C’è solo una razza, la razza umana

La diffusione di visioni pseudoscientifiche e di ideologie razziste “ingenue” non dovrebbe mai essere considerata socialmente innocente o ingenua, perché crea sfiducia e paura dell'”altro”. Sentimenti umani che, a loro volta, costituiscono il substrato necessario per l’attuazione delle più sterminatrici politiche razziste.

Se, come è stato confermato quotidianamente negli ultimi anni, le manifestazioni distruttive della xenofobia e del razzismo si esacerbano nei periodi transitori di crisi socio-economica, allora è tutt’altro che indifferente comprendere come il pensiero scientifico moderno tenti di spiegare la presenza senza tempo e persistente nella storia umana di tali politiche minacciose e omicide.

In occasione della recente Giornata Internazionale contro il Razzismo e per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale che, dal 1966, è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per essere celebrata il 21 marzo, è interessante esaminare se vi sia una soddisfacente interpretazione scientifica e, possibilmente, spiegazione biologica dello tsunami di sentimenti e politiche razziste che ora si manifestano apertamente per le strade delle grandi città, nelle aule, nei luoghi di lavoro.

Esiste una base biologica per classificare le persone in diversi gruppi razziali? E la diversità visibile della specie umana giustifica la discriminazione razziale in razze “superiori” e “inferiori”? Nella seconda metà del XX secolo, gli esperti iniziarono a ricorrere sempre più spesso all’analisi comparativa e statistica del DNA umano, ritenendo che, in ultima analisi, i nostri geni fossero responsabili delle differenze visibili tra le persone.

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In questo campo di ricerca, le prime indagini sistematiche furono condotte dall’americano Richard Lewontin (R. Lewontin), uno dei principali genetisti di popolazioni dell’Università di Harvard. Questo ricercatore progressista e geniale è riuscito, durante gli anni ’70 e ’80, a escogitare un metodo efficiente per correlare accuratamente la nostra diversità come specie con i nostri geni particolari. In altre parole, è riuscito, per la prima volta, a mettere in relazione i genomi umani con le differenze tra le razze umane.

La conclusione inaspettata e particolarmente sorprendente della sua ricerca pionieristica (poi confermata da altre ricerche correlate) fu che la diversità genetica tra popolazioni umane molto diverse e geograficamente isolate è minima, mentre la diversità genetica tra individui appartenenti alla stessa popolazione è proporzionalmente molto elevata e più grande!

Ad esempio, ricerche successive hanno dimostrato che le caratteristiche fisiche esterne degli europei bianchi differiscono in modo significativo a seconda che siano nordici o mediterranei, e lo stesso vale per asiatici o africani. Tuttavia, le stesse presunte chiare differenze “razziali” si osservano ugualmente — se non di più — tra i membri di ogni singola popolazione umana che vive nella stessa area geografica. E come hanno scoperto, queste differenze nella diversità genetica e anatomica tra gli umani non sono mai osservate in “pacchetti” geograficamente predefiniti, cioè in diverse “tribù” della specie umana: le varianti genetiche appaiono distribuite statisticamente in tutte le popolazioni umane esistenti che vivono in tutta la lunghezza e la larghezza del nostro pianeta.

La spiegazione, quindi, delle differenze senza tempo e molto persistenti nelle “razze umane” va cercata non nella nostra comune genetica, ma nell’ideologia razzista, attraverso la quale i rispettivi poteri nazionali tentano di legittimare le grandi disuguaglianze storiche, sociali, culturali.

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Dai geni ai… cervelli xenofobi

Se l'”identità” biologica e l’unità della specie umana sono in definitiva determinate dai nostri geni condivisi, allora come spieghiamo la grande diversità della nostra specie e l’unicità di ogni essere umano? La risposta a questa domanda cruciale dipende dalla rivelazione delle complesse relazioni tra geni, ambiente e comportamento: ovvero da come in ogni creatura umana il genotipo, cioè l’insieme dei suoi geni, insieme all’ambiente co-plasma il fenotipo, cioè l’insieme delle caratteristiche anatomiche e comportamentali dell’organismo.

Il mediatore decisivo di queste relazioni e interazioni triadiche tra geni, comportamenti e ambiente è il nostro sistema nervoso e più specificamente il nostro cervello. Oggi, quindi, alla ricerca del possibile substrato biologico su cui si inscrivono e si attivano i nostri pregiudizi razziali, la ricerca neuroscientifica si concentra non più sui geni ma sul cervello. Perché se i pregiudizi razziali non sono geneticamente determinati ma acquisiti, allora sono il cervello e le impronte mentali che permettono ai nostri comportamenti razzisti di manifestarsi. Tuttavia, ad oggi, le infrastrutture cerebrali del comportamento razzista non sono state identificate.

Dopotutto, anche in un lontano passato, varie teorie frenologiche di “inferiorità razziale” si sono inutilmente focalizzate sul cervello per scoprire l’inferiorità mentale dei nativi africani, americani, asiatici e successivamente dei popoli mediterranei europei. Un’ideologia antropologica inventata, in epoca moderna, nel tentativo di legittimare, attraverso la scienza, lo sfruttamento da parte della “superiore” razza bianca di queste popolazioni impoverite e “incivili”.

Questo discredito-sfruttamento razziale, che molto spesso si trasformava in sterminio biologico di massa, non era considerato dai colonialisti cristiani per nulla umanitariamente indecente e nemmeno cristianamente proibito perché, grazie alla pseudoscienza dell’epoca e alla corrispondente cultura razzista, avevano imparato a vedere i membri di queste “razze inferiori” come… subumani. Non hanno fatto lo stesso nei loro paesi con i loro coetnici, che appartenevano alla classe operaia o agli strati sociali inferiori?

Fonte: efsyn.gr, 23-03-23

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