Un’Europa si aggira come spettro. Alcune note a partire da Derrida

 

“La menzogna non è un fatto né uno stato, è un atto intenzionale, un mentire. Non c’è la menzogna, c’è questo dire o questo voler-dire che si chiama il mentire. Non ci si dovrebbe chiedere: che cos’è una menzogna? Ma, più che altro: «Cosa fa e, prima ancora, cosa vuole l’atto del mentire?»”.

Che cos’è l’Europa? Un pensiero sempre insoddisfatto.

Senza pietà per sé medesima, essa non cessa mai di cercare la felicità

e, cosa ancor più indispensabile e preziosa, la verità.

P. Hazard, La crisi della coscienza europea

1. Un’altra storia della menzogna

Nei prolegomeni alla sua Storia della menzogna — un seminario confluito in una conferenza pronunciata al Collège international de philosophie nel 1997[1], Jacques Derrida si chiede se sia possibile raccontare una storia della menzogna senza mentire.

La questione potrebbe essere così formulata: senza falsa testimonianza o spergiuro, e ammesso che la menzogna abbia una storia veritiera che si possa ricostruire genealogicamente, la si potrebbe mai pensare — alla stregua di una storia dell’errore da cui pur si differenzia[2] —  al di là dei registri tradizionalmente discorsivi, consapevoli e confessionali o al di là dello schema dialettico convenzionale del lavoro negativo che concorre al processo di “verificazione della verità in vista del sapere assoluto”?[3]

In queste dense pagine il filosofo franco-algerino s’interroga non sulla storia delle idee di menzogna[4], ma su una genealogia decostruttrice del mentire come pratica ed esperienza tecno-mediatica che fuoriesce dalla logica assolutizzante del concetto tradizionale di menzogna — senza però mai poterlo fare completamente — dando così luogo a un altro tipo di storicità.

Una “storicità pratica, sociale, politica, giuridica, tecnica”[5] che non sia la mera comparazione tra idee più o meno stabili di menzogna nelle differenti culture, ma che si rivela come ipotesi ben più radicale: “la questione della menzogna dovrebbe fare da filo conduttore privilegiato per una riflessione sull’essenza e sulla storia dell’intenzionalità, della volontà, della coscienza, della presenza a se stessi, di ogni fenomenologia, ecc.”[6].

Fin dalle prime pagine del suo testo, Derrida sottolinea come la storia della menzogna non sia assimilabile a quella dell’errore (come del resto è altro da quella dell’ignoranza, del pregiudizio e del ragionamento sbagliato)[7]. Per il filosofo non si tratta nemmeno di vagliare la “sincerità” di una costruzione concettuale (per esempio, l’ipotesi giudaico-cristiana di Kant della menzogna come depravazione) ma di confrontarsi con le mutazioni tecniche che sono intervenute nella storia della coscienza e dell’incoscienza come nella struttura del simulacro e dell’immaginario sostitutivo.

La menzogna non è un evento in quanto tale, perché è strettamente connessa alla coscienza interiore di chi mente:

la menzogna non è un fatto né uno stato, è un atto intenzionale, un mentire. Non c’è la menzogna, c’è questo dire o questo voler-dire che si chiama il mentire. Non ci si dovrebbe chiedere: che cos’è una menzogna? Ma, più che altro: «Cosa fa e, prima ancora, cosa vuole l’atto del mentire?»[8]

Questa “figura prevalente e riconosciuta da tutti”, una “definizione della definizione tradizionale della menzogna”[9], apparentemente chiara ed evidente, rivela anche una dimensione eccedente che non può prescindere però da quell’elemento solido — una teoria e una prassi classica della menzogna — da cui pure vorrebbe distaccarsi.

Ripercorrendo le tappe di una possibile genealogia della menzogna — dove si intrecciano elementi fittizi, intenzionali e persino sacrali — Derrida non può che registrarne un certo carattere labirintico[10].

Una sovradeterminazione all’infinito quella che s’incontra, un dedalo in cui la menzogna funge da nottola per ritrovare la via e da vicolo cieco: pur riconoscendo una dimensione erratica ed eccedente, Derrida rende immediatamente manifesto che senza fare appello a un concetto classico e dominante di menzogna — un concetto franco[11] come pure lo ribattezza — l’esperienza del mentire rischierebbe sempre di ricadere in uno spazio irriflesso e irriflessivo, una penombra non tematizzabile in cui scomparirebbero le differenze tra volontario e involontario, presenza e assenza, ignoranza e conoscenza e così via. Senza un profilo classico della menzogna, un “qualcosa di grezzo, di quadrato, di rigido, di ottusamente solido, se non vogliamo dissolverlo, liquidarlo in quel flusso torrenziale di mezze tinte indecidibili”[12], sarebbe impossibile osservare il suo modo di dislocarsi.

La stessa menzogna “assoluta”, quella che Hannah Arendt in Verità e politica[13] ascrive alla moderna manipolazione dei fatti, una sorta di “internalizzazione” della ragion di Stato adoperata in campo internazionale, sembra conservare l’elemento della coscienza di sé riflessiva: se deve esercitarsi in piena coscienza, una coscienza che distingua almeno tra ciò che si pensa e si dice, la menzogna assoluta rischia di essere soltanto l’altra faccia del sapere assoluto. Ma nel passaggio dalla menzogna politica tradizionale alla riscrittura moderna della storia ciò che accade è un nuovo statuto dell’immagine come completo sostituto della realtà.

Una sostituzione che grazie alla ripetibilità tecno-mediatica è “più in vista di quanto non sia l’originale”; mentre in passato la menzogna serviva per dissimulare e nascondere un segreto, ora mira a sostituire completamente la realtà distruggendola.

Per circoscrivere la “sua” menzogna, Derrida ne sottolinea il registro performativo, il suo essere portatrice di “una promessa di verità, anche laddove la tradisce”[14]: la bugia pubblica, tuttavia, non si limita a creare un evento e un effetto di credenza ma fa riferimento – contraddistinguendola da molti altri atti performativi – a valori di realtà, verità e falsità che esulano da quella stessa performatività. Non gli atti performativi che producono effetti, ma la violenza performativa degli oggetti contenuti in quegli stessi atti.

2. Il ritorno spettrale della menzogna

In apertura di Histoire du mensonge Derrida esordisce con una, o meglio due confessioni: osserva come il favoloso e il fantasmatico, alla stregua del mito, non appartengano né al registro del vero né a quello del falso. Assomigliano invece a un simulacro — “nella penombra di una virtualità”[15] — che non rientra neppure nell’ambito del possibile, tale per cui un’ontologia o una mimetologia possano pretenderne o darne ragioni. Ciò non li qualifica però come errori o inganni.

Qualche pagina dopo, Derrida ritorna lapidariamente sulla questione dello spettrale ricordando come la questione della menzogna non riguardi un’assenza di sapere o del saper fare, ma sia investita da una dimensione altra, quella di una sintomatologia dell’inconscio associata a una logica della tecno-performatività mediatica e del phantasma[16].

Quando dialoga con l’articolo di Alexandre Koyré del 1943 Riflessioni sulla menzogna politica (ripubblicato nel giugno 1945 sulla «Contemporary Jewish Record»)[17], un testo fondamentale per i temi arendtiani inclusi quelli del mentire a se stessi e della menzogna moderna, Derrida vi scorge un limite e un’apertura proprio a partire dal tema del revenant, della spettralità come incombente ritorno del peggio e capacità immaginifica di produzione di immagini.

Da un lato, lo scetticismo di Koyrè circa la legittimità del nostro diritto di ricorrere alla parola “menzogna” nasce dal fatto che essa è intesa come rischio di una perversione totalitaria, ossia l’opposto o la negazione del concetto di veracità: un’idea che le filosofie ufficiali dei regimi totalitari individuano non nel suo valore universale ma in una “conformità all’essenza della razza, della nazione o della classe”.

Una concezione — quella totalitaria — pragmatista e attivista della verità che mira a trasformare il reale piuttosto che comprenderlo. Tale critica, osserva Derrida, non investirebbe solo una logica totalitaria ma qualsiasi tentativo di decostruzione della verità che non la riconsideri come neutra oggettività, adeguazione o rivelazione, qualsiasi pratica performativa messa in campo da una politica o un linguaggio mediatico.

Ma il discorso di Koyrè per Derrida è anche foriero di un’apertura: se i regimi totalitari sono garantiti dall’opposizione metafisicamente fondata tra verità e falsità e non riescono mai a scardinare quell’opposizione limitandosi a rovesciarne la gerarchia, la condanna dei totalitarismi fondati sul primato della menzogna – un argomento che si ritrova anche in Arendt – non passa attraverso una parallela esaltazione della trasparenza dello spazio pubblico ma attraverso un principio di resistenza, quella che negli Stati Uniti viene definita “civil disobedience”, che non è soltanto ribellione contro una legge superiore ma alle stessi leggi positive in contraddizione con se stesse.

Nonostante tutti i limiti dell’analisi arendtiana, la struttura mediatica che la filosofa prende in esame — quella della trasformazione dell’immagine nel suo simulacro — da un lato insiste ancora su una struttura tradizionale della menzogna (quella che opera per esempio nella manipolazione di un discorso di Fidel Castro spacciato per un’intervista esclusiva di un canale francese), dall’altro produce un’alterazione irreparabile di cui non è più possibile distinguere tra cosa sia informazione e la sua deformazione prospettica: la menzogna è ora un agire inteso come capacità di produrre immagini senza alcun modello di riferimento, una menzogna che non è più menzogna ma diviene una “esperienza del tempo”[18] a venire che plasma la possibilità di una storia in generale.

 

3. Né figura, né concetto: l’Europa al di là delle sue menzogne

Quando la questione dell’Europa affiora nelle opere di Jacques Derrida sono la presunta innocuità  — il filosofo stesso definiva l’Europa “piccola cosa” — e la legittimità di una critica alla monogenealogia culturale a essere messe in discussione per essere poi capitalizzate in una dimensione aporetica: piuttosto che impaludarsi sterilmente nella definizione di cosa l’Europa sia o possa essere, il filosofo franco-algerino opta per una decostruzione delle menzogne di ogni assetto concettuale sostanzialistico e identitario dell’idea di Europa.

Per Derrida di Europa si può parlare soltanto al condizionale a partire dal suo carattere fittizio. Si tratterebbe, di volta in volta, di un compito inesauribile, di un dovere, di un processo di auto-immunizzazione, dell’unicità di un evento imminente, della “venerabile antichità di un tema esaurito”, di una persona ossia maschera spirituale di un senza volto che minaccia e riserva la speranza di una qualche somiglianza, di un “nome assolutamente proprio”, di un altro discorso, di una certa dose di scetticismo verso ogni responsabilità etico-politica che non sia al tempo stesso rischio e un atto di fede, dell’occasione per un incontro forse tardivo.

L’Europa, al di là e al di qua di ogni retorica, permane come domanda ossessiva più che come risposta. Tra il 1957 del suo primo lavoro su Husserl fino all’ultimo articolo redatto poco prima di morire nel 2004, Une Europe de l’espoir, una certa nevrosi europea ritorna sempre alla possibilità di una tale impossibilità.

Ripensare l’Europa significa ereditarla responsabilmente, una risposta a quella doppia ingiunzione, pragmaticamente contraddittoria, di riaffermare da un lato ciò che ci ha preceduto, riaffermare “qualcosa che riceviamo prima di poterlo scegliere”, e allo stesso tempo, in maniera non condizionata, “darle un nuovo impulso per mantenerla in vita (…) come due firme davanti lo specchio, una di fronte all’altra”.[19]

Quando convoca nelle proprie riflessioni il termine Europa, Derrida evoca, brutalmente, una doppia non presenza: l’evento europeo o l’avvento dello spazio europeo da un lato è sempre più compromesso da un non presente, un tempo a venire e non un semplice futuro. Dall’altro, senza confidare in alcuna attesa messianica o nella configurazione di un assetto teleologico, l’Europa non è investita dall’imminenza di una venuta o di un ritorno al futuro, ma come processo continuo di trasformazione è comunque affetta da una non presenzialità che la costituisce dall’interno.

Nella conferenza sull’identità europea organizzata a Torino nel 1990, Derrida è invitato a prendere la parola proprio all’indomani della caduta del Muro di Berlino. In quell’intervento, rielaborato e pubblicato poi come L’altro capo in un giornale che ha per titolo Liber, Revue européenne des livres (ottobre 1990, n. 5)[20], egli propone una genealogia dell’Europa come capo. Rinunciando, o meglio sospendendo momentaneamente, il riferimento di ancor più tradizionali personificazioni europee, a partire dalla sua dubbia etimologia e dalla mitologia del rapimento e della violenza, del suo essere donna e figlia, l’identità di Europa ci si presenta come ineluttabilità della questione del capo, un paradigma che si sarebbe affermato a discapito di altri discorsi.

Testa, estremità, cima, scopo, telos, eschaton, mascolino, comando e, ancora, porre il capo, tenerlo, essere a capo, cambiar capo, intestare, capitolare e decapitare, per stare soltanto sulla superficie di quella stessa grammatica e sintassi del capo che qui Derrida sta evocando, costituirebbero la cifra stessa, la più intima, dei moderni discorsi e contro-discorsi europei come nostro capo e capo dell’altro.

Uno sdoppiamento che precede, garantisce per poi rilanciare la possibilità di una logica alternativa, un altro dal capo come un al di là della logica binaria dell’incoronazione e della decapitazione. Ma tale al di là, come la stessa biografia del filosofo franco-algerino testimonia, non rinvia ad un altrove sospeso tra un volersi porre a capo di un ennesimo discorso sull’Europa — più o meno menzognero — né opporvisi sposando semplicemente le ragioni dei capi altrui. E l’ossessione per l’immagine del capo testimonia la sua importanza capitale, la sua presenza costante e il carsismo del suo stesso affiorare nel corso della tradizione intellettuale europea.

L’inattualità dell’interrogazione sull’Europa è inaggirabile. Per un verso datata è la stessa proposta di Derrida, che, affidandosi a un convegno e poi ad un articolo di giornale, è infarcita di riferimenti al preciso scenario geopolitico degli anni novanta, scontando l’inevitabile aporia che “il giorno, per l’appunto, la questione o la riflessione del giorno, la risonanza della parola oggi, al giorno d’oggi”.[21] In seconda battuta, tanto più inattuale sarebbe il tentativo di ripartire dal “vecchissimo soggetto dell’identità culturale in generale”, quello che prima della seconda guerra mondiale si sarebbe chiamato identità spirituale.

Se l’Europa non è affatto quella spirituale, nemmeno nella sua torsione critica, l’esaurimento di una tale risorsa e l’impossibilità di definirla altrimenti è ciò che ne garantisce la propria presenza spettrale. Le crisi dell’identità europea non possono più essere tematizzate in quanto tali. Non solo la crisi in quanto tale e i vari tentativi di attualizzazione di motivi spengleriani, manniani, pannwitziani, simmeliani, lessinghiani, etc. sono irrimediabilmente destinati a fallire, ma anche la mancata capitalizzazione di un’impostazione meta-critica di questi “vecchi” discorsi apparterebbe alla stessa logica argomentativa.

Per quanto sottili e fondanti la stessa formazione intellettuale derridiana, anche i discorsi husserliani e heideggeriani non sono esenti da una tale fossilizzazione. L’analogia capitale è qui predicata nelle diverse forme di tematizzazione di quella stessa crisi di una qualche forma spirituale: la “forma” hegeliana del ritorno a sé dello spirito nel sapere assoluto, la forma husserliana della crisi dell’umanità europea e quella heideggeriana che scorge nella Entmachtung dello spirito la destituzione dell’Europa stessa. Per Derrida, è necessario prendere le distanze da una riflessione cosciente che tenti di concettualizzare la “crisi” europea come risveglio e decisione, ossia ricapitalizzazione del proprio senso.

Nel momento in cui sta formulando la propria critica all’idea capitale di Europa, Derrida osserva tra parentesi che la propria proposta ha tanto più senso qualora la storia europea sia stata o sia possibile considerarla unitaria e identificabile, “ammesso che ne abbia una”.[22]

Europa rinvia dunque a un topos che spazializza nel momento in cui viene spazializzato: essa è tematizzabile soltanto a partire da un gesto decostruttivo, da una traccia in cui l’altro avviene, da un futuro a-venire che non è anticipabile.

Anticipazione e inanticipabilità costituiscono i due volti di una stessa moneta: dunque dobbiamo diffidare sia dalla memoria ripetitiva, sia dal tutt’altro dell’assolutamente nuovo; sia dalla capitalizzazione anamnestica che dall’amnesica esposizione a ciò che assolutamente non sarebbe più identificabile.[23] L’idea di Europa, che si è identificata tradizionalmente in una figura, in una fisionomia, è foriera di trasfigurazioni, slittamenti e raddoppiamenti continui:

L’Europa ha anche confuso la sua immagine, il suo volto, i suoi tratti e il suo luogo, il suo aver luogo, con una punta avanzata, con un fallo, se volete, quindi ancora con un capo per la civiltà mondiale o la cultura umana in genere. L’idea di una punta avanzata della esemplarità, è l’idea dell’idea europea, il suo eidos, insieme come arché — idea di cominciamento ma anche di comandamento (…) — e come telos — l’idea della fine, di un limite che compie o pone un termine, una volta che si sia venuti a capo del compimento, al compito del compimento.[24]

Nei moderni discorsi europei Derrida sottolinea il ruolo della visione, ossia come il discorso tradizionale della modernità sia legato alla possibilità di vedere un orizzonte e vedersi riflessivamente all’orizzonte, ossia un limite oltre cui proiettarsi, paradigma che non esclude, anzi forse presupponendole, differenze di tipo tattile, di contatto, di insediamento, di circolazione, di densità e di penetrazione.

In tensione continua tra universalizzazione e universalità, l’Europa derridiana appare disseminandosi in altri resti figurativi e in una certa spazialità che la esibisce e la limita allo stesso tempo. Estendendo e specificando la sintassi del capo Derrida nel 2002 giunge a quella della fronte, del fronte e della frontiera, chiedendosi di nuovo:

Che cosa accade oggi, nel mondo, e più vicino a noi in Europa? Che cosa accade a questi limiti che si chiamano frontiere? A questi fronti virtuali che si chiamano frontiere? Frons nomina ciò che fa fronte (fait face), nel punto più alto della testa e del capo (κεφαλή, caput), al di sopra dello sguardo, all’altezza capitale di ciò che è capitale, la capitale, il capitale stesso. Sulla faccia o sulla facciata eminente di ciò che vi è di più sovrano — la testa, località orientata, superficie d’esposizione ma anche di protezione rivolta verso il fronte — vi è luogo a fare fronte (il y a lieu de faire front), come si dice in francese, contro l’esterno se non addirittura contro lo straniero. Al di sopra degli occhi, la superiorità, l’altezza stessa del frons, in latino, non lontano dal greco οφρύς, è anche, in questa figura della figura, un limite territoriale, la frontiera di uno Stato sedicente sovrano quando intende difendersi attaccando su una linea di battaglia, al momento di far fronte contro l’invasione dello straniero o del nemico.[25]

“Figura della figura”, al di fuori di ogni nostra visibilità riflessa, ciò che sfugge al nostro campo percettivo, la frons è riconosciuta tale solo se istituita o se riflessa negli occhi di uno straniero o nemico. Una tale iperfiguratività è ciò che allontana e in cui si coagulano tutte le risorse metaforiche del fronte politico (“di destra o di sinistra, dal ‘fronte nazionale’ al ‘fronte di liberazione nazionale’, dal ‘fronte di rifiuto’ al ‘fronte popolare’, fino al ‘Fronte islamico della salvezza’ “).

Allo stesso tempo, si chiede ripetutamente Derrida, cosa accade oggi in quella parte del mondo a noi più vicina che è l’Europa? Sarebbe possibile, s’interroga il filosofo ricevendo una laurea honoris causa all’Università di Atene, riflettere sui limiti interni della sovranità universitaria europea (le discipline, le gerarchie e i campi del sapere) sul modello analogico delle frontiere esterne della sovranità politica europea degli Stati-nazione? Assolutamente no è la risposta. Il rischio è di “venir meno alle responsabilità che credo nostre, oggi, in Europa. E ben al di là dell’Europa”.[26]

 

4. Il concetto “franco” di Europa e il suo indisponibile avvenire

Europa rinvia al nome di un’eredità che va osservata, conservata ma allo stesso tempo oltrepassata senza essere tradita. Tradìta per essere tràdita. Un concetto “franco” di Europa che ricorda, ancora una volta, lo statuto aporetico della menzogna.

I discorsi sull’Europa, i più attuali come ampliamento di quelli tradizionalmente moderni, sono in qualche modo sempre già datati. Che si pensi l’Europa a partire dalla sua fine o in virtù di un qualche suo fine, a partire cioè da una qualche idea di Europa, occulta il fatto, il momento luttuoso della scoperta della databilità di quei discorsi e la responsabilità verso la tradizione che viviamo noi in quanto europei, noi europei in quanto eredi di quella tradizione.

La riflessione derridiana è giocata alla luce di una dialettica tra economicizzazione e capitalizzazione del passato e indisponibilità dell’avvenire. L’eredità implica sempre la tara di una doppia ingiunzione: da un lato di un passato che riceviamo prima di poterlo scegliere e che tuttavia noi decidiamo di riaffermare proprio in quanto inattingibile. Dall’altro quello di un futuro che sopravviene prima di ogni prevedibilità. Ma tale ingiunzione è concettualizzabile o raffigurabile?

Ripercorriamo brevemente i punti salienti del discorso derridiano sul capo. Se il proprio di una cultura — ricorda Derrida nelle prime pagine di Oggi l’Europa — è di non essere identica a se stessa, la non-identità a sé, declinabile specularmente come differenza presso di sé o come impossibilità di chiudere il processo di identificazione, investirebbe sia la forma che il contenuto di ciò che definiamo Europa: “quello che si annuncia in Europa sembra senza precedenti”[27]. Un tema “riottoso all’analogia e all’anticipazione”, l’avvenire dell’Europa, esaurito il venerabile tema del soggetto culturale in generale, non resterebbe comunque lacerato tra la ricerca speranzosa di un volto riconosciuto o riconoscibile nel passato e il timore per un futuro si annuncia nella sua stessa mostruosità proprio laddove i segni, i connotati dell’avvenire fossero dissimili da quanto vissuto finora?

L’Europa per Derrida, contravvenendo a secoli di iconografia del ratto d’Europa, riguarda provocatoriamente la “conservazione di un corpo vergine”[28], di un corpo che vive sospeso tra l’esaurimento, la morte dei vecchi discorsi europei sull’identità e la trasfigurazione in un nuovo corpo post-umano, privo di volto e imminente. É allora a causa della duplice natura dell’oggetto europeo che Derrida si affida ad un pensiero della navigazione che “costeggi” i bordi di quella monumentalità metaforica mediante cui il pensiero europeo si è edificato, restaurato, rimpatriato, radicato, etc. L’assioma della differenza europea chez soi (apud hoc), che non è né interna né esterna, ma irriducibilmente prima, non raccoglie la genealogia dei pensieri sull’identità europea, bensì l’apertura allo scarto nella sua impossibile collocazione come dislocazione (dislocation).

Dove potrebbe individuarsi il punto di sovrapposizione tra l’unicità dell’oggi come evento singolo che accade in Europa e la disseminazione sintattica del capo? La sintassi del capo rinvia dunque non solo alla chiusura della storia, di una certa storia europea tale per cui l’Europa è stata messa a capo, senza essere mai capitolata o decapitata del tutto, ma rinvierebbe ad un’assenza verso cui l’Europa sarebbe ancor più responsabile. Ossia ad un altra direzione del capo. Il capo non è soltanto ciò che può essere anticipato o ciò che anticipa teleologicamente. Il capo, al contrario, potrebbe anche non esser dato.

In questo caso, l’irruzione del nuovo, l’unicità dell’altro al giorno d’oggi dovrebbe essere attesa come tale (ma è mai possibile il come tale, il fenomeno, l’essere come tale dell’unico e dell’altro?), dovrebbe essere anticipata come l’imprevedibile, l’inanticipabile, l’ingovernabile, il non identificabile, insomma come ciò di cui non si ha ancora memoria.[29]

Derrida non sta opponendo la ripetitività della vecchia memoria europea allo spettro del novissimo, “la capitolizzazione anamnestica” del passato alla “amnesica esposizione” dell’imprevedibile.[30] Il “sisma” e il “terremoto” che ha scosso l’Europa centrale e orientale e gli eventi cui Derrida si riferiva agli inizi degli anni novanta hanno mostrato la lacerazione di quella geografia spirituale che “descriveva” e “definiva” l’Europa come capo.

Rispetto all’esaurimento dei discorsi e contro-discorsi europei, tanto quelli autocelebrativi quanto gli autoaccusatori, rispetto alla logica argomentativa di un’Europa forma, pressa, elenco, Derrida propone di “inventare un altro gesto” che ci consenta di custodire l’ingiunzione contraddittoria di tutti quei datati discorsi sull’Europa: il carattere virtuale di tale gesto ha a che fare con l’immaginazione, la responsabilità e l’evento, o meglio con un’immaginazione responsabilizzante in quanto evento.

Se l’esperienza della differenza con sé si annuncia come esperienza dell’impossibile, un “quasi che” che conduce l’etica e la politica non l’abbandono dei rispettivi campi d’azione, ma alla forma enigmatica del possibile, l’aporia non può che capitalizzarsi in una fuga di specchi.

 

5. Tra immaginazione responsabilizzante e transfiguratività

Il carattere condizionale e virtuale della responsabilità — come se ricorda Derrida, richiamando un’affinità e una supplementarietà rispetto all’als ob kantiano, essa potesse anticiparsi in un atto di nascita ai bordi europei —  deve custodirsi nella struttura apofantica dell’evento, l’essere come tale dell’unico e dell’altro?

Per Derrida la nostra responsabilità nei confronti dei discorsi moderni sull’Europa, “da Hegel a Valery, da Husserl a Heidegger”, è in prima istanza una responsabilità che ci si impone dal di fuori, secondo la quale:

dobbiamo fare i guardiani di una idea dell’Europa, di una differenza dell’Europa, ma di una Europa che consiste per l’appunto nel non rinchiudersi sulla propria identità e nel farsi avanti esemplarmente verso ciò che essa non è, verso l’altro capo o il capo dell’altro, o addirittura, ed è forse tutt’altro, verso l’altro del capo che sarebbe l’al di là di questa tradizione moderna, un’altra struttura di bordo, un’altra riva.[31]

Il rifiuto derridiano di un pensiero della crisi se non come crisi della crisi, ossia il momento del krinein come sospensione della decisione di fronte all’istante drammatico “imminente e minaccioso”, non intende rompere quella logica della crisi europea come tradizionale crisi dello spirito ma la conduce ad una sorta di smascheramento dello spettro: il “capitale di infinità” che ha pensato e disegnato confini, limiti e contorni, garantito a vita dalla sua stessa riproducibilità analogica, depositato e continuamente reinvestito da parte di ogni singolo idioma in cui si è incarnata la sua universalità, non è capace di pensare la minaccia e la finitudine dell’Europa se non facendo ricorso alla possibilità di riattivare il senso dell’identità culturale europea assopito nei diversi, e tuttavia simili, sogni della sua crisi spirituale.

Il capitale hegeliano del ritorno a sé dello spirito nel Sapere Assoluto, il ridestarsi husserliano di una comunità trascendentale e la destituzione heideggeriana dello spirito, da un lato sono soggetti ad attacchi speculativi dai quali bisogna pur tutelarli (la “fine della storia” di Fukuyama come ipertrofia dello spirito hegeliano su tutti), dall’altro rappresentano la minaccia, la punta capitale del discorso spirituale europeo. La stessa logica duale, il carattere oppositivo che spartisce la paura dell’inizio e il coraggio dell’impresa, di un elemento contrastivo tra immagine mitica e fondazione razionale filosofica, è racchiuso nello scetticismo rispetto al che cosa di un presunto spirito profondo del pensiero europeo di cui si possa poi individuare una cesura critica.

Rispetto ai discorsi del radicamento e dello sradicamento, della visione e della visibilità, delle metaforiche dendriche e fotiche, della metafisica della metafora, Derrida propone

un nuovo pensiero e una destinazione inedita, un’altra responsabilità dell’Europa sono forse chiamate a offrire una nuova possibilità a questo idioma.[32]

Alle trattazioni analoghe della crisi moderna europea, alla presa di coscienza e all’istanza drammatica dell’istante che precede la decisione, tutte variazioni di una stessa logica spirituale, Derrida non oppone semplicemente una lingua altra, contro-spirituale, alimentata dalla capitalizzazione e dall’arricchimento semantico di nuovi registri metaforici, che continuano ad alimentare i suoi scritti. Per limitarci a quelli tematizzati esplicitamente, Derrida impiega registri urbani, architettonici, inter e intraurbani come la scelta capitale di una capitale europea, la sua eventuale posizione e centralità egemonica e i luoghi della città che producono ancora quei discorsi legandoli a quelli della leggibilità, del libro, della circolazione dei saperi. Dall’altro registri legati ad una semantica economica in senso lato, legati quindi alla capitalizzazione, all’investimento, all’usura, alla dilazione, al risparmio, al patrimonio, all’accumulazione, al valore. Ancora quei registri della capillarizzazione, della pervasività, della risorsa e dell’ingabbiamento delle nuove potenze tecnico-mediatiche.

A quella nuova possibilità della lingua Derrida giunge nello stesso anno, al netto di generalizzazioni non sempre condivisibili, mediante il confronto con i greci, laddove le identità sedicenti proprie

si incrociano in un luogo, che bisognerà chiamare un non luogo, in un processo di dislocazione, e cioè “là”  dove l’orizzonte della stessa cosa greca non è più assicurato, quel che dà luogo ad esso e lo apre delimitandolo allo stesso tempo: né come spazio o sistema di lingua, né come spazio politico-geografico; né come figura spirituale (Husserl), né come figura di storicità (Heidegger).[33]

Come per il mondo greco, non è l’altro dall’Europa come struttura oppositiva di inclusione ed esclusione che porta all’Europa stessa, ma il processo di espropriazione insito nello stesso logos greco, ciò che pone la non-Europa come suo totalmente altro, “la figura cioè del completamente altro che quest’ultimo (sott. il logos) non riesce a definire, di cui non riesce a fornire una figura (infigurable)”.[34]

L’appello ad una nuova Europa, ad “un altro pensiero dell’Europa” e a “una nuova figura di Europa”[35], pensando la figura dell’infigurabile eccede, pure restando entro i suoi limiti la figuratività metafisica.

Nelle ipotesi di Denis Guénoun,[36] in cui la figura europea rinvia ad una forma esteriore separata e a un universale che ritorna su di sé, o meglio il ritorno a sé dell’universale come figura (tale per cui il ritorno a significa un rivolgersi, un ripristinare, un regredire, un domandarsi e un cominciare ad invecchiare — être sur le retour), da un lato la figura stessa presuppone un’essenza precisa e identificabile, paradossalmente circoscrivibile soltanto in virtù di confini figurati o meno, siano essi geografici o storico-culturali, linguistici o economici. Dall’altro il processo di formazione della figura europea, di una Gestaltung della Gestalt europea, è indissociabile dalla cultura figurativa che l’ha prodotta: un sogno allucinatorio in cui l’alienazione di un soggetto europeo tenterebbe di essere responsabile nei confronti di una sua stessa rappresentazione. Per Derrida ciò si è aperto in Grecia è una sorta di figuratività dell’infigurabile che ha una stretta connessione sia con quella metaforicità originaria cui lo stesso Derrida alludeva ne La Mitologia bianca[37] sia con la teoria dell’inconcettualità blumenberghiana,[38] questioni che in questa sede non possono essere ulteriormente sviluppate.

Derrida osserva come, nel nome della “trasparenza” e del “consenso”, persino i “progetti europei apparentemente e espressamente pluralistici, democratici e tolleranti”[39] sono ispirati da un registro discorsivo che non solo produce modelli linguistici favorevoli all’agire comunicativo — le cui norme retoriche andrebbero comunque indagate — ma modelli politici.

Nè figura, né concetto, l’evento-Europa, smarrita ogni familiarità con l’idea di un’unità spirituale corrottasi nel corso della storia europea, riguarda ora l’invenzione di un altro gesto, non un’ipotesi o un appello, non una presa di coscienza e conoscenza del proprio senso, non un risveglio da una situazione critica, non una decisione, ma un atto di immaginazione rimemorante, imminente e minaccioso, proprio perché sospeso tra ricordo e tradimento.

Ciò significa, allo stesso tempo, che concetto e figura non sono superati antiteticamente da una controfigura e da un contro-concetto, ma sono per così dire abitati da una più originaria transfiguratività dell’evento-avvento di un’Europa che è sempre in procinto di sopravvenire.

Quando si riferisce al “nuovamente nuovo” dell’altro dal capo, Derrida allude ad una virtualità condizionale della relazione con il tutt’altro in virtù della quale l’evento europeo in quanto tale (als solche) è impensabile. Se la relazione deve sempre potersi riconfigurare come possibile, ciò avverrebbe in virtù di un come se (als ob) il capo, la direzione verso cui muoversi, non siano dati o possano non esser dati, con tutte le conseguenze che ne derivano: rinunciare a pensare il come tale dell’Europa, o meglio il suo sedicente come tale anche a partire da processi di metaforizzazione che ne traslerebbero e differirebbero il significato originario, significa, al giorno d’oggi, ammettere che il proprium del nostro essere europei è una certa incapacità di relazionarsi non alla tradizione europea dei discorsi sull’Europa ma all’Europa come tale.

Se l’Europa non è pensabile come tale, ma filtrata soltanto attraverso la decostruzione di quei discorsi sull’unità spirituale dell’Europa, essa avrà a che fare schematicamente: con il carattere finzionale della condizionalità, del come se performativo; con la performità della finzione, col fatto che “la finzione è ciò che figura ma anche ciò che fa”;[40] con l’incondizionalità del condizionale, ossia col fatto che la speranza, la promessa e la minaccia[41], quali appunti di approdo regolativi di un’Europa imminente, sono ciò che garantisce, assicura e capitalizza la nostra stessa possibilità di pre-figurare un altro dall’Europa e allo stesso tempo ciò ne condiziona l’incondizionalità; infine l’economicità transfigurativa di una tale rinnovata ana-logica del tutt’altro. Se l’Europa, lo ribadiamo, non può più tematizzare il proprio sé identitario né l’altro dall’Europa (anche qui si aprirebbe la possibilità di confrontare laddove possibile le tracce obliate etniche, storico-culturali, fisiognomiche, linguistiche, etc. in base alle quali sarebbe possibile individuare ed eventualmente connettere l’alterità dello straniero greco — il persiano e l’egiziano, il barbaro che è definito tale dai greci come proprio altro — con l’idea husserliana di extraeuropeo — lo zingaro, il papuaso, il colono dei Dominions inglesi — con addirittura l’orientale heideggeriano, da non confondersi con l’elemento asiatico, e l’ebreo), il tutt’altro dell’Europa resta però irrafigurabile soltanto all’interno di quello stesso orizzonte europeo.

Note

[1] J. Derrida, Histoire du mensonge, estratto del Cahier de L’Herne Derrida, n. 83 Editions de L’Herne, 2005, ora in Histoire du mensonge. Prolégomènes, Galilée, Paris; trad. It. Storia della menzogna, a cura di M. Bertolini, Castelvecchi, Roma 2006.

[2] Per il Nietzsche del Crepuscolo degli idoli, invece, Storia di un errore (Geschichte eines Irrtums) è proprio il racconto di come il “mondo vero” finì per diventare una favola (Wie “die wahre Welt” endlich zur Fabel wurde). Qui il filosofo tedesco compie un duplice movimento: da un lato confuta l’idea di un mondo vero che non può non darsi se non come affabulazione – quasi come se, specularmente, l’affabulazione non servisse che a creare un mondo vero. Dall’altro riconosce all’affabulazione una capacità euristica, di verità che smentisce un’altra verità. Il farsi favola della favola, la sua logica affabulatoria come capacità di incantare e ingannare, presuppone che sia possibile un racconto vero della storia di questa stessa affabulazione.

[3] J. Derrida, Storia della menzogna,cit., p. 12.

[4] Cfr. A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Mondadori, Milano 2001.

[5] J. Derrida, Storia della menzogna,cit., p. 25. Su questo cfr. F. Agostini, Menzogna, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

[6] Ivi, p. 20.

[7] Ivi, p. 62.

[8] Ivi, p. 18. «Il est toujours impossible de prouver qu’un mensonge a eu lieu, parce que le seul arbitre à ce sujet est celui qui dans sa conscience, dans son for intérieur, sait ce qui se passe» (J. Derrida, Sur parole. Instantanés philosophiques, La Tour d’Aigues, De l’Aube, «Aube Poche», 1999, p. 95).

[9] Ivi, p. 17-18.

[10] Ivi, p. 20.

[11] Ivi, p. 21.

[12] Ivi, p. 20.

[13] H. Arendt, Truth and Politics in Between Past and Future: Eight Exercises in Political Thought, The Wilking Press, New York, 1968; trad. it. Verità e politica La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, traduzione di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[14] J. Derrida, Storia della menzogna, cit., p. 23.

[15] Ivi, p. 5.

[16] Più volte Derrida ha ricordato come l’esperienza cinematografica – anch’essa una tecnica performativa che non è appannaggio solo del cinema fantastico – appartenga alla spettralità e sia da mettere in relazione con un lavoro dell’inconscio. In Ghost Dance, un film del 1982 girato da Ken McMullen, Derrida, o meglio il suo simulacro trasposto su pellicola, afferma: “Credo invece che l’avvenire appartenga ai fantasmi e che la tecnologia moderna delle immagini, il cinema, le telecomunicazioni ecc., non facciano che aumentare il potere dei fantasmi”. Sull’importanza capitale della spettralità in Derrida cfr. Yves Hersant, «L’avvenire appartiene ai fantasmi», Rivista di estetica, 38 | 2008, 157-163.

[17] A. Koyré, La fonction politique du mensonge moderne, in «Rue Descartes», 8/9, pp. 179-192. Ripubblicato con il suo titolo originale, Réflexions sur le mensonge, Editions Allia, Parigi, 1996 (trad. it. Riflessioni sulla menzogna politica, prefazione di S. Nigro, traduzione e cura di B. Lumi, De Martinis & C Editori, Catania, 1994), p. 14.

[18] J. Derrida, Storia della menzogna, cit., p. 83.

[19] J. Derrida/É. Roudinesco, De quoi demain…Dialogue aver E. Roudinesco; trad. it. di G. Brivio, Quale domani, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15.

[20] J. Derrida, L’autre cap, Minuit, Paris; tr. it. di M. Ferraris, Oggi l’Europa. L’altro capo. Memorie, risposte e responsabilità, Garzanti, Milano 1994.

[21] Ivi, p. 8.

[22] Ivi, p. 17.

[23] Ivi, p. 19.

[24] Ivi, p. 22.

[25] J. Derrida, Inconditionnalité ou souveraineté. L’Université aux frontières de l’Europe, Athènes, Patakis 2002; trad. it. di S. Regazzoni, Incondizionalità o sovranità. L’università alle frontiere dell’Europa, Mimesis, Milano 2008, p. 29.

[26] J. Derrida, L’altro capo, cit., p. 31.

[27] Ivi, p. 11.

[28] Ivi, p.12.

[29] Ivi, p. 18.

[30] Ivi, p. 19.

[31] Ivi, p. 25.

[32] J. Derrida, Voyous, Galilée, Paris 2003; trad. it. di L. Odello, Stati Canaglia. Due saggi sulla ragione, Raffaello Cortina, Milano 2003.

[33] J. Derrida, Nous autres Grecs in B. Cassin, Nos Grecs et leurs modernes: Les stratégies contemporaines d’appropriation de l’antiquité, Seuil, Paris 1992, pp. 251-276, qui p. 252.

[34] Ivi, p. 260.

[35] J. Derrida/J. Habermas, Dialogues à New York avec Jürgen Habermas, Paris, Galilée, 2004; trad. it di G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Habermas e Derrida, Laterza, Bari 2003, p. 125.

[36] D. Guénoun, Hypotéses sur l’Europe. Un essai de philosophie, Circé, Belfort 2000. Sulla questione si veda anche Id., Une figure pour (L’)Europe? in Aa.Vv., Penser l’Europe à ses frontières, 7-10 novembre 1992, Editions de l’aube, Strasbourg 1993.

[37] J. Derrida, Marges – de la philosophie, Les Éditions de Minuit, Paris 1972; trad. it. di M. Iofrida, Margini – della filosofia, Einaudi, Torino 1997.

[38] Cfr. H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit. Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007; trad. it. di S. Gulì, Teoria dell’inconcettualità, Due punti, Palermo 2010.

[39] Ivi, p. 39.

[40] J. Derrida, L’université sans condition, Galilée, Paris 2001; trad. it. di P. A. Rovatti, L’università senza condizione, Cortina, Milano 2002, p. 51.

[41] Su questo cfr. J. Derrida, Une Europe de l’espoir, Le Monde diplomatique, novembre 2004.

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Giuseppe Menditto è un filosofo.


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