Scenari di Altra Economia

 

Per tutto il Novecento capitalismo e socialismo si sono combattuti, ciascuno rivendicando il merito di garantire l’autentica “democrazia”. Ma a ben vedere quest’ultima veniva ricavata, per così dire, solo come profilo relativo e residuale dopo aver anzitutto delineato un modello di economia, individualista o collettivista. Mai si è pensato di partire dalla democrazia per poi svolgerne sistematicamente le conseguenze nell’economia. Ciò che chiamiamo “altra economia”, nella ricchezza delle sue teorizzazioni e sperimentazioni, è a mio avviso la determinazione fedele di questa visione radicale e globale della democrazia, secondo una costellazione di significati ancora poco meditati ma piena di promesse. Alludo a una pluralità di valori, criteri e regole capaci di ispirare i necessari processi di liberazione per tutti quelli che oggi, nella società della globalizzazione del capitale e della disperazione, non hanno un posto dove andare né qualcuno disposto a prendere sul serio la loro dignità.

Un modello al tramonto

Uno degli effetti peggiori della crisi generale in cui ci troviamo è quello di spegnere l’intelligenza del futuro, cioè la capacità di individuare soluzioni nuove ai problemi sistemici che offuscano oggi lo scenario mondiale. Le conseguenze della fede nei dogmi del neoliberismo, che l’Unione Europea ha accolto con incosciente credulità, stanno provocando in misura crescente la lacerazione del tessuto sociale, la disarticolazione della democrazia e il dissesto ambientale. Inoltre, le politiche neoliberiste e le loro istituzioni non sono minimante capaci di gestire le dinamiche della mondialità: così vediamo aggravarsi fenomeni come le migrazioni forzate, il ritorno delle politiche di potenza e dei conflitti bellici, il terrorismo, i fondamentalismi, i localismi xenofobi. In breve, quello attuale è un modello di civiltà al tramonto, che si trova preso non in una “crisi” congiunturale bensì in un declino irreversibile e pericoloso.
È chiaro che in una situazione del genere non servono né il riformismo politico, che cerca qualche aggiustamento del sistema concependolo per giunta in funzione dell’egemonia dei grandi poteri finanziari, né l’innovazione tecnologica. È necessario lavorare, invece, a una trasformazione del modello di civiltà e di economia. Una trasformazione graduale, democratica e nel contempo radicale proprio perché introduce logiche nuove, sintetizzabili nella transizione dal primato del capitale a quello della dignità umana, dalla competizione alla cooperazione, dall’iniquità alla giustizia che non esclude persone e popoli, dall’individualismo irresponsabile alla cura del bene comune.
È altrettanto evidente che una simile transizione implica anzitutto una svolta spirituale, cioè una visione positiva della vita orientata a quei valori viventi che sono persone, comunità, umanità, natura. Si tratta di valori molto più elevati e concreti dei due soli valori che il dogmatismo dell’economia liberista abbia saputo vedere, cioè il valore d’uso – le cose – e il valore di scambio – il denaro –. Un’autentica svolta spirituale, a cui devono concorrere tutte le fedi e le sapienze del mondo, deve ispirare una svolta culturale, un cambiamento di mentalità che motivi persone, gruppi e istituzioni a operare per il bene comune e non per competere, accumulare, consumare in un ciclo insensato e distruttivo.
È anche chiaro, d’altronde, che serve una profonda svolta politica che conduca a operare scelte coraggiose e a gestire i processi della trasformazione. Oggi scontiamo la mancanza di una politica autentica, poiché essa è ridotta a un sistema autoreferenziale i cui protagonisti competono tra loro nella lotta per il potere. Nel migliore dei casi un sistema simile è sterile e non dà risposta ai problemi, altrimenti è direttamente nocivo. Deve sorgere e diffondersi, piuttosto, la politica come coltivazione del bene comune e sviluppo della democrazia.
Tutte queste svolte implicano a loro volta un rinnovamento radicale del metodo, del senso e della prassi dell’economia. Per ignoranza o per accecamento ideologico molti credono che al capitalismo globale a guida finanziaria non ci sia alternativa. In realtà esistono molti percorsi concreti di trasformazione dell’agire economico, che qui richiamo brevemente.

Vie alternative

Nel corso del ‘900 e soprattutto in questi anni si è sviluppata la ricerca di modelli economici alternativi al modello capitalista e anche a quello del socialismo reale. Tra i principali modelli alternativi oggi studiati e anche attuati in esperienze più o meno diffuse, un po’ ovunque nel mondo, c’è anzitutto l’economia gandhiana della trusteeship. Basata sull’opera di Gandhi, muove dal riconoscimento del fatto che l’economia è parte integrata dell’etica della buona vita comune. Il soggetto economico non deve assolutizzare l’interesse privato e il possesso, ma deve lavorare e agire nello spirito dell’amministrazione fiduciaria (trusteeship). I talenti ci sono dati perché portino frutto per noi e i nostri cari, ma anche per gli altri: il lavoro è servizio. Il soggetto veramente operativo dell’economia è la comunità locale, che deve sviluppare i propri talenti e le proprie tradizioni per arrivare alla sussistenza economica e allo scambio commerciale dei propri prodotti tipici. La rilocalizzazione è dunque un criterio essenziale dell’economia. Questo modello è studiato e sperimentato in India soprattutto.
Va poi ricordata l’economia delle relazioni, di dono. Al di là dell’economia formale capitalista, in molte aree del mondo – in Africa, in Asia, in America Latina – è praticata l’economia informale, dove “dono” non significa “regalo”, ma relazione-di-dono, dinamica di condivisione. Grazie a questa pratica alcune popolazioni sono riuscite a sopravvivere all’impatto con il modello occidentale. Qui siamo di fronte alla pratica alternativa più diffusa e anche a un potenziale spirituale, culturale ed etico capace di generare un profondo cambiamento di civiltà. L’eredità dello stesso cristianesimo chiede di guardare proprio in questa direzione, non certo verso la logica del primato del capitale e della finanza.
Non si può dimenticare, d’altro canto, l’esperienza italiana dell’economia di comunità. Proposta da Adriano Olivetti e sperimentata a Ivrea, nasce dallo spirito cristiano della fraternità. La comunità locale (corrispondente per Olivetti alle dimensioni di una provincia) deve essere intesa come un co-soggetto essenziale della democrazia. La rappresentanza democratica non può reggersi solo sul suffragio universale, ma va integrata come rappresentanza: a) delle comunità; b) delle forze del lavoro; c) della scienza e della ricerca. L’azienda agricola e quella industriale devono avere legame organico con il territorio e carattere comunitario; l’impresa è un bene comune, per cui alla proprietà privata deve affiancarsi la proprietà cooperativa e comunitaria. Nei luoghi di lavoro occorre la bellezza, la crescita spirituale, la democratizzazione.
Vorrei quindi citare la bioeconomia e il movimento per la decrescita. Nato dagli studi di Nicholas Georgescu-Roegen, economista rumeno, il modello della bioeconomia configura un’economia ecologica, che tiene conto della seconda legge della termodinamica o legge dell’entropia: per produrre qualcosa in realtà consumiamo energia e materia maggiori del prodotto stesso. Dobbiamo quindi orientare l’economia non alla crescita, né al mito dello sviluppo sostenibile, ma al risparmio, al riuso, al riciclo, al restauro, per mantenere aperto il futuro anche alle generazioni che verranno. Spese militari e spese di lusso vanno bandite. Tale tendenza, con la mediazione del pensiero di Ivan Illich, è stata poi sviluppata dal progetto della decrescita di Serge Latouche, che punta a invertire la corsa alla crescita per instaurare la cura dei beni, delle risorse e anche dei consumi secondo criteri di sobrietà e di sviluppo dei beni relazionali più che di quelli materiali.
Un altro percorso fecondo è quello dell’economia di comunione e dell’economia civile. Nata dall’intuizione di Chiara Lubich e dal movimento dei Focolari, questa proposta punta a introdurre la logica della comunione nell’attività economica, partendo dalla riconfigurazione dell’impresa e del suo fine naturale, finora, il profitto. Quest’ultimo non va negato, ma ripensato in chiave comunionale e suddiviso nelle seguenti quote: una parte del profitto va all’imprenditore e a tutti i lavoratori, una parte per la solidarietà sociale, una parte per reinvestire nell’azienda in quanto bene comune, una parte per finanziare attività educative che formino persone all’altezza dello spirito di comunione. Da questa idea si è sviluppata una serie di studi sull’economia civile, dove si afferma che il mercato non va concepito come un luogo di guerra di tutti contro tutti, ma come un luogo di reciprocità dove si cerca il vantaggio comune. Luigino Bruni e Stefano Zamagni sono i principali esponenti di tale orientamento.
Ricordo inoltre l’economia del bene comune. Nata da un progetto dell’economista austriaco Christian Felber, il cui testo principale è appunto L’economia del bene comune (Edizioni Tecniche Nuove, Milano 2012), questo modello sostituisce al Pil il Bilancio del Bene Comune e subordina il profitto riducendolo a un mezzo necessario ma relativo a un fine più alto, che è il contributo di ogni azienda appunto al bene comune della società. Tale concezione prevede la nascita di aziende del bene comune (più di 2000 imprese hanno aderito al progetto in Germania, Austria, Svizzera e Italia settentrionale), lo sviluppo del credito cooperativo e il ruolo di banche di proprietà pubblica e la chiusura delle Borse. Al momento è forse il progetto più dettagliato e vicino alla nostra situazione.
Non va dimenticata, in questo panorama, la prospettiva dell’economia solidale, partecipativa e costituzionale. Si tratta di una concezione nata da una molteplicità di studi di autori sudamericani come Euclides Mance, tedeschi, francesi, inglesi; gli autori europei rileggono l’economia cercando le modalità della pianificazione democratica come terza via tra il dominio puro del mercato e quello dello Stato. Qui il criterio fondante è quello offerto dal costituzionalismo, per cui si traducono in chiave economica i principi delle Costituzioni democratiche. Gli autori principali di questa tendenza sono Peter Ulrich, Alfred Fresin e Michael Albert.

Per un modello integrato: verso un’altra democrazia

Concludo evidenziando sia un’ipotesi lavoro, sia un processo sociale e storico già ricco di tradizione e che d’altra parte deve ancor più svolgere la sua capacità di anticipazione. L’ipotesi riguarda la maturazione di un modello integrato che raccolga organicamente il meglio delle prospettive ricordate, valorizzando in particolare le indicazioni più congruenti con la nostra situazione.
La visione entro cui questo modello integrato deve trovare collocazione è, a mio avviso, quella che riconosce la democrazia come forma della società. Finora nella nostra tradizione essa è stata intesa esclusivamente e riduttivamente come regime politico e procedura di governo sulla base della rappresentanza popolare. L’idea, custodita nell’etimologia del termine, di un governo o di una forza o di un potere del popolo è stata considerata un riferimento ideale da tradurre sul piano delle regole procedurali per le elezioni e la vita dei parlamenti. Che cosa accade, invece, se si radicalizza la nozione stessa di democrazia, vedendo in essa il profilo di una forma di società nella quale la dignità di tutti è onorata e attuata?
La “forma” di una società è la sua fisionomia e insieme la sua logica fondante, da cui si traggono le regole essenziali per la convivenza. La fisionomia è quella di una caserma, come accadeva in molte parti del mondo nella prima metà del Novecento, o è quella di un mercato, come si pretende di fare oggi? In una visione autenticamente democratica, come aveva intuito Adriano Olivetti, la vera fisionomia della società è quella di una comunità universalmente umana, dove non ci sono barriere insormontabili tra persone o tra popoli o comunque tra categorie individuate per etnia, genere, età, classe sociale, cultura, fede, interessi.
Se la società è una comunità universale, allora la democrazia è il suo ordinamento congruente, quello per cui la dignità e i diritti fondamentali rappresentano il criterio cruciale per ogni sfera organizzativa o comportamento collettivo. In tale prospettiva si possono e si devono svolgere tutte le implicazioni dell’ordinamento democratico. La democrazia è una forma di vita, prima di essere una procedura, è più precisamente una forma di convivenza che deve trovare attuazione adeguata in ogni sfera dell’esperienza sociale. Allora il compito attuale è quello di giungere a dare questa forma alla società mondiale realizzando in particolare le conseguenze economiche della democrazia.
Per tutto il Novecento capitalismo e socialismo si sono combattuti, ciascuno rivendicando il merito di garantire l’autentica “democrazia”. Ma a ben vedere quest’ultima veniva ricavata, per così dire, solo come profilo relativo e residuale dopo aver anzitutto delineato un modello di economia, individualista o collettivista. Mai si è pensato di partire dalla democrazia per poi svolgerne sistematicamente le conseguenze nell’economia. Ciò che chiamiamo “altra economia”, nella ricchezza delle sue teorizzazioni e sperimentazioni, è a mio avviso la determinazione fedele di questa visione radicale e globale della democrazia, secondo una costellazione di significati ancora poco meditati ma piena di promesse. Alludo a una pluralità di valori, criteri e regole capaci di ispirare i necessari processi di liberazione per tutti quelli che oggi, nella società della globalizzazione del capitale e della disperazione, non hanno un posto dove andare né qualcuno disposto a prendere sul serio la loro dignità.


https://www.asterios.it/catalogo/quale-mondo-quali-futuri