Guardare senza vedere, pensare senza sentire. La fine dell’eurocentrismo?

L’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente guerra tra potenze sta avendo effetti profondi sul pensiero critico e i movimenti, ma questo sembra avvenire in modo divergente nel Nord del mondo e in América Latina: si approfondiscono le differenze e le distanze nei modi di concepire e praticare le trasformazioni anticapitaliste, così come i modi di pensare la realtà.

Nella storia del pensiero critico, la guerra e la rivoluzione si sono intrecciate, lo hanno fatto a tal punto che è quasi impossibile non mettere in relazione la seconda con la prima. Il recente libro di Maurizio Lazzarato, Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un’alternativa (DeriveApprodi, 2022), recupera il concetto di guerra che, a suo avviso, sarebbe stato “espulso” dal pensiero critico negli ultimi 50 anni.

Il nucleo del suo lavoro ritorna alla proposta di Lenin del 1914, nel senso di “trasformare la guerra imperialista tra i popoli in una guerra civile delle classi oppresse contro i loro oppressori”. Lazzarato sostiene che il grande problema è stato, allo stesso tempo, l’abbandono del concetto di classe, oltre a quello di guerra e rivoluzione. E assicura che la situazione attuale è molto simile a quella del 1914.

Questa è una prima e decisiva differenza: in questo continente (nell’América Latina, ndt) la guerra è presente e non può essere nascosta, in particolare quella contro i popoli originari e gli afroamericani, i contadini e gli abitanti delle periferie urbane. Le “guerre contro la droga” e l’appropriazione di territori da parte dell’estrattivismo sono solamente l’ultima versione di una secolare guerra contro i popoli.

Tuttavia, l’aspetto centrale da evidenziare è un altro. I popoli stanno affrontando le guerre contro di loro in forma asimmetrica, non perché siano pacifisti, ma perché una lunga esperienza di cinque secoli li ha convinti che per sopravvivere come popoli devono prendere altre strade.

Lo zapatismo è riuscito a rompere gli anelli di congiunzione che esistevano tra rivoluzione e guerra e, nello stesso processo, ha estirpato dalla rivoluzione le sue aderenze stataliste, per lasciare intatto il suo nucleo: il recupero dei mezzi di produzione e di scambio, la creazione di nuove relazioni sociali e di poteri non statali. Le autonomie sono la via, sia per resistere alla guerra di espropriazione sia per affermarsi in quanto popoli che si autogovernano.

È certamente vero che le sinistre europee, e anche quelle latinoamericane, sono rimaste senza politica, senza proposte concrete di fronte alla guerra. Però i popoli di questo continente, esperti nel sopravvivere a guerre di espropriazione, per affrontare questa guerra stanno prendendo strade senza precedenti. Lo fanno i Mapuche, i Nasa, i Misak e dozzine di popoli amazzonici, così come lo fanno i neri e campesinos. Cominciano a porre l’autonomia al centro delle loro costruzioni e riflessioni, cosa che, a quanto sembra, sfugge agli intellettuali di entrambe le sponde dell’oceano.

Un ulteriore esempio di quell’eurocentrismo che pretende di parlare “per” i popoli oppressi si dà ora quando Lazzarato fa notare che «il grande merito della rivoluzione russa è stato quello di aprire la strada alla rivoluzione dei popoli oppressi». Dimentica niente di meno che la rivoluzione messicana e la prima rivoluzione cinese. I processi più profondi nascono nelle periferie, molto più tardi si espandono verso il centro.

Non è affatto certo che “la posizione più chiara rispetto alla guerra” sia “ancora quella socialista rivoluzionaria” durante la Prima Guerra Mondiale. È stata sì molto valida, nella sua epoca, per le classi lavoratrici della Russia e dell’Europa, ma ha fallito in Cina, dove i comunisti presero strade ben diverse, creando basi rosse liberate dall’esercito contadino, un processo seguito poi anche da altri popoli del sud.

Gli eurocentristi pensano di comprendere quel che succede in América Latina e considerano le nostre lotte come “laboratori” che confermerebbero ogni volta le loro elucubrazioni. Alcuni di loro si sentono “teoricamente disarmati” di fronte alla guerra, ma non hanno alcuna intenzione di imparare qualcosa dalle esperienze di popoli che sopravvivono a cinque secoli di massacri e stermini. Si preoccupano solo della produzione teorica delle accademie e delle sinistre che fanno riferimento agli stati-nazione, cioè alla colonialità del potere.

A me pare invece necessario riflettere su come i popoli con radici maya organizzati nell’EZLN abbiano smantellato proprio il connubio guerra-rivoluzione, un connubio che nel pasato recente ci ha procurato tanti danni e che ha prodotto risultati così pessimi.

Non è più ammissibile, ad esempio, ignorare coloro che furono sterminati nelle guerre centroamericane, e neppure come le avanguardie si siano poi riposizionate nella legalità abbandonando i popoli che avevano usato (sì, usato) per la loro guerra “rivoluzionaria”.

La decisione da parte degli zapatisti di adottare una resistenza civile pacifica per far fronte alla guerra asimmetrica e allo sterminio dello Stato messicano, è una decisione strategica, ma non ha il minimo rapporto con il pacifismo, se dello zapatismo ho capito qualcosa. Si tratta di una lettura dal basso – dalla prospettiva dei popoli – delle sfide che il sistema ci lancia.

Fonte originale in La Jornada

https://www.asterios.it/catalogo/marcos-la-dignit%C3%A0-ribelle

https://www.asterios.it/catalogo/la-parabola-delleurocentrismo

La parabola dell’eurocentrismo è la storia dell’ascesa, dell’affermazione e dell’attuale declino di una grande narrazione della storia del mondo che, a partire dal XIX secolo, e attraverso continue riformulazioni in risposta al mutamento delle esigenze organizzative, ha sostenuto e legittimato il ruolo dominante dell’Occidente sulla scena mondiale. Ed è anche la storia delle illusorie aspirazioni e promesse universalizzanti dei saperi eurocentrici, del loro essere parabola nel senso di narrazione dal contenuto morale. Oggi, di fronte all’indisponibilità e all’impossibilità da parte dell’Occidente di reiterare la sua promessa egualitaria e al suo ripiegamento su posizioni politiche e intellettuali sempre più conservatrici e rigerarchizzanti, appare sempre più urgente ristabilire quell’equilibrio delle conoscenze e delle interpretazioni che possa contribuire alla creazione di un mondo in cui libertà ed eguaglianza siano una prospettiva concreta per tutti e non un privilegio di pochi.