hanno quando ci si domanda: cosa ci rende davvero umani?
Per delineare alcune risposte, ho fatto ricorso al mio interesse per il pensiero antico e ad alcune nozioni di genetica e di fisica contemporanea. Il discorso si rivolge a Pandora, a colei che, aprendo il Vaso, ha lasciato sfuggire le nostre domande. E a quei ricercatori che non si accontentano mai completamente dei risultati dei loro esperimenti e dei loro calcoli. (Ernesto Di Mauro)

Abbiamo diviso il saggio in tre parti. Pubblicheremo la seconda e la terza parte entro il mese di Agosto.

Indice della parte di oggi:

1. Apertura, Da dove ci viene tutto ciò?, 2. Il ruolo del lavoro nella transizione dalla scimmia all’uomo, Atto primo: Siamo tutti Homo, non è vero?, La cultura cumulativa. Atto secondo: Siamo tutti Homo, non è vero?,  Il fuoco. Atto terzo: Siamo tutti Homo, non è vero?, Una realtà che finalmente ci sfugge, Visione quantica, La mente astratta, Engels e Darwin, Il valore evolutivo del lavoro, Evoluzione anatomica, L’osso ioide, Estetica del lavoro, Evoluzione anatomica della mente, Genetica e migrazioni, Dibattito alla fine della Commedia: SELF.

1. Apertura
Da dove ci viene tutto ciò?

Un giorno Pandora aprì il Vaso. Da quel momento, abbiamo dovuto cominciare a lavorare, ci siamo ritrovati ad essere artisti e scienziati. Da quel momento, siamo diventati umani. Ma chi? Perché? Quando? Come? Dove? Innanzitutto è meglio rendersi conto che, dal momento in cui Pandora ha aperto il Vaso ad oggi, non siamo andati molto lontano.
A prima vista, la fisica contemporanea somiglia a un calzascarpe che tenta di infilare processi fisici dentro sistemi metafisici che hanno perso qualsiasi senso di responsabilità. Sistemi, cioè, che non rispettano più la definizione dei fenomeni in forma di leggi che si possano contraddire. Costringiamoci a non entrare subito in un dibattito pro-o-contro-Popper. Davanti ai grandi sistemi astratti del tipo “A Theory of Everything” o “The Strings Theory” non si può comunque far altro che ammirare e restare confusi e riflettere sul fatto che, oggi, siamo sprovvisti di un Metodo Assoluto. I due sistemi che apparentemente ci spiegano la realtà: (i) il sistema euclideo-laplaciano-tangibile, e (ii) il sistema quantico, che tuttavia fornisce spiegazioni fondamentali e che è elegantemente perfettamente stabilito dal punto di vista matematico. Questi due sistemi sono in contraddizione inconciliabile, almeno per ora. D’altronde, le menti più aperte hanno, senza porsi alcun problema, preso posizioni faziose (“Dio non gioca a dadi” di Einstein, o “Quando sento parlare del gatto di Schrödinger, prendo la pistola” di Steven Hawking) o contraddittorie (“Forse la teoria quantistica non è l’unica soluzione, dopotutto” di Roger Penrose). Ci rassicura pensare, con Omar Khayyâm:

Mai l’intelletto mio si distaccò dalla scienza,
pochi segreti ci sono che ancor non mi son disvelati,
e notte e giorno ho pensato per lunghi settantadue anni,
e l’unica cosa che seppi è che mai nulla ho saputo
(Quartina #93).

Facciamo del nostro meglio, ma sarebbe bene rendersi conto che siamo davanti all’Ignoto, e senza Metodo. Non era Quintiliano che, con piacevole vena di nostalgia, diceva: “felice l’umanità che non conosceva ancora tutte le frontiere del mondo e per la quale c’erano ancora altre strade da scoprire”?
Il problema allora si capovolge e diventa: cosa c’è nella nostra testa che ci fa formulare queste domande e ci fa inventare dei modi (la parola “Metodo” è diventata ambigua con Cartesio) per non farci porre – esattamente come fece Pandora – la domanda più importante: “… dove ci ondurrà tutto ciò?”. Pandora, figura amabile, figura amata.
È a questo punto che non possiamo impedirci di porci le altre domande di fondo: cosa è che ci rende umani? Da dove ci viene tutto questo?

 

2. Il ruolo esercitato dal lavoro nella transizione dalla scimmia all’uomo

Non tutti abbiamo riletto di recente l’articolo di Friedrich Engels “Il ruolo del lavoro nella transizione dalla scimmia all’uomo”. Scritto nel 1876, questo saggio suggerisce che, lavorando con le mani ed interagendo tra loro, le scimmie si sono evolute ed hanno, infine, sviluppato il linguaggio. Engels ha elaborato queste idee dopo aver letto le opere di Darwin.
Chiunque parli oggi di lavoro e di cambiamenti della sua organizzazione dovrebbe tenere presente di aver avuto grandi precursori. È allora forse interessante mettere meglio a fuoco qualche fatto del passato e del futuro, partendo dalla considerazione che la storia del lavoro dell’uomo è una commedia in tre Atti.

ATTO PRIMO
Siamo tutti Homo, non è vero?

Le tracce dell’origine dell’uomo sono nascoste nell’oscurità delle caverne nelle quali cercava rifugio, o sepolte nel deserto pietroso di Olduvai, o sono perdute per sempre. Da queste tracce, da frammenti di ossa e da pietre scheggiate, si può ricostruire molto.

Cultura cumulativa

La sequenza del DNA è l’informazione genetica di ogni organismo vivente. Ognuno ha la propria, ognuno l’ha ricevuta dai propri genitori e la trasmette ai propri discendenti, catena ininterrotta e infinitamente ramificata dall’origine della vita. Ad ogni passaggio si produce, durante la copiatura di questo testo sacro, qualche piccola variazione. Questo meccanismo crea variabilità (siamo tutti simili ma non identici), assicura adattabilità (l’ambiente cambia e noi dobbiamo cambiare con esso per rimanere in equilibrio sulla corda della vita), permette il rimescolamento continuo dei caratteri (ed evita, o riduce al minimo possibile, malattie genetiche, deformazioni, rigidità adattative).
La sequenza del DNA umano è un testo composto da più di 4 miliardi di lettere che si combinano a formare un filo lunghissimo, raggomitolato in modo rigorosamente e topologicamente ordinato in ognuna delle nostre cellule.
La tecnologia del sequenziamento del DNA, la lettura della sua sequenza, ha raggiunto livelli di precisione raffinatissima. È sufficiente, per conoscere tutta la genetica di un nostro antenato, che qualche suo minimo frammento di ossa si sia conservato incorrotto o che qualche suo brandello di pelle si sia preservato mummificato, protetto e nascosto in un anfratto arido.
La genetica e l’antropologia dei nostri antenati cominciano a delinearsi. Prima di tutto, eravamo pochi. 1.2 milioni di anni fa la popolazione di Homo era di circa 20.000 individui, sparsi su un territorio vastissimo. In queste condizioni l’auto-incrocio genetico, l’inbreeding, era un problema enorme e comportava un costo molto alto.
Lo scambio genetico non poteva avere luogo che all’interno di piccoli gruppi o con altre popolazioni vicine, anch’esse ben poco numerose. Le ossa dei nostri antenati mostrano uno spettro ampio di deformità, gran parte delle quali sono diventate rare nei nostri contemporanei. Da questo deriva la nascita di numerosi tabù e, sembra, una forte adattabilità sessuale.
Il DNA di alcuni individui Neandertal è stato sequenziato e con qualche sorpresa (ma forse non troppa) ci siamo accorti che i Neandertal hanno lasciato tracce consistenti nel nostro DNA di Homo sapiens sapiens europei. È stato sequenziato anche il DNA di individui Denisovani, un tipo umano estinto da decine di migliaia di anni, vissuto in Asia centrale senza lasciare molte testimonianze fisiche, e anche di questo abbiamo trovato tracce nei nostri cromosomi. I Tibetani sono perfettamente a loro agio a 4.000 metri d’altezza e anche più in alto, mentre il resto degli esseri umani vi soffoca. Da un pezzettino di osso Denisovano di 35.000 anni è stato appena isolato un gene che ha permesso ai nostri antenati di colonizzare le zone montagnose e che, oggi unicamente tra i Tibetani, sopravvive nei loro genomi. Il frutto dell’amore è la sopravvivenza, come sapevano i batteri già quasi 4 miliardi di anni fa. Attrazione sessuale ed adattabilità sono la chiave del successo (genetico).
Quello che ci interessa di più qui è l’aspetto culturale. Un Neandertal innamorato di una sapiens sapiens, un Homo heidelbergensis invaghito di una Denisovana non trasmettevano soltanto DNA e caratteri genetici. Quello che si scambiavano era soprattutto cultura.
Le popolazioni più ampie evolvono e conservano più conoscenza, trovano il modo di migliorare le proprie tecnologie. Questa “cultura cumulativa” è un tratto unico degli umani? Ad ogni modo essa richiede, per emergere e rimanere, e soprattutto per diventare efficace, popolazioni relativamente grandi. Nei gruppi piccoli la conoscenza si perde facilmente. Questo spiega come capacità specifiche (la lavorazione dell’osso, ad esempio) appaiano e scompaiano più volte nella storia dell’umanità.
La chiave delle nostre origini è nello sviluppo della complessità, nello scambio genetico e culturale, nella sua capacità di avere memoria di questi scambi, nell’accumulo di cultura. Fino allo sviluppo della mente astratta, distillata pian piano dalla materia grezza del lavoro quotidiano necessario alla pura sopravvivenza.
Riassumendo: la nostra mente, capace di sviluppare socialità ed in grado di entrare in contatto con le menti dei suoi simili, è in condizione di accumulare conoscenze e metterle in comune.

ATTO SECONDO
Siamo tutti Homo, non è vero?

E così, per decine di migliaia di anni, Homo è cambiato pian piano, lavorando, plasmando le sue ossa attraverso il lavoro e trasmettendo a suoi discendenti, iscritti nel suo DNA, i cambiamenti acquisiti; vivendo di raccolta e di caccia, sviluppando cultura ed affinando, così come ci racconta Engels, i suoi rapporti sociali ed evolvendo linguaggio; spostandosi su territori sempre più lontani dalla sua Africa di origine, arrivando fino in Norvegia, in Patagonia, in Tasmania. Finché… finché qualcosa di nuovo è successo.

Il fuoco

Esistono molti modi di percepire il Prometeo che è in noi, e molto diversi tra loro. Quello meno quotidianamente empirico, meno officinale, richiede di avvicinarci ad uno dei miti più profondi scaturiti dal pensiero dell’uomo che riflette su se stesso. Il mito racconta come siamo diventati quello che siamo. Questo cammino non può che partire dalla formalizzazione della figura di Prometeo nella Teogonia. In 52 versi Esiodo (Teogonia, 565-616) racconta la storia semplice del figlio della oceanina Ninfa Climene e del Titano Giapeto, fratello di Atlante, che ruba il fuoco di Zeus, ne suscita l’ira e viene condannato ad un supplizio che non ha fine. Il mito è lì a ricordarci che il sacrificio iniziale è ciò cui dobbiamo la nostra libertà esistenziale, lì ad indicarci il confine al di là del quale la libertà diventa arbitrio e si trasforma in arroganza.
Una seconda più lieve parte della storia narra che Prometeo “Colui-che-riflette-rapidamente”, figlio di una dea e quindi anch’egli un dio, aveva un altro fratello, Epimeteo “Colui-che-riflette-in-ritardo”. Epimeteo aveva partecipato alle imprese libertarie di Prometeo, era stato anch’egli punito, ma era stato presto liberato da Eracle.
Zeus pensò che aver punito Prometeo per il furto del fuoco divino non era abbastanza e che anche gli uomini andassero puniti. Ordinò allora ad Efesto di creare una bellissima fanciulla alla quale gli dèi offrirono grazia ed ogni sorta di virtù: Pandora “Tutti-i-doni”. A Pandora gli dèi dei Quattro Venti infusero lo spirito vitale e tutte le dèe dell’Olimpo fecero a gara per dotarla di doni. Per completare l’opera Ermes diede a Pandora astuzia e curiosità, poi la condusse da Epimeteo che se ne invaghì e le affidò il Vaso eponimo. Il resto della storia è noto. I Mali ne sfuggirono, e nel Vaso sola rimase la Speranza. È interessante ricordare quali erano le pene fuggite dal vaso di Pandora: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, il Vizio e la Passione. Una volta alzato il coperchio, subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali. Ma la fallace Speranza li ingannò con le sue bugie rassicurandoli, consolandoli, permettendo loro di affrontare sulla terra la loro vita terrena.
Il fascino del mito di Prometeo consiste nell’esempio di generosa libertà esistenziale e nello stoicismo nell’affrontarne le conseguenze. Oltre al dettagliato elenco di invenzioni e tecniche apprese da Atena e trasmesse agli uomini (architettura, medicina, arte di lavorare i metalli e altre utilissime. In una parola: lavoro creativo), a sottolineare il valore assoluto della conoscenza e della sua diffusione. Prometeo fece dono agli uomini non soltanto di tecniche: E il foco ad essi pur dispensai … E molte arti apprenderan da quello (Eschilo, Prometeo incatenato, 267, sgg), ma della coscienza stessa della conoscenza, e della volontà/necessità di manifestarla.
Prometeo incarna sia la coscienza che la generosità della sua trasmissione, ed il prezzo che la generosità comporta. Di questo è lucidamente conscio, ed orgogliosamente ne rivendica il diritto. Prometeo fa dono agli uomini dei segni delle lettere (475,476), insegna loro a comporre sequenze, a tramandarne memoria. Prometeo crea cultura cumulativa, là dove c’era stato posto soltanto, fino ad allora, per credenze religiose e per cultura metafisica.
Nella versione Eschilea, il mito si risolve in catarsi tragica. Un tremendo cataclisma fa sprofondare in un barato Prometeo e le Oceanidi che gli si erano strette intorno. [Ecco la terra, ecco si scuote: il tuono fiero mugghia e rimbomba: ignee lampeggiano tortuose saette: in alto i turbini…(1125-1128)]. È la discesa agli inferi. È lì probabilmente che lo immagina Albert Camus. Prométhée aux Enfers è un breve saggio pieno di amore per l’uomo che Camus ha pubblicato nel 1946. L’amarezza (Dans cette Europe humide et noire… ) si accompagna, come sempre in lui, al sole del Mediterraneo e alla speranza. È come se la terribile guerra appena finita (…l’hiver du monde…) fosse stata l’apertura del Vaso di Pandora e che finalmente la Speranza tornasse a vivere. Alle voci dei due personaggi iniziali della tragedia Eschilea, Forza e Violenza, si sovrappone qui quella di un Prometeo diverso, più maturo, più conscio.
Il Prometeo di Camus (…lui, est ce héros qui aima assez les hommes pour leur donner en même temps le feu et la Liberté, les Techniques et les Arts) è l’eroe di un tempo felice in cui tecnica e arte erano la stessa cosa. È superfluo ricordare con nostalgia che i veri filosofi, i primi a porsi domande poeticamente logiche, lo facevano interrogando la natura e guardando il cielo, in un tempo in cui il pittore che firmava un’anfora dipinta era l’autore sia della pittura che del vaso stesso ed era più orgoglioso della forma ottenuta che del suo ornamento.
È superfluo ricordare che la vera radice della scienza è la stessa dell’arte, e che questa radice è la ricerca. Questa radice è allo stesso tempo fuoco e libertà. In una parola: lavoro. Offrendo una soluzione al doloroso pessimismo di un Titano condannato in eterno, Camus ne fa sua la generosità e, parlando degli uomini: Il est possible de leur offrir en même temps les chances du bonheur et celles de la beauté. Le ultime parole del saggio sono: … et réconciliera encore le cœur douloureux des hommes et le printemps du monde.
Il Prometeo di Eschilo e quello di Camus sono molto simili, il pensiero greco ed il nostro pensiero seguono lo stesso percorso di libertà ontologica. Un percorso che le ombre che rincorrono la presenza di dèi creatori e di uomini loro esecutori di tanto in tanto riescono a sospendere e a ritualizzare tra tiare di ogni colore. Senza poterlo comunque interrompere.
A metà strada tra il Prometeo di Eschilo e quello di Camus è il Prometeo latino di Luciano di Samosata. Nel dialogo con Ermes ed Efesto, che stanno fisicamente eseguendo la condanna di Zeus incatenandolo alla vetta del Caucaso, Prometeo si difende rivendicando non il proprio disinteresse o la generosità della trasmissione della conoscenza e la fede nell’uomo; si giustifica affermando il ruolo di servizio del suo “talento plastico nella fabbricazione degli uomini” (come se avesse fatto gli uomini proprio come si fabbricano vasi); il fatto che gli dèi non hanno sofferto nulla a causa della comparsa degli uomini alla vita; che anzi ne hanno tratto vantaggio (… la terra non è più incolta ed informe… Si vedono ovunque templi consacrati a Giove, ad Apollo, e a te, Ermes, ma nessuno a Prometeo). Gli uomini che hanno ricevuto il dono di Prometeo rendono la terra non più incolta ed informe, plasmando il mondo a loro somiglianza.
Il Prometeo latino rivendica un talento, un ruolo pratico e di servizio, un’azione semplice e maieutica nei riguardi degli uomini, una capacità naturale di assecondare il cambiamento. Nessuna rottura o bestemmia o rivoluzione, soltanto lavoro e progresso. In epoca romana era ormai chiaro che mondo magico/religioso e mondo scientifico/filosofico e produttivo avevano cessato di essere compatibili, che il loro scontro sarebbe stato profondo e lungo quanto tutto un Medioevo.
Riassumendo: la nostra mente, capace di fattività creativa, è in grado di controllare, se vuole, il mondo che la circonda. E tutto ciò, Pandora, è grazie ai mali che sono volati fuori dal tuo Vaso, e alla Speranza, che vi è rimasta nascosta dentro.

ATTO TERZO
Siamo tutti Homo, non è vero?

E tra tante globalizzate certezze, cosa attende Homo divenuto finalmente una specie adulta e matura, fonte del fuoco prometeico della conoscenza, di una mente capace di astrazione e dall’aver con il lavoro plasmato il mondo a somiglianza del suo DNA? C’è qualcosa di universale, di assoluto e, allo stesso tempo, di umano che si possa dare veramente per acquisito?

Una realtà che finalmente ci sfugge

La relatività non è lo spazio-tempo sviluppato da Hermann Minkowski all’inizio del XX secolo e usato da Albert Einstein nella sua teoria generale della relatività. Anche se questo è diventato uno dei più potenti concetti della fisica, nessuno sa veramente cosa siano questo spazio-tempo e questa relatività. La relatività non è lo spazio-tempo, la relatività siamo noi. Lo spazio-tempo, sia esso la entità di per sé perfettamente omogenea che viene distorta dalla massa di stelle pianeti e galassie a produrre gravità, sia esso quello che i segnali provenienti da infiniti oggetti celesti ci stanno (e finalmente ci sembra essere diventati in grado di capire) suggerendo; questo spazio-tempo lui sa benissimo cosa è. Il punto incerto siamo noi. Il Principio di Indeterminazione è valido soprattutto per ciò che accade nel nostro cervello.
Il nodo centrale della relatività è la nostra posizione nello spazio-tempo. Amedeo Modigliani ha vissuto profondamente infelice i suoi anni parigini e sembrava, al momento della sua morte, non aver lasciato tracce. Chaïm Soutine, che pure Modigliani aveva salvato dalla disperazione e dal nulla presentandolo al collezionista Jonas Netter, disse di lui qualche anno dopo la sua morte: “Modigliani chi? Non mi parlate di lui, quell’italiano sempre ubriaco che per poco non mi ha fatto diventare alcolizzato”.
Amedeo Modigliani perseguiva l’ineffabile. Esattamente l’“ineffabile” nel vero significato classico di indicibile, inesprimibile, di Sublime. Modigliani tentava, e lo diceva ogni volta che poteva, di ritrovare nei volti e nei corpi che dipingeva quell’anelito sottilissimo raggiunto nei volti della pittura senese e romana della fine del Quattrocento. Basta accostare gli sguardi delle donne di Modigliani e quelli degli angeli di Antonazzo Romano (ed è improbabile che Modigliani conoscesse gli affreschi di Antonazzo nelle chiese romane) per rendersene conto. Al di là dello spazio e del tempo, epigeneticamente, la stessa ricerca, lo stesso volto, lo stesso incarnato, lo stesso anelito, la stessa universalità raggiunta. E non sono certo i corpi contorti ed i colori violenti di Chaïm Soutine che possono avvicinarci all’universale senza tempo nascosto nella nostra mente.
Nella teoria quantistica nulla è statico o certo. Particelle ed energie possono fluttuare ed entrare o uscire dall’esistenza nel più breve tempo possibile. Le teorie sulla gravità quantistica ipotizzano qualcosa di simile per lo spazio-tempo. Invece di essere un continuum liscio ed omogeneo, lo spazio-tempo è una schiuma turbolenta senza superfici definite. Attraverso questa schiuma devono farsi strada le particelle a diversa energia provenienti fino a noi da sorgenti lontane. L’osservazione, fatta il 30 giugno del 2013, dell’esplosione di radiazioni gamma proveniente da un buco nero gigante nel cuore della galassia Markarian 501, a 500 milioni di anni-luce di distanza, ci dice esattamente questo. L’osservazione ha stabilito che la radiazione a onde più corte arrivava fino a noi sulla Terra, fino all’Osservatore, 4 minuti prima della radiazione a onde più lunghe. Einstein aveva predetto il contrario. Nello spazio-tempo di Einstein, unico ed omogeneo tessuto nel quale la teoria della relatività ci tiene immersi (ma è davvero così?), le radiazioni diverse sarebbero arrivate contemporaneamente. Nella schiuma quantica arriverebbero invece così come è stato sperimentalmente osservato. La conclusione è che tutto è più relativo di quanto sembri, che Einstein ha cercato invano di rassicurarci, e che nessuno sa come stanno le cose veramente.
Accontentiamoci della piccola gioia relativa locale che ci dà l’incarnato degli angeli del Quattrocento anche attraverso gli occhi inquieti e vuoti di una fanciulla di Modigliani. La cultura è quello che rimane quando abbiamo dimenticato tutto il resto. Cerchiamo di non porci troppi problemi, e di cercare dentro noi stessi l’universale e l’assoluto.
Questa ricerca, Pandora, è umanissima e comincia a fornirci delle tracce, a darci dei segni. Cosa resta in fondo al tuo Vaso, al fianco della Speranza, se non questa ricerca dell’ineffabile, in cui scienza ed estetica ancora non si sono allontanate?

Visione quantica

Chi sa perché le prospettive architettoniche all’interno delle tombe etrusche di Cerveteri sono esattamente le stesse delle architetture Maya? Ecco: è meglio camminare lungo una spiaggia o addormentarsi al sole pensando a questo problema fondamentale, piuttosto che alla differenza di 4 minuti rispetto a 500 milioni di anni-luce appena misurata nel cielo, lì ad indicare alla nostra mente astratta quanto tutto sia relativamente relativo?
La visione quantica della realtà si fonda sulla contemporaneità di esistenza e non-esistenza e sull’entanglement, la capacità di essere in luoghi diversi nello stesso tempo, in funzione d’onda. Questa non è affatto una visione moderna: Parmenide e Iceta ci hanno già insegnato molto al riguardo:
Parmenide: … Dissero che nulla nell’essere né nasce né perisce, perché credevano necessario che ciò che nasce debba nascere o dall’essere o dal non-essere, e invece non è possibile né l’uno né l’altro caso. Infatti non è l’essere che nasce (perché è di già) e dal non essere nulla può nascere: difatti bisogna che vi sia un soggetto.(1)
E Iceta : Talete e quelli che lo seguirono dicevano che esiste una sola terra. Iceta pitagorico diceva che ce ne sono due, questa e l’antiterra.(2)
Concludendo nel modo più ontologico e quantistico possibile: da Alcmeone: per questo muoiono gli uomini, che non possono unire il principio con la fine. Ci è dato morire perché non siamo elettroni, perché la nostra complessità si giuoca a livelli diversi. È qui che la metempsicosi (o meglio, la metasomatosi) acquista un senso: Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, / arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare.(3)
Non forzando troppo questi testi antichi, e cercando di non tirare troppa acqua al nostro mulino moderno, sembra evidente che il pensiero quantico sgorghi da una fonte antica. L’acqua di questa fonte è pura, esistenziale, geometricissima, respira estetica e poesia. E fornisce, in controluce, la base della nuova fisica.
Conserviamo qualche goccia di quest’acqua nel fondo del tuo Vaso, Pandora.

La mente astratta

Abbiamo lasciato dunque a metà dell’opera il nostro antenato Neandertal intento a sviluppare, alla fine dell’Atto Primo, la sua mente astratta per conquistare il mondo. Il fuoco, metafora di tutte le tecnologie connesse tra loro, se lo è conquistato da solo senza aspettare che qualche dio benevolo gliene facesse dono.
Atto secondo: Prometeo siamo tutti noi. Le derive epimetee e le concessioni alla debolezza di Pandora ci rendono consapevoli e deboli complici, ci permettono di non inorgoglirci troppo. Ma dove ci ha portato lo sviluppo della mente astratta derivato dal lavoro primigenio dei nostri scimmieschi antenati? E ne valeva la pena? Probabilmente sì. Sollevarci al di sopra del reale ci permette di contemplare meglio la nostra mente, di allargare il significato del nostro orizzonte.
La prospettiva che si apre è il sur-realismo, probabilmente una delle radici più profonde della scienza. Le persone più inattese hanno comportamenti surreali. André Breton, ad esempio, ci confida che: “Victor Hugo est surréaliste quand il n’est pas bête”. Victor Hugo era effettivamente un pre-surrealista, mentre lo crediamo interprete della logica pura che si esprime attraverso la letteratura del realismo, logica erede dell’Età dei Lumi.
Un’altra prospettiva è il suo opposto, impersonificata da André LeNôtre, giardiniere del re di Francia. In realtà LeNôtre era molto di più di un disegnatore di giardini. Lucido e visionario architetto, non solo ha dato forma a moltissime delle immagini del mondo che ci accompagnano oggi; ha anche dato forma ad un modo di capire il mondo. Il suo spirito geometrico continua a vivere ancora oggi nell’opera dei giardinieri di Versailles che seguitano a potare, annaffiare, piantare, così come i giardinieri giapponesi seguitano ogni mattina a pettinare i giardini di pietra zen. Come far sopravvivere il proprio pensiero geometrico? Incarnandolo nella natura. Ed è questo che alcuni, come LeNôtre, riescono a fare nel vivente.
Da botanico, LeNôtre sapeva come ridurre tutte le piante a forme geometriche; allo stesso tempo, personifica l’espressione pura del nostro desiderio di controllare in modo intellettuale (“artistico” puro) la natura dandole la forma della nostra mente. È il concetto di “Linea-punto-superficie” di Kandinski trasportato nella realtà quadridimensionale, proiettato non su un quadro ma nella vita. Desiderio e controllo, qualità umane.
Riassumendo: la nostra mente, capace di astrazione e geometria, deriva diretta del lavoro, è finalmente in grado di percepire ed esplorare al di là della realtà apparente arrivando, a volte, a controllarla.

Engels e Darwin

Ritorniamo al saggio di Friedrich Engels sul ruolo giocato dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia. La lettura del testo nel suo insieme è molto interessante. Va notato che, spesso assente nelle raccolte a stampa dei suoi scritti, questo testo non è stato a lungo facilmente disponibile. Fortunatamente possiamo oggi trovarlo nel sito:
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1876/6/pr-umani.htm.
Le ragioni sono probabilmente due: in primo luogo il saggio è incompleto. Leggendo le ultime righe: Ci si meraviglia che la proprietà privata basata sul lavoro personale porti come necessaria conseguenza del suo sviluppo alla mancanza di ogni proprietà per i lavoratori, mentre tutti i possessi si concentrano sempre di più nelle mani di chi non lavora; che… [Qui il manoscritto si interrompe]. Perché? Possiamo intuirlo facilmente. Il saggio era stato concepito come parte di un più ampio studio sulle Die drei Grundformen der Knechtschaft, le tre forme fondamentali della schiavitù, programmato per il giornale Volkstaat, su richiesta di W. Liebknecht. Il progetto fa parte delle tante opere incompiute, come per tanti progetti di tanti di noi. In questo caso, il piano ambizioso era di farlo diventare parte di una monumentale Dialettica della Natura.
Comunque il testo di questo saggio specifico fu pubblicato, anche se interrotto, per la prima volta nel 1896 sulla rivista Die Neue Zeit. Engels ripercorre le tappe dell’evoluzione umana, così come Darwin, in uno stile piano ed accessibile. A volte persino troppo. Leggendo: Darwin ci ha dato una descrizione approssimativa di questi nostri antenati. Erano estremamente pelosi, avevano la barba, le orecchie appuntite e vivevano in branchi sugli alberi. Il valore evolutivo e sociale del lavoro è descritto nel linguaggio marxiano al quale siamo abituati, con grande lucidità e felice intuizione.
In secondo luogo, questo saggio è parte di un discorso intellettuale e politico abortito. Marx ed Engels avevano immediatamente intuito la grande portata esistenziale del discorso di Darwin, ed erano consapevoli della sua importanza per il loro quadro filosofico. La risposta di Darwin ai loro approcci era stata però fredda e scostante. Darwin era molto accademico, attentissimo agli aspetti pubblici, alle critiche dell’ambiente del quale faceva intimamente parte; era sì frutto diretto dell’Illuminismo inglese (di quei “Lunatics” di cui suo padre e suo nonno erano stati attivissimi membri) ma era anche molto sensibile agli atteggiamenti religiosi e conservatori della ricca moglie, Emma Wedgwood. In breve, Darwin non aveva alcuna voglia di passare per comunista rivoluzionario. E questo ha certamente raffreddato l’interesse e l’entusiasmo di Engels, facendogli cadere la penna di mano.
Peccato, perché il valore evolutivo del lavoro (qualsiasi cosa accada, Pandora, fuori dal tuo Vaso) è indubbio e rimane ancora un argomento poco studiato e, soprattutto, poco apprezzato.
Se fossero presentati come Commedia, gli Atti dovrebbero seguire un ordine cronologico. Ma se ne consideriamo il contenuto, i tre Atti non lo fanno. È difficile, a questo punto, resistere alla tentazione di citare una frase di Lenin, resa famosa da André Bréton: “La cronologie est-elle obligatoire? Non!”.(4)

Riprendiamo il discorso:
Atto primo, il DNA e la cultura cumulativa; Atto secondo, la tecnologia e il lavoro; e, Atto terzo, il pensiero astratto. Sono qui, davanti a noi, le tre dimensioni principali e complementari del pensiero di tutte le epoche. Le tre dimensioni sono talmente legate tra loro che il blocco solido che formano non ne permette alcuna analisi.
Questo ci fa tornare indietro. Se la domanda che ci poniamo è “cosa ci rende umani?”, e se questa domanda non trova risposta completa nel lavoro (valore evolutivo incluso), cerchiamo più indietro. Consideriamo altri parametri: violenza, sarcasmo, curiosità, ad esempio.
Riflettiamo un po’ sul pensiero astratto e, ingenuamente, sulla sua origine. Se ce n’è una e se il pensiero astratto esiste veramente (se è, cioè, possibile definirlo logicamente e chiaramente). Ma prima di avventurarci su questo terreno infido e scivoloso, approfondiamo un po’ alcuni punti del discorso.

Il valore evolutivo del lavoro

Peccato che la vita sia così breve (perché impariamo tardi ad adattarci). Si lavora, in fondo in fondo, per produrre e quindi per sopravvivere. Poiché questo avviene da sempre, il lavoro è parte del nostro comportamento. Lavorare è divenuto, ed in qualche modo è sempre stato, nel senso ampio ed esistenziale della parola, una componente della natura umana. L’ampiezza della parola “lavoro” si estende in tutte le direzioni, fino al lavoro infantile, a quello senile, a quello maschile e femminile, alla mancanza di lavoro, al suo eccesso. Insomma, in qualsiasi direzione ci rivolgiamo, in qualche modo lavorano tutti, sempre.
Questo è avvenuto dall’inizio in qualsiasi gruppo umano ed in tutte le società, dalle strutture più organizzate e complesse fino a quelle più nucleate, a quelle parcellizzate, a quelle costituite da un solo individuo. La divisione del lavoro nelle società delle formiche, delle api, delle talpe del deserto è così nota e palese che parlarne sembra inutile. Se non per sottolineare un fatto: la pressione evolutiva, la selezione esercitata dai milioni di anni e dal passare di generazioni innumerevoli è stata ed è talmente forte da aver creato negli organismi viventi potenti iscrizioni genetiche e riprogrammabili: una formica operaia è geneticamente differente dalla formica guerriera, un’ape che vola a cercare il nettare è geneticamente diversa dalla regina che aspetta di essere imboccata. La regina è la depositaria di informazione, è l’intellettuale genetico della specie.
Questi cambiamenti (propriamente detti epigenetici) sono iscritti nel DNA degli individui: la divisione del lavoro è talmente rigida da non poter nemmeno ammettere, fisicamente e meccanicamente, l’ipotesi della sua violazione. Senza alcuna flessibilità né eccezione, se non quelle imposte dall’ambiente e dall’adattamento evolutivo. In altre parole, l’alternativa ad un lavoro rigidamente programmato è, nelle società costruite intorno alla divisione del lavoro, semplicemente, la morte. In modo del tutto paradossale, la rigidità del risultato è basata sulla plasticità dei meccanismi di adattamento evolutivo. Le talpe del deserto cambiano perfino, se necessario, sesso. Il lavoro innanzi tutto.
Homo sapiens ha apparentemente scelto la via opposta, quella della flessibilità. Apriamo un libro di Lévi-Strauss (ma già basterebbe porsi queste domande sulla metropolitana la mattina all’ora di punta) e diventa subito chiaro che sono le strutture del lavoro, sia che si tratti dei raccoglitori di zucche delle Isole Trobriand o dei Kuakiutl cacciatori di alci, ad aver organizzato la struttura delle famiglie, dei clan, delle Vie delle loro Maschere e la forma delle loro case di abete protette dai totem; società organizzate intorno alla sedimentata specializzazione della divisione e della natura del loro lavoro. Ed è questa la fonte ultima di ispirazione delle loro teogonie e dei loro sogni. Se prendiamo la metro, qualsiasi linea sia, possiamo vedere teogonie e sogni in azione sui volti dei viaggiatori, ognuno col suo lavoro o impegnato in una attività che lo prepara, libri nello zainetto, iPod nelle orecchie. Come il gioco per i bambini e per gli adolescenti (ed un po’ anche per noi), come l’altruismo delle società complesse, come lo sviluppo di simboli per le funzioni della mente. Così, allo stesso modo, il lavoro è per l’uomo un valore esistenziale ed allo stesso tempo un meccanismo di adattamento. Quindi di evoluzione.
Peccato che la vita sia così breve (perché impariamo e cambiamo continuamente). C’è chi comincia a lavorare da bambino e non conosce altro se non la ripetizione di atti semplici, quasi sempre faticosi. In genere, questi atti danno una soddisfazione talmente profonda da essere auto-gratificante; un po’ come succhiare delle endorfine. Un pastore bambino in Etiopia o in Namibia, o – muoviamoci liberamente nello spazio/tempo – nella Toscana medioevale o ovunque nel mondo del lontano presente o del vicino passato, quel bambino pastore man mano diventa un giovane, poi un adulto, poi un vecchio, e non chiede altro se non seguire il suo gregge ed imparare a memoria l’Orlando Furioso, o disegnare un cerchio perfetto se Cimabue glielo chiede, o seguire nella sua mente il proprio sussurro percorrendo le proprie Vie dei Canti e producendo le proprie droghe mentali. La vita del padre continua nella vita del figlio lungo gli stessi sentieri delle stesse montagne seguendo le stesse greggi nelle stesse stagioni. Un uomo così è pronto a leggere le Encicliche, a demandare ad altri le risposte a domande che, spesso, lui neppure si pone.
Non c’è nulla di male, non concediamoci la libertà di un giudizio arrogante, c’è un’evoluzione anche nella conservazione e nella proiezione delle attese di là del monte che l’ultimo orizzonte chiude.
È probabile però che, in quel caso, altri evolvano più rapidamente, prima, e che quella cultura sia spazzata via da quella di coloro che si sono posti più domande, hanno trovato più soluzioni, sono stati costretti a sopravvivere in un ambiente meno isolato, meno protetto, meno omogeneo. È soltanto nelle nicchie nascoste al di là del deserto del Namib o del Mar di Sardegna che ci si può permettere il lusso di vivere tranquilli e di lasciare che il DNA evolva con calma. Normalmente però non è questa la norma. La norma è che le competizioni violente ci cambiano continuamente.

Evoluzione anatomica

Homo sapiens è una specie invasiva. Genere: Homo; specie: sapiens (?!). La sua invasività la vediamo nella molteplicità genetica rispecchiata nei volti e in quella del comportamento della moltitudine dei suoi componenti. Muoviamoci di nuovo liberamente nello spazio/tempo e ne abbiamo immediatamente una visione chiara. Tutto è cominciato dalla sua mano.
Un milione e settecentomila anni fa, prima che fossero inventate le asce, i nostri antenati avevano polsi primitivi, buoni per appendersi ai rami ma troppo deboli per afferrare e maneggiare con molta forza piccoli oggetti. A quell’epoca le vecchie asce a mano Aculeane erano appena state inventate ed erano talmente rozze da servire a poco altro se non a darsele sul cranio l’un l’altro. Poi via via, in un arco di tempo lunghissimo durato mezzo milione di anni, questo polso ha sviluppato la sua funzione e le nostre mani (diciamo “nostre” perché un giorno lo saranno, ma a quell’epoca eravamo ancora Homo erectus – questo sì adatto al proprio ambiente più di sapiens) hanno cominciato a prendere la forma che hanno oggi. Un terzo metacarpale (l’osso che va dalla base del dito medio al polso) vecchio ottocentomila anni e appena scoperto, lo testimonia. Appare allora la piccola protrusione alla sua base, lo stiloide, piccolo bozzo che aiuta a stabilizzare il polso quando la mano stringe oggetti tra il pollice e le dita. Processi ripetitivi e a ritmo sostenuto – scavare una buca o incavare un tronco – non erano prima possibili. Ma con lo stiloide lo erano diventati, ed era allora stato possibile costruire oggetti più raffinati, o più affilati, o più resistenti. In altre parole, mezzi di produzione. Lavoro.
È il primo esempio di anatomia che si evolve per adattarsi ad una nuova tecnologia e per permettere lo sviluppo di altri oggetti e quindi di altre tecnologie. Con la diffusione degli strumenti di pietra, coloro che avevano la struttura del polso adatta trovavano radici, scavavano tronchi e ne tiravano fuori bei vermi grassi o un po’ di succo dolce, affilavano pietre, riuscivano a sopravvivere nell’ostile mondo di allora. In altre parole, lavoravano meglio. Ed il mondo di oggi non è meno ostile, anche se il nostro terzo metacarpale ha lo stiloide ben protruso. Oggi serve ben altro che il lavoro manuale.

L’osso ioide

Le scoperte si susseguono. In una grotta in Israele è stato identificato un osso ioide proveniente dalla gola di un maschio Neandertal. Lo ioide è un piccolissimo ossicino non collegato ad altre strutture dello scheletro, ma si trova là, legato a muscoli e cartilagini per sostenere la forma della laringe e permetterci di articolare parole. Invenzione specifica del genus Homo, lo ioide a forma di forcella è un miracolo di semplicità e di sofisticazione evolutiva. Dalla forma di questo ossicino ritrovato abbiamo potuto determinare che i Neandertal parlavano proprio come noi, che potevano cantare se ne avevano voglia, e che la complessità dei suoni che erano in grado di emettere corrispondeva ad una potenziale complessità di vocabolario. La loro evoluzione sociale complessa era dunque possibile. Gli uccelli cantano? Credo di no; penso piuttosto che parlino.

Estetica del lavoro

Peccato che la vita sia così breve (poiché lavorare è bello). In certe epoche lavorare è più bello che in altre, e questo ci permette di riflettere sull’estetica del lavoro. E non soltanto sulla sua etica. Cosa che diamo per scontato, cosa che normalmente chiameremmo un qualia, una categoria, un assoluto.
È in una di queste epoche che nasce un Fernand Léger con i suoi intricati giochi di tubi monocromi all’interno dei quali si arrampicano operai dallo sguardo fisso come le tigri imbambolate del Doganiere Rousseau. In tuta durante la settimana, nella giungla del sogno il dì di festa. È in una di quelle epoche che sbuffano le nuvole di vapore delle locomotive di Monet alla Gare Saint-Lazare.
Dietro quei vapori non ci sono viaggiatori, ci sono solamente macchinisti. Le fabbriche si intuiscono lontane, sullo sfondo di tramonti luminosi, diluite armoniosamente nelle periferie di Francia e Inghilterra, e negli anni. È in una di quelle epoche che il Futurismo spande i suoi colori e le sue albe, momenti in cui il sole ha raggi in forma d’elica. Non a caso queste albe le abbiamo viste solo in Italia e in Russia, dove la trasformazione industriale è stata rapida e compressa, in anni compressi e rapidi che coincidono con e sono sfociati in altri -ismi.
Il lavoro va modernizzato con il suo passo, né troppo lento né troppo rapido. E poi ci vuole consenso. Senza un tacito accordo di fondo il lavoro perde la sua estetica, rimane in attesa di un D’Alembert e di un Diderot e delle illustrazioni dell’Encyclopédie, alle quali seguì e si sovrappose la grande Rivoluzione, fuoco di paglia acceso da sottoproletari che non potevano comprarsi l’Encyclopédie.
Quando il lavoro mancava, rimanevano l’appartenenza e la cultura (la vera ideologia). Per questo la prossima rivoluzione, il prossimo -ismo, sarà molto peggio di quello che è passato, wiki-zione di topi in gabbia. A proposito di topi:

Evoluzione anatomica della mente

Homo sapiens ha scoperto il modo di fondere/penetrare nel cervello altrui. Gli esperimenti sono semplici. Collegando due interfacce cervello-computer, esseri umani sono stati in grado di far muovere la coda di un topo solo pensando di farlo. Un uomo viene collegato ad una macchina che attiva alcuni dei suoi neuroni quando gli arriva un impulso di ultrasuoni. Quando l’uomo pensa di muovere la coda del topo, il computer misura una variazione del suo segnale elettroencefalografico e trasforma questa variazione in ultrasuono. Il cortex motorio del topo reagisce e la coda si muove. Tutto artificiale, inutile, complicato.
Certo, ma la trasmissione del pensiero e la sua trasformazione in un atto reale, in movimento, è stata compiuta, è diventata possibile. Gli sviluppi prevedibili sono infiniti. Tra cui: pensar di lavorare e far fare quel lavoro ad altri. Lavoro cioè molto intellettuale, lo si può ben dire.
Peccato che la vita sia così breve (e che i computer siano ancora così semplici). Ma è proprio così? La più grande rete neurale artificiale mai concepita è stata presentata da ricercatori della Università di Standford e dalla compagnia di computer graphics Nvidia. La rete ha lo scopo di modellizzare l’apprendimento umano ed è costituita da 11.2 miliardi di parametri che rappresentano connessioni tra neuroni.
A questo punto abbiamo un metodo (penso di far muovere la coda a topo, il topo la muove) ed una rete neurale (che sarà presto in grado di connettere e scegliere le decisioni, come, perché e quando far muovere la coda e a che velocità – o ben altro, ovviamente). Ma quale è il software, la conoscenza a partire dalla quale prendere decisioni? La abbiamo sotto gli occhi: Wikipedia.
Homo sapiens a un certo punto ha deciso che le enciclopedie erano troppo ingombranti e la loro compilazione troppo inefficiente. Per compilare la prima edizione dell’Encyclopaedia Britannica sono state necessarie 12.000 ore, per compilare English Wikipedia ne sono state impiegate 41.019 (dati di ottobre 2013). Gli autori presenti in Wikipedia sono 18.600.000, il tasso di errori riscontrato è dello stesso livello di quello dell’Encyclopaedia Britannica; e sono tutti errori secondari, piccole imprecisioni che vengono mondate man mano. Questo meccanismo di compilazione è complesso, e per assicurare i giusti filtri necessari sono in vigore scelte, verifiche e censure che, impercettibilmente, indirizzano e caratterizzano il contenuto. Il 91 per cento degli editors, ad esempio, sono maschi, le informazioni che riguardano l’Africa sono di meno di quelle che riguardano l’Antartide, entrare a far parte del gruppo degli autori diventa sempre più complesso. Questo fa sì che lentamente ma percettibilmente il tasso di crescita diminuisca. I livelli di protezione contro spammers e vandali sono sempre più alti, alcuni contenuti vengono rimossi senza spiegazione. Naturalmente gran parte di questi effetti è conseguenza necessaria della complessità del sistema. Esistono 21 milioni di voci, in 285 lingue: che il sistema abbia funzionato è un inatteso splendido miracolo. Allo stesso tempo indica i suoi limiti intrinseci. Può Wikipedia diventare la vera enciclopedia globale, summa neutrale e benevola del sapere umano, evitando di divenire uno strumento con propensione maschilista, occidentalizzante, tecnologica? La risposta dipende dalle sue capacità di assumere una multiforme utilità e un’utilizzazione controllata. Il fatto che negli ultimi anni Google ed altri motori di ricerca abbiano iniziato a fornire dati tratti da Wikipedia insieme a risultati propri indica che il processo è iniziato, e che l’uso integrato della conoscenza, della cultura in senso ampio, nuova inattesa appartenenza, diventa parte dello sviluppo globale.
Sommiamo i tre fatti: muovere la coda al topo col pensiero, rete mentale (artificiale e autonomo modello di cervello umano), un software globale in tutte le lingue del mondo contenente tutte le informazioni e aperto a tutti. Quanto manca alla loro integrazione? Diderot e D’Alembert farebbero certamente parte della Nuova Rivoluzione Enciclopedica, della nuova forma di lavoro che intravediamo appena.
È forse non troppo a malincuore che consideriamo che la vita umana sia così breve. Vorremmo davvero vedere tutto questo, Pandora?
Come se l’idea di un’Enciclopedia globale totalizzante non bastasse, Google sta per fondare il più grande deposito di conoscenze della storia umana. E lo fanno senza l’aiuto dell’uomo. Per Google si chiama Knowledge Vault, per gli altri concorrenti (Microsoft, Facebook, Amazon e IBM) non si conosce ancora il nome. Per la CIA ci si riferisce a questo sistema semplicemente come a Factbook.
Knowledge Vault ricerca, raccoglie, confronta e fonde le informazioni in maniera autonoma. Il campo di raccolta è il web, la rete stessa. Il mondo intero, le persone che vi passano la vita, le parole che si trasmettono e gli oggetti che esistono, i fatti: tutto rientra in un’unica scatola nella quale tutto è classificato in maniera neutra, fredda, filtrata. Ma qui forse c’è un problema. Il caveau della conoscenza è un sistema che conserva le informazioni affinché le macchine possano leggerle, affinché un robot e uno smartphone possano comprendere immediatamente quale sia la domanda e dove è la risposta. Affinché questo sia possibile bisogna fare delle scelte a priori. Il giorno di nascita di Napoleone è un’informazione neutra, ma qualsiasi decisione riguardo quello che è importante e quello che non lo è comporta una scelta. Il mondo, il suo contenuto materiale e noi, i suoi abitanti, tutto viene messo in lista di priorità, ma non secondo le nostre preferenze. Secondo quelle delle macchine e dei loro programmi. Potremo porre domande e avremo risposte da un oracolo che parlerà chiaramente. Questo non mi piace, Pandora.
Avremo un assistente virtuale che deciderà per noi ciò che è importante e ciò che non lo è, che spierà i sintomi critici della nostra salute secondo il nostro personale database metabolico-genetico. Questo assistente virtuale prenderà le informazioni da Knowledge Vault Central, là dove tutta la storia e la società sono rappresentate sottoforma di modelli numerici, là dove le decisioni sono rapidissime e non ci si può sbagliare. Potremo conoscere il futuro analizzando il passato.
Questo non mi piace, Pandora. Preferisco l’oracolo di Delfi, all’ombra di due monti gemelli, il Lucente e il Dorato, che ci lasciava la libertà di cercare le nostre decisioni in fondo a noi stessi. Quello che ci rende umani sono le domande, non le risposte. È forse questo il senso ultimo del tuo gesto: aver lasciato la Speranza in fondo al Vaso. Dirci che tutto alla fine è possibile, e di questo ti ringrazio, Pandora.
Riassumendo: è con nostalgia che vi invito a rileggere l’Esiodo de Le Opere e i Giorni e a riguardare il Calendario de Les Très Riches Heures du Duc de Berry; è con rispetto che vi invito a pensare ai Sacerdoti Egiziani che prevedevano le inondazioni del Nilo tra i fumi di incenso, lavoro intellettuale se mai ne è esistito uno, senza Knowledge Vault, di cui non si aveva bisogno per essere umani pensanti.

Genetica e migrazioni

I primi uomini moderni in Europa erano cacciatori-raccoglitori arrivati circa 40.000 anni fa. I primi coltivatori risalgono solo a 9.000 anni fa, dominano il continente a partire da 7.500 anni fa e spingono i cacciatori-raccoglitori verso un inesorabile declino. Analisi recenti mostrano che il passaggio dal Medio Oriente all’Europa non ha seguito le vie apparentemente più logiche (attraverso Bulgaria e Balcani centrali o attraverso la Grecia) ma è avvenuto saltando da un’isola all’altra, arrivando in Italia meridionale, soprattutto in Sicilia, come moderni villeggianti in catamarano. Le prove dell’attività marittima sul Mediterraneo del Neolitico sono evidenti. Le analisi dei marcatori genetici detti polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) sono molto potenti, basate come sono non solo sui fenotipi importanti (talassemia, ecc.) ma anche su quella parte di complessità di sequenza che non si manifesta; sulle migliaia, sui milioni di piccole variazioni – per gran parte neutre – che non hanno alcuna conseguenza; su quel pulviscolo di variazioni che caratterizza ognuno di noi, e noi tutti insieme. Stupefacente è la stabilità del rapporto popolazione/territorio. Una volta arrivato, il gruppo genetico resta. Si può cambiare cultura, lingua, si può modificare il nome di Dio, ma i geni restano, soprattutto sulle isole piccole, o nei villaggi dove la strada finisce.
Ma non sono questi proto-agricoltori “moderni” che sapevano come solcare il mare come gabbiani quello che ci interessa. La nostra attenzione si concentra su coloro che sono stati spinti verso il declino. Sui primi.
Alcuni versi bellissimi di Callimaco descrivono il vagabondare dell’anima dei marinai morti in mare. La parola chiave di questo epigramma (LVIII) (“Il naufragio”: chi sei, naufrago? Leontico ha trovato il tuo cadavere qui, sulla riva, e ti ha eretto questa tomba, piangendo sulla sua vita pericolosa. Poiché neanche lui conosce riposo e, come il gabbiano, vaga sul mare) è talassoporein, vagabondare, vagare sul mare senza scopo apparente. È proprio questo (nella nostra ricerca di “ciò che ci rende umani” e delle radici della scienza nella nostra testa) uno dei punti da tenere a mente: talassoporein. Il verbo descrive anche come i nostri geni si spandono, e perché, e ci dice che questo può succedere perché la vita umana è breve e perché non tutti restano da questo lato del monte che chiude l’ultimo orizzonte.
La separazione tra soft sciences e hard sciences è soltanto operativa. E non mi riferisco a una Nuova Alleanza alla Prigogine, ma ad un’alleanza che, per necessità intrinseca, non si è mai interrotta a causa del modo stesso con il quale funziona il cervello umano. Rompere questa alleanza, incrinare questa unità significa forse prendere il volo. Ma siamo capaci di αἰθυίη δ’ἲσα θαλασσοπορέιν, di vagare sul mare senza direzione, come un gabbiano? La bellezza di questa parola, talassoporein, vagare sul mare, ci suggerisce che forse tra scienza hard e scienza soft dovremmo trovare un posto per l’estetica, e non un posto secondario. Ci suggerisce che vale la pena conservare quei valori umani che altri hanno elaborato per noi pagando in prima persona.

Il dibattito alla fine della Commedia: SELF

Ma chi è veramente questo gabbiano che vaga sul mare? Chi siamo noi, in 1.000 parole? Siamo delle reazioni chimiche incatenate l’una all’altra, che hanno luogo con una certa velocità e che non hanno avuto un inizio che ci sia vicino nello spazio-tempo (io, di sicuro, non ho goduto di un vero inizio, poiché continuo le reazioni dello spermatozoo maturo di mio padre e dell’ovocita altrettanto maturo di mia madre) ma che avranno una fine genetica nella disorganizzazione della loro informazione e nel loro dissolvimento nella rete biochimica che copre questo pianeta.
Godiamo di un tempo definito: “Coloro che hanno compresso il secolo a uno spazio di trent’anni mi sembrano aver commesso un grande errore. Secondo Eraclito, infatti, questo lasso di tempo è chiamato γενέα (generazione), perché avviene in questo spazio una rivoluzione dell’età dell’uomo e si chiama rivoluzione dell’età dell’uomo l’intervallo compreso tra il momento in cui l’uomo riceve la vita e quello in cui la dà” (Censorino De d. nat. 17,2). E siamo caso (genetico) e necessità (entropica) che si constata poiché esiste (secondo l’idea che qualcosa esiste perché la constatiamo, e che si può constatare perché esiste, si veda la voce Ereignis nel dizionario critico di Holzwege “sentiero-nel-bosco” di Martin Heidegger). Lo vedremo meglio più avanti. Siamo dunque genotipo e fenotipo, ciò che dà informazione e ciò che la manifesta, essendo chiaro che il genotipo è qualcosa di fisico, DNA che sintetizziamo, compriamo, mettiamo sotto brevetto, trasmettiamo. E che ci arriva da lontano, dall’origine della via, quale che essa sia. Quale che sia: si può pensare di definire la vita?
La vita è definita in maniera arrogante come a self-sustained chemical system capable of undergoing Darwinian evolution. Questa definizione non è soddisfacente perché la vita non si auto-sostiene, poiché si nutre dei prodotti che derivano dall’energia solare; non è un sistema, è un processo; e definire qualcosa in base al fatto che può cambiare è una trappola retorica. Una definizione più razionale ci arriva da E. T. Trifonov, che ha confrontato le 123 definizioni della vita presenti in letteratura e, attraverso un metodo di analisi strutturale alla Lévi-Strauss, ne ha tratto una forma consensuale: Life is self-reproduction with variations. Se si mettono a confronto le due definizioni, ci si rende conto che l’unico termine in comune è self. Questa è la definizione alla quale aderiamo: la vita è individualità di reazioni concatenate.

Un piccolo esercizio: stendiamoci supini, le braccia incrociate sotto la testa, sotto un pino potato di fresco e guardiamo il tronco che si tende verso l’alto, si divide in rami e si distende in corona spessa di aghi verde scuro. È là, a raccogliere l’energia del sole e a trasformarla per produrre le sue cellule, la sua resina, i suoi colori, il suo DNA. Il DNA è un testo senza indice, ma il pino sa bene da dove cominciare a lèggere.
Siamo i germogli dell’albero del vivente, non abbiamo inizio definito, ma avremo (così come foglie appese ai rami d’un albero in autunno) una fine. L’albero proviene da origine biochimica auto-generata, auto-referenziale, auto-coerente, da una rete di processi informativi e metabolici, dalla loro fertile interazione. Dal momento magico, casuale e necessario al tempo stesso, dal suo inizio, la vita non si interrompe mai (per definizione, perché ci siamo), ramificandosi in tutte le direzioni, in (quasi) tutti gli ambienti, nel tempo. Tutti gli organismi viventi sono collegati nello spazio-tempo, da vicino o da lontano, ma collegati in forma di rizoma. Cos’è un rizoma, Signori Deleuze e Guattari?
Secondo voi, un rizoma segue:

(1 e 2) i “princìpi di connessione e di eterogeneità”: “qualsiasi punto del rizoma può essere connesso a qualsiasi altro e deve esserlo”.
(3) il “principio di molteplicità”: “le molteplicità si definiscono dall’esterno: attraverso la linea astratta, la linea di fuga o di deterritorializzazione secondo la quale esse cambiano natura collegandosi alle altre”.
(4) il “principio di rottura asignificante”: “un rizoma può essere rotto, frantumato in un punto qualsiasi, riprende secondo questa o quella delle sue linee e secondo altre linee”.
(5 e 6) il “principio di cartografia e decalcomania”: “un rizoma non si giustifica secondo alcun modello strutturale o generativo. È estraneo sia a qualsiasi idea di asse genetico, sia a quelle di struttura profonda”.

Di nuovo metalinguaggio, Signori Deleuze e Guattari. Leggiamo con attenzione, cartesianamente, non capiamo a fondo ma ne traiamo un’impressione vivace: siamo tutti ben connessi, come già ci aveva insegnato San Francesco. Ma cosa possiamo dire in parole più semplici, al di fuori del vostro metalinguaggio?
Nel 1942 Jorge Luis Borges scrisse un racconto splendido, molto noto. La Biblioteca di Babele descrive l’universo in forma di struttura infinita organizzato come una biblioteca. Sono descritti i corridoi, i corrimani, gli scaffali in cui i libri sono allineati senza fine. L’idea è che non ci sono, in questa immensa biblioteca, due libri identici. Allo stesso modo, non ci sono nel mondo due individui identici. Ci rassomigliamo, tra noi esseri “umani”, ma ognuno è se stesso, ognuno paga il proprio biglietto. Ci somigliamo biochimicamente, noi scimmie, noi alghe, noi zanzare, noi orchidee e noi giraffe, e ciascuno è se stesso, anche se l’energia proviene per tutti dal sole e, per tutti, segue le stesse leggi termodinamiche. Senza andare troppo lontano, Roland Barthes ci confida: innombrables sont les récits du monde.
La nota finale de La Biblioteca di Babele recita:

“También alegó un hecho que todos los viajeros han confirmado: No hay, en la vasta Biblioteca, dos libros idénticos .
Letizia Álvarez de Toledo ha observado que la vasta Biblioteca es inútil; en rigor, bastaría un solo volumen, de formato común, impreso en cuerpo nueve o cuerpo diez, que constara de un número infinito de hojas infinitamente delgadas. (Cavalieri a principios del siglo XVII, dijo que todo cuerpo sólido es la superposición de un número infinito de planos.) El manejo de ese vademécum sedoso no sería cómodo: cada hoja se desdoblaría en otra análogas; la inconcebible hoja central no tendría revés”.

Se la biblioteca è la vita e i volumi sono i genomi, l’inconcepibile foglio centrale è ognuno di noi, immerso senza ritorno nella corrente del tempo.
Inutilità, concetto umanissimo eppure verissimo. E se la biblioteca è inutile, così come la vita che simboleggia, allora, allora è meglio, con il gabbiano di Callimaco, talassoporare lucidamente e consapevolmente ancora un po’.
Grazie, Pandora, per la coscienza di libertà che hai reso possibile.

NOTE

1. da Aristot. Phys. A8. 191 a 24.
2. da Aët. III 9, 1-2 [Dox. 376].
3. da Empedocle, fr. 117 da Diog. Laert. VIII 77[A1].

4. Le citazioni che si trovano in André Breton sono spesso un po’, come dire, surreali. Cercando online il punto preciso di questa frase nell’opera di Lenin, che è comunque disponibile in forma presumibilmente completa, non l’ho trovato. Parlando di surrealismo e dei riferimenti citati da André Breton, mi sento confortato dal fatto che cercando anche il punto preciso di quell’interessantissima frase che Breton attribuisce ad Engels e che sarà esaminata nel Capitolo 5, ho constatato che Engels non l’ha mai scritta. Un po’ come Luis Borges, che usa in maniera suggestiva e creativa frasi di autori spesso mai esistiti, Breton mescola spesso realtà, possibilità e probabilità. Breton ne aveva diritto, lui. Noi un po’ meno: le nostre citazioni sono ben verificate.

______________________________

Clicca sul link, entra nel sito di asterios, leggi le prime pagine ed ordina il volume!

https://www.asterios.it/catalogo/sulla-natura