La New Recession e l’affaire Ucraina

Ora le interpretazioni più diffuse sulla cause di questa guerra, ripeto “assurda”, non reggono sulla base dell’evidenza empirica ma possiamo notare, come abbiamo fatto in precedenza, che le corporation che producono armamenti stanno godendo di ottima salute (e non solo quelle USA) realizzando profitti rilevanti come hanno fatto le Big Pharma durante la pandemia. Sono queste multinazionali che condizionano la vita della gente comune e la politica; non i governanti totalmente impegnati nel perpetuare la loro scomoda posizione di potere. Come ho già ribadito più volte le corporation non hanno nazione, infatti le 500 maggiori aziende statunitensi non finanziarie avrebbero accumulato circa 1 trilione di dollari nei paradisi fiscali. L’unico obiettivo delle corporation è fare profitti quando c’è l’occasione pronte a precipitarsi a capo fitto nel business senza alcuna reticenza se no perché le chiamiamo più correttamente multinazionali? It’s economics stupid!

https://www.asterios.it/catalogo/la-lotta-di-classe-nellepoca-della-finanza-moderna

La tradizione di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul cervello dei vivi. (Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte)

 

Attualmente anche i media e gli osservatori mainstream hanno smesso di esaltare la probabile ripresa economica dopo le condizioni catastrofiche provocate dal terrore per il Covid. Purtroppo viviamo in un epoca costellata da eventi spettacolari che hanno ridotto la gente comune ad essere terrorizzata da qualsiasi fenomeno: dal terrorismo islamico alla pandemia, dai cambiamenti climatici catastrofici alla guerra nucleare. Ora si è aggiunto lo spauracchio dell’inflazione.

Inflazione

È da tempo che i media e gli osservatori più comuni puntano il dito sull’aumento eccezionale dei prezzi che ha portato a livelli di inflazione mai visti negli ultimi decenni. Inoltre la tanto decantata crescita poderosa, inevitabile dopo la pandemia, decantata dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Fed, dalla BCE e da economisti dai facili entusiasmi, si è sgonfiata a tal punto che si paventa una New Recession. A parte il problema della guerra in Ucraina che vedremo in seguito, possiamo notare dal grafico 1 che l’andamento oscillante dell’inflazione osservabile nell’ultimo decennio, registrato per gli USA e per l’Europa, è stato interrotto da un’impennata che inizia verso la fine del 2020 ben prima della guerra in Ucraina ed in piena pandemia[1].

Grafico 1 Andamento dell’inflazione (Consumer Price Index) negli USA e nella zona Euro dal 2020 al 2022.

Ma se osserviamo il trend dell’inflazione negli USA a partire dal nuovo millennio, presente nel Grafico 2, notiamo che il picco vicino al 6% manifestatosi nel periodo della Great Recession del 2007-2008 è inferiore al picco del 9% registrato nel luglio 2022 che mostra indubbiamente una inflazione associata ad una New Recession dalle caratteristiche peggiori già paventate da molti osservatori ed alcuni di questi riportano che mentre scriviamo l’inflazione reale è al 20%, ben oltre il dato “ufficiale” dell’8,6%.

Grafico 2 Andamento dell’inflazione negli USA dal 2000 al 2020

Ma a questo punto dobbiamo chiederci a cosa è dovuto questo enorme innalzamento dell’inflazione a partire dalla metà del 2020 in piena pandemia? La risposta più semplice che viene fornita da keynesiani grezzi e da economisti faciloni è quella che imputa tali aumenti all’eccesso di domanda ossia da un aumento della spesa delle famiglie e dello stato. Ma tale visione viene smentita efficacemente dall’andamento dei salari che manifestano un declino di lungo periodo in tutte le economie capitaliste. Di seguito nel grafico 3a viene riportato l’andamento trimestrale dei salari negoziati dell’area euro per il periodo che parte dal I trimestre 2013, in cui si nota un crollo (pur con una ripresina determinata dal sostegno in seguito al Covid) quando nel complesso sono rimasti stagnanti o perlomeno declinanti per tutto il periodo precedente. Il grafico 3b mostra l’andamento della quota delle entrate destinata ai salari dei lavoratori delle corporate non agricole USA dal 1947 al 2022 in cui si osserva un continuo declino con un crollo a partire dal 2000[2].

Grafico 3a. Andamento dei salari orari nominali e i salari aggiustati dall’Indice dei prezzi al consumo nei paesi dell’area euro (I trim 2013- IV trim 2021)

Fonte Eurostat.

 

Grafico 3b USA Quota delle entrate destinata ai lavoratori delle corporate non agricole 1947-2022 (% sul valore aggiunto)

Nota. Le strisce grigie rappresentano le recessioni. Fonte BLS.

In realtà secondo una visione classica e marxiana l’inflazione non è da imputare ad un eccesso di domanda (spinta da maggiori entrate e salari più elevati) ma al contrario da una carenza nell’offerta di beni e servizi determinata a sua volta da un crollo del PIL come è ben visibile dal grafico n. 4 relativo ai paesi del G20 nel corso degli ultimi due anni in cui le dimensioni dell’inflazione vengono associate a quelle del PIL.

Grafico 4. G 20. Crescita trimestrale dell’inflazione (in giallo) e del PIL (azzurro) in termini percentuali

Fonte. Calcoli dell’Haver Analitics e dello staff del FMI. I dati si riferiscono ai paesi del G20 esclusa l’Arabia Saudita.

L’inflazione si riferisce alla media dei paesi del G20 (esclusa l’Argentina). Il PIL si riferisce alla crescita ponderata dei G20.

Occorre notare che l’inflazione raggiunge il massimo nel secondo trimestre del 2022 quando il PIL arriva quasi al valore di -4. Ecco che tale condizione di recessione si verifica attraverso una seria diminuzione della produzione di beni e servizi (compresi i beni alimentari e le risorse energetiche) relativi al consumo, alla produzione di mezzi di produzione e di beni intermedi. Il tutto caratterizzato da incrementi sempre più modesti della produttività che caratterizza i paesi maggiormente industrializzati. Il grafico 5 rappresenta l’andamento di lungo periodo della produttività del lavoro intesa come output per lavoratore nel settore non agricolo degli Stati Uniti.

 Grafico 5. USA Quota dell’output del lavoro nel settore non agricolo dal primo trimestre 1947 al terzo 2016

Nota Le strisce grigie rappresentano le recessioni così come vengono definite dal National Bureau of Economic Research

Fonte US Bureau of Labor Statistics

Possiamo notare il declino degli incrementi di produttività più o meno pronunciato di lungo periodo ma a partire dal 2002 la curva piega nettamente verso il basso. Tra l’altro nell’ultimo periodo notiamo il declino delle ore settimanali lavorate, osservabile dal grafico 6, come era prevedibile a seguito della pandemia, associato ad un indice del salario reale praticamente stagnante a partire dal nuovo milennio.

Grafico 6 Evoluzione del salario medio (linea chiara) e della produttività del lavoro (linea scura) nelle economie avanzate del G20 dal 1999 al 2013

Ma se prendiamo in esame gli ultimi due anni possiamo notare una netta divaricazione tra l’andamento della produttività e della paga oraria negli Stati Uniti, che denota un inasprimento della spremitura della forza lavoro (andamento analogo, in generale, anche per i paesi dell’Europa dei 27).

Grafico 7. USA Declino della media delle ore lavorate settimanalmente

In azzurro chiaro la media delle ore settimanali lavorate – scuro la media della paga oraria

Fonte: analisi dell’EPI dai dati BEA, BLS, e CPS ORG.

 

La propaganda mainstream continua a ribadire inoltre che l’aumento dei tassi di interesse porterà i tassi di inflazione ai livelli target senza che vi sia un crollo economico di vasta portata. Ma nessuno è in grado di spiegarci quale dinamica vi sia tra l’andamento dei due fattori. Purtroppo la vulgata comune continua a credere che il tasso di interesse venga deciso a priori dalle banche centrali, cosa inverosimile poiché se fosse vero non avremmo alcuna crisi nel sistema del credito. Al contrario le banche centrali (come la Fed o la BCE) stabiliscono il tasso ufficiale come media del tasso di interesse interbancario che a sua volta è legato all’andamento dell’economia. Se il PIL si mantiene a livelli accettabili il credito sarà facilitato in quanto coloro che ne beneficiano potranno ripagare per lo meno il servizio del debito (tra cui il tasso di interesse che si manterrà a livelli bassi in quanto è alta l’offerta di capitale) al contrario in condizioni di declino dell’economia con PIL che scendono a livelli indesiderati allora vi sarà una stretta del credito che porterà automaticamente all’innalzamento del tasso di interesse poiché i debitori trovano difficoltà persino a pagare il servizio del debito.

Così ora possiamo arrivare al nocciolo della questione, ossia che questo continuo declino degli incrementi di produttività è semplicemente il risultato di un calo degli investimenti in capitale fisso e variabile che perdura da decenni a partire dalla metà degli anni 70 come si nota dal grafico 8 sottostante (notare la correlazione tra l’andamento dei risparmio netto e del capitale fisso).

Grafico 8. USA Risparmio netto (linea più scura) e investimenti netti (linea chiara) come percentuale del PIL

(le bande in grigio rappresentano le recessioni)

Fonte BEA https://apps.bea.gov/well-being/

Per cui, nonostante la tanto esaltata new economy, gig economy e tutte le altre trovate di certa pubblicistica superficiale, non si è verificata alcuna rivoluzione nella produzione industriale tanto più che il declino degli investimenti in capitale fisso ha comportato un invecchiamento di quello esistente che diviene sempre più obsoleto con gravi ripercussioni sulla sua efficienza (interruzioni continue a causa dei guasti)[3] con l’inevitabile aumento degli incidenti sul lavoro.

Il grafico 9 rappresenta l’andamento degli investimenti pubblici (infrastrutture e servizi vari escluse le spese militari) e privati come percentuale del PIL nel corso dei decenni a partire dagli anni 30’ per quanto riguarda l’economia USA. Gli investimenti nel settore privato oltre all’acquisto di edifici, mezzi di produzione ed equipaggiamenti di vario genere utili alla produzione comprendono anche l’acquisto della “proprietà intellettuale” da parte delle imprese negli Stati Uniti[4].

Grafico 9. USA. Investimenti netti pubblici e privati nel corso dei decenni

Media decennale come % del PIL

Dal grafico 9 a barre si nota che le medie degli anni ’30 riflettono le circostanze straordinarie della Grande Depressione: gli investimenti privati ​​sono crollati mentre gli investimenti pubblici, guidati dal New Deal, sono aumentati vertiginosamente. Quegli alti livelli di investimento pubblico hanno garantito delle infrastrutture che vengono utilizzate ancora oggi: scuole, uffici postali e parchi ecc.). Gli investimenti pubblici sono diminuiti durante gli anni ’40, a causa della Seconda Guerra mondiale, ma sono aumentati negli anni ’50 e ’60, eguagliando il livello degli anni ’30 grazie all’espansione del settore pubblico ed una fase di crescita economica spettacolare, il famoso Golden Age. Ma tutto ciò non poteva durare: l’austerità e la scelta delle privatizzazioni hanno preso il sopravvento e attualmente gli investimenti pubblici netti sono ai minimi storici. Gli investimenti privati ​​sono aumentati nei decenni successivi alla Seconda Guerra mondiale, raggiungendo il picco negli anni ’70. Ma gli imperativi di massimizzazione del profitto guidati da Wall Street, che hanno avuto il sopravvento attraverso la Shareholder Revolution degli anni ’80, hanno trasformato le pratiche delle corporate mettendo a dura prova gli investimenti come si nota dal picco dal quale parte il declino. Investire una quota troppo elevata dei profitti in strutture materiali veniva considerato uno spreco, meglio invece distribuire i profitti come dividendi agli azionisti, riacquistare le azioni o favorendo fusioni e acquisizioni[5]. Comunque le ragioni principali del declino degli investimenti oltre all’idrovora della finanza, sono da ricercare nella scelta verso apparecchiature di durata più breve e l’immaterialità della proprietà intellettuale (PI) con un progressivo declino nell’utilizzo di nuovi edifici e la speculazione sui terreni delle vecchie fabbriche metropolitane che alcuni sprovveduti contemplano come “archeologia industriale”[6]. Osservando il grafico 9 possiamo notare che attualmente la redditività degli investimenti nei principali settori che creano valore è vicina ai minimi post-1945. Possiamo aggiungere, come affermato da P. Giussani, che “La cosa più importante tuttavia è che a partire dalla seconda metà degli anni ‘90 i due trend (degli investimenti e dei profitti) prendono a divergere. La massa dei profitti continua a salire mentre la massa degli investimenti rimane stabile (e a calare in termini reali)[7].

Le grandi corporation, con il nuovo millennio, vedono ogni anno i loro profitti declinare in termini percentuali ma possiamo rilevare una serie di picchi massimi veramente consistenti e la curva viaggia su valori negativi in corrispondenza delle recessioni (come quella del 2008 e del 2019 con lo scoppio della pandemia) ben visibili dal grafico n. 10.

Grafico 10. Profitti globali delle corporate USA come % (media) annuale

Fonte M. Roberts https://thenextrecession.wordpress.com/2022/09/14/the-closing-scissors-and-profits/

 

Notare il picco successivo al 2021 determinato da una presunta “ripresa” generale tanto decantata dai media e da economisti mainstream, seguita immediatamente da una caduta del 2022 che andrebbe vista secondo un’ottica completamente diversa.

Se suddividiamo la rilevazione dei profitti per settore dal 2016 al primo trimestre 2022, come si può notare dalla tabella 1 ripresa da JP Morgan, si nota che ciascuno dei 10 settori che compongono l’economia complessiva degli Stati Uniti all’inizio del 2022 subisce un rallentamento della crescita degli utili rispetto ai massimi registrati nel 2021, benché solo quattro abbiano subito una contrazione assoluta dall’inizio dell’anno. Sebbene il boom dei profitti del 2021 sia stato generalizzato in tutti i settori, dai dati risulta chiaro che la maggior parte del loro aumento si è verificato nel settore dell’energia e delle materie prime seguite dai consumer discount (92,5%) e dal settore finanziario con profitti superiori a quelli delle corporation della sanità (comprese le famose Big Pharma) e via via tutte le altre oltre le utilities (servizi pubblici come sanità, trasporti ecc). Nella prima parte del 2022 notiamo che il calo maggiore dei profitti riguarda proprio le corporate legate all’energia ed alle materie prime (per non parlare dei beni di consumo).

Tabella 1 Profitti globali delle corporation USA

Variazione % del periodo, entrate annuali riportate (non annualizzate

 

Il grafico 11 rappresenta l’andamento del saggio di profitto delle corporation non finanziarie americane dal 1945 al 2020.

 Grafico 11. Saggio del profitto del capitale non finanziario USA (%)

Fonte: misurazioni di Basu e Wasner presenti nel paper del 2022 World Profit Rates, 1960-2019. https://scholarworks.umass.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1322&context=econ_workingpaper

Come abbiamo visto in precedenza anche le grandi corporation, su cui è piovuta la manna d’oro dei profitti fino ai tempi del COVID, ora stanno subendo un declino delle entrate e per la maggior parte delle società statunitensi la redditività degli investimenti di capitale è diminuita ulteriormente. Resta il fatto che il saggio del profitto, il cui andamento di lungo periodo è osservabile nel grafico 11, dopo il picco di minima registrato nel 1980 (12,7%), si mantiene a livelli paragonabili al periodo pre-crisi degli anni 70 e possiamo affermare con Giussani che “La successione di recessioni degli anni ’70 e principio ‘80, che chiusero il boom del dopoguerra, fu chiaramente l’esito del lungo trend discendente del saggio generale e netto del profitto dalla fine della guerra” e l’autore riporta il grafico 6 nel suo scritto e commenta che “nel lungo periodo, ovvero nei cicli più lunghi saggio del profitto/saggio di accumulazione i due si muovono fondamentalmente in direzioni opposte[8]. Prova inequivocabile del declino degli investimenti in capitale fisso ed equipaggiamenti a favore di una conversione del capitale verso la finanza.

Possiamo notare dal grafico 12 che nell’ultimo decennio sono diminuiti anche gli investimenti degli Stati Uniti verso l’estero confermando un andamento che dura ormai da decenni. Ormai gli Stati Uniti come tali non rappresentano più una superpotenza economica ma che il capitalismo ha subito una radicale trasformazione che vede nelle grandi corporation i protagonisti del capitalismo moderno.

Grafico 12 USA Posizione degli Investimenti netti esteri,

misura il divario tra lo stock di asset esteri e lo stock di asset degli USA all’estero.

L’unico meccanismo che garantisce il ripristino di un aumento sostenuto della profittabilità è attraverso ciò che Marx chiamava la distruzione di valore del capitale, vale a dire un grave crollo che porterebbe all’eliminazione delle frange più deboli del settore corporate ripristinando un “esercito industriale di riserva”, con una disoccupazione che raggiunge la doppia cifra. La tendenza manifestata dalla Fed ad aumentare il saggio di interesse potrebbe nei prossimi due anni far raddoppiare l’attuale tasso di disoccupazione, ma anche questa condizione potrebbe non essere sufficiente a creare nuove condizioni per investimenti profittevoli. Un esempio abbastanza attuale che può chiarire cosa significhi fare degli investimenti in capitale fisso nelle attuali condizioni economiche è la paventata ed esaltata spinta verso la costruzione di impianti industriali per la produzione di circuiti integrati (i famosi chips) di cui si lamenta la carenza per la dipendenza dalle importazioni dalla Cina. A tale proposito segnalo l’articolo del prof. Franco Maloberti, che ho diffuso tempo fa, nel quale dopo aver elencato tutti gli aspetti peculiari che caratterizzano un investimento del genere afferma “Costruire una fabbrica per chip non è allora una cosa da poco”[9]. Purtroppo il prof Maloberti imputa tra le difficoltà che si trova di fronte un impegno di questo genere l’elevato costo dell’energia (fattore decisamente importante per la produzione dei chips ma il professore non è a conoscenza del declino di lungo periodo degli investimenti in capitale fisso). Perché fare investimenti così impegnativi e carichi di difficoltà quando ci sono già le fabbriche che possono garantire l’approvvigionamento di tali beni intermedi a prezzi accettabili? Quanti decenni devono passare prima di realizzare profitti da un investimento così mastodontico? Per la produzione poi di beni che subiscono inevitabilmente una concorrenza spietata da parte delle corporate asiatiche?

Da leggere: https://www.acro-polis.it/2022/11/05/quale-sovranita-…no-produrre-chip/

La New Recession e il capitale speculativo

Indebitamento

Come si può notare dal grafico 13 le imprese degli Stati Uniti hanno maturato nel corso del tempo, e con particolare accentuazione a partire dal 2018, un incremento delle passività rispetto agli asset (attività) in loro possesso. Ciò implica un indebitamento crescente che non vede alcuna via d’uscita.

Grafico 13 Asset e passività negli USA. Dati trimestrali non aggiustati.

Per mantenersi in vita e per poter garantire entrate agli azionisti e alla dirigenza, le corporation, quando non bastano i profitti realizzati, chiedono continuamente credito al sistema finanziario per poter effettuare tutte quelle operazioni di borsa e le ristrutturazioni che caratterizzano la dinamica dell’economia negli ultimi decenni[10].

Il grafico 14 è ancor più indicativo in quanto indica l’andamento del debito delle corporation non finanziarie in rapporto al PIL negli ultimi 20 anni.

Grafico 14. USA. Debito delle corporation non finanziarie come percentuale del PIL. È più elevato rispetto a prima della pandemia

Interessante è anche l’andamento crescente nello stesso periodo del debito delle famiglie, rappresentato nel grafico 15 sottostante, che nel 2021 ha raggiunto i 15 mila miliardi di dollari. Possiamo notare che, esclusi i mutui rappresentati dalla regione grigio scuro più in basso, una voce importante tra le cause dell’indebitamento sono le spese per l’istruzione che hanno raggiunto livelli mai visti prima grazie alla trasformazione dei college e delle università in vere e proprie imprese a scopo di lucro e quotate in borsa.

Grafico 15. USA. Andamento del debito delle famiglie dal 2000 al 2021 (nel II trimestre ha raggiunto i 15 trilioni di dollari)

Nota: la parte in basso grigio scura rappresenta i mutui, via via le parti sempre più chiare rappresentano in successione i crediti ipotecari, i prestiti per l’acquisto dell’automobile, passività delle carte di credito, i prestiti per lo studio ed altri. Fonte: New York Fed Consumer Credit Panel/Equifax.

Il capitale speculativo

Paolo Giussani nel suo scritto “Il capitale speculativo” (presente nella raccolta Capitalism is dead) afferma che:

“L’emergere del boom speculativo sui titoli azionari è un risultato tanto della stagnazione sopravvenuta con la fine del golden age postbellico, che ha generato capitale liquido inutilizzato, quanto dell’ondata di fusioni e concentrazioni fra grandi corporation avvenuta fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, a sua volta innescata dalla stessa conclusione del lungo periodo di grande crescita e dalle due recessioni del 1975-76 e del 1981-82, e che ha più o meno subitaneamente innalzato i prezzi azionari, da lungo tempo in calo, procurando così l’impulso attrattivo iniziale al movimento dei capitali monetari inutilizzati che ha a sua volta fornito la necessaria energia alla continuità del movimento ascendente, tendenza che, fra luci ed ombre, seguitiamo tuttora ad osservare”.

Ma parallelamente a questa dinamica più volte dimostrata empiricamente si è sviluppata una finanza speculativa “collaterale”, espressa dall’ammontare dei derivati (Over the Counter) cresciuti progressivamente fino all’inizio del nuovo millennio ma che hanno subito un’impennata dal 2004 al 2022, come mostra il grafico 16, arrivando ad essere dieci volte il PML in termini di valore. La Great Recession del 2008 pare non abbia minimamente scalfito la continua emissione di questi titoli spazzatura, anzi il mercato dei derivati ha continuato a manifestare la sua energica potenza. Tale fenomeno dimostra indiscutibilmente, se ce ne fosse ancora bisogno, non solo che il capitalismo ha subito una trasformazione radicale in cui la finanza speculativa divora ogni possibilità di procedere con la produzione di beni, ma che le condizioni di crisi si perpetuano in maniera indefinita.

Grafico 16. Ammontare di derivati OTC (Over the Counter) emessi semestralmente dal 1986 al 2022

Nota: Un FX swap è un tipo di accordo tra due banche per lo scambio di una valuta per un’altra (quindi la Banca A con sede nell’UE concede un prestito in EURO alla Banca B, mentre la Banca B con sede negli Stati Uniti concede in prestito alla Banca A Dollari USA). Un mercato spot è un mercato in cui titoli, materie prime o valute estere sono negoziati “on the spot”, cioè sul posto, e immediatamente consegnati all’acquirente. Il termine spot è anche usato per descrivere il prezzo attuale di una materia prima, per esempio oro e argento, nonché un’operazione che viene conclusa all’istante piuttosto che in una data futura. L’outright forward è il tipo più semplice di contratto a termine in valuta estera e protegge un investitore, un importatore o un esportatore dalle fluttuazioni del tasso di cambio. Nel sottoscrivere un currency swap, due controparti si impegnano a scambiarsi flussi di pagamento periodici in due diverse valute, relativamente al capitale e al pagamento degli interessi, secondo le specifiche modalità contrattuali.

 

Naturalmente nel corso degli anni si è verificato un florilegio di nuovi titoli e strumenti finanziari su una miriade di beni e servizi che hanno letteralmente infestato l’economia moderna. Interessante notare dal grafico 16 le dimensioni in termini di valore degli FX swap relativi alla speculazioni sulle monete utilizzate per i pagamenti che dimostra l’equivalenza delle divise negli scambi commerciali a livello mondiale[11]. Occorre prestare particolare attenzione anche alla speculazione sui prezzi dei beni e tra questi i famosi futures[12]. Recentemente tutti i media e i soliti osservatori che vanno di moda hanno imputato l’aumento dei prezzi del gas alla guerra in Ucraina.

Grafico 17. Andamento del prezzo delle risorse energetiche nel corso degli ultimi tre anni (gennaio 2020 =100)

Nota: In giallo l’andamento dei prezzi del gas, in viola il petrolio, in azzurro il legname e in rosso il carbone.

In realtà possiamo notare dal grafico 17 che l’impennata dei prezzi delle risorse energetiche inizia molto prima dello scoppio della guerra, siamo in piena pandemia e l’impennata si verifica nel corso del 2020. In realtà le oscillazioni sui prezzi del petrolio e del gas naturali iniziano verso la fine degli anni ‘90 ed è da tale volatilità che parte l’incentivo alla speculazione sui prezzi. Per avere un’idea riportiamo qui sotto l’ammontare dei profitti registrati da Forbes nel 2020 dalle maggiori corporation che controllano a livello mondiale il mercato del petrolio e del gas naturale[13].

Da questa graduatoria si nota chiaramente che le corporate cinesi, l’Aramco dell’Arabia Saudita e l’inglese BP sono al top e le corporation americane occupano posizioni inferiori. Notare che Gasprom è penultima in questa graduatoria ma pur sempre una corporate concorrenziale.

Il grafico 18 rappresenta l’andamento dei futures sui prezzi del gas naturale trattati sul mercato olandese e possiamo notare chiaramente l’impennata del mese di settembre di quest’anno, preceduta da un picco registrato nello scorso marzo. Comunque un andamento simile è stato registrato anche negli Stati Uniti al New York Mercantile Exchange, pur con picchi inferiori, dimostrando inequivocabilmente il carattere speculativo dei prezzi mentre la guerra in Ucraina ne ha influenzato solo in parte l’andamento in Europa. Possiamo tranquillamente affermare che il picco dei prezzi per il gas americano era determinato da una domanda di gas liquido destinato al mercato europeo per effetto delle sanzioni contro la Russia e soprattutto per la volontà di interrompere ogni rifornimento da parte della Gasprom. Resta ancora oggi un mistero (?) sulla responsabilità dell’attentato ai gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel mar Baltico che permettevano di rifornire l’Europa del gas naturale della Gasprom, una della grandi corporation del settore… Basta guardare la figura sovrastante. È possibile che la Russia abbia compiuto un attentato del genere precludendosi i rifornimenti diretti alle imprese tedesche ed europee? Forse sono stati gli Ucraini procurandosi giudizi avversi dalle corporate dei paesi occidentali? A chi giova il disastro procurato alla Gazprom?

Figura 18 Andamento dei futures sul prezzo del gas dal Gennaio 21 ad ottobre 22 in euro per megawatt ora TTF (Title Transfer Facility)

La ricaduta degli ultimi giorni secondo molti osservatori è una sorta di “calma prima dell’inverno”. Sino ad ora le condizioni climatiche sono state favorevoli ed i consumi sono ridotti ma anche grazie alle riserve accumulate che dovrebbero bastare per l’anno in corso ma la situazione resta molto incerta e la volatilità futura dei prezzi potrebbe contribuire ad una nuova impennata.

 L’affaire Ucraina

La geopolitica è un ologramma proiettato sulla dura realtà dell’economia che maschera la sua reciproca eviscerazione planetaria assicurata dal melodramma dei leader politici e del sentimento popolare. Chuang

La figura 1 mostra l’andamento delle vendite di armi delle maggiori corporation mondiali nella quale si nota chiaramente che le prime cinque hanno sede negli Stati Uniti, due sono cinesi e la Bae System è britannica. La famosissima Lockeed Martin ha la palma d’oro dei profitti con 53,23 miliardi di dollari per il 2019 e 67.044 per il 2021.

Figura 1 Le maggiori corporation produttrici di armi al mondo. Vendite nel 2019

Fonte: Statista

Nella tabella 1 riportiamo le vendite relative all’anno fiscale 2019, 2020 e 2021 delle cinque maggiori corporation statunitensi, molto legate al Pentagono[14], dove si nota chiaramente una crescita sostenuta per la Lockheed Martin meno evidenti per la Boeing, la britannica Bae System ha effettuato vendite per 24 miliardi di dollari nel 2022 con il maggior acquirente rappresentato dall’Arabia Saudita.

Tabella 1 Entrate dei top cinque Contractors di armamenti

Anno fiscale 2019, 2020, 2021, in miliardi di dollari

Anno fiscale 2019 Anno fiscale 2020 Anno fiscale 2021
Lockheed Martin 53.230 58.210 67.044
Raytheon 38.421 36.780 64.388
General Dynamic 24.500 25.840 34.380
Boeing 33.580 32.130 26.540
Northrop Grumman 29.220 30.420 35.667

Fonte: Statista

I produttori di armi hanno speso più di 2,6 miliardi di dollari per fare pressioni sui politici e negli ultimi due decenni hanno assunto più di 700 lobbisti per convincere in tutti i modi i due rami del parlamento americano a sostenerli. I loro sforzi sono stati ripagati, poiché gli appaltatori della difesa hanno incassato fino alla metà dei 14 trilioni di dollari assegnati al Dipartimento della Difesa (DOD) durante quel periodo. Possiamo rilevare inoltre che nel primo trimestre di quest’anno le grandi corporation del settore hanno speso 16,9 milioni di dollari per spingere il governo ad aumentare le spese in armamenti[15].

Nonostante tutte le notizie roboanti sull’impegno degli Stati Uniti in una guerra “per procura” (chissà cosa mai vorrà dire) possiamo notare, come è stato già fatto più volte in passato, che negli Stati Uniti le spese in armamenti vanno declinando da molto tempo. Infatti dopo, il picco massimo durante la II GM il trend è declinante a parte qualche lieve ripresa durante la guerra del Vietnam e nel periodo reaganiano dei primi anni ‘80 in cui è stata superata la soglia del 4% rispetto al PIL, nulla rispetto a più del 40% durante la II GM, il 15% nel 1953 durante la Guerra di Corea ed il 10% nel 1968 (il picco della Guerra del Vietnam). Nel grafico 2 sottostante riportiamo l’andamento delle spese militari americane a partire dal 1972 con una proiezione indirizzata al 2032

Grafico 2. USA Media delle spese in armamenti come % del PIL con proiezione al 2032

Nel grafico n 3 relativo all’andamento delle spese militari in Russia si nota il declino a partire dal crollo dell’Unione Sovietica fino a raggiungere il picco di minima in occasione della crisi economica del 1998 quindi una risalita con un incremento tra il 2014 ed il 2016 (in occasione del sostegno alle repubbliche del Donbass in seguito al referendum sull’autonomia e agli attacchi dell’esercito ucraino). È evidente che la Russia ha iniziato immediatamente a sostenere la rivolta delle zone autonome attaccate dall’esercito ucraino. Ma è interessante notare che subito dopo tra il 2015 ed il 2016 le spese miliatri subiscono una caduta per poi riprendere in previsione dell’ “operazione militare speciale”. Resta il fatto che se analizziamo i dati relativi alle spese militari negli USA ed in Russia possiamo rilevare che nel primo caso a partire dal nuovo millennio non si sono discostate di molto da una media del 3% del PIL e la Russia manifesta grosso modo la stessa media di spese militari nonostante il picco del 5,43% nel 2015.

Grafico 3 Spese militari su PIL della Russia

Fonte: Stockholm International Peace Research Institute ( SIPRI ), Yearbook: Armaments, Disarmament and International Security. https://data.worldbank.org/indicator/MS.MIL.XPND.GD.ZS?locations=RU

Questi valori non mostrano certo una tendenza verso un economia di guerra, come paventano molti a sinistra e tra gli osservatori mainstream, tantomeno una sorta di dimostrazione muscolare per spaventare un avversario che non ha mai rappresentato un problema dopo il crollo del sistema sovietico. Non si capisce come mai tutto l’occidente sia salito sul carro degli Stati Uniti nel sostenere una guerra che non ha alcun senso se non quello di risolvere i problemi di consenso dei cosiddetti leader dei paesi sulla scena mondiale. Non è certo uno scontro tra imperialismi come ribadiscono alcuni che hanno rispolverato dalle soffitte la chincaglieria politica del 900 senza rendersi minimamente conto del cambiamento radicale assunto dall’economia mondiale. Men che meno tutti gli sproloqui sciorinati dagli osservatori delle riviste di geopolitica sempre presenti nello spettacolo mediatico. Secondo la teoria dell’imperialismo ci troveremmo di fronte ad uno scontro tra grandi potenze per il dominio del mercato o per rapinare le materie prime come è accaduto in passato per i paesi del terzo mondo. Tra l’altro non possiamo non menzionare la tesi delle minoranze dell’ultrasinistra secondo cui siamo di fronte ad uno scontro inter-imperialistico multipolare dove tutti gli attori sono imperialisti per qualcosa, naturalmente innalzando le bandiere con lo slogan “dalla guerra imperialista alla rivoluzione proletaria” che tanti guai ha procurato ai lavoratori di tutto il mondo specie a quelli della Russia zarista. Il capitalismo è un modo di produzione e non subisce pianificazioni di sorta. Questo meccanismo mentale distorto deriva dalle teorie della regolazione del capitalismo che andavano di moda nel secolo scorso con l’ideologia keynesiana che voleva stare al passo con la cosiddetta “pianificazione sovietica” rivelatasi un totale fallimento[16]. Tra l’altro vorrei semplicemente sottolineare che le due grandi economie occidentali che hanno dominato lo stato del mondo nel corso della storia del capitalismo, perché erano i maggiori possessori di asset[17] esteri, hanno progressivamente manifestato un declino vistoso come risulta evidente dal grafico 4.

Grafico 4. Andamento disaggregato dei due paesi con il maggior numero di asset stranieri: Gran Bretagna (linea più chiara) e Stati Uniti (linea più scura)[18]

Fonte: Maurice Obstfeld and Alan. M. Taylor, Global Capital Markets: Integration, Crisis and Growth (Cambridge: Cambridge University Press, 2004), Table 2-1, pp. 52-53

Gli asset esteri in possesso della Gran Bretagna raggiungono il picco nel 1850 poi declinano continuamente (linea grigia) mentre gli asset esteri nelle mani degli USA (non di una nazione, come si crede erroneamente, ma di imprese pubbliche e private) crescono fino al 1960 (gli USA prendono il posto del Regno Unito dopo la IIGM) per poi declinare continuamente salvo qualche debole picco, fino ai giorni nostri. Questo vuol dire che gli investimenti in asset degli USA si rivolgono all’interno dell’area OCSE e sempre meno nei paesi del cosiddetto terzo mondo o in via di sviluppo. Per cui le potenze imperialiste del passato si trovano attualmente in una condizione economica molto simile a quella degli altri paesi, di conseguenza non esistono più risorse da spolpare anche perché l’economia capitalista che ormai domina il pianeta vive ormai una recessione di lunga durata. Forse esiste la possibilità che qualche “potenza” sia interessata a conquistare l’Ucraina? Ebbene stiamo parlando di uno dei paesi più poveri del continente europeo. A tale proposito voglio riportare un commento di Michael Roberts “La performance dell’Ucraina tra il 1990 e il 2017, non è stata solo la peggiore tra quelle dei suoi vicini europei, ma è stata la quinta peggiore di tutto il mondo. Tra il 1990 e il 2017 ci sono stati solo 18 paesi con una crescita cumulativa negativa, e perfino in quel gruppo selezionato, la performance dell’Ucraina la colloca come il terzo paese peggiore insieme alla Repubblica Democratica del Congo, al Burundi e allo Yemen”. Ebbene chi avrebbe interesse a conquistare un paese in tali condizioni? Inoltre aggiunge Roberts “Nella crisi del debito e della moneta del 2014, l’Ucraina è stata salvata dal tracollo totale grazie a tre cose: in primo luogo, l’essere stata inadempiente riguardo al suo debito verso la Russia, e che (nonostante molti sforzi) la Russia finora non è mai stata in grado di recuperare. In secondo luogo, i governi post-Maidan[19] si sono impegnati in una serie di salvataggi grazie ai prestiti del FMI; e in terzo luogo, il prezzo pagato per questi prestiti è stato un severo programma di tagli nei servizi pubblici e nel sostegno al welfare”. Dopo la guerra chi si accollerà i costi della ricostruzione di un paese ormai ridotto ad un ammasso di macerie?

Non escludiamo poi le interpretazioni più diffuse sull’ “egemonia”. Secondo questa impostazione gli Stati Uniti, visto il declino della loro economia, temono di venir sostituiti nel loro dominio sulle economie più avanzate e su quelle in via di sviluppo da nuovi attori sulla scena mondiale come la Russia (?) e la Cina (più accettabile). Per quanto riguarda l’egemonia della Russia direi di non perdere tempo a contestare tesi alla Rampini che non hanno alcuna consistenza. Dopo il crollo del sistema sovietico la Russia non rappresenta certo un modello egemonico alternativo da seguire e non ha nemmeno la potenza economica che potrebbe garantirle un ruolo di attore principale sullo “scacchiere” internazionale. Il modo di produzione capitalistico con tutta l’ideologia liberista che si porta dietro ha ormai conquistato tutte le latitudini e in Russia domina in maniera assoluta. Ormai anche le riviste di geopolitica che vanno molto di moda cominciano a trattare la questione ucraina con maggiore prudenza, toccando a volte anche le ragioni economiche ma senza mai farne degli approfondimenti (se non di politica economica). Nessuno si è mai posto il problema del consenso necessario per i politicanti in un quadro internazionale di recessione prolungata che li ha obbligati a tagliare continuamente salari e benefit dello stato sociale. Come fare per avere consenso di questi tempi? Tutto è cominciato con l’11 settembre 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle che ha trasformato la società moderna in una giungla apocalittica dove vige la lotta di tutti contro tutti e soprattutto il terrore di qualunque fenomeno: dall’immigrazione al terrorismo islamico, dalle pandemie alla guerra nucleare il tutto condito da condizioni climatiche degne di un film di fantascienza da medioevo prossimo venturo come Blade Runner con i rider che sfrecciano per le strade.

Gli uomini politici ormai sono ridotti ad adottare il terrore della gente per poter continuare ad avere un ruolo nella società moderna con un astensionismo elettorale che aumenta ad ogni scadenza ed in tutti i paesi occidentali. Una guerra come quella dell’Ucraina può risultare utile sia a Putin che continuava a subire un declino dei consensi tanto da presentarsi come il paladino delle popolazioni russofone del Donbass, sia a Biden che vive la minaccia di essere battuto alle prossime elezioni da qualche candidato trumpiano se non dall’originale pronto a tornare alla ribalta. Non parliamo poi di Zelenski ormai ridotto a proseguire una guerra che lo vede sconfitto per poter continuare a fare i suoi show per avere consensi. Purtroppo i missili russi e il solito generale inverno provvederanno a scardinare le difese e la pazienza di un popolo ridotto alla fame con un futuro lacrime e sangue per ripagare debiti regressi e nuovi per l’acquisto di armamenti che non potranno certo garantirgli di vincere questa guerra maledetta.

Pare che siamo arrivati ad una fase di svolta. Dopo i missili (ucraini) caduti al di là del confine polacco gli animi dapprima si sono riscaldati ma in seguito siamo arrivati a più miti consigli. Il presidente USA Biden ha proposto un incontro con Putin per avviare dei negoziati. Come mai? Non dico che la fine della guerra sia dietro l’angolo ma di certo la situazione all’interno degli Stati Uniti deve essere cambiata e il consenso alla guerra scemare di conseguenza, cosa molto più evidente nei paesi europei. Per rafforzare la tesi che contrasta l’ideologia di una sorta di keynesismo militare vorrei proporre l’ennesimo grafico (n.5) sulla creazione di posti di lavoro dalle spese governative USA relativo al 2019 dal quale si può notare chiaramente che la spesa militare è fanalino di coda nella creazione di posti di lavoro in un paese che viene considerato in corsa verso una ripresa della sua egemonia politico-militare. Con buona pace di coloro che si stanno affannando nel riproporci una sorta di keynesismo militare uscito dal cilindro di qualche illusionista mediatico al quale hanno abboccato in molti. Ovviamente, la vendita di armi per un valore di miliardi di dollari ha creato alcuni posti di lavoro, ma il numero di persone impiegate nella produzione di armi ammonta ad una piccola percentuale della forza lavoro totale degli Stati Uniti, meno di quanto creerebbe praticamente qualsiasi altra attività di spesa. La spesa in armamenti produce il 40% di posti di lavoro in meno rispetto alla spesa per infrastrutture o energia alternativa e il 100% di posti di lavoro in meno rispetto alla spesa per l’istruzione.

Grafico 5. USA Spese statali rispetto ai posti di lavoro creati nel 2019

 

Fonte: Heidi Peltier War spending and Lost Opportunities Cost of War Project, Brown University March 2019

 

Se per caso non fosse sufficiente l’evidenza relativa agli Stati Uniti è interessante osservare la differenza tra le spese destinate alla sanità ed agli armamenti come percentuale del PIL nei paesi presi in esame nel grafico n. 6 che non avrebbe bisogno di alcun commento. Interessante osservare che per l’anno 2020 gli Stati Uniti hanno speso in armamenti il 3,7% del loro PIL mentre il temibile orso russo il 4,3%. Se può interessare l’altro concorrente per lo scontro sull’egemonia, il mastodonte cinese, nel 2022 ha speso in armamenti l’1,75% del PIL l’ammontare più basso dal picco dei primi anni ’90 del secolo scorso con il 2,4%. Al contrario le spese per la sanità negli Stati Uniti sono state le più elevate del mondo (16,8%) mentre in Cina le spese destinate alla sanità sono cresciute a partire dal 2007 (3,67%) fino al 2020 con il 7,1% come riferisce Statista.

Grafico 6. USA Spese destinate alla sanità (azzurro) ed agli armamenti (blu) nel 2020

Fonte: Statista https://www.statista.com/statistics/1175077/healthcare-military-percent-gdp-select-countries-worldwide/

 

Ora le interpretazioni più diffuse sulla cause di questa guerra ripeto “assurda” non reggono sulla base dell’evidenza empirica ma possiamo notare, come abbiamo fatto in precedenza, che le corporation che producono armamenti stanno godendo di ottima salute (e non solo quelle USA) realizzando profitti rilevanti come hanno fatto le Big Pharma durante la pandemia. Sono queste multinazionali che condizionano la vita della gente comune e la politica; non i governanti totalmente impegnati nel perpetuare la loro scomoda posizione di potere. Come ho già ribadito più volte le corporation non hanno nazione, infatti le 500 maggiori aziende statunitensi non finanziarie avrebbero accumulato circa 1 trilione di dollari nei paradisi fiscali. L’unico obiettivo delle corporation è fare profitti quando c’è l’occasione pronte a precipitarsi a capo fitto nel business senza alcuna reticenza se no perché le chiamiamo più correttamente multinazionali? It’s economics stupid!

https://www.asterios.it/catalogo/il-mito-del-welfare-state

[1] L’aumento del prezzo del greggio, del carbone e del legno viene sormontato dalla crescita vertiginosa del prezzo del gas naturale sin dal primo trimestre del 2020 quando non si prospettava ancora la guerra tra la Russia e l’Ucraina iniziata nel Novembre successivo.

[2] Un fattore, non certo secondario, che contribuisce all’aumento dei prezzi è rappresentato dai gravi problemi relativi all’approvvigionamento ma anche ai trasporti legati non solo al lockdown del periodo pandemico (in realtà le imprese produttive continuavano la loro produzione in quasi tutti i paesi del mondo eccetto che in Cina dove il terrore che ha colpito i governanti si è esteso a tutta la popolazione che tutt’ora è suscettibile di un blocco totale delle attività e di essere condannate all’isolamento per ogni debole ondata di infezioni). Vedremo in seguito le conseguenze legate alla guerra in Ucraina ed alle sanzioni. Per avere un’idea di quanto sia importante tutto il settore della logistica nell’influenzare l’andamento dei prezzi possiamo riferirci ad esempio all’aumento delle spese di spedizione il cui andamento è rappresentato nel grafico sottostante con particolare riferimento agli scambi tra Cina e Stati Uniti ed Europa-USA con le gravi conseguenze per l’approvvigionamento di materie prime e di semilavorati.

Tra le cause più importanti possiamo aggiungere anche lo sviluppo della speculazione sui trasporti e sull’aumento delle riserve per molti tipi di merci più o meno deteriorabili (approfondimenti su tutti problemi che affliggono la logistica verranno trattati in un numero speciale di Countdown studi sulla crisi). Vorrei sottolineare anche il problema relativo alla produzione di container ormai ferma da molto tempo e il deterioramento di quelli esistenti con gravi problemi di trasporto e di perdita di merci più o meno deteriorabili. L’indice di pressione della catena di approvvigionamento globale (GSCPI) della Fed di New York, che misura vari indicatori relativi a diversi blocchi di navi portacontainer e dei porti, è ancora molto più alto rispetto a prima dell’inizio della pandemia di COVID.

[3] Sulla questione vedi l’articolo “Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività” apparso in Countdown studi sulla crisi n 2.

[4] Occorre precisare che negli USA la ricerca viene effettuata prevalentemente nelle Università per cui le corporation, oltre a finanziare progetti di ricerca specifici, pagano i team di ricercatori per acquisire il brevetto relativo ad una particolare scoperta, ma il più delle volte finalizzando l’operazione ad un aumento del valore delle azioni sul mercato. Per un approfondimento sulla questione vedi Laurence Reynolds e Bronislaw Szerszynski “Neoliberismo e tecnologia: Innovazione permanente o crisi permanente?” in Countdown studi sulla crisi n. 2 Colibrì 2016.

[5] Mentre i CEO si garantivano stipendi da favola e stock option della corporation come remunerazione per le operazioni finanziarie che gestivano come il riacquisto delle azioni, le acquisizioni di imprese e le fusioni con altre corporate per far alzare il valore dei titoli azionari.

[6] A tale proposito è interessante Fiona Tregenna “Una nuova analisi teorica sulla deindustrializzazione” presente nella prossima uscita di Countdown studi sulla crisi.

[7] Vedi “La Great Recession e il Saggio del Profitto” presente nella raccolta di Paolo Giussani Capitalism is dead in uscita presso Colibrì Milano.

[8] Vedi “La Great Recession e il Saggio del Profitto” presente nella raccolta di Paolo Giussani Capitalism is dead.

[9] “Quale sovranità digitale? Con la crisi energetica difficile persino produrre chip” https://www.acro-polis.it/2022/11/05/quale-sovranita-…no-produrre-chip/

[10] Una esposizione chiara e completa delle dinamiche che hanno caratterizzato le corporation a partire dagli anni 80 vedi l’ottimo articolo di W. Lazonick “Profitti senza prosperità” in Countdown studi sulla crisi n 2 Colibrì 2016. Antonio Pagliarone La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna Edizioni Asterios 2022.

[11] Per sfatare i soliti luoghi comuni sulle valute che “dominano” sulle altre (una sorta di geo-economia di moda recentemente) posso segnalare l’ottimo articolo di George Labrinidis “Le Riserve internazionali nell’era di denaro quasi-mondiale” apparso in Countdown studi sulla crisi n 2.

[12] Il future è un contratto derivato negoziato su mercati regolamentati mediante il quale acquirente e venditore si impegnano a scambiarsi una determinata quantità di una certa attività finanziaria o reale (detta attività sottostante o underlying asset) a un prezzo prefissato e con liquidazione differita a una data futura prestabilita.

[13] Per dare un ‘idea della completa autonomia che hanno le corporation dalla nazione in cui sono state fondate possiamo citare il caso dell’italiana ENI nel cui consiglio di amministrazione è presente un rappresentante dello stato italiano, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, con più del 32% delle azioni. Ebbene l’ENI nel 1994 ha spostato la sua sede in Olanda che sotto ogni aspetto rappresenta un paradiso fiscale per le corporate.

[14] Possiamo sottolineare che nel consiglio di amministrazione della Lockheed è presente Robert Work (ex vice segretario della difesa) e Joseph Dunford Jr (generale in pensione del Corpo dei Marine), in quello della Boeing sono presenti: Edmund P. Giambastiani Jr (ex vice presidente, Capo di stato maggiore), Stayce D. Harris (ex ispettore generale, Air Force), John M. Richardson (ex capo delle operazioni navali). Il consiglio di amministrazione della Raytheon comprende: Ellen Pawlikowski (generale dell’aeronautica in pensione), James Winnefeld Jr (ammiraglio della marina in pensione), Bruce Carlson (generale dell’aeronautica in pensione), mentre ai vertici della General Dynamics sono presenti Rudy deLeon (ex vice segretario della difesa), Cecil Haney (ammiraglio della marina in pensione), James Mattis (ex segretario della Difesa ed ex generale del corpo dei marines), Peter Wall (generale britannico in pensione). Alla Northrop Grumman notiamo Gary Roughead (ammiraglio della Marina in pensione), Mark Welsh III (generale dell’Aeronautica in pensione). Nei consigli di amministrazione delle grandi corporation legate al Pentagono vi erano anche gli ex segretari alla difesa dell’amministrazione Trump come James Mattis (membro del consiglio di amministrazione di General Dynamics), Patrick Shanahan (dirigente di Boeing), Mark Esper (capo delle relazioni con il governo di Raytheon) e il segretario alla difesa dell’amministrazione di Biden Lloyd Austin (membro del consiglio di amministrazione di Raytheon Technologies). Molte di queste informazioni provengono dall’ottimo studio Profits of War: Corporate Beneficiaries of the Post-9/11 Pentagon Spending Surge di William D. Hartung che dirige l’Arms and Security Program presso il Center for International Policy.

[15] All’inizio del mese di ottobre 2022, il Pentagono ha emesso un contratto da 19,5 milioni di dollari con Raytheon e Lockheed Martin per i missili Javelin e un contratto da 19,7 milioni con AeroVironment per i droni spia Puma.

[16] E’ in preparazione una ristampa, curata dal sottoscritto, dell’ottimo volume di Paul Mattick Marx e Keynes.

[17] Gli asset esteri lordi sono costituiti da contanti, prestiti, obbligazioni e azioni di proprietà di non residenti.

[18] “The External Wealth of Nations Revisited: International Financial Integration in the Aftermath of the Global Financial Crisis” IMF Economic Review volume 66 al sito https://link.springer.com/article/10.1057/s41308-017-0048-y

[19] Si riferisce alla cosiddetta “rivolta ucraina” di Piazza Maidan a Kyev nella note tra il 18 e il 19 febbraio 2014 che ha provocato la fuga del premier Janukovyč. Successivamente la Russia sposta le sue truppe nella penisola della Crimea rivendicandone l’annessione alla federazione. Il nuovo presidente ucraino Poroscenko firma l’accordo per l’ingresso del paese in Europa e nella Nato.