N.M. Nel corso della sua lunga carriera, le è capitato di utilizzare formule diverse per identificare il suo lavoro. Per citarne soltanto qualcuna: «antropologia delle scienze», «antropologia simmetrica», «filosofia politica della natura», «epistemologia politica», «filosofia empirica»… Quale formula ritiene essere la più appropriata, oggi, per descrivere il suo programma di ricerca?

B.L. È vero che ho cambiato molte formule. Tutte queste etichette possono andare bene, ma dipende dalle questioni di cui si sta trattando. La mia appartenenza disciplinare non è molto importante per me. “Sociologia” è stato il nome del mio lavoro per tutto il tempo prima che andassi in pensione, ma in fondo sono anche un “filosofo empirico”, mentre la disciplina che mi ha maggiormente accettato è l’antropologia… Ecco, direi che mi trovo tra queste tre definizioni.

N.M. La parte dei suoi lavori più conosciuta in Italia è certamente quella legata alla sociologia delle scienze e alla Actor-Network Theory (ANT). Quando e come si è interessato alla questione ecologica? Qual è la linea di continuità che lega l’ANT ai suoi più recenti lavori di ecologia politica?

B.L. Quando sono arrivato all’École des Mines di Parigi, dove sono rimasto per 25 anni, si è passati dalla sociologia delle scienze, che avevo contribuito a creare, alla sociologia delle tecniche. Così, nell’ambito dell’insegnamento che tenevo all’École, che si chiama “cartografia delle controversie” (e che continua tuttora a Sciences Po), molti dei casi sui quali lavoravamo con i miei studenti e i miei colleghi riguardavano temi che all’epoca non chiamavo “ecologici”, ma che fanno parte dell’ecologia nel senso esteso che conosciamo oggi. Il mio lavoro su Pasteur1 era già, in un certo senso, un lavoro di ecologia politica: i microbi erano degli agenti che facevano parte del mondo al di là dell’umano, diciamo. Si può quindi dire che ho sempre lavorato su controversie attorno a esseri che si sarebbero potuti definire “naturali”.

Non sono quindi arrivato all’ecologia politica, come invece è capitato a molti miei amici, perché fossi un naturalista, o perché amassi la natura, o perché collezionassi farfalle, etc. – ci sono arrivato dalla sociologia delle scienze, attraverso le controversie. Si può dire che abbia cominciato dai miei studenti, tra l’altro: la prima tesi sull’ecologia è stata una tesi sull’invenzione del ministero dell’ambiente, di Florian Charvolin2. In quel momento, poi, alla fine degli anni Ottanta, ho cominciato a fare un grosso studio sulla politica dell’acqua (su una nuova legge sull’acqua, in particolare) e ho finito così per trovarmi completamente all’interno di questioni di “natura”.

Parallelamente, poi, la questione della natura mi aveva interessato per l’antropologia dei Moderni, pressapoco nello stesso periodo – non in un senso ecologico, ma in una prospettiva di filosofia delle scienze, diciamo. È in quel momento che ho iniziato a diventare sempre più sensibile alla questione ecologica, tramite la doppia via delle controversie e dell’antropologia dei Moderni, e in particolare attraverso il tema del «parlamento delle cose»3, che ho poi sviluppato più tardi in Politiche della natura4. Leggevo attentamente Lovelock, quindi queste cose mi interessavano molto.

N.M. Quindi leggeva Lovelock già allora?

B.L. Si, leggo Lovelock da tanto tempo, ma non ho cominciato a interessarmi al carattere scientifico dei suoi lavori prima del 2007-2008, quando la crisi climatica è giunta a colpirmi con una grande intensità. In modo bizzarro, avevo fatto dell’ecologia senza fare dell’ecologia già parecchio tempo prima, con le controversie scientifiche, e sono arrivato molto tardivamente alla questione ecologica nel senso “climatico” del termine.

N.M. In Politiche della natura5, lei ha mostrato che il campo dell’ecologia politica non è affatto semplice da politicizzare: le posizioni ecologiste, in effetti, rischiano spesso di produrre un discorso normativo – di “invocare la natura”, per dirla nel suo linguaggio – piuttosto che uno propriamente politico. Per fare dell’ecologia politica, sosteneva, bisogna preventivamente smettere di pensarsi moderni. Ho letto in un’intervista che c’è stato un momento in cui avrebbe voluto diventare «il Marx dell’ecologia», ma ha rinunciato constatando che «i Verdi non leggono, a differenza dei vecchi comunisti»6. Le sembra che qualcosa sia cambiato, a questo riguardo, nel corso dei quasi 20 anni trascorsi dalla pubblicazione di Politiche della natura?

B.L. Direi di no… Direi di no perché, innanzi tutto, i partiti ecologisti sono scomparsi, per lo meno in Francia. La consapevolezza della crisi ecologica – del «nuovo regime climatico», secondo la mia espressione – si è molto allargata, e tocca ora in qualche modo tutti, ma gli ecologisti di formazione continuano a interessarsi a un piccolo segmento di tale questione, legato al modo in cui essa si presentava nel XX secolo, vale a dire alla questione delle risorse, degli ecosistemi, della biodiversità, etc. Queste questioni si traducono, se si proviene dal mondo naturalista (naturalista nel senso della “storia naturale”), in problemi di “difesa”, “protezione”, “conservazione”, etc., mentre la questione ecologica per come la vedevo io, provenendo dalle scienze sociali, era una questione di sociologia delle scienze, di comprensione dell’attività degli scienziati. Era sin dall’inizio, cioè, una questione di antropologia fondamentale, che è la linea teorica a cui appartiene l’antropologia dei moderni.

La questione ecologica, per me, richiede che si rifletta simultaneamente su questioni politiche, scientifiche, artistiche e filosofiche – il che assomiglia, evidentemente, per ritornare al parallelo con Marx, a ciò che ha rappresentato la questione sociale nel XIX secolo. Quando il comunismo e il socialismo, o meglio, i comunismi e i socialismi hanno cominciato a insistere sulla questione sociale, essi non ne hanno fatto unicamente una questione sociologica: ne hanno fatto una questione di filosofia della storia, una questione artistica estremamente importante, una questione giuridica e, chiaramente, una questione politica. C’è stata, quindi, una specie di apertura: se si pensa al dibattito sulla questione sociale in Francia, in Italia, in Germania, negli anni 1880-1930, esso giungeva ad abbracciare tutte le questioni fondamentali di una civiltà.

Non è mai stato così per l’ecologia. Essa è sempre stata oggetto di scarsissima comprensione e interesse a causa del problema fondamentale che tratto da più di 40 anni, vale a dire il fatto che la definizione del sociale è essa stessa molto ridotta all’interno delle scienze sociali, e che di conseguenza tutti questi esseri non-umani non si è mai saputo come trattarli. Così, quelli che si sono impegnati su questi temi, gli ecologisti, ne sono rimasti in qualche modo paralizzati a causa della difficoltà enorme di parlare di cose come la biodiversità, i laghi, il clima, etc.

Non c’è veramente stato uno sforzo intellettuale comparabile a quello che si ebbe in rapporto alla questione sociale, dunque. E questo lo verifico ancora oggi, perché rilascio spesso interviste, e non sono le persone che vengono dall’ecologia a essere più sensibili a quello che posso scrivere. Quando ho scritto Face à Gaïa7 è stato incredibile: le persone mi dicevano “perché parli di religione? Perché parli di Carl Schmitt? Perché parli di arte? Sono questioni che non hanno rapporti con l’ecologia, l’ecologia è come facciamo a salvaguardare gli animali, cosa possiamo fare per decarbonizzare l’economia, etc.”. L’ecologia non è mai stata oggetto di un investimento intellettuale, diciamo, così radicale e importante come è stato quello nei confronti della questione sociale.

N.M. Nel corso degli ultimi dieci anni ci sono comunque molti intellettuali, provenienti da svariate discipline, che si sono interessati alla questione ecologica…

B.L. Certo, questo è cambiato completamente, oggi tutti s’interessano alle questioni del nuovo regime climatico, che sono completamente estranee alla tradizione, o meglio, alle tradizioni (al plurale!) ecologiche. I giuristi, con le questioni dei beni comuni (vecchia questione di diritto, trattata peraltro anche in Italia), alcuni economisti… Potremmo nominare mille discipline che non sono necessariamente legate all’ecologia – come è normale che sia. L’ecologia è uscita dal proprio orticello, se posso utilizzare questa metafora.

N.M. A partire da Non siamo mai stati moderni8, facendo riferimento anche all’opera di Luc Boltanski9, lei ha teorizzato l’abbandono dell’attitudine “critica” dell’intellettuale pubblico. Allo stesso tempo, si può dire che il suo ultimo libro, Tracciare la rotta10, sia un testo profondamente politico – quasi militante, sebbene in un modo decisamente non convenzionale. Come ripensare allora l’impegno pubblico una volta abbandonato il repertorio classico della critica?

B.L. È una questione complicata… Ricapitoliamo: Boltanski critica la critica negli anni Ottanta (anche se poi è tornato a essere un pensatore critico) per fare una sociologia della critica, dell’equipaggiamento intellettuale necessario per esercitare l’operazione critica. Io compivo lo stesso gesto per una ragione un po’ diversa, vale a dire: sono un sociologo delle scienze, e le scienze sociali e la teoria critica agiscono anche loro nel mondo che studio, e quindi bisogna farne l’antropologia come si fa l’antropologia della chimica, dell’economia o del diritto. Non ci sono competenze sociali in grado di restare al di fuori del sociale per farne la critica – è un punto abbastanza semplice. In seguito, però, sono diventato sempre meno paziente con il “pensiero critico” (in Francia si tratta soprattutto di un misto tra Bourdieu e un po’ di Foucault mal considerato), che consisteva nell’utilizzare in fondo sempre gli stessi argomenti (una piccola lista di argomenti, legati peraltro a una definizione molto ristretta del sociale) per spiegare il capitalismo, le diseguaglianze, etc…

In un articolo che è diventato molto famoso per via della critica rispetto alla questione climatica11 avanzavo un argomento cattivo, quasi meschino: “siete sicuri che la critica sia ancora la cosa giusta da fare? Pensate veramente che il problema principale oggi, negli anni Duemila, sia che le persone credono troppo agi scienziati, credono troppo ai media, credono troppo ai politici, etc.?”. Cominciavamo già a entrare in quel periodo, di cui vediamo oggi il compimento, la realizzazione, che è caratterizzato al contrario da una scomparsa pressoché totale dell’autorità delle istituzioni. Non si dovrebbe piuttosto dire che il lavoro degli intellettuali non è necessariamente un lavoro di critica, ma anche un lavoro di restituzione e di ricostituzione delle istituzioni e della fiducia nei loro confronti, della fiducia nelle scienze, etc.? Non mi fidavo della “distanza critica” e preferivo piuttosto la “prossimità critica”: è questo il motivo per cui mi interesso più alla questione della “composizione” che non a quella della critica12.

Ecco allora che cos’è successo: ero preoccupato che, in un momento di difficoltà, la critica potesse venir presa in contropiede. Detto questo, la critica continua a giocare un ruolo importante, e il libro di cui lei parla è anche un libro critico, questo è evidente, ma allo stesso tempo l’argomento consiste piuttosto nel dire “ridirigiamo altrove la nostra comprensione delle istituzioni”. Non è quindi un libro critico nel senso di dire che esisterebbe un altro mondo dal quale potremmo fare la critica di questo, perché questo mondo è in rovina, etc. Oggi non riusciremmo a immaginare qualcuno, un Derrida, dire che il problema principale è che le persone credono troppo al testo, perché le persone non leggono più, quindi la fiducia nel testo non è più il problema principale! L’eccesso di presenza del testo ci ha occupati per tanto tempo negli anni Settanta, ora sembra incredibile che ci siano dei ragazzi che non sono nemmeno in grado di leggere un testo, e la questione si pone allora in modo differente: come insegnare ai bambini a leggere? La mia posizione, allora, consiste nel dire: tutte queste riflessioni critiche, è davvero il momento di portarle avanti?

Per riprendere la domanda, non è che abbia risolto una grande questione filosofica con la mia critica della critica: si tratta piuttosto di un problema di umore. Il mio ultimo libro non è un testo critico nel tono (mi interesso molto al tono): è scritto in un tono politico. Non si offrono delle prove, le argomentazioni che presento non sono provate, quello che viene sollevato non è un problema di prove. Si chiede, piuttosto: cosa succede se atterriamo13? Se avanziamo queste ipotesi e le seguiamo, come si ri-orientano di conseguenza i nostri affetti?

Allora per me non si tratta di un testo critico, se per critica si intende dire ciò che bisogna fare. Penso che le persone abbiano eccellenti ragioni per credersi moderne, o, al contrario, per voler “ritornare indietro”. Il problema è, per riprendere l’espressione di Anna Tsing: come si vive in un campo di rovine14?

N.M. Un altro autore che ha fatto una “critica della critica”, e al quale credo che il suo lavoro possa essere avvicinato, è René Girard. Vedendo la potenzialità violenta di ogni interazione, egli era ben consapevole della dimensione “diplomatica”, come direbbe lei, di ogni forma di sapere. Girard ha avuto influenza sulla sua formazione intellettuale?

B.L. Sì, c’è una’origine girardiana nella critica della critica che faccio. Ho letto praticamente tutto Girard e l’ho trovato molto utile, soprattutto in quel momento di discussione in cui ci si domandava perché le attribuzioni di colpevolezza fossero così forti, e ha giocato un ruolo molto importante quando ho fatto Iconoclash15, lavoro che riguarda per l’appunto la sospensione del gesto critico (non so se Girard venga citato lì, ma si trattava comunque per me di un riferimento importante). Il problema di Girard è che è un monomaniaco, quindi una volta che si sia letto il primo libro, quello sul romanticismo16 (ma ho letto anche gli altri, perché è sempre appassionante vedere come funziona un monomaniaco), fino al libro davvero impressionante su Clausewitz che ha scritto prima di morire17, si riconosce sempre lo stesso meccanismo all’opera. Allo stesso tempo, se seguiamo la sua argomentazione, dobbiamo dire che ha ragione – cosa che è impossibile, perché non si può avere ragione su tutti quei temi con una sola idea! C’è comunque un’efficacia di Girard, e devo riconoscere nel mio pensiero una specie di presenza, del tutto al di fuori del quadro intellettuale classico, di Girard.

N.M. Ritorniamo alla questione ecologica: le scienze della Terra, con il concetto di Antropocene, hanno ammesso l’uomo entro i loro oggetti di studio: le scienze sociali dovranno allora specularmente cominciare a considerare il clima come un oggetto di loro pertinenza? Penso, in particolare, al suo concetto di «nuovo regime climatico», già richiamato prima, che mi sembra andare in questa direzione.

B.L. Ho inventato questa espressione un po’ arrabattata [bricolée], nuovo regime climatico, per evitare la complessità del dibattito attorno alla parola Antropocene, usando “nuovo regime” [nouveau régime] perché in francese suona bene (in italiano forse meno, ma in francese è chiaro il riferimento all’Ancien Régime). Per le scienze sociali il termine Antropocene è un regalo avvelenato, una patata bollente, e infatti tutte le mie amiche delle scienze sciali, come Donna Haraway, Isabelle Stengers, Emilie Hache e Anna Tsing, detestano il termine Antropocene, per ragioni femministe molto comprensibili e per evidenti ragioni di antropologia – vale a dire che l’“anthropos” non esiste affatto. Quanto a me, io continuo comunque a pensare che questa reazione da parte delle scienze sociali sia un errore e che si debba, al contrario, come dice lei, accettare che in fondo la questione sociale ha sempre compreso questioni di esistenza abbastanza elementari, materiali: “dove siamo?”, “quanti siamo?”, “che temperatura abbiamo?”, “come mangiamo?”, “come ci vestiamo?”. Sono i temi del vecchio materialismo – materialismo che alla fine, però, non è stato sostanzialmente capace di riprendere la questione materiale per come la comprendiamo oggi, vale a dire al di fuori della nozione di “risorsa”. Mantengo quindi un interesse per il concetto di Antropocene perché rappresenta, per me, un modo «to stay with the trouble», come direbbe Donna Haraway18.

Il materialismo del XIX secolo non ha allargato la propria definizione della materia più di quanto i sociologi non abbiano allargato la loro definizione del sociale, e allora, se c’è un essere interessante da prendere in considerazione per l’antropologia dei Moderni, questo è proprio l’Antropocene – con tutta la sua confusione, il fatto che si tratta di un termine contestato, il fatto che è una parola che non viene dalle scienze del clima ma che viene piuttosto dalla geologia, etc. Io lavoro sempre di più con scienziati che lavorano sull’Antropocene in senso scientifico, e ritengo che se le scienze sociali perdono questo regalo, che permette loro di allargare la dimensione del sociale, commettono un grande errore. Non ci sono molte persone che la pensano così: è notoriamente la posizione di Chakhrabarty19, e questo è interessante, perché Chakrabarty arriva a questa posizione dagli studi postcoloniali, e in più è marxista, quindi per lui è ancora più complicato. Siamo i due difensori della parola “Antropocene”.

N.M. È curioso che nell’affrontare la questione del cambiamento climatico, Chakrabarty, venendo dagli studi postcoloniali, si concentri sulla nozione di “specie”20 – nozione che non è facile da politicizzare e che implica sempre un certo rischio di naturalizzare il politico. Esiste un importante precedente nella tradizione postcoloniale, vale a dire Frantz Fanon, che ne I dannati della terra parlava anch’egli di «specie», ma per definire la radicalità della contrapposizione tra colonizzatori e colonizzati, utilizzando il termine per segnalare una rottura piuttosto che per unificare21

B.L. Sì, ma allo stesso tempo, quando lei dice che la nozione di “specie” non è facilmente politicizzabile, in fondo, nelle tesi di Chakrabarty sulla geostoria si tratta precisamente della ripoliticizzazione di una nozione altrimenti naturale, che non ha ancora la sua propria politica ma che nondimeno domanda di essere rappresentata: l’“anthropos”. L’anthropos dell’Antropocene spaventa gli scienziati sociali, soprattutto le femministe, perché non vogliono vedere ritornare un agente storico come ne abbiamo già visti altre volte, ma allo stesso tempo la solidarietà climatica, quella che io chiamo wicked universality, dà luogo a una forma di universalità che, seppur perversa, wicked, bisogna riuscire a prendere in considerazione. Su questo punto, quindi, sono piuttosto vicino a Chakrabarty, anche se io non utilizzo la nozione di specie, che si porta dietro troppi trascorsi problematici.

N.M. Si sente sempre più spesso impiegare la categoria di “rifugiati climatici” o “rifugiati ambientali” per cercare di definire lo statuto giuridico delle vittime dei disastri naturali presenti e futuri. È bizzarro, però, che si rifletta sulla possibilità di estendere la categoria di rifugiato, storicamente limitata a casi di “oppressione dell’uomo sull’uomo”, per includervi il caso delle vittime di violenze non-umane, proprio nel momento in cui i geologi, tramite la nozione di “Antropocene”, ci dicono che i disastri legati al riscaldamento climatico non hanno nulla di “naturale”. Si tratta di un cortocircuito modernista, che rischia di depoliticizzare tanto la sfida ecologica quanto la questione migratoria, oppure ritiene che possiamo valutare tale nozione come uno sviluppo politico-concettuale interessante?

B.L. Dipende, chiaramente: ogni nozione che in un dato momento appare come politica può depoliticizzarsi ed essere ri-naturalizzata nel giro di poco tempo… Quando si arriverà a scrivere sui documenti “rifugiato climatico”, questo certamente ri-naturalizzerà una questione che all’origine era violentemente politica, perché essa sarà presa in carico da delle amministrazioni.

Detto questo, riguardo la sua definizione dell’oppressione dell’uomo sull’uomo: le questioni climatiche sono decisamente delle questioni di oppressione dell’uomo sull’uomo! Quando si dice che Tuvalu22 finirà sommersa si rimane in un registro molto classico. Siamo noi che la sommergiamo: sono gli europei, o gli americani, o i cinesi che hanno deciso di mettere Tuvalu sott’acqua, la spingono, è una dichiarazione di guerra – come la dichiarazione di guerra che ci ha fatto Trump dicendo “la mia CO2 vi invaderà e voi non potrete farci nulla”. Si rimane in una situazione piuttosto classica, dunque: diremmo una cosa esatta se dicessimo che i rifugiati sono dei rifugiati che sono cacciati da casa propria da parte di forze imperialiste che utilizzano il carbonio invece di impiegare delle imprese industriali, dei droni o dei carrarmati!

I concetti si depoliticizzano e si ripoliticizzano in funzione della reazione, della resistenza delle persone. Quello che è interessante nella nozione di “rifugiato climatico”, quello che cerco di sviluppare in quest’ultimo libro, in modo un po’ pericoloso, è che essa ci ricorda che siamo anche noi (noi, quelli che non si muovono, i ricchi) in una situazione in cui bisogna muoversi – rimanendo sul posto, ma bisogna in qualche modo muoversi, perché la definizione del suolo e del clima nella quali ci siamo trovati sino a ora sta scomparendo. Quindi, in un certo senso, quella della migrazione ecologica è oggi una questione comune, e questo crea una solidarietà wicked, un’universalità molto perversa, potenzialmente.

N.M. Quindi non si tratta tanto di estendere la definizione di rifugiato, quanto piuttosto di mostrare che, anche data la corrente definizione, le vittime degli effetti del cambiamento climatico possono in qualche modo rientrarvi…

B.L. Direi che la mia soluzione sarebbe di intensificarla, dicendo che ciò a cui assisteremo negli anni a venire sarà pressappoco questo: persone che avranno perso la propria terra a causa nostra verranno da noi, che staremo a nostra volta perdendo la nostra terra a causa nostra o a causa di altri ancora, come per esempio gli americani, che ci stanno abbandonando. Questo può permettere di ripoliticizzare la questione ecologica, come si diceva. Un tempo si parlava di “solidarietà proletaria internazionale”: oggi si realizza sempre di più qualcosa come una “solidarietà climatica internazionale”, e questo va capito, perché si tratta di uno sviluppo rilevante.

N.M. A proposito della questione sociale: in Tracciare la rotta lei sostiene che le classi dominanti, ben consapevoli dei rischi climatici, avrebbero già da tempo abbandonato l’idea di costruire un mondo comune. Si tratta del nuovo volto assunto dalla lotta di classe nell’Antropocene, oppure della rottura definitiva di ogni rapporto dialettico che avrebbe potuto legare, seppur nel conflitto, le classi sociali?

B.L. Perché una rottura definitiva del rapporto tra le classi?

N.M. Perché, come dice lei, le classi dominanti hanno abbandonato il mondo. Penso alle gated communities, ai rifugi costruiti da persone particolarmente facoltose per sopravvivere a guerre o all’ipotetico crollo dell’ordine sociale, e a casi simili.

B.L. Capisco cosa vuole dire, ma abbandonare il nostro mondo è comunque un aspetto della lotta di classe, perché ci hanno abbandonati ma noi continuiamo a lavorare per loro! In qualche modo è una situazione simile a quella delle persone che sono offshore: serve molta gente perché alcune persone siano offshore. Come mostra bene John Urry nel suo libro23, servono persone che siano negli aeroporti, serve un’infrastruttura territorializzata enorme perché ci siano alcuni milioni o decine di milioni di persone che siano offshore dal punto di vista finanziario.

Quindi la lotta di classe continua! Ciò che mi interessa, anche se non sono un grande amante della lotta di classe nel mio modo di studiare le cose, è in che modo il legame tra le classi sociali e le classi “geo-sociali” può essere ricostruito. È quello che è accaduto con la pubblicazione dei paradise papers: improvvisamente si è materializzata una geografia delle indignazioni e degli affetti politici un po’ diversa all’idea che più o meno le intere classi dirigenti dei paesi ricchi siano non soltanto internazionali ma altrove [ailleurs], letteralmente in un altro spazio, opaco, che ci sfugge e all’interno del quale vengono prese delle decisioni che non sono per noi. Gli italiani magari non si pongono il problema perché hanno la vecchia presenza della mafia, ma per il resto d’Europa credo che i paradise papers siano stati uno choc nel modo di intendere la gerarchia delle classi sociali: le élite, insomma, non sono dei borghesi nazionali, non sono élite internazionali, no, sono offshore, altrove. E sfuggono probabilmente anche perché hanno trovato dei porti di pace per proteggersi da tutte le catastrofi, acquistando dei territori protetti – non vanno a Tuvalu, vanno in Nuova Zelanda o in Kamchatka. No, bisogna ri-comprendere la lotta di classe come una lotta tra classi geo-sociali, perché è anche l’unico modo per capire perché la nozione di interesse di classe abbia perso di significato – perché è così, l’analisi globale di tutte le elezioni recenti ci dice questo, che sia in Italia con la Lega Nord in Sicilia, o in Ungheria, etc., se seguiamo un’analisi classica dobbiamo dire che le persone votano contro i propri interessi di classe. Perché allora? Perché si credono parte di un territorio che non esiste, ed è per questo che è così importante parlare di “classi geo-sociali”. Il caso esemplare, in questo senso, è la Brexit: persone che sono sostenute, sovvenzionate dall’Europa, votano la Brexit – il che significa che la loro definizione di territorio non include l’Europa. È un problema, ed è per questo che la riconfigurazione delle classi geo-sociali mi sembra essenziale. Lavoro su queste questioni con Nikolaj Schultz, ed è anche il grande progetto di Pierre Charbonnier.

N.M. Quindi c’è qualcosa di interessante da seguire, da cogliere nei movimenti nazionalisti…

B.L. Sì, certamente, perché vogliono tutti ri-territorializzarsi, ma il sogno di questo territorio è ancora più fittizio dell’altro, quindi il compito delle scienze sociali, degli intellettuali, degli artisti, dei militanti è veramente incredibile. La risposta deve essere: “parlate del territorio sul quale volete ri-territorializzarvi (e questo va molto bene, perché le idee di nomadismo, di superamento delle frontiere, etc. degli anni ’70 appaiono oggi completamente folli), ma non è necessariamente questo il territorio giusto, e in ogni caso non risolverà i problemi ecologici, questo è certo!”. Non penso che la Lega Nord abbia molto da dire sul clima, né sulla biodiversità, né sugli insetti… Ora, la sfida ecologica richiede che si dica: “sul nostro territorio si può mangiare questo, siamo tot persone, fa la tal temperatura, ci si trasporta così, etc.”. Bisogna ri-materializzare tutte queste questioni territoriali, e così ci si rende conto che l’Italia della Lega Nord o la Francia del Front National sono delle utopie.

N.M. Visto che ha fatto cenno alla questione politica, le chiedo: l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, con la dottrina dell’America First, sembra porre le questioni di cui stiamo discutendo in modo ancora più radicale, e, in particolare, ha portato sulla scena pubblica la questione dello scetticismo rispetto al cambiamento climatico – che lei preferisce chiamare «negazionismo» o, con una terminologia teologica, «quietismo»24. Come si può interpretare questo fenomeno?

B.L. Il quietismo è lo scetticismo generale. Io e lei siamo probabilmente entrambi quietisti: non ci stiamo precipitando a fare tutto il possibile per decarbonizzare l’economia! Il quietismo, allora, è l’indifferenza generale, diciamo, che semplicemente non è all’altezza della gravità del problema.

Il negazionismo non è la stessa cosa: si tratta di persone che vengono pagate da portatori di interessi potenti che hanno un’idea della scienza completamente diversa e che, a partire dagli anni Novanta (attorno al 1995, se prendiamo il caso Exxon), hanno cominciato ad organizzare la negazione sistematica – quella che alcuni sociologi chiamano «produzione di ignoranza», come nel caso degli effetti nocivi delle sigarette – perché avevano perfettamente compreso che se il pubblico avesse accettato come fatto indiscutibile l’origine umana del cambiamento climatico sarebbe stato necessario fare qualcosa25. L’idea, allora, fu di attacare la scienza – fatto abbastanza nuovo, benché esistesse il precedente delle sigarette, in cui questa dinamica si era fatta già veramente esplicita. Non proprio, a rigore, di attaccare la scienza, ma di ottenere che vi fosse un doppio dibattito, come per il creazionismo in relazione al darwinismo, ma in modo molto più efficace. Nel caso dell’evoluzione ci sono persone che sono dalla parte di Darwin e altre che sono dalla parte di Dio e contro Darwin, ma non sono persone che vengono prese sul serio. Con la questione ecologica, al contrario, le élite negazioniste sono molto più potenti e capaci di sostenere finanziariamente il doppio dibattito, e ciò costituisce una novità nella storia delle scienze. Ci sono state persone che erano contro le vaccinazioni, ci sono stati casi di dispute scientifiche molto dure, ma quello che non era mai accaduto (nemmeno nel caso della sigaretta, che pure era in grado di muovere una grande quantità di denaro) è un ministro dell’ambiente (un governo intero, addirittura, nel caso di Trump) apertamente negazionista. Questa è la novità, non è mai successo prima, è come se ci fosse un governo intero che negasse la Shoah: non esiste!

È un fenomeno di una novità assoluta, e proprio per questo è molto importante. E nel caso specifico degli Stati Uniti è particolarmente importante, perché è l’unica cosa che permette di giustificare la mossa di Trump, la sua astuzia. Non è possibile riuscire a fare accettare simultaneamente lo sviluppo del capitalismo e il ritorno all’indietro!

N.M. Ha menzionato le vaccinazioni, che al giorno d’oggi in Italia rappresentano un tema molto dibattuto: c’è un grande movimento di opinione “no vax” ed è stata approvata una nuova legge molto contestata sull’obbligo vaccinale. Possiamo considerare questo, da un punto di vista culturale, come parte dello stesso fenomeno del negazionismo a cui assistiamo nel caso del clima, o si tratta secondo lei di due fenomeni diversi?

B.L. Sì, certo, c’è sempre stata una controversia, sin dal XVIII secolo, attorno alla vaccinazione… È sempre stato complicato, perché l’atto stesso della vaccinazione dei propri figli ha sempre suscitato molta paura, ma non ha mai raggiunto i livelli che vediamo nel caso del negazionismo sulla questione climatica: in questo caso sono miliardi di dollari a essere investiti nella produzione di ignoranza.

N.M. Ritorniamo ai suoi lavori: essi sono stati inizialmente interpretati come relativisti, come se costituissero un attacco alla scienza e un tentativo di demolire il suo progetto. In Face à Gaïa, però, risulta chiaro il suo intento di difendere la scienza, e la climatologia in particolare, di fronte agli attacchi pubblici che essa subisce. Lei tiene a precisare, però, come ha tante volte sottolineato, che le sue idee sulla scienza non sono cambiate nel corso degli anni: che cosa è cambiato, allora, rispetto all’epoca delle science wars?

B.L. È buffo, perché è veramente il mondo che è cambiato, e non io. È davvero divertente per me, perché ho cominciato esattamente 40 anni fa, e adesso, da qualche anno, ho iniziato una ricerca di campo di sociologia delle scienze molto classica: vedo esattamente gli stessi scienziati, gli stessi metodi, ma chiaramente l’ambiente più generale è cambiato completamente.

Quando 40 anni fa si diceva “un fatto scientifico isolato non può resistere, non è questo che lo rende robusto, si tratta piuttosto dell’insieme di tutte le operazioni che noi descriviamo nelle nostre analisi”, gli scienziati si credevano protetti dalla verità scientifica, dalla verità degli enunciati scientifici. Gridavano, dicendo “ma questo è un attacco alla scienza, non è vero, non abbiamo bisogno di tutto questo! Il fatto che abbiamo dei laboratori, degli strumenti, dei soldi, dei colleghi, tutto questo è accessorio, la scienza si difende da sé!”. Adesso noi diciamo esattamente le stesse cose di allora: diciamo che servono delle istituzioni, dei soldi, dei media, l’ecosistema normale dei fatti, per fare scienza. Ma oggi gli scienziati rispondono “ah ma certo, avete ragione, effettivamente ci serve tutto questo per poter essere creduti! E nessuno più ci crede!”. E poi si lamentano: “non c’è più autorità scientifica!”.

Quello che è cambiato in modo radicale è che il rispetto dell’autorità scientifica è completamente scomparso, perché adesso si tratta di fatti scientifici, come il clima, che sono questioni di scelta esistenziale, questioni di civiltà, e in questo caso l’autorità del fatto scientifico non ha alcun peso. Si tratta di questioni di mondo, e gli scienziati, improvvisamente, si rivolgono a noi e ci dicono “ci dovete aiutare! Nessuno crede più a quello che diciamo, e veniamo attaccati dai nostri colleghi che sono pagati dai fratelli Koch!26”.

Per me quindi è molto divertente, perché ho vissuto uno stravolgimento delle cose. Non è assolutamente che prima attaccavo le scienze e ora ne sono divenuto un difensore: faccio esattamente la stessa cosa, ma quello che prima passava per un attacco oggi appare come una difesa. Ma è vero che nel caso del clima la questione è talmente importante che cerco di aiutare i miei compagni delle scienze della Terra, anche perché sono di un’ingenuità filosofica assolutamente incredibile. Dicono “se diciamo i fatti, se li ripetiamo, se li informiamo, finiremo per essere creduti e le persone agiranno di conseguenza”. Siamo inondati di informazioni! Non c’è un essere umano oggi, per lo meno nei nostri paesi, che non sia bombardato di informazioni sulla crisi climatica. Se non passa, non è un problema di informazione: è un problema di scelta di mondo. Trump ce lo ha mostrato: “nel mio paese, gli Stati Uniti, non c’è crisi climatica, e tutto ciò che direte lo prenderò dunque per falso”. Non è un problema di fatti scientifici, è un problema di civiltà, e dunque di guerra. È sotto tutti gli aspetti un problema di guerra e di pace.

Al momento, però, ho dei problemi a fare ricerca su queste questoni, non riesco più a fare una ricerca di campo in sociologia perché ogni volta che vado da qualche parte per studiare un laboratorio mi fanno fare una conferenza. Ci sono persino delle persone che mi filmano mentre sono sul campo… “Ma no”, gli dico, “sono venuto per intervistare degli scienziati!”. È anche vero che sono vecchio, e che ora intervisto scienziati che sono dei ragazzini, però…

N.M. E gli scienziati che ha modo di frequentare hanno cambiato atteggiamento nei suoi confronti?

B.L. No, perché ho sempre avuto rapporti eccellenti con gli scienziati, ho anche pubblicato dei paper che fanno riferimento a svariati ambiti scientifici, non ho mai avuto problemi con loro. Durante la “guerra delle scienze”, anche detta “science war”, non sono mai stato direttamente implicato in litigi con scienziati. Molti degli scienziati dicevano “quello che dice è evidente, è banale!”, non ne erano per nulla choccati… Ma l’affaire Sokal27 e ciò che ne seguì rappresentarono la fine (attorno ai primi anni Novanta) della difesa del positivismo. Si trattava della fine, per dirlo in maniera semplice, delle posizioni epistemologiche tenute da certi europei emigrati negli Stati Uniti, vale a dire di quello scientismo anticomunista e antifascista che è stato portato dagli emigrati europei, soprattutto tedeschi, che arrivavano in America, i quali hanno sviluppato questa specie di follia positivista di difesa della scienza come enunciato – cosa che non ha senso alcuno, perché un enunciato scientifico da solo non può esistere. È una storia molto interessante, una lunga storia di difesa, che riprendo in parte in Face à Gaïa. È la storia di un assolutismo nella definizione della scienza che risale alle guerre di religione. È Joseph Toulmin che ha molto lavorato su questo tema28.

N.M. Tra i riferimenti principali di Face à Gaïa troviamo Carl Schmitt e James Lovelock, due personaggi estremamente diversi che hanno però in comune l’essersi interessati alla Terra. Cosa ha trovato, rispettivamente, in questi due autori, sostanzialmente estranei al canone delle scienze antropo-sociali? Che cosa si guadagna da questo inedito accostamento?

B.L. Si dà il caso che questo vecchio cattolico reazionario, Schmitt, per ragioni molto oscure di recupero dell’ordine antico, abbia osato scrivere quel libro incredibile che è Il nomos della terra. Con una consapevolezza rarissima tra i giuristi (perché non è un positivista giuridico, e precisamente perché è reazionario), egli ha osato porsi al di qua della distinzione tra lo spazio moderno della res extensa e lo spazio mitico. Quando dice che «la terra è la madre del diritto»29, pone un problema. Chiaramente non si interessa per un solo secondo alla questione ecologica, non è assolutamente questa la sua preoccupazione, ma si interessa alla questione dell’origine del diritto, diciamo. Allo stesso tempo, non è assolutamente questo il problema di Lovelock, ma si tratta comunque della questione in cui finiamo per trovarci a partire dal momento in cui siamo obbligati ad accordare una forma di autorità non alla Terra nel senso del “nomos della terra” nella versione di Schmitt, ma a Gaia, a quell’essere mitico e scientifico che è Gaia.

Tra Schmitt e Lovelock, chiaramente, non c’è alcun parallelo né d’interesse né di sitle intellettuale, oltre a questo: la fusione di un termine scientifico e di un termine mitologico per parlare di un essere che non è globale, che non è il globo. In Schmitt questo è molto chiaro, non si tratta del globo cartografico, ma di qualcosa che viene prima, ancestrale, del nomos prima della distinzione nomos/physis, e anche in Lovelock, per ragioni totalmente differenti, incommensurabili, non si tratta del globo, non si tratta di tutto l’universo, ma si tratta piuttosto di quello che adesso, per il progetto al quale sto lavorando al momento, chiamo “zona critica” – quella pellicola, quel biofilm se vuole, che è effettivamente molto difficile da rappresentare, per il quale non abbiamo una visione chiara.

Quando lei dice che sono dei “marginali” della socio-antropologia questo è evidentemente vero, ma anche perché i due si confrontano con lo stesso problema, quello di trovare una rappresentazione della Terra politica, o forse giuridica (nel caso di Schmitt), e della Terra scientifica (nel caso di Lovelock), il che non è assolutamente una questione classica nelle scienze socio-antropologiche. Anche se questo è meno vero per l’antropologia: non esiste antropologo che non s’interessi alla cosmologia delle persone che studia, e gli antropologi di conseguenza sanno molto bene che non c’è civiltà che non sia anche un’antropologia, una cosmogonia, etc. Ma è vero che la sociologia, per come la conosciamo in Europa, fa molta fatica a capire tutte queste questioni.

N.M. In Italia c’è un’importante tradizione di studi schmittiani – sono infatti degli italiani ad aver recuperato Schmitt a partire dagli anni Settanta, riabilitando “da sinistra” il suo pensiero –, ma questa rimane confinata principalmente nella filosofia politica e i suoi dintorni…

B.L. Lo Schmitt del Nomos della terra è molto audace – come d’altronde lo Schmitt di un libro decisamente mitico, Terra e mare30. Se vuole, il problema contemporaneo (ed è questo che provo a fare nel mio piccolo libro) consiste nel fare della mitologia politica – e Schmitt è formidabile per la mitologia politica. Capisce che la politica è anche una questione di mitologia, di schema, di orientamento, di domande cosmogoniche, cosmologiche fondamentali: “dov’è il cielo?”, “dov’è la terra?”. Ed è vero che questo aspetto ai politologi sfugge completamente. Qui a Sciences Po lo vedo bene: in diritto sono dei positivisti, mentre in filosofia politica credono che ci siano esseri umani che discutono dei propri interessi ma che non ci sia il mondo…

N.M. Elaborando la nozione di “politico”, Schmitt definisce la dicotomia amico/nemico come la misura del «grado d’intensità […] di un’associazione o di una dissociazione»31 – impiegando curiosamente un linguaggio quasi latouriano. Gaia, però, sembrerebbe limitare radicalmente la possibilità della dissociazione, di inimicizia: siamo tutti implicati in ciò che accade su scala planetaria. Come dice Michel Serres ne Il contratto naturale32, è oggi sempre più difficile distinguere tra la lotta che conduciamo contro il nemico e la lotta che, noi e il nemico insieme, conduciamo contro il mondo, ed è dunque sempre più difficile distinguere, fare una differenza tra il nemico che si combatte e il campo della battaglia. Come riformulare, allora, il criterio per distinguere tra amici e nemici?

B.L. È una domanda difficile, perché non siamo in guerra con Gaia. Siamo in guerra con altri esseri umani su un territorio che appartiene a Gaia, ma Gaia non è la “Natura”. Ne Il contratto naturale, Serres immagina che in fondo la Natura sia sempre là, e che dunque se si combatte tra umani si finirà allora per accorgersi che ci si batte contro se stessi e ci si riconcilierà. Si trattava di una visione estremamente ottimista… Di che anno è il libro?

N.M. 1990.

B.L. È proprio quando ho cominciato… Il contratto naturale è un libro importante, è stato davvero molto importante per me, molto coraggioso peraltro, e accolto molto male in Francia. Ma adesso sembra molto ottimista l’idea di fare un contratto con la Natura, perché, intanto, non sappiamo tutto quello che la “Natura” fa, e poi all’epoca si supponeva che si trattasse di un orizzonte di unificazione – e Gaia non è assolutamente un orizzonte di unificazione, è una reazione, reagisce alle nostre azioni. Noi pesiamo su di essa ed essa comincia a seguire, che la chiamiamo “Gaia” o “sistema Terra”, una traiettoria che è indifferente alla nostra, ma non indifferente come la Natura di un tempo: essa è indifferente esattamente perché reagisce alle nostre azioni. Come dice molto bene Lovelock, quello che farà Gaia quando ci saranno troppi umani sarà sbarazzarsene!

Quindi non si tratta assolutamente di un rapporto con la Natura, al contrario siamo in guerra tra esseri umani. È l’argomento di Face à Gaïa: la linea del fronte è la linea tra gli umani e i «Terrestri». Per drammatizzarla, ci sono gli umani dell’Olocene, che in fondo continuano a battersi tra di loro dicendo che le cose si risolveranno, e i Terrestri dell’Antropocene che dicono “voi siete contro di noi!”. I suoi amici di Tuvalu sono in guerra – non proprio in guerra, perché non hanno i mezzi per battersi, ma sono stati attaccati dagli americani e dagli europei che gli hanno dichiarato guerra. È una guerra asimmetrica, ma non è una guerra con Gaia, è una guerra con altri umani, dunque una guerra di territori, una guerra di mondi in senso proprio.

Gli americani che producono CO2 nel loro mondo attaccano dei piccoli paesi del Pacifico facendo alzare il livello del mare, grosso modo è questo che accade. E in un certo senso è una situazione classica: la storia è piena di guerre di questo tipo, tra Pisa e Firenze per esempio, in cui si tenta di inondarsi a vicenda. È classica, fatta eccezione per il fatto che in questo caso passa per la mediazione di guerre climatiche, e non bisogna mai dimenticarsi che la guerra climatica è anzitutto un’invenzione degli Stati Uniti, dell’esercito americano del dopo-guerra: è da tanto tempo che si immagina di fare la guerra attraverso il clima, ma adesso lo si fa per davvero. Anche questo quindi disegna una linea di fronte e anche, evidentemente, come in tutte le situazioni di amico e nemico, delle alleanze.

L’unico argomento che prendo da Schmitt è che non ci troviamo in una situazione di pace: per uscire da questa specie di irenismo che è associato alla nozione di “natura” e di “ecologia” bisogna riconoscere che quando diciamo che le questioni di ecologia ci uniscono, questo è completamente falso. La Natura di un tempo ci unificava, perché, grosso modo, una volta che avevamo definito i fatti scientifici il resto seguiva, ma questo oggi non è più vero.

N.M. Seguendo Isabelle Stengers, lei parla spesso di «diplomazia» per definire lo sforzo politico che ci s’impone per tentare di evitare che si scateni una guerra, per coltivare la possibilità della pace anche quando appare remota. Come ha detto, però, molto spesso le principali vittime della crisi ecologica non hanno il potere per fronteggiare le decisioni dei grandi attori globali: gli abitanti di Tuvalu non hanno i mezzi per combattere la guerra che è stata loro dichiarata da Donald Trump. Nel 2009, per esempio, la delegazione di Tuvalu fu l’ultima a firmare l’accordo di Copenaghen: pur essendosi inizialmente rifiutati, dopo alcuni giorni di pressione da parte dei paesi ricchi sono stati costretti ad accettare. La nozione di diplomazia non è un po’ ottimista in questo caso, dove il confronto è a tal punto ineguale? In queste condizioni, quella che potrebbe apparire come attività diplomatica non è essa stessa una forma di guerra?

B.L. Ma la diplomazia viene dopo la situazione di guerra! La diplomazia non precede, viene dopo. Innanzitutto, bisogna esplicitare la situazione di guerra. Poi bisognerà chiedersi: “vogliamo veramente condurre questa guerra?”. Sono delle questioni che Schmitt ha posto molto bene: non tutte le guerre devono necessariamente arrivare all’atto di uccidere, si tratta decisamente di una drammatizzazione eccessiva. Quello che bisogna sapere, come Schmitt dice molto bene, è che in queste situazioni non c’è arbitro – è il genio di Schmitt, contro ogni idea di management, di governance, etc. Quindi, innanzitutto, non c’è arbitro, e questa è una condizione che accomuna la guerra e la diplomazia, ma la diplomazia non arriva che quando le persone sono esauste e si accorgono che no, non potranno vincere questa guerra. È lì che comincia la diplomazia, quindi la diplomazia non è un sostituto per la guerra, è quello che viene in seguito.

N.M. Dalla politica, passiamo all’arte: la rivista Art Review la ha recentemente inserita al nono posto della classifica delle persone ritenute più influenti nel mondo dell’arte contemporanea33. Da dove viene il suo interesse nei confronti dell’arte? Come si collega con il resto dei suoi lavori?

B.L. Mi sono inizialmente interessato all’arte a causa del progetto sui modi d’esistenza34, attorno al 1997. Nel mio schema generale di antropologia dei Moderni bisognava comprendere la questione dei modi d’esistenza degli esseri di finzione; ogni volta cercavo un campo adatto dove svolgere la ricerca, ma in questo caso non lo trovavo, ed è tramite certi amici nel mondo dell’esposizione, della curatorship, che l’ho trovato. Hans Ulrich Obrist mi ha inizialmente introdotto a un’esposizione ad Anversa e poi ho incontrato Peter Weibel che è diventato un mio grande amico. Con lui ho fatto tre esposizioni e ne sto preparando una quarta. All’inizio quindi si trattava di una cosa senza rapporto diretto con la questione ecologica, volevo semplicemente comprendere gli esseri di finzione, ma poi, molto rapidamente, quando ho fatto Making Things Public35, ho cominciato ad accorgermi che nelle arti c’era l’altro aspetto della mia domanda sulla sfida ecologica, vale a dire come creare le condizioni di sensibilità adatte all’enormità di un problema di cui vedevo crescere ogni giorno l’importanza. Io ho lavorato soprattutto con le arti plastiche, ma lo stesso vale certamente anche per la musica, il cinema, etc. Quando dopo Making Things Public ho fatto un’esposizione a Tolosa, che si chiamava Anthropocene Monument, ho collaborato con molti artisti che definiremmo “artisti sensibili alla questione ecologica”, e da lì in poi non mi sono più fermato, perché si tratta di un campo molto ricco. L’esposizione che abbiamo fatto l’anno successivo, Reset Modernity36, era abbastanza rappresentativa di questa ricchezza. Se vogliamo, si potrebbe dire che nell’arte ho trovato una triplice sensibilità, la sensibilità artistica, la sensibilità scientifica – quella dello strumento – e la sensibilità politica. Ci ho trovato, quindi, l’equipaggiamento necessario per cominciare a sperimentare dei sentimenti all’altezza della questione ecologica. Si tratta di un problema fondamentale, perché non ci si è mai posti questa questione della scala dei problemi.

Dal 2010, poi, sono diventato io stesso quasi un “artista”, perché ho fatto due spettacoli teatrali, sempre per le stesse ragioni: trovare delle forme adatte a queste questioni. Da allora abbiamo assistito a una moltitudine di esperienze sull’arte ecologica, ce n’è di buone e ce n’è di meno buone, ma molti dei miei studenti dello SPEAP, il programma di arte politica qui a Sciences Po, sono impegnati in opere di arte politica (che è il contrario di quella che viene chiamata “arte impegnata” [art engagé]).

N.M. Quindi potremmo dire che lei è impegnato anche in uno sforzo per oltrepassare la distinzione tra scienza e arte, tra rappresentazione scientifica e rappresentazione artistica del mondo? Penso per esempio al reenactment del dibattito tra Gabriel Tarde e Emile Durkheim che ha realizzato insieme a Bruno Karsenti e Simon Schaffer37, che è uno spettacolo teatrale ma allo stesso tempo anche un tentativo di fare agire nuovamente, e in modo diverso, una controversia che ha avuto luogo tanto tempo fa.

B.L. Ho fatto molte cose di questo genere. Ho fatto svariati reenactment: mi interesso molto alla capacità degli scienziati di fare delle conferenze, e si tratta peraltro di un genere artistico diventato molto importante adesso, la conferenza-spettacolo. Ho rifatto una conferenza di Pasteur, vari anni fa ho anche fatto fare tutta una serie di conferenze a storici della scienza (per esempio Schaffer ha rifatto una conferenza di Newton), e ora ho una conferenza-spettacolo sulle questioni di forma della Terra che ho messo in atto divere volte, si chiama Inside.

È molto divertente, anche perché si stanno scoprendo delle cose piuttosto nuove. Ieri ho finito di scrivere un paper con un’architetta geniale e un geofisico, abbiamo scritto un articolo sulla forma di Gaia, sul problema dell’invenzione della sua forma particolare38, mentre la settimana precedente ero a Chicago, dove ri-lavoravamo lo spettacolo di Brecht Vita di Galileo cercando di sostituire Galileo con Lovelock. La situazione è talmente catastrofica che bisogna tentare tutto. Bisogna impiegare tutti i mezzi possibili: il teatro, le esposizioni, le conferenze – e chiaramente la scienza sociale, la ricerca di campo…

N.M. A proposito della forma di Gaia, ero a Venezia al colloquio che lei ha organizzato presso la Fondazione Cini sul tema del corpo politico39. Non pensa, però, che ragionare in termini di “corpo politico” entri almeno parzialmente in contraddizione con le sue riflesioni su Gaia, nella misura in cui parlare di “corpo politico” è sempre stato un tentativo di unificare il popolo prima del momento pienamente politico?

B.L. Riconosco che forse bisogna abbandonare completamente la nozione di “corpo politico”, sono uscito dal colloquio convinto che forse quella di corpo politico non è l’idea giusta su cui riflettere… Ma nessun corpo politico ha mai avuto un significato biologico, è piuttosto un senso giuridico-politico. C’è comunque qualcosa dell’ordine della wicked universality, cioè qualcosa che ha una forma di autorità, che pesa – ça pèse. Evidentemente non si tratta di un’autorità in alcun senso giuridicamente stabilito, ma c’è comunque qualcosa che pesa sempre di più. Gli Stati Uniti lo rendono manifesto, per esempio, uscendo dall’accordo di Parigi, vedono bene che si tratta di un’autorità, e lo chiamano “complotto dei cinesi e dei socialisti”… C’è una politicizzazione del clima, diciamo.

In questo momento ci troviamo in un periodo intermedio, dove c’è un essere climatico che ha una forma che pesa sui diversi stati, vale a dire che non si dà impresa, non si dà stato – perché non si tratta solo di Tuvalu –, non si dà vignaiolo (sono nell’industria del vino con la mia famiglia) che trascorra un giorno senza porsi la questione di come ragire alla questione climatica, quindi si può decisamente dire che essa pesa. E non pesa più come ambiente naturale da impiegare come risorsa, pesa come minaccia – come minaccia e come distribuzione delle responsabilità, ciò che implica che se lei fa una certa cosa, io non posso fare più quest’altra cosa. Quindi c’è a tutti gli effetti l’ingresso sulla scena di qualcosa che assomiglia a un’autorità. Semplicemente, è evidente, non si tratta di un governo mondiale, questo è chiaro, ed è di una forma completamente inedita – è in questo senso che Gaia è veramente nuova come invenzione. È qui che cerchiamo di porre nuovamente la questione che fu la grande questione all’epoca di Galileo: reinventare simultaneamente che cosa sia la religione, che cosa sia la politica, che cosa sia la scienza, che cosa sia l’arte… Ed è qui che le cose diventano, allo stesso tempo, tragiche e appassionanti.

N.M. Per concludere questa intervista, vorrei domandarle qualche parola sulle ricerche che sta conducendo al momento. Ha accennato a un ritorno sul campo.

B.L. È da due anni, ormai, che sto lavorando sulla questione delle “zone critiche” [critical zones], perché farò un’esposizione su questo tema a Karlsruhe nel 2020. “Zone critiche” è un termine che viene dalle scienze ma che non è molto scientifico, è piuttosto un termine di science policy, che permette di connettere persone che lavorano sul suolo – non i 30 centimetri di suolo, alcuni chilometri! È Gaia, di fatto, anche se si tratta di un modo molto meno polemico di parlarne. Si tratta quindi di una questione allo stesso tempo di rappresentazione (come rappresentiamo questa Terra dove ci capita di trovarci, che non è un globo, che non è un pianeta in mezzo agli altri?) e una questione scientifica assolutamente appassionante, perché alla fine non sappiamo poi granché di questa Terra. Si scoprono molte cose nuove, sempre di più… Quelli con cui lavoro sono degli scienziati molto appassionanti e che sono alla ricerca di contatti con le scienze sociali e la filosofia, e io sono diventato la loro mascotte.

https://www.asterios.it/catalogo/pianeta-terra

Bibliografia

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Note

1 L’intervista, condotta da Nicola Manghi, si è svolta a Parigi, presso il Médialab di Sciences Po, il pomeriggio del 21 novembre 2017. È stata realizzata in francese e Bruno Latour ne ha successivamente rivisto il testo trascritto. Latour (1984).

2 Charvolin (2003).

3 Quello di «parlamento delle cose» è un concetto proposto da Latour a partire da Non siamo mai stati moderni (Latour, 1991), poi discusso successivamente in svariate altre occasioni.

4 Latour (1999).

5 Latour (2000).

6 Latour, Godmer, Smadja (2012).

7 Latour (2015).

8 Latour (1991).

9 Boltanski, Thévenot (1991); cfr. anche Boltanski (2014).

10 Latour (2017).

11 Latour (2004).

12 Latour (2010).

13 Il titolo originale del libro in questione, tradotto come Tracciare la rotta, è Où atterrir?, letteralmente “Dove atterrare?”.

14 Tsing (2015).

15 Latour, Weibel (2002).

16 Girard (1961).

17 Girard (2007).

18 Haraway (2016).

19 Chakrabarty (2009).

20 Ibidem.

21 Fanon (1961).

22 Tuvalu è uno stato insulare polinesiano. Secondo le previsioni di numerosi scienziati, l’intero territorio del paese diventerà inabitabile nel giro di qualche decennio a causa dell’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale. Il motivo per cui viene nominato da Latour è che chi lo stava intervistando era a quel tempo impegnato in una ricerca sul tema del cambiamento climatico a Tuvalu.

23 Urry (2014).

24 Latour (2015).

25 Oreskes e Conway (2010).

26 Charles de Ganahl Koch e David Hamilton Koch, figli di Fred Chase Koch, sono due importanti industriali statunitensi attivi, con le loro Koch Industries, nel campo delle energie. Sono anche noti per essere tra i lobbysti più impegnati a combattere la diffusione di informazioni rispetto al riscaldamento globale. Cfr. https://www.theguardian.com/environment/2015/feb/21/climate-change-denier-willie-soon-funded-energy-industry.

27 Nel 1996, Alan Sokal, fisico statunitense, docente presso la New York University, pubblicò un articolo farsesco sulla rivista di studi culturali «Social Text». L’articolo, dal titolo Transgressing the Boundaries: Toward a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity, mescolava volutamente una terminologia scientifica a una filosofica, in un gergo che intendeva mimare l’attitudine postmoderna, bersaglio critico dell’autore. Sokal colse l’occasione della pubblicazione dell’articolo per denunciare, in un altro articolo pubblicato su «Lingua Franca», l’assenza di rigore con cui, a sua detta, concetti scientifici erano utilizzati da autori afferenti alle scienze umane. L’aspro dibattito che ne sorse, rimasto alla storia come science wars, coinvolse numerosi importanti intellettuali, particolarmente in Francia e nel mondo anglosassone.

28 Toulmin (1990).

29 Schmitt (1950, 19).

30 Schmitt (1942).

31 Schmitt (1932, 122).

32 Serres (1990).

33 https://artreview.com/power_100/.

34 Latour (2012).

35 Latour, Weibel (2005).

36 Latour, Leclercq (2016).

37 La performance è visibile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=C1TGYXXWUe0.

38 Arènes, Latour, Gaillardet (2018).

39 Il colloquio, intitolato What’s the Body of the Body Politic? Sovereignty, Identity, Ecology, si è svolto presso la Fondazione Cini a Venezia dal 12 al 15 settembre 2017 e ha riunito attorno al concetto di “corpo politico” una dozzina di studiosi provenienti da discipline molto diverse tra loro.

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Fonte: Nicola Manghi, «Intervista a Bruno Latour»Quaderni di Sociologia, 77 | 2018, 107-128.Nicola Manghi, «Intervista a Bruno Latour»Quaderni di Sociologia [Online], 77 | 2018, online dal 01 mai 2019, consultato il 09 octobre 2022. URL: http://journals.openedition.org/qds/2075; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.2075

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