Lo storytelling è un’antica forma di comunicazione delle esperienze reali o immaginarie delle persone. Racconti letterari, opere teatrali, film e, più recentemente, sceneggiature televisive seguono alcuni schemi mentali e regole linguistiche comuni. Non solo siamo immersi in innumerevoli storie, ma siamo letteralmente “fatti” delle nostre storie bio-psicologiche, socio-economiche, culturali. Come esseri intelligenti abbiamo bisogno di storie, ma una storia esiste solo se la raccontiamo.
Sebbene le narrazioni più incredibili — da varie finzioni sociali o politiche a fantasiosi racconti religiosi soprannaturali — possano influenzare notevolmente la vita reale e il comportamento di persone di tutte le età, pochi considerano le cause biologiche più profonde della loro presenza e del loro potere senza tempo.
Nell’ultimo ventennio, però, le prime indagini scientificamente documentate hanno lentamente cominciato a farsi strada e sono proliferate le naturali interpretazioni razionali dei nuovi dati empirici, tentando di illuminare i meccanismi cervello-mentali fino ad allora inaccessibili e opachi della nostra predisposizione tipicamente umana e peculiare capacità di trasformare in narrazioni non solo ciò che sappiamo, ma anche ciò che ignoriamo.
Oggi, grazie alle nuove tecniche di imaging della struttura e della funzione cerebrale, stiamo iniziando a riconoscere le strutture cerebrali di base, ma anche i circuiti neurali che sono direttamente coinvolti e attivati ogni volta che ascoltiamo o raccontiamo una storia. Ed è stata davvero inaspettata e impressionante la scoperta sperimentale che, di regola, sono esattamente le stesse microstrutture e gli stessi circuiti neurali del nostro cervello ad essere attivati, sia che si tratti di una storia “reale” o completamente “falsa” e irrealistica.
Dentro il cervello di Homo narrans
Infatti, sia gli studi clinici neurologici pionieristici che le più recenti analisi neuroscientifiche di laboratorio hanno dimostrato, già all’inizio del 21° secolo, che le regioni cerebrali attivate per prime quando si racconta, si ascolta o si legge una storia sono la corteccia prefrontale mediale e laterale nello emisfero cerebrale destro. Sede della cosiddetta memoria dichiarativa (o memoria di lavoro), che contribuisce in modo determinante alle varie informazioni contenute in ogni narrazione acquistando coerenza e trama.
Per quanto riguarda l’esatta localizzazione topologica dei “centri” cerebrali coinvolti e attivati per l’assunzione, la comprensione semantica e l’analisi delle numerose ed eterogenee informazioni narrative inerenti a ciascuna narrazione, la ricerca fino ad oggi mostra che i complessi processi cerebrali in queste strutture vengono elaborati, in parte, da alcuni circuiti neuronali situati nel giro afferente nella parte media degli emisferi cerebrali, mentre le strutture “superiori” della corteccia prefrontale sono necessarie per la comprensione completa e più astratta di una narrazione complessa.
Un’altra scoperta relativamente recente e molto illuminante è che, mentre le strutture cerebrali responsabili dell’elaborazione del linguaggio e della parola si trovano solitamente nell’emisfero sinistro, è l’emisfero destro che alla fine converte la sequenza inizialmente disarticolata di singole parole e singole frasi in un unico racconto che ha coerenza temporale e spaziale.
Insomma, non basta l’emisfero sinistro più “razionale” e analitico del cervello, ma serve il contributo del nostro emisfero destro emotivamente ed esteticamente “sensibile” per organizzare mentalmente le informazioni verbali individuali e disgiunte in un’unica narrazione, con rima e una trama interessante! Solo allora, come hanno rivelato altre ricerche di neuroimaging, alcuni circuiti neurali della corteccia prefrontale in collaborazione con la memoria a lungo termine ci consentono di “immaginare” la trama e lo svolgersi di una storia o addirittura di prevederne il probabile esito.
Dopotutto, tutte queste informazioni anatomiche sul funzionamento del cervello dei grandi narratori, ma anche di qualsiasi narratore quotidiano meno dotato, uccidono la magia letteraria de Le mille e una notte o qualsiasi altro affascinante romanzo letterario?
La risposta degli esperti nel campo delle Neuroscienze Neuronarrative ed Evoluzionistiche è che: la comprensione delle microstrutture e delle funzioni del cervello umano – la più grande fiaba nella storia dell’evoluzione delle specie! – non può in alcun modo annullare o eliminare la magia che ci sfida dalla sua immaginazione creativa. Al contrario, questa nuova conoscenza, oltre ad approfondire la nostra autocomprensione, rafforza anche la nostra ammirazione per l’importanza vitale e il valore letteralmente di sopravvivenza delle narrazioni di fantasia nelle nostre vite.
Il grande valore evolutivo della fiaba mentale
Tuttavia, per la fondazione e la formazione definitiva del nuovo campo di ricerca del “Neuro-storytelling”, ovvero la ricerca dei prerequisiti cerebrali della capacità narrativa umana e delle sue numerose applicazioni, le ricerche riconosciute a livello internazionale dell’eminente neuropsicologo Raymond Mar e del suo team alla York University di Toronto, Canada, hanno svolto un ruolo di primo piano. Questi ricercatori, negli ultimi due decenni, hanno fatto alcune delle scoperte più originali sul meccanismo neuropsicologico del cervello e sulla cruciale funzione psicosociale della narrazione.
Raymond Marr, sulla base di una serie di ricerche svolte insieme al suo stretto collaboratore Keith Oatley, che oltre ad essere professore di Psicologia presso la stessa università è anche un affermato scrittore, ha raggiunto, già nel 2006, la conclusione inaspettata che sia la narrazione orale che quella scritta funzionano come “simulatori di volo” per le relazioni sociali umane.
Proprio come qualcuno che desidera diventare un pilota di aeroplano deve sottoporsi a un addestramento approfondito in un simulatore di volo a terra, così ascoltare e raccontare storie funge da addestramento preparatorio necessario che, per tutta la vita, prepara le persone alle loro relazioni sociali e ad affrontare relazioni interpersonali problematiche e situazioni sociali aperte.
Analizzando i dati personali caso per caso e poi confrontando le differenze individuali di acume sociale ed empatia che i 94 studenti volontari, che hanno preso parte allo studio, sono stati in grado di dimostrare, i ricercatori sono stati portati a un approccio intuitivo ma scientificamente audace di ipotesi che le narrazioni più coinvolgenti e l’ascolto di storie funzionino – sia individualmente che socialmente – come una sorta di “simulatore di volo” per le relazioni sociali umane.
Come ha poi spiegato lo stesso Marr, “quando il contenuto delle storie ha un alto valore sociale e ci stimola intellettualmente, può migliorare le abilità sociali delle persone. Chi racconta e ascolta (o legge) storie presenta una vita sociale chiaramente più ricca. Ma non siamo ancora in grado di decidere, in modo scientificamente accurato, se il raccontare storie sia la causa di un migliore adattamento sociale o, al contrario, il suo prodotto”.
Perché, però, l’uomo sembra essere l’unico essere vivente, o almeno l’unico primate, che ha il bisogno di ascoltare e la capacità di raccontare storie? Gran parte della ricerca successiva ha contribuito a chiarire questa domanda cruciale, che ha messo in evidenza la funzione adattativa e quindi il grande valore evolutivo della narrazione come pratica senza tempo, praticata in modo discreto dai primi esseri umani fino a quelli moderni. La prossima domanda cruciale che emerge da queste indagini è esattamente a quale bisogno vitale o adattivo risponde questa nostra capacità verbale-mentale unica?
“La spiegazione può essere solo evolutiva”, secondo Jonathan Gottschall, professore di letteratura comparata ed evolutiva al Washington & Jefferson College in Pennsylvania. Dal 2006 ad oggi, questo famoso “darwinista letterario” ha sostenuto la visione non convenzionale e piuttosto provocatoria secondo cui le pratiche narrative umane di base (ad esempio, narrazioni storiche, letterarie, mitiche) sono capacità senza tempo e panumane, non inventate né manifestate solo da alcune singole culture storico-locali.
Al contrario, come sostiene Gotschol, la nostra capacità narrativa universale, sebbene inizialmente nata per caso, è stata scelta molto presto nell’evoluzione della specie umana perché apparentemente aveva un valore adattativo e quindi dipende da fattori biologici universali, o addirittura genetici. A questa interpretazione apparentemente plausibile del nostro impulso universale a creare o ascoltare narrazioni artistiche letterarie o quotidiane – e possibilmente i prodotti di altre belle arti – come “adattamenti” evolutivi e quindi come prodotti diretti dell’azione della selezione naturale, sono state formulate serie obiezioni da importanti biologi evoluzionisti e neuroscienziati, che esamineremo in dettaglio nel prossimo articolo.
Fonte: efsyn.gr, 12-11-2022