Pandora, amore mio 2/3

La trasgressione intellettuale è ciò che ci rende umani, è la radice profonda della scienza.

Tecnologia e scienza si sovrappongono. Un eccesso di tecnologia potrebbe farci dimenticare perché si tenta di perseguire la conoscenza. Questo saggio esprime dubbi e certezze al riguardo. Una lunga pratica di genetica molecolare mi ha rese chiare le difficoltà nel comprendere la natura più nascosta della vita; e, messe a fuoco in questo quadro generale, le difficoltà che si hanno quando ci si domanda: cosa ci rende davvero umani?
Per delineare alcune risposte, ho fatto ricorso al mio interesse per il pensiero antico e ad alcune nozioni di genetica e di fisica contemporanea. Il discorso si rivolge a Pandora, a colei che, aprendo il Vaso, ha lasciato sfuggire le nostre domande. E a quei ricercatori che non si accontentano mai completamente dei risultati dei loro esperimenti e dei loro calcoli. (Ernesto Di Mauro)

Abbiamo diviso il saggio in tre parti. Domenica scorsa abbiamo pubblicato le prime due parti, oggi abbiamo inserito altri due e la prossima Domenica inseriremmo le parti rimanenti. Una buona lettura.

Indice della parte di oggi: 3. Cosa ci rende umani, in fin dei conti?, Violenza, Sarcasmo, Comunicazione del dolore, Curiosità, Speranza, Amore/Passione, Consapevolezza della Fine, Suicidio, La nostra ingenua cosmogonia, i nostri quattro elementi, 4. L’estetica di Chauvet, Soluzioni estetiche nuove, Il rinoceronte della Salle de Fond, Il rinoceronte della Salle des Bauges.
Immagine di copertina: Punkt und Linie zu Fläche, Kandinskij.

3. Cosa ci rende umani, in fin dei conti?

Prima di tutto, la capacità di formulare questa domanda, indice preciso di arroganza. La conclusione di questo capitolo sarà: quasi nulla. Parlare di arroganza è ben diverso dal parlare di vanità (è vanitoso forse un pavone che fa la ruota e che, oggettivamente, è bellissimo?), o dal mostrare gran coraggio (è coraggiosa la mangusta che attacca il cobra, danzando e anche divertendosi un po’?), o è umano battersi il petto a forti pugni come un gorilla?
Il responsabile di queste azioni è solo in parte il DNA, come vedremo di seguito. La differenza è in qualcuna delle seguenti qualità/azioni?

Violenza, Sarcasmo, Comunicazione del dolore, Curiosità, Speranza, Amore/Passione, Consapevolezza della fine/Suicidio.

La conclusione complessiva di questo discorso è che nulla di ciò che ci rende umani è davvero unico. Tranne, forse, la Speranza. Ecco di nuovo la visione di Pandora che ficca il naso alla porta socchiusa dei nostri sogni. E tranne forse un po’ di genetica, molto poca. Guardiamo un po’ più da vicino.

Violenza

Non esiste animale che non sia violento. Una mucca che pascola tranquilla può diventare molto aggressiva all’improvviso. Parliamo qui di violenza di gruppo organizzata, chiudendo un occhio sulla violenza organizzata di un gruppo di leonesse in caccia. Parliamo di guerra. Che non è apparentemente una prerogativa umana, come si credeva. Rimanendo concentrati sugli scimpanzé, sappiamo che possono essere molto violenti. Negli appunti di lavoro di Jane Goodall, le pagine più toccanti sono quelle che parlano di una coppia di femmine, madre e figlia, che rapiscono, uccidono e mangiano i piccoli delle altre. E i racconti delle guardie dei parchi che descrivono le castrazioni e gli strippamenti di maschi insubordinati. Ma non è di violenza o crudeltà che vogliamo parlare qui. Piuttosto, della vera guerra tra scimpanzé che ha avuto luogo tra il 1971 e il 1975 al National Park di Gombe Stream, come la raccontano gli appunti dettagliatissimi di Jane Goodall che, analizzati al computer e descrivendo tutti gli spostamenti e le lotte, ci narrano di come, dopo la morte dello scimpanzé capo Leaky nel 1972, il gruppo si divide in due. Il gruppo del nord, capeggiato dallo scimpanzé capo Humphrey conduce una battaglia fiera e continua contro il gruppo del sud, condotto dai due fratelli Hugh e Charlie. Ma essendo i due fratelli più deboli e in disaccordo tra loro, dopo quattro anni di morti, incursioni, violenze continue, l’unità si ristabilisce e ricominciano i groomings. Ma si trattava di una guerra, che dunque non è prerogativa umana.

Sarcasmo

Data per scontata la grande importanza del linguaggio nell’evoluzione umana (passim); data la grande importanza dell’esistenza di un linguaggio universale “à la Chomski” (o forse no, secondo gli anti-chomskiani, suoi allievi) con il quale tutti gli esseri umani nascono e che comincia immediatamente a differenziarsi per complicarci la vita; dato che il linguaggio serve a metterci in contatto gli uni con gli altri, da vicino o da lontano, proprio come le balene che si parlano nel mare a centinaia di chilometri o bisbigliano, sussurrando da vicino e dandosi fiancate affettuose. Dato tutto questo, vogliamo davvero sempre trasmetterci informazioni dirette e sincere come i cani della prateria che lanciano gridi di allarme quando si avvicina l’avvoltoio o come il gatto che miagola la sua pena? Assolutamente no.
Nell’epoca della comunicazione elettronica istantanea e a priori impersonale, comincia a diventare importantissimo capire perché diciamo spesso il contrario di quello che intendiamo e capire come gli altri decifrano il messaggio. Questo modo di comunicare si chiama ironia, accompagnata dal fratello maggiore sarcasmo, entrambi figli di intelligenza, e che sembrano essere dei prodotti molto avanzati del nostro cervello.
Gli studi evolutivi ci mostrano che il significato delle frasi ironiche è colto dai bambini a partire più o meno dai 5 anni. E che i primi tentativi di umorismo infantile cominciano un po’ prima. A cosa dobbiamo questa forma di espressione che ha bisogno di una cornice di reti neuronali più ampia di quella associata alla comprensione verbale diretta? E questa non appare subito con lo sviluppo del linguaggio, manca negli autistici, si perde con l’età e in diverse forme di demenza, si appoggia su un tono di voce diverso dal normale, è presente in tutte le culture (anche se, probabilmente, un sarcasmo lappone ci sarebbe difficile da cogliere, e viceversa), e quasi sempre si perde nei messaggi scritti (che per questo hanno dovuto sviluppare un codice speciale o delle vignette). La risposta è forse semplicissima: ambiguità.
Mettiamo alla prova l’intelligenza dell’interlocutore, critichiamo senza violenza, nascondiamo le vere intenzioni lasciandole intravedere, ci rassicuriamo indirettamente con l’appartenenza a un clan. Non è allora il sarcasmo una manifestazione specifica dell’uomo? Forse ancora più che il “riso” che aveva attirato così sottilmente l’attenzione di Henri Bergson? Tutto ciò finirà presto: è appena comparso un algoritmo che rivela l’83% dei tweets sarcastici su Twitter. Molti di più di quanti qualsiasi lettore abbia potuto scoprire nascosti in questo testo.
Lasciamo dunque alle macchine la prerogativa del sarcasmo, cosa che indica che questo non è che uno degli innumerevoli modi di leggere il segno, un po’ complesso forse, ma nient’altro. So che tu sai, … che io so, … che tu sai… . Il canto degli usignoli e i codici luminosi delle lucciole sono altrettanto complessi. E molto più belli.

Comunicazione del dolore

Il dolore è una sensazione che l’evoluzione ha inventato per metterci in guardia. Questo ha funzionato talmente bene che la sensazione del dolore è diventata un valore aggiunto del nostro sistema nervoso di relazione. Soffriamo come individui per il bene della Specie. Il dolore è una condizione dell’esistenza e sarebbe moralismo fuori luogo non cercare di evitarlo, controllarlo, sottometterlo. Ma non possiamo evitarlo, e forse non dobbiamo. Ecco il nodo (ontologico). E il nodo sociologico? Il dolore ci lega, misura la nostra capacità di essere disponibili verso gli altri, forma dei legami sociali importanti, ci fa (ci forza a) comunicare, sia passivamente che attivamente, fornisce una delle basi del patto sociale. Qualsiasi valore evolutivo positivo ha la tendenza ad auto-stimolarsi, ad entrare in un loop positivo. È questa (la comunicazione del dolore) una delle radici dell’evoluzione umana, legata al valore della forza di sopravvivenza del gruppo? Dato che tutti gli animali in pena lo fanno. I cani da caccia di mio padre erano capacissimi (e anche sollevati, lo si vedeva bene) di mostrarmi le zampe ferite o i lividi quando rientravano la sera.

Curiosità

Riparliamo di Pandora. L’avevamo lasciata un po’ più sopra, completata dall’opera di Ermes, dotata di astuzia, malizia e curiosità, affidata a Epimeteo che se ne era subito invaghito. Proseguendo con le parole di Esiodo ne Le opere e i giorni, da 42-105:

… né Epimeteo pensò alle parole che Prometeo gli aveva rivolto: mai accettare un dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo indietro, perché non divenga un male per i mortali. Lo accolse e possedeva il male, prima di riconoscerlo. Prima infatti le stirpi degli uomini abitavano la terra del tutto al riparo dal dolore, lontano dalla dura fatica, lontano dalle crudeli malattie che recano all’uomo la morte (rapidamente nel dolore gli uomini avvizziscono). Ma la donna di sua mano sollevò il grande coperchio dell’orcio e tutto disperse, procurando agli uomini sciagure luttuose. Sola lì rimase Speranza nella casa infrangibile, dentro, al di sotto del bordo dell’orcio, né se ne volò fuori; ché Pandora prima ricoprì la giara, per volere dell’egioco Zeus, adunatore dei nembi. Ed altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini.

Nel vaso resta Speranza. Speranza ingannerà gli uomini con le sue menzogne, rassicurandoli, consolandoli, permettendo loro di affrontare sulla Terra la loro vita terrestre.
Pandora che, nelle parole di Robert Graves (I miti greci, 39j) “per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei”, non riesce ad esserci antipatica. Apre subito il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso. Come avrebbe potuto comportarsi diversamente? E poi lei era, a detta di tutti i mitografi, e degli dèi stessi, molto bella.
La presenza di Pandora nel mito non è secondaria. Pandora è una deuteragonista del dramma prometeico sottile ed elegante, benché sia la protagonista del dramma dell’umanità. In primo luogo, è creata, direttamente plasmata dall’argilla, espressamente per interferire con il processo di liberazione dalla religione (cosa che Eschilo esprime chiaramente e che Luciano tenta di conciliare). Poi, è inviata come dono, lei che era “tutti-i-doni”; all’inizio a “Colui-che-decide-rapidamente” e soltanto in seguito, a causa del rifiuto di questi, a “Colui-che-decide-dopo” (“dopo” essersi ingannato). Ed Epimeteo, sbagliando, accetta. Qui entra in scena Eros (non l’Eros creativo e cosmogonico, ma l’Eros familiare, quotidiano, altrettanto potente per l’individuo) e la storia si complica.
L’acquaforte di Agostino Carracci mostra Pandora ed Epimeteo amanti avvinghiati, mentre in primo piano il Vaso è già senza coperchio. Qual è il senso di intrecciare così le storie, essendo il primo nodo lo sdoppiamento di Pro-Epi…meteo? Seguiamo la traccia di Eros/Mente razionale e, senza cercare troppo lontano negli scaffali della nostra memoria, rileggiamo qualche passaggio di Properzio, innamorato della sua Cynthia tanto quanto dei miti della sua cultura neoterica. Properzio, a metà strada tra Eschilo e Luciano, ma ormai più disincantato, più vicino alla nostra sensibilità disillusa. Properzio ci descrive come, in presenza di Eros, Pandora: … quid tua Socraticis nun sapientia libris, a cosa ti servirà il tuo sapere di socratici libri, proderit aut rerum dicere posse vias, e poter discettare sull’origine e lo sviluppo delle cose ? (2, XXXIV, 27). E … O prima infelix fingenti terra Prometheo!, oh prima sfortunata zolla plasmata da Prometeo!
Come la maggior parte degli dèi dei molti Pantheon che formano il nostro immaginario collettivo … ille parum caute pectoris egit opus, compie la sua opera con poca circospezione di mente, corpora disponens mentem non vidit in arte, e il suo abile lavoro, disponendo del suo corpo, non si avvide della sua mente (3, V, 7-9).
Properzio descrive come questi problemi diventano secondari quando ora (oh, Cynthia!), ora siamo nemici tormentati.
Ma che ruolo ha la curiosità nella nuova creatura? Quis deus hanc mundi temperet arte domum, quale dio regge con arte la nostra dimora terrestre (3, V, 24), e come il sole corre dietro alla luna e da dove vengono i venti e la pioggia e i terremoti della terra, e l’arcobaleno e le eclissi, e le maree ed il tempo… Properzio sviluppa l’opposizione razionale tra filosofia, natura e passione d’amore totalizzante. E sa bene che harem nulla solet rationem quaerere mundi … nec cor fraternis luna laboret. Nessuna fanciulla ha l’abitudine di chiedere del criterio ordinatore del mondo, né perché la luna si affretta… (2, XXXIV, 51, 52). Naturalmente, se Properzio lo sapeva, lo sapeva anche Zeus. Ed inviò Pandora.
Per i dettagli Esiodo si era ispirato, pare, alla leggenda di Filli e Demofonte. Ma cambiando i nomi, la sostanza non cambia. E il nome di Filli ci rimanda ad altri amori, ad altri poeti. Amore e curiosità si mescolano sempre e si completano.
Non ci renderemmo conto dell’intensità poetica del Prometeo che è in noi se non ci fosse Pandora, a ricordarci che siamo esseri umani, non dèi. I due miti sono perfettamente equilibrati e si completano l’uno con l’altro, come in uno specchio.
Homo sapiens è una forma neotenica, nasce a nove mesi e non a dieci o undici come tutti gli altri babbuini. Per questo è più curioso e resta tale finché non diventa vecchio. Sposta nel tempo, la reitera e la differisce, la propria immaturità. Poi, quando è vecchio, è vecchio, e non si pone più troppe domande. Anche un gatto è curioso per tutta la sua vita; e il pappagallo quando ci guarda con un occhio solo, inclinando la testa. Salvo che l’uomo è curioso più intensamente, in un modo tutto suo che lo rende autoreferenziale. Cosa che lo spiega e lo descrive benissimo.
Nemmeno la curiosità sembra dunque essere una proprietà squisitamente umana.
Ma è possibile che si debbano ripercorrere i sentieri dell’etologia per comprendere davvero noi stessi? Se si, come parrebbe, la risposta è già qui: non c’è nulla, tra tutti gli aspetti comportamentali di base, che ci rende davvero umani.
Tranne il fatto che… tranne il fatto che Pandora è così umana quando alza il coperchio! Pandora, l’amabile.

Concludendo, parzialmente:
Prometeo serve da intermediario tra il dio e gli uomini, come fa il Cristo e, come il Cristo, è condannato. Queste assonanze non sono sfuggite a Tertulliano o ad Agostino. Ma Prometeo dà la conoscenza, il Cristo l’etica e la metafisica. Curiosità e disobbedienza guidano Pandora, come guidano Eva. Sia Pandora che Eva non hanno genitori: Pandora è nata dall’argilla plasmata da Efesto, Eva dalla costola di Adamo.
I risultati della loro curiosità/disobbedienza sono molto simili. La differenza è che nel Vaso di Pandora resta Speranza, mentre nel giardino dell’Eden Speranza non esisteva nemmeno.

Speranza

Ciò che c’era di male nel Vaso ne è uscito molto rapidamente quando Pandora ha ceduto, senza fare alcuna resistenza, alla propria natura. Ma, capovolgendo le apparenze, il pericolo è ciò che resta all’interno: Speranza.
Speranza è la qualità umana apparentemente più forte, più profonda e pericolosa. E, attenzione, nella parola Speranza possiamo leggere in controluce il miscuglio di atteggiamenti negativi che contengono l’attesa della Fine e tutto il gioco di dadi della nostra esistenza, amicizia, amore/passione, perdita di amicizia, incoerenza, abbandono, perdita di speranza inclusa. Gioco di dadi e gioco di ombre mescolati nell’attesa di quello che ancora non è.
Quanta speranza è presente nelle parole di Emil Cioran, quando ci confida che “la vie est le kitsch de la matière, … que la vie est rupture, hérésie, dèrogation aux normes de la matière?” Non molta, si direbbe. Ma allora il trabocchetto è che Cioran ha completamente ragione: la vita è deroga alla regola principale che fa girare il nostro universo; galassie, stelle, pianeti, satelliti e meteore inclusi: la dissipazione dell’energia e la caduta verso l’abisso entropico. La regola che organizza i cristalli. Alla fine, tutto sarà omogeneamente tiepido. Ma per ora deroghiamo, noi viventi, e conserviamo il nostro calore. A un prezzo entropico alto, completamente privo dell’eleganza dei cristalli.
In maniera molto kitsch (Cioran dice: stupidamente), siamo felici. L’abitudine alla felicità crea la speranza della felicità futura, la speranza è legata a eresia e rottura. Ed ecco Pandora che mette di nuovo il naso alla finestra dei nostri sogni ispirando Cioran, facendogli leggere un giorno le parole dell’oscuro Eraclito: Se non spera, non troverà l’insperabile, perché è introvabile e inaccessibile.(1) E queste altre parole, ancora più belle: Dolce blandendogli il cuore, / nutrice di vecchiezze, è a lui compagna / la Speranza che suprema governa / il pensiero mutevole degli uomini.(2)

Amore/Passione

Finalmente, Pandora, ecco che appaiono le parole “amore/passione”. E, finalmente, chiamiamole con il loro vero nome universale, Eros:
… negli infiniti recessi di Erebo / genera per primo la Notte dalle ali nere un uovo senza seme, / dal quale, con volgere delle stagioni, germoglia Eros desiderato / splendente nella schiena per le ali dorate, simile a vortici tempestosi. Così dice Aristofane ne Gli uccelli(3), riprendendo una delle quattro tradizioni della teogonia orfica, che Damaso indicherà come “comune” o “rapsodica”, quella più vicina alla nostra sensibilità moderna. Condivido anche queste altre parole di Aristofane, quando, descrivendo il batter d’ali di Eros, scrive:

Questi unendosi all’alato Caos, di notte nel vasto Tartaro / procreò la nostra stirpe e per prima la condusse alla luce. / Non esisteva la stirpe degli immortali, prima che Eros mescolasse ogni cosa.

Senza quella piccola follia che a volte si impossessa delle nostre ali, non esisterebbero stirpi, né di mortali, né di immortali. E se non esistevamo prima di Eros, noi uomini e noi dèi non saremmo stati capaci, come ci confida Platone, di innalzarci:

Lui i mortali chiamano Eros che vola / e gli dèi l’Alato, perché fa crescere le ali(4).

L’immagine di amore in volo è talmente frequente in poesia e in arte che non varrebbe nemmeno la pena rifletterci, se non fosse questa la base solida dei nostri sogni. In principio, allora, era Eros:

Prima di tutti gli dèi essa creò l’Amore. Essa è la Notte, la Notte primigenia. E questo è il più bel frammento che ci resta di Parmenide (5). E con l’Eleata erano tutti d’accordo. Aristotele, ad esempio

(“…Si potrebbe supporre che Esiodo abbia ricercato per primo tale causa, anche se qualcun altro pose negli enti l’amore o il desiderio come principio: per esempio, anche Parmenide. Questi, infatti, disegnando la generazione del tutto disse «come primo fra tutti gli dèi, Afrodite ebbe in mente amore», ed Esiodo «da principio fra tutti gli dèi venne all’essere caos, poi di seguito la terra dall’ampio seno, e amore, il quale risplende fra tutti gli immortali”)(6),

e Plutarco(7), e Simplicio(8), e tutti coloro che hanno riflettuto al riguardo. E anche noi siamo d’accordo, Pandora, l’Amore e il Desiderio sono già là, nella Notte primigenia.

E senza questo noi non esisteremmo nemmeno, Pandora. Nel tuo Vaso, nel nostro sangue mortale, Speranza e Amore si mescolano e si trasformano: Eros, che esce alato dalla Notte.
Fin qui, i filosofi e la cosmogonia semplice e incontestata che vede Eros uscire dalla Notte battendo le ali sulle nostre schiene. E i poeti? I poeti sanno andare più a fondo:

Eros di nuovo, per volere di Cipride, / dolce m’inonda e mi scalda il cuore (Alcmane)(9), Eros che scioglie le membra / di nuovo mi scuote / fiera dolceamara invincibile (Saffo)(10), Con un gran maglio Eros di nuovo / come un fabbro mi ha colpito / e nel borro invernale mi ha tuffato, si lamenta più violentemente Anacreonte(11), Eros finale. È un caso che i tre più profondi testimoni di Eros usino le parole “di nuovo”?

L’esperto dell’Eros cosmogonico è Empedocle che sa analizzare il proprio cuore:

Così il dolce afferra il dolce, l’amore si slanciò verso l’amore / l’acido andò all’acido e l’ardente era attratto verso l’ardente12, e ribadisce con più profonda analisi: Amici sono infatti tutti questi (elementi) delle lor parti, / lo splendore del sole, la terra e il cielo e il mare, / quante di esse negli esseri mortali errano disgiunte. / Così quante sono maggiormente disposte alla mescolanza / Reciprocamente si amano rese simili ad opera di Afrodite(13).

Il messaggio di Empedocle è che il simile ama il simile, e che l’amore consiste nel raggiungere l’identità. Quando questo mette in gioco i quattro elementi, l’amore è perfetto, appare la vita. Empedocle suggerisce anche ciò che è al di là di Eros e dei suoi frutti: la perfezione della vita senza nascita, la vita come principio intrinseco, l’amore come identità, fusione, convergenza, il significato della vita finalmente raggiunto. Da Plutarco:

Empedocle dice che non vi è nascita di cosa alcuna: / ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose / mortali, né fine alcuna di morte funesta, / ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate, / ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini(14).

Mescoliamoci, Pandora, secondo i quattro principi: il sole, la terra, il cielo, il mare.

Consapevolezza della fine

So che morirò, che l’individuo che sono avrà fine. La cosa migliore che possa fare per rimediare a questa sconvolgente realtà è prendere coscienza che anche l’Universo intero un giorno finirà. Magra consolazione, soprattutto perché (forse) l’Universo (mi) sopravvivrà. E poi l’Universo forse non è nemmeno uno solo. E di tutti i multiversi possibili di certo uno ne resterà. Ma per caso qualcuno di noi ha assistito alla morte prossima di un maiale? O ha visto in televisione il video degli elefanti che si mettono in marcia per andare a morire a centinaia di chilometri di distanza dal loro angolo di foresta, marciando senza tristezza (apparente) ma dondolando lentamente la loro grossa testa, fino al luogo del cimitero? O ha visitato quel luogo (Shiekh Shazly, mi pare, un posto sperduto nel deserto) a una quarantina di chilometri all’interno di Berenice, nell’Egitto meridionale, in cui i dromedari, con le zampe legate, sono venduti e sanno benissimo che saranno presto abbattuti. È sufficiente fiutare nell’aria l’odore della morte imminente e respirare fisicamente gli ormoni del terrore per comprendere la loro percezione del futuro, la complessità dei loro sentimenti. Le scimmie che siamo hanno la stessa percezione, la stessa complessità. Solo che, in noi, questo dura un po’ di più. Forse.
Se si mettono su un piatto della bilancia i gridi del maiale da sanguinaccio e tutti i Multiversi sull’altro, il peso, temiamo, pende verso il maiale.

Suicidio

Essere consapevoli che ci sarà presto una fine suggerisce che lo possiamo fare. E siccome morire è necessario, potremmo bene anticiparne il momento senza pensarci troppo. Ho sempre ammirato i Romani che si tagliavano le vene senza fare tante storie, e anche senza soffrire troppo.
Quando una celebrità pone fine alla sua vita e il fatto diventa pubblico, ogni volta a questa morte segue una serie di suicidi. Nei mesi successivi alla morte di Marilyn Monroe, il 5 agosto 1962, i suicidi di donne furono – nei soli Stati Uniti – 197 in più che il mese precedente. Sì, questa mimesi mortale è specifica del genere e dell’età. Il suicidio di Charles Boyer a 78 anni fu seguito da un’ondata di morte di uomini anziani. Gli esempi sono molti e coerenti. Si produce un click quando si intravede la possibilità. Non conosco nessun animale che segua in questo modo la morte dell’individuo alfa del gruppo.
Il turismo eutanasistico in Svizzera è in aumento e il numero di persone che decidono, senza essere affetti da una malattia mortale, di mettere fine ai propri giorni cresce di anno in anno. L’assistenza alla morte viene richiesta da persone che hanno sindromi neurologiche, ma anche artrite reumatoide o osteoporosi, o qualsiasi altra cosa più leggera e sopportabile. O niente di tutto questo se non il male di vivere. Questo sì, ecco finalmente una cosa che sa renderci esseri umani viventi: il male di vivere, e quello di morire.

La nostra ingenua cosmogonia, i nostri quattro elementi

Proprio come la fonte della filosofia quantistica contemporanea è nel pensiero estetico antico, la nostra cosmogonia (la fonte delle nostre scienze) ha radici lontane:
Demetrio di Trezene nel libro Contro i sofisti [F.H.G. IV 383] a proposito di Empedocle, cosmogono massimo:

… Queste furono le sue dottrine: quattro sono gli elementi: fuoco, acqua, terra, aria; vi è poi l’Amicizia, per la quale questi elementi stanno insieme, e la Contesa, per la quale si separano.

Dice così:

Per prima cosa ascolta che quattro son le radici di tutte le cose:/ Zeus splendente e Era avvivatrice e Edoneo / e Nesti, che di lacrime distilla la sorgente mortale. / Per Zeus intendendosi il fuoco, per Era la terra, per Edoneo l’aria, per Nesti l’acqua.

E questo modo di vedere è elegantemente ripreso dalla poesia iraniana:

Venuti puri dal nulla, ne partiamo impuri. / Venuti felici, ne ripartiamo pieni di miseria. / L’acqua dei pianti negli occhi, nel cuore un fuoco oscuro, / rendiamo l’anima all’aria e moriamo nella terra [Omar Khayyâm, Quartina #282].

Le tracce scritte della nostra cosmogonia vengono dunque dagli Eleati, da Ἐλαία, Elea, la fonte, e dopo quasi duemila anni queste tracce restano uguali. La fonte primigenia della nostra cosmogonia, la prima, esiste davvero e l’abbiamo ritrovata, come vedremo, in Dordogna, dalle parti di Pont-d’-Arc. Vicinissima alla nostra alba come uomini.
A pensarci bene, non c’è dunque niente di speciale che ci renda veramente umani. Niente di speciale nemmeno nell’attesa della Fine. E a pensarci bene, nemmeno questa conclusione è molto originale. Rileggiamo Ezio (IV, 3, 4):

“Parmenide, Empedocle e Democrito sostengono che lo spirito e l’anima sono la stessa cosa e, secondo loro, non può esistere dunque un animale totalmente sprovvisto di ragione”. Teofrasto ripete esattamente la stessa cosa nei suoi Libri Fisici: “l’anima e lo spirito coincidono”.

Non siamo soli, in linea di principio. Gli Eleati lo avevano già capito bene. Ritroveremo la stessa fonte al fondo della Salle de Fond, nella Grotta di Chauvet.
A pensarci bene, neanche questa conclusione è originale. Ascoltiamo Epicarmo, il commediografo:

Oh Eumeo, non in un solo essere si trova la sapienza, ma tutti gli esseri viventi possiedono conoscenza. Le galline, osserva, non partoriscono figli vivi, ma gli dànno vita covandoli. In che stia poi questa sapienza, lo sa la natura soltanto; perché essa soltanto non è istruita da altri (fr. 4).

E se aggiungiamo la Vanità alla nostra lista, la saggezza di Epicarmo ci istruisce anche a quel riguardo:

Nulla di strano che (…) siamo soddisfatti di noi stessi, e crediamo di aver gran pregi di natura, perché anche il cane crede che la cosa più bella sia il cane, e il bue il bue, e l’asino l’asino, e il porco il porco (fr. 5).

Ma deve proprio esserci qualcosa che giustifichi la fonte delle nostre arroganze umane. A meno di non accettare le parole di Alcmeone:

l’uomo differisce dagli altri animali perché esso solo comprende; gli altri animali percepiscono, ma non comprendono(15)… altri animali… noi.

Rivolgiamoci allora ai grandi temi: evoluzione, arte, scienza, alla nucleazione del pensiero astratto, alla Grotta di Chauvet e alle sue radici.

4. L’estetica di Chauvet

La Grotta di Chauvet è viva, le sue acque continuano a filtrarvi dentro e ad uscirne. Le stalattiti continuano a sgocciolare e le stalagmiti a crescere; di tanto in tanto avviene qualche piccolo crollo. La costanza della temperatura, dell’umidità e della composizione dell’aria ha permesso la conservazione dei materiali organici e dei pigmenti. Il tesoro che conserva è di un’importanza antropologica e filosofica che non è stata ancora completamente compresa.
Accanto a qualche rara, ma ben conservata, traccia di frequentazioni paleolitiche, di residui di fuochi, di impronte e di alcuni oggetti, la Grotta è una galleria impressionante di arte parietale. Le opere (parlare di pittura è riduttivo) risalgono a due periodi: 32.000-30.000 e 27.000-25.000 a.C.. Il tempo che è trascorso tra noi e Lascaux è quasi lo stesso che è trascorso tra Lascaux e Chauvet.
Le opere di Chauvet sono le testimonianze più antiche dell’arte figurativa pittorica umana, un insieme elaborato e ricco, distribuito in luoghi numerosi, serie complesse di rappresentazioni. L’interesse maggiore risiede nella loro matrice paleo-etnica. Gli autori erano uomini Cro-Magnon. Cioè, noi. Prima della loro cultura aurignaciana e, a seconda dei siti, parzialmente sovrapposte cronologicamente, esistono solo testimonianze della povera cultura châtelperoniana e, ancora prima, di quella neandertaliana. Dal punto di vista dell’arte, nel senso comune del termine: niente. Da dove vengono l’ispirazione, la capacità evocativa (in una parola, l’arte) che tappezzano le pareti di Chauvet? Non si sa. Possiamo solo dire che quest’arte viene dall’interno della mente aurignaciana, dalle loro esperienze precedenti delle quali si sono conservate pochissime tracce.
Entrando, si è come ipnotizzati dalla lucentezza della calcite. Affermare che la separazione tra fisica e metafisica, tra prosa e poesia, non si è ancor oggi completata (e che è in questo che risiede la vera ricchezza dello spirito umano) è naturale. Ma è scendendo per i primi metri dell’entrata di Chauvet, nascosta nella falesia, che ce ne rendiamo davvero conto. Entrare nella Salle Brunel è tuffarsi di colpo nella neurobiologia, nella genetica, nelle origini di ciò che ci rende umani.
Ci confrontiamo, tra i due termini cronologici proposti, con una stupefacente unità stilistica, fatta di ricerca di unità di rappresentazione, di astrazione, di movimento, di prospettiva, di valori assoluti raggiunti con un tratto di carbone, di codici estetici aperti. Per illustrare lo spirito umano a un extraterrestre basterebbe mostrargli il rinoceronte astratto della Galleria del Cactus. Quattro tratti separati, le parti-per-il-tutto: la fronte, le corna abbozzate, il muso, il petto. Sineddoche perfetta, esattamente come funziona il nostro cervello. Quanti punti identificano un viso? Dove si fissa l’attenzione di chi confronta due figure umane? L’Aurignaciano non si faceva queste domande, ma ci fa capire che conosceva benissimo le risposte.

Soluzioni estetiche nuove

Prospettive multiple, movimento. I leoni: alcuni sono ben identificati come maschi, altri caratterizzati come individui con un comportamento specifico e reale (la femmina che si strofina al maschio, ad esempio) e non come astrazioni. La maggior parte sembra apparire in forma di moltiplicazione della stessa bestia, dello stesso essere vivente, ed è facile supporre che la moltiplicazione del loro profilo sia là per descrivere un movimento, un’evoluzione della scena. Le figure a profili sovrapposti conservano, nella loro moltiplicazione, individualità e continuità. I muscoli della zampa anteriore di ogni animale sono tesi ognuno in maniera diversa, gli occhi hanno sguardi che variano un po’, l’inclinazione dell’asse corporeo cambia leggermente. La presenza di animali-individui non esclude la presenza di animali che si moltiplicano sotto le mani di colui che li ha creati evocandoli. Come se fosse naturale che la prima arte parietale conosciuta, la più antica, sia così stranamente perfetta.
Il senso di svolgimento di un racconto è ottenuto con pochissimi tratti, la profondità psicologica di una azione che si svolge è raggiunta senza alcuno sforzo apparente di artificio. Quasi tutti i gruppi di felini hanno una preda dietro l’angolo, normalmente un rinoceronte; la scena prende senso completo solo se l’osservatore cammina. I musi dei felini sono rappresentati di profilo, e ciò si accompagna ad un effetto strano: sembra che anche un occhio dell’altro lato sia lì a guardarci, quasi come nelle aperture dei visi à la Picasso. Ma mentre Picasso apriva le tre dimensioni e le stendeva sul piano provocatoriamente, i felini di Chauvet mantengono il loro profilo naturale suggerendoci, al tempo stesso, il lato nascosto del viso.
Picasso, Braque e Cézanne appiattiscono la forma e scompongono le immagini: i nostri Aurignaciani no. Come se questa pittura fosse non solamente arte, ma anche una sorta di espressione totale e totalizzante per chi la osserva.
I felini sono praticamente tutti rappresentati nell’atto di lanciarsi, la posizione delle zampe anteriori in tensione. La moltiplicazione dei profili per rappresentare il movimento forse non è stata fatta in maniera consapevole, forse è un effetto nato fra le mani dell’artista, come se in queste mani si articolasse il gioco spontaneo delle dimensioni. Dalla quarta dimensione, il movimento, alla seconda, sul piano, senza perdere l’effetto di descrizione, senza passare attraverso una programmazione e lasciando che lo spessore della terza si intuisca attraverso lo spessore del tratto. L’uso di disegnare nelle crepe delle rocce, nelle concavità e sulle sporgenze per farle diventare parte integrante delle forme finali aggiunge una ricchezza tridimensionale a questo gioco di libertà morfogenetica estrema. La quarta dimensione è, ad ogni modo, desiderata, trovata, conservata.

Il rinoceronte della Salle de Fond

Il movimento è una componente intrinseca di tutte le figure, sia di gruppo che singole. L’astrazione perfetta è il rinoceronte della Salle de Fond, figura di animale che carica. In questa pittura i profili multipli dei musi e dei corni sono disposti secondo una prospettiva che va dal basso verso l’alto e da sinistra a destra. Lungo la stessa prospettiva sono posti i tratti posteriori del corpo, della coda, delle zampe. La parte centrale segue una prospettiva decentrata che si muove sempre dal basso verso l’alto ma, qui, anche da destra a sinistra. È stupefacente che si sia mantenuta l’armonia delle figure singole e, al tempo stesso, quella dell’insieme, che l’animale sembri muoversi accompagnando l’osservatore che gli passa davanti.
La prima testimonianza di arte parietale umana non testimonia solamente la prospettiva (quanto tempo bisognerà aspettare per ritrovarla in qualche dimenticata pittura greca o negli affreschi romani, o negli scritti del Brunelleschi?), ma partecipa anche delle prospettive multiple e dell’arte cinetica, creata alla luce tremolante delle torce aurignaciane.
Allora, qui non possiamo impedirci di riflettere. Da dove ci viene tutto questo? La risposta non può essere che: dall’evoluzione. Lenta, costante, continua, tranquilla, a volte tumultuosa, proprio come le acque che ancora filtrano nella Grotta delle nostre Meraviglie, e che a primavera sgorgano. A questa risposta centrale possiamo aggiungere delle riflessioni secondarie: questo proviene anche da libertà e da innocenza.
La libertà che non aveva formalismi alle spalle, libertà come nel pensiero dei Greci, dato che per Heidegger: “…il grande pensiero dei pensatori greci, Aristotele compreso, pensa senza concetto…” (in Was heisst Denken), questi Greci che non dovevano trasportare il peso ereditato dagli altri. Da quell’epoca non siamo cambiati molto, di certo non siamo migliorati. A volte dimentichiamo i nostri sedimenti di civiltà e ridiamo forma a statue del corpo femminile che abbiamo già visto nella Grotta Grimaldi o a Malta, oppure a delle sagome à la Giacometti che abbiamo visto vecchie di 15.000 anni nelle grotte del Bratberg. Bisognerebbe essere capaci di dimenticare molto per arrivare a ricreare la purezza di Chauvet, a percorrere i sentieri verso la nostra estetica prima, ad essere in grado di dare uno sguardo alle nostre abilità animali perdute. Per conoscere quello che accadeva nelle nostre scatole craniche prima che i nostri polsi fosse rafforzati dallo stiloide e prima che l’osso ioide ci permettesse di dire tante stupidaggini.
Parlando di Chauvet, accanto a libertà, la parola innocenza ci è uscita spontaneamente dalla penna. Innocentia: forse vale la pena riflettere sul significato originale della parola. La si trova citata nelle Origines (secoli VI e VII) dell’erudito Isidoro, vescovo di Siviglia, testo che ci trasmette i frammenti dell’arte oratoria latina del II secolo. In Origines II, 21 troviamo: “ex innocentia nascitur dignitas, ex dignitate honor, ex honore imperium, ex imperio libertas”. Il contesto descrive l’ideologia del potere, la sua legittimazione, riferita in particolare al quadro politico repubblicano e alle lotte tra classi sociali emergenti dopo le guerre puniche e dopo l’espansione di Roma nel Mediterraneo. Quello che ci riguarda qui è il rapporto tra innocentia e libertas, i due termini che ci sono venuti in mente pensando agli uomini di Chauvet. Innocentia è il motore primo, il valore positivo che si definisce attraverso una doppia negazione, la negazione del negativo noceo. Innocenza come non-colpevolezza. L’uomo di Chauvet non era colpevole: uccideva le sue prede per sopravvivere, le rappresentava per implorarne il perdono. Un’altra frase latina è interessante al riguardo: “nam ubi lubido dominatur, innocentiae leve presidium est”, laddove domina il desiderio sfrenato, l’innocenza è di poco sostegno. Questa frase si trova nella Suasio legis Serviliae del 106 a.C., una lex judiciaria, legge giudiziaria. Questa frase è là per ricordarci che da un certo momento abbiamo cominciato ad aver bisogno di leggi per sapere come comportarci.
Essere sregolati, sfrenati, è una qualità di questo uomo moderno che ha allora perso, perdendo l’innocentia, gran parte della propria libertà.
Il fascino più profondo dell’arte parietale di Chauvet è soprattutto nella capacità di rendere vana la domanda: cosa c’era prima? Possiamo accontentarci di dire che era la prima volta in cui la forma diventa compiuta, estetica pura, pensiero come estetica. Sei talmente bella, Pandora, che diventi quasi reale.

Il Rinoceronte della Salle des Bauges

Si passa dalla Salle Brunel alla Salle des Bauges attraverso un percorso stretto, tra colonne dentellate, fili di calcite e superfici ondulate, madreperlacee, rigate e trasparenti che pendono dai soffitti stalagmitici, fin dove, improvviso, si apre uno spazio irto di stalattiti. Sul fondo, un gigantesco rinoceronte fatto di mani di ocra, perfetto.
È allora possibile percepire intuitivamente il meccanismo mentale dell’artista che copriva di ocra il palmo della mano e la metteva sulla parete accanto ad altre manate fino a comporre un disegno impressionista. È facile, e impressionante, comprendere come la visione-memoria nelle pliche del cervello aurignaciano si proiettava attraverso la mano coperta di ocra sulla parete a formare, proiettata punto per punto, un’architettura neuronale sulla roccia, un disegno trasportato dall’interno del cranio fino a quel punto tra le stalattiti, davanti ad uno schermo di calcite opalescente. La direzione delle impronte delle mani non è sempre la stessa, cambia nelle diverse parti del disegno e, modificando la posizione dal punto in cui si appoggia più forte, crea un effetto di sfumatura. Un altro colpo di maestria estetico, ottenuto con grande semplicità e immediatezza.
Da Giordano Bruno:

“È necessario dunque che il punto ne l’infinito non differisce dal punto, perché il punto, scorrendo da l’esser punto, si fa linea; scorrendo da l’esser linea, si fa superficie; scorrendo da l’esser superficie, si fa corpo” (De Infinito, 1585).

Comporre immagini con dei punti o con unità di colore ci porta direttamente a Roy Lichtenstein, agli Impressionisti e alle teorizzazioni del “Punkt und Linie zu Fläche” di Kandinskij. Il costruttivismo di Giordano Bruno li contiene entrambi, quel rinoceronte li contiene tutti.
Il Punto-Linea-Superficie di Giordano Bruno proviene da Pitagora, prima non abbiamo fonti scritte. Di certo, tutto viene dal paradiso perduto presso Pont d’Arc, in Ardèche. Prima, non si sa. In questo paradiso perduto ciò che si vede è la coscienza-di-sé che si proietta come alter ego sulla parete. Il Fichtiano “l’io che pone il non-io” non vi aggiunge nulla.

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Note

1. Eraclito, fr. 18, da Clem Alex. strom. II 17.
2. Pindaro, fr. 214 Maebl.
3. Aristoph. Av. 693.
4. Platone, Fedro, 252.
5. Parmenide fr. 13.
6. Aristot. Metaph. Au.984b 23.
7. Plutarco Amat. 13p 756F.
8. Simplicio Phys. 35, 18.
9. Alcmane. 59 a P.-Dav.; 148 Cal.; 9 Pol.
10. Saffo. 130V; 2 Pol.
11. Anacreonte. 25 Gent.; 413 P.; 9 Pol.
12. Empedocle (tramite [Macrob. Sat. VII 5, 17]).
13. Empedocle (tramite [Simplic. Phys. 160, 26]).
14. Plutarco Adv Col. 10 p.

15. Theophr. De sens. 25 [A 5]

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