Noi qui siamo tutti fratelli

Costruire una trama narrativa, la vicenda degli operai di Monfalcone, che nel 1947 sono andati in Jugoslavia a costruire il socialismo, non è stata un’impresa facile o semplice. La complessità della vicenda storica si lega alla rottura del Cominform, quando Stalin sconfessa Tito e la sua politica, in nome dell’internazionalismo operaio. In quel passaggio epocale i comunisti italiani si trovano combattuti tra due spinte: mantenere la fedeltà agli ideali internazionalisti, oppure dichiarare l’adesione al socialismo reale della Repubblica Federativa Jugoslava. Per i dissidenti era pronta la destinazione di Goli Otok. L’operazione culturale diventa un filtro rispetto alla lettura di molte pagine di storia, dissolvendo la pesantezza della materia nella leggerezza della scrittura narrativa. Così, pur basandosi su un’ampia mole di studi storici, di cui dò riscontro nella bibliografia finale, cerco di immedesimarmi nelle motivazioni, negli stati d’animo, nelle verità dei vari personaggi d’invenzione, che diventano simboli, metafore, delle varie opzioni e scelte ideali e ideologiche: la spinta operaia dei cantierini monfalconesi, più di duemila uomini partiti per la Jugoslavia; il vissuto duro e realistico che li aspetta nel mondo sognato; la presa d’atto di una realtà cruda, molto lontana dalle speranze iniziali; le perplessità e i dubbi versus una fede incrollabile nel movimento comunista; l’adesione o la condanna al/del socialismo di Tito. Non manca, sullo sfondo, una forte storia d’amore, un amore impossibile da realizzare, perché viene soffocato dalle distanze, Monfalcone – Bosnia – Fiume – Goli Otok, che separano Evelina da Ernesto, e soprattutto dalle dinamiche incrollabili, di un credo rigido, quasi disumano, nel comunismo, che rende l’uomo insensibile a ogni richiamo affettivo.. Il mio potrebbe essere un lungo racconto o un breve romanzo, se ci fissiamo all’ampiezza del respiro narrativo, in cui sono calati avvenimenti dirompenti, che hanno coinvolto tanti uomini, donne, famiglie, mossi dalle ideologie totalizzanti del Novecento. Ma lo sguardo è neutro, non giudica nessuno, bensì registra, gli stati d’animo, le emozioni, i sentimenti, le paure, le disillusioni, le lacerazioni, le certezze. In questa operazione, di lettura dei personaggi costruiti con complessità psicologica e con verità si rende l’idea della storia dell’animo umano. Una bella storia che riproduce un’epoca contrastata e drammatica e la propone con semplicità, ma con completezza e grande competenza. Un testo da proporre anche ai giovani lettori, che possono accostarsi a una pagina di Storia in modo sintetico e gradevole, evitando il confronto con tomi più impegnativi e professionali. Comunque gli slogan, le parole d’ordine, i messaggi politici, le illusioni, gli abbagli, puntualmente riportati, in conclusione offrono un affresco vero e sincero, un richiamo finale all’umana fratellanza, un invito a vivere vite degne di essere vissute anche attraverso l’impegno e la testimonianza.

Goli Otok

Compagni, avanti! Il gran Partito
noi siamo dei lavorator.
Rosso un fiore in noi è fiorito
e una fede ci è nata in cuor.
Noi non siamo più nell’officina,
entro terra, nei campi, al mar,
la plebe sempre all’opra china
senza ideale in cui sperar.

Su lottiam!
L’Ideale nostro alfine sarà,
l’Internazionale, futura umanità!
Su lottiam!
L’Ideale nostro alfine sarà,
l’Internazionale, futura umanità…

 

Monfalcone, agosto 1946

Il direttivo del Partito aveva deciso di svolgere il comizio all’aperto, sulla landa del Carso. Oramai erano lontani gli anni in cui, per i comunisti, clandestinità voleva dire sopravvivenza. Finiti i tempi delle cellule e delle trojke slovene clandestine. Adesso si poteva parlare liberamente durante i dibattiti, discutere fuori dal segreto senza dover presentare la parola d’ordine. Gli operai del Cantiere erano già arrivati e avevano acceso un grande fuoco di bivacco. Il cielo era terso, le stelle rifulgevano bianchissime. Le ombre indefinite dei numerosi compagni tremolavano nell’aria. La luna rifletteva una luce magnetica sul prato e sopra la sterpaglia. La legna bruciata emanava un profumo di pino e resina, che riportava al presente i ricordi. Le fiamme scarlatte salivano alte verso il cielo, lasciando nell’aria un pulviscolo di cenere e rosse scintille.
– Scusa Ernesto, non volevo disturbarti… ci sono delle novità!
– Cosa è successo Amelio?, il capitalismo è precipitato sopra se stesso?, i padroni sono diventati le vittime del meccanismo perverso che hanno creato?, madre natura si è ribellata e sono iniziati i cataclismi? Sono sempre stato convinto che la natura fosse una proletaria!
– Cosa dici… Ernesto?, stai farneticando?, no, no… nel Partito Comunista della Venezia Giulia i dirigenti stanno ricevendo delle spinte da parte dei militanti del Partito Comunista Jugoslavo.
– Per cosa?
– Per emigrare. Esclamano: “Emigrare è l’unico modo per mantenere vivi gli ideali della Resistenza!, alla fine vincerà la classe operaia!”. Ripetono di aver analizzato a fondo la situazione attuale. Proclamano: “Ebbene, sull’Italia non possiamo più contare, ha già dimenticato le nostre lotte e i nostri morti. Si è troppo compromessa con il fascismo. L’Italia no! L’Italia colonialista non la vogliamo!”. Ribattono che la Jugoslavia rappresenta l’ultima possibilità per la creazione di un vero stato socialista.
– Amelio!, vuoi dire che si tratta di partire tutti? Ti rendi conto che saremo più di duemila uomini nel Monfalconese? Dove andremo? Come faremo a sistemarci?
– Ernesto, non possiamo far finta che questi anni di lotta siano trascorsi invano, che il nostro sogno di fondare un mondo migliore non si realizzerà mai più. L’abbiamo tanto sperato io e te, e adesso? I nostri fratelli operai si stanno infervorando all’idea, si trascinano l’uno con l’altro, è come se gridassero: “Al fuoco!, al fuoco!”. L’entusiasmo cresce, oramai la faccenda della partenza è un continuo passaparola.
– Il Partito Comunista della Venezia Giulia è nato autonomo, sia dall’Italia che dalla Jugoslavia, perché proprio adesso queste pressioni? Amelio, guarda che si tratta di prendere una decisione tosta. Qui si parla di scelta esistenziale: di vita, di lavoro, di affetti.
– Mhmm… non starai alludendo alle donne che lavorano per noi?, per caso a quella castana con gli occhi verdi, Evelina?, e alla sua amica rossa cicciottella, Anna?
– Sì. Proprio a loro.
– E perché ti viene in mente Evelina adesso? Perché metti di mezzo le donne con il socialismo?, via Ernesto!, queste sono faccende da uomini!
– Oh no, ci risiamo!, la tua solita tempesta Amelio: perché?, perché?, perché?…
– Te lo dico io il perché!, perché in fondo un debole per Evelina ce l’hai!, su dai, confessalo da bravo al tuo amico Amelio.
– No, no. Ti sbagli.
– Ernesto… guardati allo specchio!, hai gli occhi lucidi.
– No, non è vero, nessun debole.
– Bah, sarà…

***

Nel sottofondo della landa, due operai discutevano fitto. Uno aveva i pantaloni logori e una grossa pancia tenuta su dalla cintura di cuoio. L’altro era alto e magro, gli stava di fronte con gli occhi spalancati.
– Ehi!, amico!
– Che vuoi ?
– Hai ascoltato il comizio? Che ne pensi? Vieni anche tu di là? Vuoi essere dei nostri?
– Perché dovrei?
– Per migliorare.
– Cosa?
– La vita. Mangiare di più, avere una casa decente. Vivere e non sopravvivere. Siamo usciti dalla guerra senza un lavoro, una specializzazione. Però sembra che di là gli operai diventino persone: chi falegname, chi carpentiere.
– E chi me lo dice che di là si sta meglio?
– Non l’hai sentito? Lo dicono i comunisti.
– Sloveni?
– No, tutti. Italiani e sloveni. Di là c’è il socialismo, non contano queste differenze.
– E allora?
– Allora non saremo più schiavi dei padroni. Niente più contaminuti fuori dal gabinetto, niente più lavoro programmato senza sentire il nostro parere. Saremo noi a prendere le decisioni. Ognuno conterà come individuo e si farà strada secondo le proprie aspirazioni…
– Intellettuale eh? Di dove sei?
– Turriaco.
– Io di Monfalcone. Chi parte ha il nome scritto in rosso nel registro del Cantiere. Chi torna indietro non lavora più.
– Eppure te lo leggo negli occhi… verrai!
– Sì. Perché ho bisogno di lavorare, di mangiare… insomma, anch’io ho bisogno di cercar la fortuna!

***

Beppe il Rosso: corpulento, viso rotondo e leggero strabismo negli occhi, in Cantiere si presentava così. Fedele a Karl Marx e a Gramsci, aveva trascorso lunghe ore alla catena di montaggio a discutere con Ernesto e Amelio: determinismo storico, futuro della classe operaia, Resistenza. Era un uomo di parole ma ancor più di fatti. Non aveva mai risparmiato il suo aiuto a nessuno, né fatto mancare una buona parola. Si era prodigato in collette per gli antifascisti in carcere. Nonostante il mal di cuore non si lamentava. Gioioso, sempre. Dentro il fabbricato del Dopolavoro le sue partite a scacchi erano diventate una leggenda. Si diceva che, durante i tornei, diventasse tutt’uno con i pezzi della scacchiera. Le gare lo trasformavano, e lui correva tra gli sfidanti da un tavolo all’altro, e gridava in un crescendo di urla e fervore: “Il re non si lascia mai da solo! Persa la Regina è perso il Re… ve l’ho detto e ripetuto migliaia di volte!”.
Quando gli uomini iniziarono a discutere della partenza, prese una piccola scacchiera e la chiuse dentro il tascapane di stoffa, dove teneva anche una copia stropicciata dell’Unità. Qualcuno gridò: “Compagni! Di là! Andiamo di là!…”. E un tipo bassetto, con gli occhi vispi e il fare elegante, fece notare al Rosso che gli scacchi avevano solo due colori, come le due possibilità della vita operaia: lotta o schiavitù.

***

Nell’aria, in città, ovunque si respirava l’entusiasmo della partenza. Evelina, la compagna scrittrice: cinquant’anni, lineamenti del volto distesi e infantili, lunghi capelli castani fino alle spalle. Occhi a mandorla luccicanti, bocca carnosa e nasetto alla francese. Arrivò tardi in Cantiere, e si mise a cercare la postazione dell’amica sbattendo forte i tacchi sul pavimento. Anna intanto era concentrata sul lavoro, occhi fissi e labbra strette per lo sforzo. Non appena Evelina le comparve davanti, le bastò uno sguardo per capire che le era successo qualcosa.
– Anna, inventa una scusa, – la implorò Evelina – dì che ti senti male, esci prima della fine del turno. Devo parlarti!
– Cosa c’è Evelina?
– Vogliono tutti andarsene in Jugoslavia! Anche Ernesto, capisci!
– Oh buon Dio!, e allora?… aspettami fuori, ti raggiungo subito. Dirò della mia solita ulcera. – E replicando sottovoce parlò a se stessa: “Tanto non sto dicendo una vera bugia, se vado avanti così lo stomaco mi si bucherà sul serio… Ah, che lotta questa vita!”.
– Non tardare!, – aggiunse Evelina. Non si voltò nemmeno, anche se la sua irruzione aveva già suscitato un chiacchiericcio malevolo.
Giunta sul marciapiede in fondo alla strada, crollò per terra ad aspettare Anna. Accasciata con la schiena contro il muro si sforzava di rimanere seduta. Proprio in quel punto, qualcuno aveva scritto con la pittura bianca: ‘Viva Lenin’. Lei con una mano cercava di sostenersi la testa, con l’altra si stringeva la gola. Continuava a deglutire saliva e a sospirare. Non passarono dieci minuti che Anna la raggiunse.
– Cosa ti è successo di così tremendo, Evelina?
– Mi sono innamorata.
– Di chi?
– Di Ernesto.
– Di Ernesto?, Ernesto non sta per partire per la Jugoslavia? Lo so, l’ho sentito anch’io che si sono messi in testa di fondare il mondo nuovo.
– Appunto. Sono disperata!… Potrei non rivederlo mai più!
– Beh, come coerenza politica non ci siamo Evelina. Quanto a te… che vuoi farci?, lui sogna l’umanesimo socialista, non il matrimonio.
– Io me li vedo già, sai Anna? Lui e Amelio, che arrivano a Fiume per lo smistamento, che scendono dal camion e che cominciano a cantare: “Avanti avanti il gran partito, noi siamo dei lavoratori, in petto un fiore c’è fiorito, una fede c’è nata in cuor!…”
– Già, l’umanità internazionale… Evelina, devi rassegnarti! Lo sai come è fatto! Per lui quel che è deciso è deciso. Siamo di fronte alla forza della speranza umana…
– La speranza… – ripeté Evelina con lo sguardo nel vuoto.
Una marea di biciclette uscì improvvisa dal portone del Cantiere e si riversò lungo le strade scampanellando. Il rumore della sirena continuava a sottolineare la fine del turno. Le ragazze premevano le ginocchia con forza sopra i pedali. Lasciavano sventolare le gonne variopinte che si sollevavano appena, riuscendo a catturare lo guardo indiscreto di qualche giovanotto più lento, rimasto a pedalare dietro. Anna aveva voglia di litigare. Evelina invece sperava.

***

Fuori dal Cantiere, i due operai continuavano a discutere. Uno si teneva su le braghe con le mani perché la cintura si era rotta, l’altro, magro e consunto, teneva gli occhi bassi e si fissava i lacci delle scarpe.
– Che ne pensi? Sarà una nuova tirannia?
– Dicono che di là Tito li paga sempre i contributi, altro che i padroni in Italia!
– E tu che ne sai?
– A Sesto San Giovanni il padrone mi faceva le trattenute dallo stipendio: alla fine ho scoperto che i contributi per la vecchiaia non me li aveva mai versati! In Jugoslavia queste cose non succedono!
– No?
– No, di là sono seri. Nessuna discriminazione! Tutti uguali. Stessi diritti e stessa paga.
– Forse perché noi del Cantiere abbiamo combattuto con loro nella Brigata Proletaria? Me lo ricordo! Avevamo ancora le tute da lavoro addosso quando siamo corsi a Ronchi per andare con i partigiani.
– Parli della battaglia di Gorizia contro i nazifascisti? Sì, è stata importante, ma poi le nostre idee sono andate avanti. E adesso di là c’è il vero socialismo. Finalmente!

***

Monfalcone, febbraio 1947

La decisione dei vertici del Partito correva veloce verso il sogno socialista, che si sarebbe concretizzato in Jugoslavia. Era pronto il piano di partenza per l’intera classe operaia. Intanto in Evelina l’amore per Ernesto cresceva di giorno in giorno, senza conoscere pausa. Era un vortice dal quale solamente lui avrebbe potuto tirarla fuori. Arrivò la data stabilita per la partenza. Lei aveva crisi di pianto, un peso sul petto, un nodo alla gola. Addosso sentiva irradiarsi una corrente elettrica che le toglieva lucidità. Nonostante questo innamoramento le stesse causando un’enorme sofferenza si fece coraggio, e trascinò se stessa alla stazione di Monfalcone per dargli l’addio. Appena arrivata, lo trovò circondato da una moltitudine di compagni che gli vociferavano attorno chiassosi. Erano pronti: sventolavano bandiere rosse, cantavano l’Internazionale. Dalle armoniche a bocca uscivano canzoni partigiane. Si stringevano, piangevano, lanciavano grida euforiche, discutevano forsennati. Evelina fissò le mani di Ernesto. Le sembravano le mani di un demiurgo: all’interno i palmi esprimevano delicatezza e nobiltà. Le nocche erano forti. Le dita, come petali di fiore, si aprivano appena. “è nato in quelle mani il sentimento da cui nascono le grandi idee?,” si chiese Evelina, “l’onore dei partigiani che sfida il fascismo?, il desiderio di riscatto degli schiavi contro i padroni?, le falci alzate dei contadini contro i Signori?, dei proletari contro la classe borghese?, dei perseguitati contro i tiranni?…”. Evelina continuava a osservarlo. Quell’amore così violento aveva iniziato le contrazioni del travaglio. Sentì l’impulso di stringerlo a sé, di riconoscerlo sfiorandogli i lineamenti del volto, la bocca, i capelli corvini. Avrebbe voluto urlare: “Non partire, amore mio! Resta con me!”. Le parve di essere sul punto di impazzire: la pulsione aveva reso il suo io minuscolo, un punto indefinito nell’aria. Una voce ossessiva dentro di lei ripeteva: “Ernesto, Ernesto… chi è uguale a te?”. Un passante la notò in quello stato. Scosse la testa, stringendosi il nodo della cravatta e calcandosi il cappello sulla fronte. Lei lo udì imprecare stizzoso: “Puah!, socialisti!, che illusi!”.

***

Qualche attimo dopo il treno per Trieste emise il fischio della partenza. Evelina cercò di catturare il viso di Ernesto in mezzo alla folla degli uomini pigiata nei vagoni. Non appena riuscì a distinguerlo, sventolò il fazzoletto bianco nella sua direzione. Seguì con lo sguardo l’avanzare del treno che si allontanava. Si faceva sempre più piccolo e sfumato. Così, come andava aumentando la distanza, a poco a poco scemavano in lei le forze vitali. Il dolore dallo spirito le era passato al corpo. Ernesto scompariva come un re giusto, un sacerdote, che, conscio della sua missione, sarebbe stato pronto a dare la vita per salvare la dignità dei suoi fratelli. Evelina sognava ad occhi aperti. Vedeva spiriti schiavi da millenni che si stavano risvegliando, e che, riacquistando coraggio, si muovevano verso la sponda opposta dell’esistenza. Le lacrime iniziarono a scenderle copiose giù dagli occhi. Pensò che il senso di perdita, nell’imminente futuro sarebbe stato ancora più difficile da elaborare, così come si faceva più chiara la consapevolezza che il viaggio di Ernesto verso la Jugoslavia era oramai diventato una realtà. Barcollò sulle ginocchia e cadde. Si ritrovò immobile, distesa e raggomitolata. Si vide regredire nell’utero materno. Avrebbe voluto restare sola, liquida, inconsapevole. Desiderava poter ritornare indietro nel tempo, all’alba dei suoi giorni. Indietro, ancora più indietro. Dove ancora in lei non era nata la consapevolezza dell’esistenza. Nonostante l’indicibile strazio cercava di capirlo. Lui, Amelio, e tutti gli operai che se ne stavano andando. Cosa li spingeva con tanto entusiasmo verso la Jugoslavia?

***

Durante il viaggio gli operai continuavano a discutere:
– Se l’Italia qui verrà, il mitra canterà!
– Cosa dici… matto!
– Stava scritto al mio paese, Gradisca. Nel ’47 la Casa del Popolo fu devastata: i mobili furono rovesciati a terra, sventrati, i vetri delle finestre fatti in pezzi. C’era anche l’autografo dei fascisti scritto con il gesso su di una lavagnetta: ‘FARABUTTI PORCI DI COMUNISTI VENDUTI’.
– Stai comodo con i tuoi ricordi fino a Trieste! Che poi di là ci andiamo con il vaporetto.
– E a Fiume?
– Con il camion.
– E al collocamento?
– Va là!, che vuoi sapere ancora?, dammi pace e stai zitto!
– Zitto?, Mi sento un eroe mi sento! Sono un manovale sai?, sono abituato a lavorar la terra cantando. Però non si può spalare per tutta la vita. Eh, no! Spero che in Jugoslavia mi insegnino un mestiere. Dimmi… lo vuoi un po’ di salamino? è di casa. Da noi lo mettiamo in padella con l’aceto. Senti che profumo!
– E va bene… eroe di Gradisca!…

***

La speranza correva veloce in direzione della Jugoslavia. Un: “Hurrà!” trionfante e baritonale di voci maschili risuonò nell’aria, coprendo il sordo rumore del treno sulle rotaie. Trieste, il vaporetto, avanti, avanti, il desiderio era andare di là. Passato il confine i camion raccolsero gli operai, e poi… via!, in direzione Fiume per lo smistamento. Occhi lucidi e voglia di vivere addosso. Molte ore e poi fu silenzio. Dopo i canti e le accese discussioni sul socialismo, alla fine gli uomini crollarono esausti. Sonnecchiavano scomposti, ripiegati gli uni sugli altri. Ciondolavano le teste barcollando le gambe qua e là, a seconda dei sobbalzi improvvisi dei pneumatici sul selciato.
Amelio aveva appoggiato la fronte sulla spalla di Ernesto, e si era addormentato con la bocca spalancata.
Fiume.
Furono inquadrati in una brigata di volontari e diretti verso la zona circostante del fiume Bosna. Ernesto aveva accentuato la solita fissità negli occhi. Si erano fatti più neri e profondi. Sembrava fossero entrati dentro il buio pesto della notte. Perduti nell’oscurità, rasentando il completo straniamento. Ebbe un brivido, si scosse e sbadigliò. Quindi mezzo addormentato si rivolse all’amico e gli parlò con voce impastata:
– Amelio, in Jugoslavia dobbiamo avere un programma chiaro da divulgare.
– Perché?
– Dobbiamo saper spiegare ai fratelli della Jugoslavia le nostre buone intenzioni quando saremo arrivati a destinazione.
– Perché?
– In Jugoslavia il potere appartiene al popolo. L’Esercito Nazionale di Liberazione è stato creato ed è sorto dal popolo, sotto la guida del Maresciallo Tito.
– Va bene Ernesto, va bene…non è proprio questo il motivo per cui siamo partiti… per costruire il mondo nuovo, socialista?, e poi cosa c’è da spiegare?, abbiamo già fatto ore e ore di discussione con i compagni su questo. Lo avevamo scritto già a Monfalcone, su quel pallone di carta con lo scheletro in vimini: ‘W L’URSS, MORTE AI CRIMINALI FASCISTI’.
– Già… sarà stato il luglio del ’37 credo, – rispose Ernesto dondolando pigramente la testa.
– E allora?, perché adesso non dovrebbero accoglierci come fratelli?, perché? Che cosa ti prende Ernesto?, non ti ricordi le grida della gente in città: “Viva l’esercito di liberazione! Viva il IX Corpus! Viva Monfalcone nella nuova Jugoslavia di Tito! Viva l’Armata Rossa liberatrice dei popoli oppressi!”
Ernesto continuava il sermone come se recitasse.
– Abbiamo combattuto insieme con il popolo sloveno e la Jugoslavia di Tito contro il comune oppressore: il nazismo e il fascismo Mussoliniano. Abbiamo marciato spalla a spalla, mano nella mano.
Amelio lo guardò stralunato. Lo interruppe bruscamente.
– Ernesto?, come diavolo parli?, hai imparato un libro a memoria?
Lui lo freddò lanciandogli uno sguardo severo. E aggiunse sottovoce con gli occhi stretti:
– Ci sarà un solo grande Stato, dalle foci dell’Isonzo fino allo Stretto di Bering.
Amelio sentì che qualcosa stava cambiando. Questo linguaggio politichese gli suonava stonato, come se in Ernesto parlasse lo spirito di un altro uomo. Triste, si mise a cercare il suo vecchio amico:
– Amico mio, pensi che un giorno torneremo in Italia?
– Io sono partito con uno scopo preciso Amelio, e non ritornerò fino a quando non si sarà realizzato.
– Sì, ho capito, ho capito: non c’è bisogno che io ti rivolga altre domande. Non reggo più dal sonno, perciò adesso mando a riposare anche i miei perché. Fra qualche ora saremo arrivati. E quando mi sveglierò voglio credere di essere arrivato nel mondo di cui parli Ernesto, anzi, spero di svegliarmi proprio in un mondo nuovo. Lì ci sarà il diritto alla scuola, il diritto al lavoro, il diritto alla salute. Lì saremo tutti fratelli.

***

Quando il camion iniziò a frenare, apparve una vasta landa acquitrinosa dove sorgevano squallide e fatiscenti baracche. La pioggia, che scrosciava abbondante, stava infradiciando ogni uomo, donna, animale. Un gruppo di oche starnazzava sulla brughiera. Un’anziana, con un vestito nero e un fazzoletto frangiato attorno alla testa, le stava spingendo verso l’aia. Cercava di radunarle insieme con un bastone. Le bestiole invece continuavano a sparpagliarsi, lasciando svolazzare le penne bianche. Due uomini litigavano in lingua croata. Uno agitava una banconota spingendo l’altro con la mano. Quello rispondeva tirando fuori il risvolto bianco delle tasche. Si mostrarono a vicenda i pugni chiusi, alzarono il tono della voce sempre più, finché i due visi si misero l’uno contro l’altro. Una donna, con il viso nascosto da un velo nero, seguiva i passi di un anziano camminando a qualche metro di distanza.
Rimbalzato con la schiena indietro per la frenata, Amelio si destò all’improvviso. Il freddo intenso e l’umidità lo avvolsero completamente. Era giunto alla meta. Vide che anche Ernesto, in quel momento, si stava guardando intorno. Riconobbe alcuni compagni friulani. Gesticolavano verso di loro agitando le braccia. Percorrevano su e giù la strada cercandoli. Gli spiegarono dove erano arrivati e cosa stava succedendo: il fiume Bosna era stato arginato, e la strada ferrata stava nascendo. Un grande progetto era in atto: Brčko-Banovići, la ferrovia della giovinezza. Ottantaquattro chilometri per collegare il bacino carbonifero di Banovići alle grandi linee di comunicazione. Alcuni si presentarono come i compagni delegati all’accoglienza, e gli fecero capire di seguirli. Li accompagnarono dapprima nel dormitorio a sistemare i bagagli, in seguito nel refettorio dove era stata imbastita la mensa. Qui Amelio alzò gli occhi all’insù: al soffitto stava ancora piantato un gancio. Le pareti erano umide e nude. “Forse una volta c’era stata appesa una lampada,” si disse. La cena comunitaria era già stata imbandita. Le vivande emanavano un odore nauseabondo di crauti, orzo e rape. Ma ciò che lo stupiva di più era l’atteggiamento del suo amico. Continuava ad osservarlo incredulo. Al contrario di lui, che percepiva un sentimento di pericolosa estraneità, Ernesto sembrava compiacersi della povertà nella quale erano stati scaraventati senza poter prendere fiato. Sorrideva e abbracciava i compagni: piangeva per la commozione, cantava e batteva le mani per festeggiare il proprio arrivo. Gridava entusiasta: “Unità e fratellanza, fratellanza e unità!”. Sì, ad Amelio sembrò che, arrivando in quella regione del Bosna, Ernesto fosse giunto anche al centro della propria essenza umana. Era come se quel paesaggio lo stesse separando definitivamente da ogni attaccamento materiale e lo stesse iniziando verso la vita priva di falsi feticci. Andandosene da Monfalcone, qui era giunto all’agognata meta: la sua speranza, da individuale si era fatta collettiva. Rifletté. “Da lui questa me la dovevo aspettare.” E continuò a rimuginare, sempre più convinto. “Ecco, questo è il vero Ernesto. Il mio novello San Francesco. è felice di denudarsi di ogni cosa in nome del suo ideale. Qui si è fatta carne la realizzazione della rinuncia alla proprietà privata e alla volgarità del materialismo. In questo luogo ogni cosa è davvero solo vanità di vanità.”
E concluse sottovoce con aria triste: “E cosi sia!”.

***

La stessa sera dell’arrivo, Ernesto si distese sul tavolaccio del grande stanzone dormitorio. Aveva l’aria beata, come se fosse arrivato nel più incantevole degli alberghi d’America. Amelio invece notò gli uomini attorno a loro: giacevano già malati, denutriti, doloranti per le fatiche del lavoro alla costruzione della ferrovia per Sarajevo. Avevano dipinta sul viso la medesima espressione di attesa, che non assomigliava per nulla a quella di Ernesto. Volevano semplicemente sopravvivere.
“Già,” pensò Amelio continuando il proprio dialogo solitario, “solo nell’attesa trovano spazio le grandi visioni. Ogni essere umano aspetta qualcosa nella vita. Chi il grande amore, chi la realizzazione della giustizia, chi di guarire il corpo dalle sofferenze, chi l’abbraccio di una persona cara… Ahimè!, c’era proprio bisogno di venire fin qui? Abbiamo fatto la scelta giusta?”.
Nel frattempo Ernesto aveva appoggiato le braccia lungo il tavolaccio di legno, che era troppo stretto per contenere la sua robusta corporatura. Dovette rigirarsi sopra un fianco per potersi sdraiare. Teneva gli occhi socchiusi. Aveva il solito sorriso bonario stampato sulle labbra. Ascoltava in silenzio il rumore del filo d’acqua, che scorreva ininterrotta dal water in ceramica a pochi metri.
Amelio percepì netta la propria solitudine. Una ferita viva. Un ago nella carne. Mormorò a se stesso con un filo di voce: “Spacciato. Sono spacciato.”

 

Monfalcone novembre 1947

Intanto, a Monfalcone, dopo la partenza di Ernesto, i giorni per Evelina si susseguivano uno dopo l’altro carichi di malinconia. Stralunata, farfugliava parole sconnesse. Diceva di continuare a vedere sempre le sue mani, il suo viso e i suoi occhi che stavano fissando una mistica luce. E mentre parlava di lui sorrideva ingenuamente, facendo domande a se stessa: “Quello che gli vedo riflesso negli occhi, è forse lo stesso luccichio della rivoluzione?”.
Anna scuoteva la testa, non sapendo più a cosa appellarsi. Si sentiva scaricata addosso l’intera pena di Evelina, che era inconsolabile. Di tanto in tanto la accarezzava per infonderle coraggio, e le dava anche delle scrollatine decise sulla schiena. Si sentiva messa alla prova, perché questa volta la sua razionalità continuava a fare cilecca: non era riuscita né a prendere il sopravvento sulle emozioni intense dell’amica, né a spegnere l’incendio che la stava consumando. La partenza fisica di Ernesto per la Jugoslavia non aveva smorzato in Evelina la fiamma della passione. Anzi, con maggior vigore, continuava ad ardere in lei dall’alba al tramonto, come se lui non fosse affatto partito.
Per Evelina le notti erano diventate un viaggio senza tempo, dove lei riusciva finalmente ad abbracciarlo, e nel sogno notturno era come se si placassero, insieme alle sue, le sofferenze di tutte le donne innamorate, per trovare la pace nell’amore: immaginava languidi baci, fiumi di lacrime che la liberavano da ogni dolore ingorgato. Era divenuta un’amante segreta a se stessa, e la vita, che le si apriva nello spazio notturno, diventava più grande ed intensa di ogni realtà visibile alla luce del sole.
Anna l’osservava perplessa, senza dire più niente e senza farle più alcuna ramanzina. La notava scrivere lunghe lettere, e restare imbambolata a fissare la fotografia di Ernesto che custodiva gelosamente nella borsetta. Si limitava a scuotere la testa in segno di diniego. Le spiegava che questi erano solo riti vuoti, mediante i quali lei tentava invano di consolarsi. Continuava a ripeterle che doveva far prevalere la ragionevolezza sopra l’istinto. Però le sue parole scivolavano addosso alla sua amica come l’acqua della pioggia. Alla fine di ogni giornata, Anna si rendeva conto che ogni tentativo era stato inutile.
Evelina scrutava spesso la cassetta della posta vuota, illudendosi di intravedere la caratteristica calligrafia maschile di Ernesto. Invece il tempo trascorreva, le settimane, i giorni, le ore, e nessuna notizia arrivava dalla Jugoslavia. Solo nel Partito, ogni tanto, si sentiva qualche parola allusiva su Fiume, sul Cantiere Tre Maj o sulla città di Pola. Qualche pettegolezzo spifferato qua e là dal barbiere o dal calzolaio. Erano parole senza passione, vuote, che avevano perso completamente il carisma del passato. A Monfalcone i comunisti erano rimasti in pochi e senza entusiasmo. E della sorte individuale delle singole persone che adesso vivevano in Jugoslavia, nessuno osava spendere la più piccola frase.
– Come stai Evelina cara? – le chiedeva Anna ogni tanto – sei così pallida…
Le loro fronti si toccavano. Le ciocche di capelli dell’una e dell’altra si confondevano, aggrovigliandosi. Il dolore riusciva a passare in mezzo agli sguardi, e insieme alle lacrime scivolava giù, lento come un sasso, per depositarsi sul fondale dello spirito. Nella sua intensità era condensata la lunga storia della loro amicizia.
– Non riesco a rassegnarmi che sia finito tutto così maledettamente nel nulla. è come se fosse sparito un mondo. C’è solo un vuoto dappertutto: in me, nella città, nel Cantiere. Ernesto, Amelio, i miei compagni, la famiglia operaia. Non è rimasto niente, niente!, non riesco a darmi per vinta. Anna ti voglio domandare una cosa.
– Dimmi Evelina.
– Tu credi che qualcuno un giorno scriverà la loro storia?
E ripeté le ultime parole scandendo le sillabe:
– An-na, qual-cu-no scri-ve-rà la lo-ro sto-ria?
Anna si volse malinconica verso Evelina. Il suo dito seguì per qualche istante i cerchi bluastri che le contornavano gli occhi. Il sorriso le si smorzò quando ripensò alla pena che l’affliggeva. Passò con lo sguardo anche sopra il suo corpo affaticato: i fantasmi del dolore avevano già iniziato una metamorfosi, e stavano trascinando Evelina verso un altrove psichico dove a chiunque era vietato raggiungerla. Facendosi forza, iniziò a spiegarle con dolcezza:
– Oh, mia cara Evelina… la storia dei poveri diavoli non è mai interessata a nessuno. Tranne che… come la chiamava una volta il tuo Ernesto? La famiglia operaia? è proprio così: la storia dei vincitori diventa la storia ufficiale, e viene riconosciuta e appresa come l’unica verità. Se la casta di coloro che detengono il potere potesse rispondere alla semplice domanda dell’uomo del popolo, che chiede solo il necessario per vivere e crescere i propri figli, allora sì, le cose potrebbero cambiare… questa microscopica domanda diverrebbe simile ad una pallina di ferro, farebbe incastrare e saltare di colpo gli ingranaggi del sistema capitalista… Ma non succederà…
– Anna, adesso stai parlando proprio come Ernesto, lo sai? Quello che dici è sacrosanto. è così che è nato il suo sentimento.
– Sentimento?
– Sì. Il sentimento di amore e responsabilità verso gli esseri umani più poveri.
– E verso di te?
– L’amore non è solo quello tra uomo e donna.
– E chi te lo dice?
– Ernesto, di notte…
– D’accordo Evelina. Sulla grande storia siamo intese, – disse Anna cambiando tono. Per un attimo ansimò. Quindi si girò di scatto, e afferrandola decisa per le spalle la scosse con energia. Per la prima volta si sentiva precipitare verso il panico. Alzò la voce: – Devi cercare di reagire alla tua storia personale, cercare di dimenticare sia questa faccenda della Settima Federativa sia Ernesto! Mettiti in testa che lui è lontano oramai, troppo lontano. Tra voi due ci sono chilometri e chilometri, difficili da valicare. è dentro un’altra vita, dove tu hai l’importanza di un granello di polvere riflesso dalla luce. Quale sortilegio ti ha invischiata a tal punto dentro il suo ricordo?, devi liberartene Evelina!, ti prego, fallo per me!, ti scongiuro!
– Magari ci riuscissi Anna. Non posso. è come se lui mi avesse dato un compito.
– Aiutare gli oppressi?
– Forse. Comunque non mi puoi capire.
Anna si era sempre reputata una donna forte. Quella situazione, però, aveva finito per crocifiggere anche lei. Era sempre riuscita a penetrare negli angoli più nascosti dei pensieri dell’amica, invece adesso rimproverava se stessa, per non aver saputo distoglierla da quell’ondata di fantasticherie che le stava invadendo l’intero spazio mentale. Proprio in quel frangente si sentì complice del delitto che Evelina stava tramando contro di sé, e che avrebbe potuto auto avverarsi come una funesta profezia. Quella notte Anna le si stese vicino e le pose la testa sopra la spalla. Era diventata una chioccia, che, in allarme, vuole proteggere il proprio pulcino. Con una mano la cullò, con l’altra invece si apprestò ad asciugarle le lacrime che, senza interrompersi, stavano formando un’umida chiazza sopra le lenzuola.

***

Bosnia, aprile 1948

Arrivò la primavera, il tempo prolungato del chiarore aveva iniziato ad allungare le giornate sulla vasta pianura. Le piogge erano frequenti, e gli abitacoli, che trasudavano l’umidità da oltre le mura, mandavano un acre odore di muffa. L’acqua scrosciava sopra il tetto delle baracche, e quando il cielo si illuminava per i lampi e per i tuoni coprendo ogni altro rumore con il suo frastuono, i pionieri dovevano alzare di più la voce. L’elettricità scatenata dal temporale li faceva subito litigare. Se il lavoro terminava, invece, i giovani serbi, bosniaci, montenegrini, croati, sloveni, ritornavano bambini. Così, alle volte passavano il resto del tempo inventandosi giochi, e quando uno scherzo andava a segno iniziavano a ridere tutti insieme, senza riuscire a smettere di sghignazzare. Dalle cucine il forte odore dello stufato di cavolo si effondeva fin dentro gli stanzoni, e portava con sé la dolce rassicurazione dell’abitudine. Un montenegrino e un croato spesso invitavano il resto del gruppo a danzare il Kolo. Passandosi il fazzoletto di mano in mano giravano in cerchio. Prima lentamente, poi, con passo sempre più veloce, aumentavano il ritmo del movimento. Mentre appoggiavano le braccia sulle spalle dei compagni lanciavano euforiche grida, piangevano, ridevano, si avvinghiavano l’uno all’altro con maggiore tenacia. Alla fine, un unico cerchio compatto e indivisibile ruotava sulla landa giallastra. I corpi distinti si erano uniti per far nascere una creatura nuova: la famiglia dei popoli. In un angolo era seduto anche un vecchio ebreo sefardita. Farfugliava strane preghiere, guardando l’immaginetta del rabbino alla festa di Sukkot, e tirava nella pipa con la foga di un dannato. Altri quattro giocavano a briscola parlando di donne. Un mattino, uno dei giocatori, il croato, insultò l’italiano. Lo sloveno che gli stava accanto prese le sue difese. Lanciò le carte per aria sparpagliandole con rabbia sopra il tavolo. Subito il croato ammutolì. Atef, il giovane musulmano, aveva steso il suo tappeto colorato per terra per recitare le preghiere rivolto verso la Mecca. Dalla sua direzione veniva una nenia solitaria, che rimbombava e poi perdeva a poco a poco il suono nella landa:
– Allâhu Akbar, Allâhu Akbar Allâhu Akbar … – e ancora – …ashadu lâ ilâhâ illâ Allâh, ashadu lâ ilâhâ illâ Allâh…”
Atef andava a mangiare alla mensa che, per quelli della sua religione, aveva allestito la brigata bosniaca. Qui non c’era mai la carne di maiale né il prosciutto, né l’alcool che lui aveva sempre evitato come il diavolo. Quando iniziava il mese del Ramadan, sebbene facesse più fatica a lavorare con lo stomaco vuoto, Atef non cedeva mai. Se un compagno gli metteva di fronte alla bocca un panino, chiedendogli: “Ehi, ti va un morso?,” egli voltava la testa in segno di diniego. Vivendo con i suoni delle preghiere il suo udito si era fatto più fine. Riusciva persino a captare i commenti che gli sussurravano alle spalle:
– Ditemi voi?, perché il Padre Eterno a noi cristiani non ci fa mangiare carne solo il venerdì di Quaresima, e questo povero disgraziato lo fa digiunare tutto il santo giorno per un mese intero?
– Un perché ci sarà!
Ribatteva Atef a voce alta. I pionieri, allora, si giravano verso di lui fissandolo in colpa, imbarazzati per le parole pronunciate. Lo conoscevano bene e stimavano la sua fedeltà. Quando, prima di iniziare una nuova fase del lavoro, recitava sommesso: “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso,” si facevano il segno della croce in segno di solidarietà. Le sue costruzioni crescevano pietra dopo pietra, ben saldate l’una sull’altra con l’impasto in calce che lui assaggiava, giudicando, dal sapore che gli rimandava in bocca l’intruglio, il grado di resistenza e di presa dell’opera che si alzava verso il cielo.

***

Un gallo rosso vermiglio, appollaiato sopra la baracca, al mattino salutava l’alba con un verso squillante. Ernesto lo guardava da sotto il tetto, dopo essersi alzato pieno d’allegria. Amelio, invece, osservando l’amico rimaneva perplesso: Ernesto non protestava mai di doversi lavare con l’acqua giallastra del fiume Bosna, di dover mangiare dal barattolino di latta tagliato in due. Ogni santo giorno, tornava a prelevare il materiale ghiaioso dal letto del fiume e a trasportarlo sul terrapieno. Spingendo il carretto sulle rotaie cantava canzoni partigiane: “Fischia il vento, soffia la bufera…”. E con lui c’era fisso uno sloveno, che nel seguirlo ci dava dentro con le note: “Na juriš, na juriš na juriš…”
Amelio, guardandoli, tornava indietro negli anni del ’44, quando in fabbrica, insieme ai compagni sloveni, aveva organizzato la Delavska Enotnost, l’Unità del lavoro. Indietro, più indietro, quando aveva combattuto la battaglia di Gorizia nella Brigata Proletaria. Quando la loro parola d’ordine era stata fratellanza. Fratellanza? Cosa significava adesso questa parola? Alle volte Amelio lo chiedeva ancora ad Ernesto, rivolgendogli altri perché. Lui però non gli rispondeva più. Si allontanava con uno sguardo severo che gli faceva montare la rabbia in corpo. Però Amelio non smetteva di assillare la propria mente. Fino a che punto si era attorcigliato sopra la sua nuova identità Ernesto?, e perché, adesso, viveva l’amicizia come una minaccia? Loro due avevano diviso l’intera infanzia, perciò la sua indifferenza gli risuonava fasulla. “Tradimento, sì,” pensava tra sé Amelio, “tradimento!”. C’era una crepa sopra il muro portante dell’idea, quella che li aveva spinti a partire. Era come se lui l’avesse già intravista. La sentiva scricchiolare dentro di sé, la percepiva nei più piccoli indizi. “Sì,” concluse con amarezza, “saremo trascinati via, verso un destino contrario alle nostre aspettative. Qualunque sia la grandezza di un’idea, gli uomini dovrebbero rimanere esseri umani.”

***

Ernesto marciava dritto e sicuro di sé. Un vero soldato. Il lavoro di costruzione della ferrovia lo entusiasmava. Il suo pensiero si erigeva sopra la landa di fango, e volava già verso l’opera di ferro e di metallo che, insieme al divenire del progetto, avrebbe trasportato avanti anche il significato del suo viaggio. A lui sembrava che il treno fischiettante corresse già veloce sopra le rotaie. L’acqua della pioggia, il fango argilloso giallo chiaro che gli invischiava gli scarponi, il sole battente, il vento che gli incartapecoriva la pelle, non fiaccavano mai il suo impegno. Il suono delle seghe, il battito dell’incudine, il rumore dei motori, i bagliori delle lampade ad acetilene, le grida di rinforzo che si scambiava con gli altri per assemblare i pezzi… alla fine della giornata lo portavano dritto ad uno stato felice dell’anima. Appena terminato il turno, si aggirava in silenzio tra i letti dei compagni che giacevano ammalati a causa del cibo avariato e del freddo. Lui spezzava i sulfamidici, appoggiava pezzuole inumidite d’acqua sopra le fronti madide di sudore per la febbre. Rimaneva seduto accanto ai più giovani per ore, finché essi non si tranquillizzavano e prendevano sonno. Alla sera, nella catapecchia del dormitorio, si metteva disteso con i fogli di giornale infilati tra la canottiera e la camicia, e con in testa il cappello di pelle d’orso. Dopo qualche minuto si addormentava. L’ addio definitivo che Ernesto aveva dato in Bosnia alle cose materiali e agli attaccamenti dell’ego, pareva averlo condotto anche ad una diversa interpretazione degli affetti. Una realtà più sacra e profonda era emersa dal fango del Bosna: la comunione con gli uomini e la condivisione quotidiana del lavoro.

***

La radio scalcagnata del capannone gracchiò:
– Oggi, in data 28 giugno 1948, trasmettiamo la Risoluzione del Cominform. È la scomunica ufficiale del socialismo jugoslavo da parte degli altri partiti comunisti. L’URSS sospende ogni collaborazione economica, e condanna ufficialmente i comunisti jugoslavi, accusati di deviazionismo e di collusione con l’imperialismo!
La parola Cominform rimbombò come un tuono. Tutti la ripetevano a voce alta cercando di catturarne il significato:
– Cominform!, Cominform!
Atef si levò di soprassalto dal tappeto. Bloccò i movimenti lenti della testa che un attimo prima stava ciondolando avanti e indietro.
– Cos’è Cominform? – chiese preoccupato.
– Sarà una nuova epidemia, – gli rispose sicuro di sé un montenegrino scuro di capelli, mentre tamburellava i polpastrelli delle dita per terra.
– è come il colera? – riprese Atef – o forse è Dio che ci punisce?
– Se Dio vuole punire – continuò il montenegrino – che vada a punire i padroni, che vada!
– Sì, punirà i padroni!, – esclamò Atef levando gli occhi al cielo – non noi. Noi qui siamo tutti fratelli…

***

Il refettorio era deserto. Amelio entrò e si mise a girovagare tra i tavoli confuso. Due donne parlottavano tra loro:
– Dai bella!, tira giù sto’quadro!
– Come parli compagna!… fino a ieri gli portavi i fiori, gli accendevi lumini di sotto… gridavi viva Tito, viva Lenin, viva!
– Anche viva Stalin gridavo.
– Zitta!, che se ci sentono poi dicono che stiamo con la Russia. Tira giù che è meglio!, che se ci trovano con questo Stalin tra le mani per noi finisce male.
– Ahimè, ci mancava solo questa! Dimmelo tu, adesso… dove lo metto sto’ Stalin? Giù in cantina? Buttarlo via di certo non lo butto. Sarebbe come buttare il pane. Non si fa.
– No, di sotto in cantina lo troverebbero di certo!…
– Dietro le botti?
– Stalin dietro le botti?… mi piange il cuore!
– Avanti, dammi una mano e asciugati le lacrime, mettiamolo a faccia contro il muro dietro le botti, lì la polizia politica non ci metterà il naso!
– Ohoo… issa!, quanto pesa!
– Fatta. Sì,… e i segni sul muro?
Le due si scambiarono un’occhiata complice:
– Ehi tu, giovanotto! – esclamarono le donne rivolte ad Amelio – tu che sei un uomo!, ci vieni ad aiutare invece di star lì a sognare e a non far nulla? Dai una mano di bianco qui sul muro per favore!, dove ci sono i segni del quadro, … Ehi!, ci senti bel biondino?

***

Un giorno accadde qualcosa che mutò l’umore di Amelio. Lui ed Ernesto furono richiamati a Fiume, al Cantiere 3 Maj, dove serviva mano d’opera specializzata. Per tutto il viaggio in camion Ernesto dormì. Amelio invece si lasciò andare ai ricordi: Monfalcone, Anna, Evelina, il Carso. Non capiva più quanto tempo era passato. “Chissà che giorno è? E a Fiume cosa ci accadrà ancora?,” si chiedeva. “Ritroveremo i compagni di Monfalcone? E il Cantiere 3 Maj, distrutto dai bombardamenti della guerra?, lo sapremo ricostruire? Sapremo ancora fidarci l’uno dell’altro?”.

***

Fiume gennaio 1949

L’atmosfera caotica dei grandi porti avvolgeva la città: le gigantesche navi mercantili si stagliavano come giganti sopra il mare. L’Adriatico schioccava le onde sopra le banchine, sollevando bianchi spruzzi e liberando un forte odore di salsedine, catrame, carbone, cibo andato a male.
I due si diressero verso il porto, e giunsero infine al Cantiere 3 Maj. Alcuni monfalconesi li stavano aspettando. Amelio percepì subito l’atmosfera elettrica: sguardi di reciproca diffidenza volavano nell’aria per indagare le intenzioni. Alla fine, la voce di una donna risuonò. Prima flebile e incolore, in seguito sempre più vigorosa e forte:
– Compagni, prendo la parola a nome di tutti: Benvenuti a Fiume! I turni sono dalle sei alle quattordici. Stiamo ricostruendo il Cantiere 3 Maj dalle macerie, perciò il nostro motto è: uno per tutti e tutti per uno!
Un giovane italiano muscoloso tirò fuori una vecchia copia dell’Unità. Cominciò a leggere l’articolo ad alta voce:
– Qui si parla chiaro! – e diede una pacca con la mano al giornale – il Partito Comunista Italiano ha firmato la Risoluzione. Qui è scritto che lottare contro la cricca di Tito è oramai il dovere internazionale dei partiti comunisti! Noi rappresentiamo il vero socialismo, è nostro dovere smascherare la cricca di Tito e il socialismo falso.
– Socialismo vero? Socialismo falso?, – cantilenò un giovane operaio con aria dimessa. Mentre parlava muoveva su e giù le braccia, preoccupato – e quale dei due protegge i lavoratori?
– Socialismo vero? Chissà? – Aggiunse una donna stringendosi nelle spalle. Mentre parlava le scendevano giù copiose lacrime. – Ieri però una nostra compagna se n’è andata. L’ho accompagnata io fino al vagone in partenza.
– Perché se n’è andata?, – chiese Amelio.
– Perché ha avuto paura. Ricordo ancora adesso le sue parole…

***

– Perché ho preso il treno per l’Italia?, ti chiederanno gli altri… Perché ho saputo del Cominform!, mi sono detta: qui mi toccherà scappare!
– E ai tuoi colleghi hai pensato?, – le dissi – gli avrai spezzato il cuore…
– Sono andata al Cantiere per un ultimo abbraccio. Le guardie militari non mi hanno fatta passare. Che fitta allo stomaco! Ero addolorata perché lasciavo la mia grande famiglia. Ma ho avuto la prova del loro affetto: li ho ritrovati tutti qui alla stazione di Fiume alle quattro di mattina, erano venuti a salutarmi, non ne mancava nemmeno uno…
– Nemmeno uno?, – le chiesi.
– No. Eravamo fratelli.
– Mi piange il cuore ma torno in Italia, ho tempo per morire. Voglio sposarmi, avere dei bambini.
– E loro?
– Mi hanno cantato una canzone.
– Una canzone?
– Sì, una canzone: ‘Compagni, avanti! Il gran Partito, noi siamo dei lavoratori. Rosso un fiore in noi è fiorito, e una fede ci è nata in cuor. Noi non siamo più nell’officina, entro terra, nei campi, al mar, la plebe sempre all’opra china, senza ideale in cui sperar. Su lottiam! L’ideale nostro alfine sarà, l’Internazionale, futura umanità! Su lottiam! L’ideale nostro alfine sarà, l’Internazionale, futura umanità…’

***

Ernesto ascoltò in silenzio, si tirò su le maniche e si confuse tra la gente. Amelio invece uscì dirigendosi verso la città, per sgranchirsi le gambe lungo i viali alberati, e fare dentro di sé il punto della situazione.
Una figura, che avanzava dalla parte opposta della strada, riuscì a scardinare di colpo la griglia nera attraverso la quale si era abituato a filtrare la percezione del mondo. Quasi stentava a riconoscerlo dopo tanti mesi di lontananza da Monfalcone. Non voleva crederci. L’uomo, avvicinandosi sempre di più, delineò la propria fisionomia. Amelio lanciò un grido. Un sorriso, che gli scoprì le gengive rosa, gli dipinse il volto:
– Ehi tu! Fermati!, sei proprio tu?, sei Beppe Rosso?
L’altro si fermò paralizzato. Si mise le mani sopra i capelli, sporse il viso in avanti. Amelio cominciò ad agitare le braccia come un naufrago. Allora con una grande rincorsa Beppe Rosso lo raggiunse e lo abbracciò stretto. Qualche secondo bastò perché entrambi singhiozzassero avvinghiati come due bambini. Amelio balbettò:
– Beppe Rosso, da dove sbuchi?
– Ho lavorato per lunghi mesi al cantiere 3 Maj. Oh, Amelio!, mi mancavi!
– Rosso!, anche tu!
– Che gioia rivederti! Come ti è andata?
– Da Dio, almeno i primi tempi. Altro che al Cantiere di Monfalcone, qui c’era più libertà. Sì più libertà! Potevi fumare, non c’era il guardiano che ti dava la multa. Potevi andare in bagno, non eri controllato. Non c’erano i tempisti, con l’orologio in mano a contare i pezzi che facevi. Ci hanno fatto i corsi per imparare un mestiere, qui si lavorava e si andava a scuola a studiare il croato. Ci lodavano: “I Mistri di là, i Mistri di qua, i Mistri sono i più bravi!…”. Nella città deserta ci siamo scelti una casa e siamo andati ad abitarci. Finalmente con il bagno dentro e il giardino fuori, non ci sembrava vero!
– E la domenica?
– La domenica c’era il lavoro volontario: si partiva in marcia facendo il giro della città, con la bandiera in testa e la fisarmonica che intonava Bandiera rossa. La gente ci buttava fiori. Ci chiamavano i premiati del lavoro. E guadagnavamo bene, altroché Italia! Spedivamo i soldi a casa per far mangiare i figli. I compagni sloveni avevano la lista con i nomi delle nostre famiglie. Partivano con una ditta di Osoppo che trasportava legname, e in Italia cambiavano i dinari in lire e spedivano i vaglia ai nostri cari. Sì!, allora era bella la vita! I contadini venivano a portarci un po’ di verdura, uova, salame quello che potevano dai paesi, festeggiavano con noi il tetto nuovo, le nascite, i matrimoni. Ci portavano la grappa. Andavamo d’accordo, italiani e jugoslavi, fino a…
– A quando?
– Fino al Cominform. Siamo riusciti a leggere la notizia della Risoluzione sull’Unità, e dopo qualche giorno non ci è più arrivata nemmeno quella. Poi c’è stato il buio, il disastro. Dopo la gente ha iniziato a guardarci storto. “Voi non siete con Tito!,” gridavano… e giù con gli insulti e le sassaiole. E noi che siamo stati sempre comunisti, del Partito Comunista della Venezia Giulia, noi che avevamo creduto di poterci fidare dei compagni jugoslavi. Invece… una tragedia! All’improvviso non c’era più niente da mangiare, niente! Solo brodo di dado con qualche grano d’orzo bollito. Le famiglie dei cominformisti di colpo private delle tessere, si sono ritrovate alla fame. Ho dovuto ricominciare con le collette per aiutare i miei compagni, come facevo per Soccorso Rosso a Monfalcone. Non è stata una disgrazia per tutti… lo sai chi ho incrociato?
– Chi? – gli chiese Amelio, mentre continuava a tenere strette le mani tra le sue, anzi a stringergliele in una morsa a tenaglia. – Uno dei nostri compagni di Monfalcone forse?, chi?
– Piero. Saputa la notizia dello scisma tra Stalin e Tito si è subito convertito alla causa dell’Anticominform. Era ingrassato, ben vestito. Mentre i nostri alle mense riuscivano a malapena a trovare i viveri per rifocillare i lavoratori del Cantiere. Il mercato cittadino mancava di tutto, gli uomini andavano avanti con un pezzo di pane lavorando dieci ore al giorno. E lui invece…
– Tu cosa ne pensi Rosso? Piero? Mi stupisce. Non ha mai fatto parte della rete degli informatori della direzione. Non è mai stato uno spione doppia busta.
– Mhm… questa faccenda mi puzza. Ho paura che si sia compromesso con la polizia politica, che sia diventato un delatore. Comunque ti do un consiglio Amelio: se incontri i vecchi compagni, non fidarti più di nessuno. Non dirgli niente della tua posizione rispetto al Cominform. La fame fa brutti scherzi. Niente di niente, mi hai capito? Parla del tempo, delle donne, di quello che ti salta in mente…Mi sa che adesso la polizia politica indice le riunioni apposta per farci parlare, magari con la scusa di procuraci i passaporti, poi invece se ne approfitta per prendere nota dei nomi dei cominformisti. Sono iniziati i processi… Siamo spiati!
I due si sedettero su un muretto. Amelio teneva la testa appoggiata sulla spalla di Beppe. La voce gli tremava.
– Non posso credere che Piero si sia messo contro i suoi stessi compagni. Proprio lui, che durante la prima guerra venne arruolato nell’esercito austriaco. Lui, che fatto prigioniero dai russi partecipò alla Rivoluzione d’Ottobre. Aveva visto. Aveva imparato. Conosceva la forza della nostra idea. Non fu Piero che nel ’20 insistette per allontanare i militari durante il varo del piroscavo Vittoria? Che lo imbandierò con mille vessilli rossi? In fondo fu ancora per merito suo, che, invece di festeggiare la vittoria dell’Italia, celebrammo la vittoria della rivoluzione russa del ’17, proprio sul Vittoria. Ahimè!, perché Piero ci tradisce?
Il Rosso appoggiò a sua volta la testa sulla spalla di Amelio. Si massaggiava il mento verso gli zigomi, storcendo le labbra. Gli parlò con il miele in bocca.
– Amelio, anche se l’idea della fratellanza è assoluta, l’essere umano è fragile. Piero comprato? Sì, forse… come potremmo esserlo tutti… servirebbe uno sforzo di progressione spirituale perché la società abbandoni l’istinto al lucro. Se solo riuscissimo a liberarci… a lasciar perdere l’attaccamento alle cose… se riuscissimo a diventare fratelli, veri fratelli, a non dire più: “ Questo è mio!”. Allora sì che il dolore potrebbe andarsene dalle nostre vite. Questa sarebbe la libertà… la vera libertà! Se l’essere umano declina la propria responsabilità verso gli altri, alla fine l’intera società declina. Restiamo divisi. E in questa divisione il diavolo scava la sua fossa. Se non lo capiamo non verremo mai fuori da questo marasma storico. Né tu, né io, né Piero. Lo vedi? Adesso Piero pensa solo ai suoi tornaconti personali. Eh sì, sono cambiate tante cose rispetto a quando stavamo a Monfalcone, nella nostra Piccola Russia…
E il Rosso tirò fuori dal suo tascapane di stoffa grezza una vecchia foto sgualcita: dietro alla cavità convessa della poppa di una nave, c’erano cinquanta uomini in tuta da lavoro, arrampicati attorno ad un timone a piedi scalzi. Il Rosso si distingueva tra le figure davanti: le braccia piegate sui fianchi, il berretto di traverso. Amelio era seduto all’indiana su una lamiera, si stringeva le ginocchia tra le mani. Ernesto, invece, si era arrampicato nel punto più alto e pericolante. Si vedeva che ce la faceva a restare in piedi senza appoggiarsi a niente, sovrastando il resto del gruppo. Sorrideva per la conclusione felice del lavoro.
Al Rosso si inumidirono gli occhi. Prima di parlare tirò un sospiro e ricacciò dentro un rigurgito di amarezza.
– Eh… dimmi, Amelio, la riconosci questa foto? Guardala bene! Questa nave l’abbiamo messa insieme noi, pezzo per pezzo, lavorando in squadra con il sudore della fronte. A Monfalcone. La prossima volta che ti viene la malinconia, caro amico, ricordatela! La nostra idea non è ancora morta: noi siamo tutti fratelli!

***

Una falce di luna d’argento iniziava già a brillare nel cielo… il Rosso canticchiava, l’eco del suo spirito ribelle risuonava nell’aria. Finché aveva rotto il silenzio, e, alzandosi di colpo, aveva chiesto all’amico: “Dimmi Amelio, quanto a donne come stai?”. Amelio gli aveva risposto arrossendo un pochino: “Male, molto male.” Il Rosso aveva fatto schioccare una mano sul palmo aperto dell’altra. Tirata fuori dalla tasca un’agendina spiegazzata, gli aveva chiesto sfogliando le pagine ingiallite: “Cosa preferisci Amelio, bruna o bionda?”. Amelio era imbarazzato: “Beppe, se nemmeno la conosco… come posso?…”. A quella risposta il Rosso si era infastidito. Aveva replicato dandogli uno spintone: “Amelio, fammi il piacere!,… allora? Non farmi perdere tempo, ti prego!”. “E sia!,… bionda!”. Gli aveva risposto Amelio facendosi coraggio. Però aveva aggiunto nervosamente: “Spiegamelo tu: cos’è l’amore?…”
Punto sul vivo il Rosso aveva iniziato a saltellare: “L’amore! L’amore! Senti questo!, – urlava come un pazzo – altro che domande sul socialismo!, adesso mi chiede cos’è l’amore!”. Si ricompose a malapena. Grondando di sudore disse:
– è un enigma Amelio.

– è sacro Amelio.

– è il nostro sé profondo.
– E le donne… chi sono?
– Le levatrici dell’anima nostra, lo spirito dell’uomo che si fa carne nella donna.
– Perché?
– Devi essere più umile Amelio. Basta perché!
Così lo aveva consigliato il Rosso. E immediatamente si era dato da fare, facendo in modo da organizzargli un appuntamento. L’aveva salutato allegramente, con un: “Vai, Vai! E ricordati che persa la Regina, è persa la partita!”.

***

Nella testa di Amelio si stava prefigurando una sequenza vincente: primo, scambiarci due parole, terzo, invitarla a passeggiare, e, mossa vincente… dare subito inizio ad uno stretto corteggiamento, condito con paroline dolci e tenerezza. “Quando sarò con lei non dovrò esagerare con i miei soliti perché”. Così andava ripetendo a se stesso la lezione, e, per l’immagine di lei, stava lanciando una sfida ai suoi demoni più ostinati. La sola possibilità di averla di fronte a sé aveva già la facoltà di consolarlo, di farlo riaffiorare dalla melma psicologica nella quale era sprofondato, di riportarlo alla normalità della vita. Il suo stato di deprivazione affettiva era talmente disperato, che si sforzò di assumere la posa del maschio seduttore. Invece sentiva una morsa in gola: “Maledetta solitudine!,” pensò, “e benedette siano le donne!”. Adesso avrebbe voluto amarle tutte quante le donne, una alla volta però, come faceva il Rosso, per non farle ingelosire. Il Rosso… Amelio non riusciva spiegarsi in che modo ce la facesse a far resistere il suo cuore malato durante gli incontri amorosi. Dopo pensò solamente alla biondina, e già si andava esaltando, immaginandosi di ritornare con lei in Italia, a Monfalcone, a dorso di un cavallo d’argento.

***

Infine lei gli apparve. Bionda, così bionda che pareva una tedesca. Era là, sorridente, come un angelo venuto giù dal cielo. Ma l’incanto si ruppe veloce come era iniziato. Amelio sentì un rumore di passi scanditi dietro le sue spalle e si rese conto di essere seguito. Due sgherri gli stavano dietro.
– Fermo!, – gli sgolò un baffuto in divisa.
– Sporco Rosso!, ti abbiamo beccato finalmente! – gli urlò l’altro.
Uno di loro gli puntò la pistola alla tempia, sbraitando frasi incomprensibili in croato. Amelio ebbe appena il tempo di avvertirla: “Scappa donna!, Vattene!,” che si trovò in manette a bordo di un camion, in direzione del carcere di via Roma. All’ufficio accettazione i poliziotti gli annotarono il nome sul registro e gli vuotarono le tasche dagli oggetti. Saltò fuori uno scacco del Rosso. “E questo?,” gli domandò lo sbirro infuriato. “è la regina,” rispose Amelio “è del mio più caro amico.” I poliziotti si scambiarono uno sguardo d’intesa: “Tienitela pure, ci giocherai stanotte…”. Lo rinchiusero in una cella umida. Amelio non fece resistenza. Il suo corpo, però, iniziò a tremare. Era un’altra volta da solo. Di nuovo sopra un tavolaccio, duro come la realtà che non si vuole vedere. Grossi ratti correvano veloci da un muro all’altro. I muri stillavano un miasma acre di muffa, un pungente odore di fogna veniva su dai tombini. Lo sportellino si apriva sulla parte superiore della porta. I secondini gli passarono una gamella di minestra. Ristretto nel buio della prigione, Amelio si rese conto dell’unica arma che gli era rimasta. Il Rosso gliela aveva saputa regalare. “La fede, la fede,” continuava a ripetersi, “solo la fede può accendermi una piccola luce in questi due metri.”. Diede un calcio secco alla chibla e arrotolò la coperta.

***

La follia stava arrivando per dargli una mano a sopravvivere. La coperta… la ragazza… il Rosso… Strusciò il viso sulla ruvida lana grezza, e abbracciò quella maleodorante coperta come fosse la fidanzata bionda che aveva avuto voglia di conquistare. Ora non si ricordava più nemmeno il suo nome. Restò a pensarci su per qualche secondo. Ebbe un dubbio… gli sembrava che, nell’elenco di donne dell’amico, lei si chiamasse Zora. “Sì!,” si consolò, “era proprio lei, Zora!”. D’incanto il suo corpo si liberò dal tremore. Avvinghiato alla coperta, nel buio pesto, Amelio invocava come un forsennato una certa Zora. Si girò e rigirò con lei per tutta la notte. Quella coperta marrone, raggomitolata e puzzolente, era diventata per lui un corpo reale di donna. La coperta… la ragazza… il Rosso… Adesso riusciva anche a sentire anche la sua voce melodiosa. Era lei? Zora? Gli stava rispondendo? Eppure lui riusciva a distinguere delle parole: “Amelio, sei il mio amoruccio, il mio orsacchiotto, l’unico tesoro della tua Zora…”. Gli sbirri continuavano a passare accanto alla cella. Con una sbarra di ferro davano giù colpi secchi alle finestre, intimando il silenzio. Vibrazioni metalliche ondeggiavano nell’aria.

***

Si fece mattino. Flebili raggi di luce si riflettevano sulle inferriate delle finestrelle scavate nelle mura, sul metallo della chibla nell’angolo. Il campanello elettrico trillò: fastidioso ronzio. Le guardie spalancarono la porta per passargli una tazza di caffè d’orzo e una tinozza d’acqua. Lo freddarono subito, con lo sguardo di chi ritiene di avere a che fare con uno scampato dal manicomio. Dopo l’occhiata di scherno richiusero la porta, che si serrò di colpo. Stridore di ferraglia. Amelio, con una mano teneva ancora stretta la coperta piena di pulci, con l’altra fissava la propria immagine rimpicciolita dentro la tinozza. Tentò di cancellarla muovendo l’acqua con un dito. Macché, restava là ad accusarlo. Pensò al lungo viaggio che insieme ad Ernesto aveva affrontato partendo da Monfalcone, alla loro buona fede e a come la vita li aveva separati. Alla fine si avvolse completamente nella coperta. E dalla lana uscirono tiepidi i ricordi della giovinezza.

***

Le baionette appoggiate al muro erano tirate a lustro e lampeggiavano. Dopo tre giorni gli ufficiali dell’Udba vennero a prenderlo e lo portarono in una stanza buia. Cominciarono a subissarlo di domande. Lui mormorava parole a stento, dentro gli si susseguivano violenti e rapidi perché. Gli avevano puntato la lampada dritta negli occhi. Amelio li teneva socchiusi, restando con una visuale a metà, diviso tra la violenza della realtà e il sussurro della fantasia amorosa rimasto nella celletta ad aspettarlo: Zora. Alla fine la forza bruta dell’interrogatorio ebbe il sopravvento e lo svegliò:
– Lei ha organizzato delle collette per aiutare le famiglie cominformiste! Lei si è comportato come a Monfalcone si comportavano i comunisti di Soccorso rosso! Confessi!
– Scommetto che questo è di Turriaco – sibilò l’altro ufficiale sgranando gli occhi deformati dagli spessi occhiali – i peggiori sono quelli di Turriaco!
Amelio rispose con calma serafica alle domande. Sia perché oramai si rendeva conto del fallimento totale del viaggio, sia perché riteneva di non avere più nulla da perdere. Spiegò di aver preso parte ai gruppi di lavoro. Disse che l’URSS rimaneva un baluardo invincibile, ricordò l’eroica resistenza del popolo sovietico contro l’invasione del fascismo tedesco e italiano, che aveva dato forza al movimento di liberazione intrapreso dagli altri popoli. Si liberò del proprio rancore, urlando sopra quei musi duri la mancanza di comprensione che c’era stata nei confronti dei lavoratori di Monfalcone.
– Con quale coraggio potete definirci bande di sabotatori? Noi siamo operai che abbiamo lasciato le nostre case in Italia per venire a costruire in Jugoslavia il socialismo. Siamo comunisti, ma non c’è nessun sabotaggio, non siamo organizzati. Noi abbiamo aiutato con le collette le famiglie italiane perché voi le avete messe alla fame e private delle tessere, solo perché non hanno condiviso le vostre idee sulla Risoluzione del Cominform!
I due, però, non lo ascoltavano nemmeno. Continuavano a gridare :
– Bandito! Nemico del popolo! Comunista!
Alla fine lo riportarono in cella. Amelio si accasciò ancora una volta sul tavolaccio, abbracciando disperato quella coperta che oramai era la sua salvifica compagna: Zora. Quella notte le cimici gli morsero la pelle, e lui pensò che si trattasse del solletico scherzoso della biondina uscita magicamente dalle scorte di donne del Rosso. I morsi si fecero più violenti. Allora gli tornò alla memoria la caserma Piave di Palmanova, dove solo grazie all’incoraggiamento dei partigiani sloveni era riuscito a sopportare, e far sopportare, le sofferenze che gli erano state inflitte durante gli interrogatori e le torture, e dove aveva spezzato, insieme a coloro che aveva chiamato fratelli, anche il più piccolo pezzo di pane per tamponare i morsi della fame. Lì aveva inumidito con la saliva le labbra tumefatte dei compagni, con loro aveva combattuto, con la speranza che i loro sacrifici sarebbero serviti a costruire una futura società di esseri umani in pace.
Uno sbirro in divisa si avvicinò per fargli firmare la deposizione. Subito dopo gli spalancò la porta del carcere.
– Vattene!, sei libero. Se te ne torni subito in Italia sarà meglio per te. Questa faccenda del mondo nuovo mi sa che te la sei inventata. Vattene bugiardo!, e non tornare mai più!
– Posso portare via questa coperta? Si chiama Zora!
– Matto di un comunista! Questa coperta appartiene al patrimonio del carcere!, – urlò la guardia fuori di sé dalla rabbia. – E adesso… Fi-la-re!, – gli ringhiò l’altro aguzzino carico di livore.
Amelio iniziò a correre a perdifiato. Un unico pensiero gli martellava la mente: il destino del suo amico Ernesto, e la speranza che esistesse ancora un’ultima possibilità di salvarlo da quella catastrofe storica. Fuori tutto era avvolto dal buio. Un cane gli passò vicino e annusò l’odore della ghiaia sulla strada. Sotto le sue zampe i ciottoli schioccavano, e facevano un rumore quasi impercettibile all’orecchio umano.
Passò un vecchio zingaro guidando un furgoncino scalcagnato. Frenò di colpo e gli chiese se voleva un passaggio. Amelio salì. E mentre lui gli indicava la strada verso casa, lo zingaro canticchiando gli passò una bottiglia di Pelinkovac.

Goli Otok

***

Amelio cercò Ernesto, finché lo trovò in un’osteria vicino al Cantiere che giocava a carte. Vide che era placido come al solito, che trasudava un’aria di tranquillità nella più totale indifferenza. Allora sbottò.
– Ernesto, ti devo parlare!
– Cosa c’è adesso Amelio? Sei diventato strano sai, non ti riconosco più!
– Io sono strano?, tu non mi riconosci?, ti sei guardato allo specchio? Ernesto, dobbiamo tornare in Italia… subito!, ho avuto una soffiata dai compagni cominformisti. Siamo in pericolo!
– Non tornerò più. Voglio restare qui, continuare a lavorare, a sperare. Qui ci sono i miei fratelli. Abbiamo combattuto insieme contro il fascismo, contro il nazismo. Abbiamo diviso il pane rinsecchito nelle carceri, le sofferenze bestiali degli interrogatori. Abbiamo combattuto la Battaglia di Gorizia. Uniti, contro i nostri persecutori. La nostra è stata una resistenza esistenziale, lo scopo di tutta una vita. E io adesso dovrei partire Amelio? Io non abiuro la mia fede. Io mi chiamo Ernesto, non Giuda.
– Ernesto, come fai a non capire?, tu non hai tradito nessuno. è il mondo che ci ha tradito. Siamo stati solo pedine sulla scacchiera dei potenti. Da quando siamo arrivati qui in Jugoslavia cosa è rimasto di noi?, di quelli che eravamo? Ci hanno messi gli uni contro gli altri. Hanno creato un partito parallelo di spioni, pronti a denunciare i loro stessi compagni cominformisti in cambio di trattamenti di favore. Siamo stati mandati qui allo sbaraglio, soldati comunisti spinti nella battaglia e abbandonati al loro destino.
– Parli come il Rosso.
– Ernesto, il nostro compagno di Monfalcone, Beppe Rosso, è stato ucciso quando ero in carcere. La polizia politica l’aveva arrestato pochi giorni prima di me, insieme ai suoi scacchi. Me l’hanno comunicato gli altri compagni detenuti, tramite l’alfabeto murario.
Amelio sudava, mentre parlava di fronte a lui come un forsennato. I capelli biondi incollati al viso. Lo spasmo che sosteneva per convincere l’amico era ai limiti. Non si voleva dare per vinto. Continuava ad incalzarlo.
– Sai come sono finiti quei valorosi comunisti che hanno speso la vita per combattere il fascismo già durante la lotta di liberazione? Sono nel carcere di via Roma, dal primo all’ultimo. Sono andati ad arrestarli. Loro gridavano: “Un mondo migliore è possibile!, è il mondo socialista!”
– Lo so.
– Beh, – gridò ancora Amelio – e sai anche che ne è stato di Andrea?
– Di che Andrea stai parlando?
– Andrea, quello che veniva da Cagliari, che ha combattuto volontario garibaldino in Spagna contro Franco. Quello che è stato partigiano, comunista, rivoluzionario di professione. Dicono che sia stato arrestato e deportato a Goli Otok.
– Sì, è vero.
– In carcere comunicavamo tramite l’alfabeto carcerario. Ernesto, ascoltami bene adesso, ti prego! Devi riuscire ad accettare che abbiamo fallito!, il nostro dovere era quello di rimanere a Monfalcone, di non sguarnire il Partito Comunista. Noi credevamo nella fratellanza universale, e con i compagni sloveni abbiamo combattuto per decenni. Però la nostra lotta non era impostata su basi nazionalistiche.
– Basta! Stai zitto! Non voglio ascoltarti. Non una parola di più. Non ti permetterò più di parlare così dei miei fratelli. è dal 1918 che subiscono le angherie di noi italiani. Lo sai cosa accadde a Trieste durante il ventennio fascista? L’incendio del Narodni Dom, l’italianizzazione forzata dei loro nomi e dei cognomi, la soppressione della stampa, il divieto di parlare nella lingua madre, l’internamento degli intellettuali… Nel ’30 quattro ragazzi sono stati fucilati a Basovizza, perché irredentisti. Nel dicembre del 1941 il tribunale speciale ha processato l’intero popolo.
– Ernesto! Noi non siamo rimasti fermi a guardare! Facevamo circolare l’Unità e raccoglievamo i soldi per Soccorso Rosso, per aiutare le famiglie degli antifascisti in carcere. Abbiamo fornito generi alimentari, bestiame, frumento, granoturco, pasta, scarpe militari, automezzi, vestiti e medicine a migliaia di partigiani del Carso. Alla fine del ’41, all’interno del Cantiere, c’erano già i terzetti del Fronte di Liberazione sloveno: raccoglievano contributi volontari, diffondevano il materiale di propaganda. Avevano il loro uomo di riferimento in ogni reparto: Mirko nel reparto edile, Albert nelle riparazioni ferroviarie, Alojz in quello metallico, Edo nei saldatori elettrici, Štefan nella ditta costruzioni. Facevano delle riunioni volanti, si accordavano per sabotare i macchinari e interrompere la produzione. Da dove viene adesso questo tuo senso di colpa?
è stato troppo poco. Noi italiani abbiamo dei grandi debiti morali. Nel ’41 abbiamo invaso la Jugoslavia e compiuto stragi inenarrabili. Abbiamo deportato bambini nei campi di concentramento di Rab e di Gonars, di Visco, di Monigo, di Chiesanuova, di Cairo Montenotte. A Trieste, nell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza di via Bellosguardo, la banda Colotti ha torturato gente innocente solo per il gusto vigliacco di istillare l’odio. E noi? Cosa abbiamo fatto per impedire che ciò accadesse? Amelio, io non voglio più vergognarmi di essere italiano.
– Amico mio, che queste vergogne escano alla luce è sacrosanto. Però io ti sto parlando di quello che sta succedendo qui, adesso, dopo il Cominform! Comprendo quanto credevi nella possibilità del socialismo, però adesso, stanno accadendo cose atroci!
– Lo so.
– Oramai ci accusano di numerose infamie. Per loro siamo diventati sabotatori, spie, opportunisti, cospiratori. Insomma c’è una valanga di imputazioni contro i cominformisti. Dalle ingiurie si sta passando alla repressione: molti compagni sono stati internati in Bosnia con le loro famiglie, altri sono stati deportati a Svet Grgur e a Uljanik vicino a Zara. Altri ancora nelle carceri dure di Sremska Mitrovica in Serbia, a Stara Gradiška e Bileća. A Goli Otok i deportati sono costretti a picchiare i compagni, proprio quelli con cui hanno fatto la Resistenza.
– Ti credo.
– Mi credi e non?… Dobbiamo preparare il tuo passaporto, bisogna aspettare un sacco di tempo per avere i documenti per l’espatrio.
– Ti ripeto che io rimango qui, non torno.
Amelio ammutolì di colpo. Pensò che, anche se erano partiti insieme, oramai erano diventati due estranei. Aggiunse ancora con voce strozzata:
– Sai che ti dico? Che da te me lo aspettavo, purtroppo. Ti conosco da troppi anni. Non sei mai voluto ritornare indietro nella tua vita. E quante volte mi hai fatto sentire solo.
– Potevi dirmelo.
– E a che cosa sarebbe servito? In questi mesi mi eri sempre vicino, e nello stesso tempo estraneo. Mi hai causato un grande dolore. Se non fosse stato per il Rosso… non so, non so…Non hai mai capito quanto ti sono amico. Ernesto, il Consolato di Zagabria ci ha già rilasciato dei passaporti. Nessuno va più a scuola di serbo croato dopo il lavoro, nessuno frequenta più le riunioni con il PCJ. Siamo diventati emigrati in un paese straniero. Allora, se ho capito bene non vieni?
– Noi non siamo vittime del mondo. Siamo persone che hanno fatto delle scelte precise, perché abbiamo creduto nel socialismo. – Biascicò Ernesto con gli occhi stretti.
– Ancora con il socialismo? Come vuoi, Ernesto, come vuoi. Sai come li chiamano quelli come te? I recidivi, gli irriducibili. Te la faranno pagare cara la tua idea del socialismo, è meglio che te ne renda conto. Tu sei così… ti comporti come non esistessero più gli altri e i loro sogni… eppure una volta ci chiamavamo fratelli…
– Cosa ne sai tu dei miei sogni?
Amelio sospirò con rassegnazione.
– Ernesto, il Rosso me lo ricordava sempre: non si lascia mai il re da solo. Perché mi vuoi costringere a fare una mossa sbagliata? Ti porteranno a Goli Otok. A Buccari, a bordo del veliero Punat, i posti per quelli come te sono già riservati. Allora Ernesto?, il tuo è un addio?
– Certo. De-fi-ni-ti-vo. Però, prima di andare, prendi questa!
– Cos’è?
– Una lettera.
– Per?
– Evelina.
– Evelina?
– Sì.
– Ernesto…
– L’amo.
– Tu?…
– Non mi chiedere perché adesso!
– Me la vuoi leggere?
– Non ho scelta.

“Cara Evelina, oggi mi sono sorpreso a pensarti. Dentro di me c’era la tua immagine che discuteva di nascosto dietro alla catena di montaggio, durante le pause pranzo, dopo il turno di lavoro. Che fissava di nascosto le mie mani. Che sventolava il fazzoletto in direzione del treno. La tua e quella di noi operai… Eravamo così bravi a costruire le navi e gli idrovolanti nel Cantiere di Monfalcone, di noi dicevano che facevamo le ali anche alle mosche!… Con quanta sincerità avevamo sperato in un mondo nuovo. Per questo abbiamo voluto spendere la nostra vita per lottare contro le ingiustizie e contro il fascismo, contro le sfruttamento dei capitalisti sugli operai, contro l’idea perversa che legittima l’esistenza di una razza umana superiore ad un’altra. Oltre a morire in fabbrica per le folgorazioni, gli incendi improvvisi, le cadute di lamiere, molti di noi hanno dato la vita per questo ideale. Abbiamo tanto lottato. Però quella volta era diverso, perché eravamo legati da una comune visione: uno per tutti e tutti per uno. Noi eravamo la classe operaia! Volevamo avere la possibilità di realizzare un mondo migliore, un mondo socialista. E io non ti ho mai ringraziato abbastanza. Perdonami se lo faccio adesso con questa lettera! Quante parole hai scritto per me e i miei fratelli, cara Evelina… lunghe file di parole su Marx, Gramsci, la Rivoluzione d’Ottobre. Le parole scritte sono come i sogni, ed è grazie a queste parole che noi due abbiamo sognato, amanti segreti l’uno all’altra. Così io avevo dipinto nel futuro della storia dell’umanità la mia famiglia internazionale, finalmente priva della prevaricazione dell’uomo sull’uomo, e tu ricamato per noi due un’unione indissolubile e sacra. Nelle tue parole ti ho conosciuta, ho incontrato il riflesso della tua anima. La mia, invece, è rimasta fredda e nuda, come l’isola dove mi porteranno. Nonostante tutto quello che sta succedendo, la mia visione non è mutata. E tu lo sai, perché mi rassomigli. Ci sono ancora tante cose che devo dire alla gente. Perciò, cara Evelina, ascoltami quando ti parlerò. Lo farò nei sussurri del vento, nel silenzio delle notti di plenilunio, con le frasi di chi, per caso, ti passerà accanto. Perché io ti cercherò ancora come non ho mai fatto prima, amore mio, per parlare agli altri attraverso di te, per dire ancora e ancora: “Qui noi siamo tutti fratelli!”.

 

Bibliografia

Galliano Fogar, ‘Quale storia’ n. 1, aprile 1993, Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra.
Andrea Berrini, Noi siamo la classe operaia. I duemila di Monfalcone, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2004 .
Marco Puppini, Costruire un mondo nuovo, Centro Gasparini, Comune di Monfalcone, ANPI, Monfalcone 2008.
Galliano Fogar, L’antifascismo operaio monfalconese tra le due guerre, Vangelista, Milano 1982.
– Trieste in guerra 1940-1945, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 1999.
Dunja Badnjević, L’isola nuda, Bollati Boringhieri 2008.
Luciano Patat, Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e sociale ‘Leopoldo Gasparini’ 2007, Fra carcere e confino. Gli antifascisti dell’Isontino e della Bassa Friulana davanti al Tribunale speciale.
Milan Pahor, Monfalcone nella lotta per la libertà, fatti salienti del periodo della lotta di liberazione nazionale (1941-1945), in: Sloveni nel territorio di Monfalcone, Comune di Monfalcone, Ottobre 2006.
Andrea Giuseppini, Il sogno di una cosa. Contadini e operai friulani e monfalconesi nella Yugoslavia di Tito, edizioni Il Narratore.
Marco Puppini, Il Mosaico giuliano. Società e politica nella Venezia Giulia nel secondo dopoguerra (1945-1954), Centro Gasparini 2003.
Pietro Gori, Addio a Lugano bella, gennaio 1895.

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