Il piroscafo Petrella
Chi conosce Creta, l’isola del mito greco per antonomasia, l’isola dalle mille leggende e dalle mille bellezze, leggendo questo libro scoprirà che quel gioiello naturale su cui chiunque metta piede sente la propria anima crescere – per dirla con le parole del poeta Nikos Kazantzakis citato nel libro – porta nel suo grembo tragedie immani, semi-ignorate dalla Storia, quella con la S maiuscola, ma ancora dolorosamente vive, sebbene spesso custodite in silenzio, nella memoria dei pochi superstiti ancora viventi e dei loro discendenti.
Parliamo delle tragedie legate alla Seconda guerra mondiale, quelle su cui Patrizia Larese ha svolto una ricerca storica, spinta, come lei stessa dichiara, dall’esigenza di colmare lacune sul passato tragico del padre. Un passato accennato ma mai raccontato pienamente, come se il dolore o la vergogna fossero troppo pesanti da sopportare. Una caratteristica, questa, che l’Autrice ritroverà in altri superstiti, vittime delle azioni criminose commesse dal nazifascismo tra il 1941 e il 1945 nell’isola di Creta.
“Accadde a Creta” è un viaggio nelle storie, quelle che silenziosamente confluiscono nella “Storia” ma senza diritto di apparizione. Un viaggio che coinvolge il lettore rendendolo partecipe delle atmosfere raccontate e vissute in cinque anni di ricerca sul campo. Lo coinvolge fino a farlo soffrire ma anche, in qualche tratto, a farlo gioire con l’Autrice per quel clima improntato alla “xenìa” che addolcisce molte situazioni e che, chi è stato a Creta, anche solo come viaggiatore, sicuramente ricorderà.
Il libro di cui stiamo parlando ha la fluidità di un romanzo ben scritto pur essendo, in realtà, un racconto realistico e doloroso dal quale emerge tutta la disumana ferocia e il sadismo crudele proprio dell’esaltazione nazista, ma anche la disumanità degli “alleati” che si esprime nella loro gioia quando affondano le navi tedesche sebbene sulle fiancate siano ben visibili le tre lettere P.O.W. ossia prigionieri di guerra. Naufragi in cui annegarono decine di migliaia di vite che mediamente non avevano ancora raggiunto i 24 – 25 anni e che spesso, soprattutto se cretesi, avevano già subito atroci torture da parte dei nazisti.
Proprio sui naufragi si soffermerà in modo particolare l’Autrice poiché la sua ricerca nasce da una ricorrenza, festeggiata in famiglia ogni 8 febbraio e che suo padre commentava con un : “ehhh, sono come Mosé, salvato dalle acque”. Infatti era l’8 febbraio del 1944 quando il piroscafo Petrella, con a bordo una quarantina di prigionieri non italiani e circa 3100 IMI ( Internati Militari Italiani, definizione che toglieva ai soldati italiani lo status di prigionieri di guerra privandoli delle garanzie delle Convenzioni di Ginevra) venne colpito dal sommergibile britannico Sportsman e affondò.
Gli IMI, i prigionieri di Hitler, erano destinati ai campi di concentramento per essersi rifiutati – dopo l’8 settembre 1943 – di servire i nazisti e la RSI.
Dal naufragio si salvarono in pochissimi perché solo i tedeschi avevano le scialuppe di salvataggio e da quelle mitragliavano i naufraghi che cercavano di raggiungere la riva a nuoto.
L’Autrice, mossa dal desiderio di ricostruire quel passato dolente, custodito in silenzio dal padre per tutta la vita, ora riesce a comprendere i perché delle inaccettabili durezze che avevano reso conflittuale il loro rapporto.
Passo dopo passo, andando di memoria in memoria e di luogo in luogo scopre che l’isola fu teatro di carneficine orrende, a partire dalla “battaglia di Creta” del 1941 che portò all’occupazione italo-tedesca. Sotto il dominio della Wermacht perirono circa 8.000 civili cretesi e migliaia di militari italiani.
Oltre agli eccidi, alle torture a morte inflitte anche ai bambini, alle decine di villaggi dati alle fiamme, l’Autrice scopre che prima del Petrella era colata a picco la Donizetti e nessun corpo era stato recuperato. Scopre l’affondamento del piroscafo Sinfra, e del Sifnos, e dell’Oria… e scopre dai documenti ufficiali che l’ordine del Fuhrer era di stipare al massimo le imbarcazioni senza occuparsi dell’eventuale sopravvivenza dei prigionieri, destinati comunque ai campi di concentramento.
Dalle dolorose testimonianze che riesce a raccogliere, la Larese apprende anche che al fuhrer non era sfuggita l’esistenza di una comunità ebraica sull’isola, la più antica d’Europa, composta di circa 300 persone. Solo pochissimi sfuggirono alla cattura perché nascosti in tempo dagli altri abitanti, tutti gli altri vennero imbarcati sulla nave Tanais insieme ad alcune decine di altri prigionieri cretesi e italiani. Tutti subirono la stessa sorte, la nave venne affondata .
Una frase comune a tutte le persone intervistate, sia le più giovani sia i pochi testimoni diretti ormai novantenni, fa riflettere l’Autrice su quella sofferenza inconsolabile che affligge i superstiti e che va oltre il dolore per la morte: il “non aver avuto neanche un corpo su cui piangere”. Questo tormento comune porta la Larese a ricordare la supplica di Priamo ad Achille per riavere il corpo di Ettore. Ricordi che risalgono al liceo ma che ora sono diventati dolorose emozioni da lei toccate con mano. La consapevolezza dell’atavico bisogno di onorare le spoglie dei propri cari, insieme all’esigenza che la memoria non vada perduta, nutrirà l’imperativo morale che la Larese si è data, quello di raccontare, scoprire e poi raccontare, per evitare l’ultimo insulto alle vittime: quello di essere ignorate e dimenticate.
Nel suo racconto c’è anche l’omaggio a quei pescatori che, in un contesto di crudele e generalizzata disumanità, “Mossi da spirito di solidarietà e fratellanza, intrepidi hanno affrontato le onde, sfidando le mitragliatrici tedesche per andare a soccorrere degli ex invasori” come ricorda nei suoi ringraziamenti.
È così che questi cinque anni di ricerca che hanno portato l’Autrice a riavvicinarsi al padre, vittima anche lui di quei traumi irraccontabili, le hanno fatto conoscere “da dentro” la grande forza morale, la dignità e la generosità del popolo cretese. Quella dignità che portava i tedeschi a massacrare interi villaggi perché – come racconta un testimone – non potevano accettare che un popolo pressoché inerme, aggredito da soldati armati fino ai denti, osasse ribellarsi e resistere.
L’intreccio di sentimenti e di testimonianze che Patrizia Larese ha saputo coniugare con una ricerca rigorosa e capillare, rende la lettura di questo libro appassionante e, come dice il prof. P. Fonzi nella prefazione “ci dà un’idea molto concreta di una memoria taciuta, mai tematizzata apertamente” e, per ciò stesso, importante da conoscere e far conoscere.
Fonte: comune.info, 19-02-2023