«FASCISMO ETERNO» E FASCISMO STORICO. Umberto Eco, la destra e la tradizione antifascista

 

Come può esistere un «fascismo eterno», un «Ur-Fascismo», a fronte di una storia – quella dell’umanità — che eterna non è? Per ricorrere a una metafora, come può il segmento del fascismo, ridotto a poco più di un ventennio, contenere il segmento molto più esteso della storia umana? In che consiste il carattere «eterno» del fascismo? E c’è un rapporto fra il «fascismo eterno» e il fascismo storicamente realizzatosi?  E perché proprio il fascismo dovrebbe godere del privilegio di essere eterno? Se il fascismo fosse eterno, allora ci sarebbe stato un fascismo prima del fascismo storico? E poi ancora: se il fascismo è eterno, allora di questo privilegio non dovrebbe godere il contrario del fascismo, ossia l’antifascismo?

E infine: se il fascismo fosse «eterno», lo storico non dovrebbe cedere il passo al teologo, l’unico specialista deputato a riflettere su ciò che è eterno? Ovvero, se si accettasse il concetto di «Ur-Fascismo», il teologo dovrebbe competere con lo psicologo, in quanto è da supporre che la tendenza ad assumere comportamenti fascisti – si badi: fascisti tout court, e non genericamente autoritari, violenti, inclini alla sopraffazione ecc. – sia connaturata alla psiche umana, anche se è noto che persino quest’ultima è soggetta a mutazioni nel tempo, non esistendo, per riprendere un concetto di Lucien Febvre, l’uomo «astratto» e «immutabile». È recente la critica alla psicanalisi di avere spesso sottovalutato che «l’uomo psichico è da parte a parte storico. Se egli è un costante divenire, se è un flusso perpetuo, è anche costantemente preso in processi senza inizio né fine, silenziosi e sotterranei, in una dinamica sociale e storica di lungo corso e mai interrotta»[1].

Quanto meno da Bloch e Febvre, la storiografia si è dimostrata una disciplina molto ospitale, accettando contributi e sostegni di altre discipline, specialmente quelli provenienti dalle scienze umane. Si vedrà più avanti uno storico “puro”, come Renzo De Felice, accennare a qualche aspetto «psicologico» del rapporto fra il giacobinismo e il fascismo; peraltro, lo stesso De Felice aveva utilizzato i risultati delle ricerche di un sociologo, Gino Germani.  Gli incroci disciplinari, però, non possono oscurare gli statuti epistemici delle singole discipline, perché, in tal caso, questi incroci non sarebbero altro che una specie di colonizzazione di una disciplina a danno delle altre. Il concetto di «fascismo eterno» sembra evocare qualche declinazione di natura psicologica, nulla in contrario ad accettare questa declinazione. Considerato che le ideologie sono prodotte dagli uomini per giustificare la loro azione nel mondo, anche la più aberrante di esse rispecchia sempre un aspetto dell’uomo. Ma, nel caso di Eco, si tratta proprio di psicologia?

Con Umberto Eco non siamo neanche in presenza della «lunga durata» di un fenomeno storico, concetto fondamentale della scuola delle «Annales» e di Fernand Braudel. «Introdurre l’eternità nella storia umana – è stato notato a proposito del concetto di Eco -, attribuire l’eternità a un fenomeno storico, sia pure con le migliori intenzioni, comporta una grave distorsione della conoscenza storica»[2]. La conoscenza storica – si potrebbe aggiungere – implica l’analisi di un fenomeno limitato nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Un esempio fra i tanti. In un autore come Lukács è presente una rigorosa storicizzazione del fascismo. In un saggio del 1950, dunque del periodo staliniano e della guerra fredda, il filosofo ungherese anticipava il tema conduttore della Distruzione della ragione uscita pochi anni dopo, sostenendo che «il fascismo, quale concezione, è piuttosto un culmine, sia pure solo qualitativamente, di teorie irrazionali della conoscenza e di teorie sociali e morali aristocratiche»[3]. Non discuto qui l’identità fra irrazionalismo e fascismo ovvero quest’ultimo quale necessaria via d’uscita (politica) del primo. Si tratta, invece di rilevare lo sforzo di storicizzazione proposto dal filosofo ungherese: il fascismo ha avuto il suo periodo d’inizio, almeno a livello culturale e filosofico, con la comparsa delle prime posizioni irrazionaliste nel dibattito filosofico e culturale.

Lo diciamo subito: con la teoria del «fascismo eterno», Eco dimostra di essere al di sotto di Eco medesimo, ossia del narratore e dello studioso la cui originalità è indubbia. E tuttavia, il pregio da riconoscere alla posizione di Umberto Eco, ancorché giudicato una formula «eccentrica e vaga»[4], è che pone domande e dubbi più di quanti non intenda risolverne. Porre domande implica già che non si è soddisfatti della posizione assunta dall’interlocutore. La scelta di ristamparlo, insieme ad altri saggi brevi, da parte del più prestigioso quotidiano dell’area politica e culturale del centro-sinistra, «La Repubblica»[5] — ossia nel periodo in cui si stava già profilando all’orizzonte della politica italiana l’ascesa elettorale della destra di Fratelli d’Italia —, rivela come il testo di Eco venga ancora oggi considerato un punto di riferimento per l’analisi del fascismo.  Del resto, il testo aveva avuto anche una circolazione all’estero, essendo presentato come una «risposta (challenging) ad alcuni argomenti avanzati dai revisionisti e dagli storici vicini (wing) alla destra»[6].

L’ipotesi, che sorregge le pagine che seguono è che il testo di Eco sia da ritenersi qualcosa di più: e precisamente una delle sintesi più significative di un settore della cultura politica antifascista che tradisce qualche difficoltà nell’aggiornamento delle sue categorie d’analisi. Gran parte di quella tradizione è condensata proprio in quell’«Ur», che sembra orientare e determinare un po’ tutta la riflessione del semiologo. La questione sollevata da Eco, infatti, non riguarda solo il giudizio storico sul fascismo, ma costituisce un tentativo di preservare l’attualità dell’antifascismo.

Beninteso, Eco non è stato l’unico a parlare di «fascismo eterno». Già in Carlo Levi ritroviamo il richiamo a un «eterno fascismo italiano»[7].  Nel caso dello scrittore torinese le differenze rispetto a Eco erano due. La prima è che in Levi l’”eternità” del fascismo era limitata alla specificità italiana, mentre in Eco – almeno questa è l’impressione ricavabile dal suo testo — sembra presentarsi, se non quale tendenza psicologica, quanto meno estesa a quelle nazioni europee in cui si affermarono movimenti fascisti o fascisteggianti. La seconda differenza è che nello scrittore torinese la questione dell’”eternità” riguardava il rapporto fra lo Stato e le classi subalterne, in particolare con i contadini meridionali. Il fascismo in Levi veniva identificato in uno statalismo che opprimeva i contadini meridionali, col consenso della piccola borghesia, delegata alla gestione di questo rapporto di subalternità, per ritagliarsi spazi di sopravvivenza economico-sociale, prima che di potere. Da qui l’”eternità” del fascismo: fra lo statalismo liberale, quello fascista e quello postfascista, secondo Levi non era possibile registrare alcuna differenza.

La constatazione che Eco evoca di un «Ur-Fascismo» è intanto indicativa di un aspetto importante: la difficoltà di storicizzare il fascismo. Ricorro a una comparazione per spiegarmi.

L’Ottocento era stato impegnato nel confronto con la Rivoluzione francese: come inserirla all’interno non solo della storia francese, ma nel panorama della storia europea? Il secolo si era aperto con Jacques Mallet du Pan, le cui Considérations sur la nature de la révolution française erano uscite nel 1793, e attraverso de Maistre, Filippo Buonarroti, Tocqueville, Quinet, Michelet, ecc., si era chiuso col duro atto d’accusa di Hippolyte Taine, il cui ultimo volume delle Origines de la France contemporaine era uscito nel 1894[8], un lavoro monumentale che sarebbe diventato il punto di riferimento indispensabile della cultura politica critica della Rivoluzione francese.

Almeno in Francia, il confronto con la Rivoluzione francese risulta tutt’altro che esaurito; e non certo per il fluire di una bibliografia ancora oggi ininterrotta ovvero per l’opera di revisione inaugurata da François Furet. Ancora di recente, si è sostenuto che i Gilet jaunes sono i nuovi sanculotti in lotta per l’eguaglianza ovvero i «nuovi anelli di una lunga catena mai veramente rotta da più di due secoli»[9]. In questo modo, che si condivida o meno l’identità fra i Gilet jaunes e i sanculotti, rimane che il 1789 risulta non del tutto storicizzato, nel senso che le vicende successive, anche quelle più recenti, sono osservate attraverso i concetti e le categorie politiche originatesi nel corso della Rivoluzione. Com’è possibile promuovere una storicizzazione – nella fattispecie, del giacobinismo – se essa continua a riprodursi nel panorama politico? La nottola di Minerva può spiccare il volo che la conduce a riflettere su una vicenda storica solo se quella vicenda medesima si è conclusa.

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Quali le cause dell’interesse degli storici per il fascismo? Intanto, le rotture non solo presentano anche loro una «lunga durata»; ma lo storico è spesso attratto da quelle vicende che si presentano appunto come rotture. La storiografia è spesso attratta da salti e dagli scarti di paradigma, piuttosto che dalle continuità.

Riconosciuto questo, certamente una delle cause fondamentali dell’interesse degli storici per il fascismo è dovuta al fatto che fascismo e nazismo avevano provocato la guerra più disastrosa verificatasi nella storia dell’umanità: un disastro culminato nel tentativo nazista di distruggere l’ebraismo. Limitatamente a quanto si verrà discutendo in questa sede, aggiungerei un’altra causa.

Prima dell’avvento del fascismo, gran parte della cultura contemporanea aveva operato in forza del presupposto implicito – e in molti autori anche esplicito – che, a muovere dal 1789, si era aperta l’epoca in cui si era affermata la cultura dei diritti dell’uomo, a cominciare dal principio di uguaglianza, diventato l’aspetto fondamentale della modernità.

Il fascismo avrebbe decretato la crisi dell’identità fra la modernità e i diritti dell’uomo, dando vita a una forma storica di modernità, quella totalitaria[10], fondata su un paradigma di valori – ben evidenziato da Eco, tranne per le distinzioni che saranno discusse più avanti -, che risultava essere l’esatto contrario di quello inauguratosi con la Rivoluzione francese.

Il fascismo non credeva ai diritti dell’uomo e, ancor meno, alla convinzione borghese, transitata nel movimento socialista, di un’idea di modernità segnata dal Progresso. Come osservava Bobbio, riformisti e rivoluzionari «hanno qualcosa in comune, ossia il concetto, l’idea o la prospettiva del movimento considerato come movimento progressivo»[11]. L’affermarsi del fascismo aveva decretato, per un verso, la crisi di una visione della storia, comune sia al liberalismo che al socialismo, vista come un’inarrestabile estensione dei diritti dell’uomo, del principio di uguaglianza ecc. Per l’altro verso, aveva anche decretato la scissione fra modernità e liberalismo, ossia aveva messo in discussione che l’unica forma storica di modernità fosse costituita dalla società borghese liberale ovvero, per i socialisti, dall’avvento del socialismo. Definire un’immagine di modernità differente da quella liberale e socialista non significa, però, rifluire nell’antimodernità tout court.

Anche volendo presentare il fascismo alla stregua di un universo ideologico estraneo non solo al liberalismo (un dato storico indiscutibile), ma all’idea medesima di modernità, rimane comunque ineludibile la constatazione che spinte antimoderne si erano manifestate nella modernità. Questo significava almeno che le radici della modernità erano forse meno profonde e robuste di quanto si fosse supposto, soprattutto da parte del pensiero liberale.

Ma sul piano storiografico questa costituisce una forzatura. La cultura liberale, che spesso ha insistito sul carattere antimoderno del fascismo[12], ha trascurato la constatazione che il manifestarsi del fascismo nella modernità implicava che esso era un prodotto di quest’ultima o comunque era portatore di un’idea di modernità emancipata da quelle rappresentate dal liberalismo e dal socialismo.

Lo studio del fascismo pone un serio problema epistemologico allo storico. Questi, come qualsiasi specialista, studia l’altro da sé; ma il paradigma della disciplina impone che si osservi l’altro – il fascismo – adottando un atteggiamento di empatia che indirizzi verso una più precisa storicizzazione della vicenda studiata: questa è stata la lezione metodologica cui si è attenuto uno dei maestri della storiografia del Novecento, George L. Mosse.

Per lo storico del fascismo il problema dell’empatia si fa ancor più cogente. Formatosi in genere in un ambiente politico democratico e pluralista, si trova costretto a confrontarsi con un universo ideologico caratterizzato da valori politici esattamente contrari, che lo storico non può che respingere: calarsi nell’ambiente di una modernità che nega il pluralismo e il paradigma di valori a questi connesso non è certo facile.

Naturalmente, si potrebbe obiettare che la cogenza coinvolge soprattutto lo storico impegnato nello studio della Shoah. All’obiezione si potrebbe rispondere che la Shoah aveva costituito il terminale della pregressa scissione fra modernità e liberalismo.

Ora, com’è noto, proprio Mosse aveva insistito sulla differenza fra fascismo e nazismo: il primo affondava le sue origini nella cultura di sinistra, da cui proveniva lo stesso Mussolini, mentre il secondo manifestata una chiara matrice di destra[13]. Renzo De Felice, a sua volta, aveva osservato che il fascismo era da collocare al di fuori del «cono d’ombra dell’Olocausto» costituito dallo sterminio dell’ebraismo europeo[14]. Più di recente, Zeev Sternhell ha avuto occasione di sostenere che «Fascismo e nazismo condividono molti tratti comuni, ma lasciano trasparire ugualmente delle differenze capitali. L’essenziale è nel fatto che il fascismo costituisce l’espressione più estrema della lotta contro i Lumi, il nazismo fu un assalto totale contro il genere umano»[15].

Delle tre posizioni degli storici qui riportate, quella di Sternhell mi sembra che costituisca la posizione storiografica più debole. E tuttavia, una considerazione s’impone: senza l’ostilità proclamata, e rivendicata in ogni occasione sia dal fascismo che dal nazismo, nei confronti del liberalismo e del pluralismo, non sarebbe stato possibile il disastroso approdo alla Shoah. Se la plurisecolare tradizione antisemita europea aveva contribuito quale componente di lunga durata, non peraltro alla Shoah aveva contribuito in maniera non meno determinante l’avvento di regimi totalitari, i quali avevano costituito il contesto storico-politico che permetteva la realizzazione del piano nazista di sterminio dell’ebraismo europeo.

Compariamo l’atteggiamento degli storici della Rivoluzione francese e quello degli storici del fascismo, con una premessa-precisazione storiografica.

C’è un aspetto che accomuna le rivoluzioni del Novecento, caratterizzandole rispetto a quelle del secolo precedente o allo stesso 1789. Quelle verificatesi prima del Novecento erano state rivoluzioni a vocazione decisamente politica; erano rivoluzioni che miravano a modificare il sistema politico e solo in qualche occasione, in seguito a domande provenienti dall’interno degli stessi ambienti rivoluzionari, avevano prestato attenzione alle questioni economico-sociali. Sull’onda della Rivoluzione francese, numerose rivoluzioni dell’Ottocento, come nel caso di quelle verificatesi nel 1848, erano state rivoluzioni a carattere nazionale.

Nel caso delle rivoluzioni del Novecento, la politica aveva rivendicato la necessità di dirigere la società e soprattutto l’economia, incaricandosi di un disegno di rinnovamento antropologico, costituito dalla creazione di un «uomo nuovo».

Non ogni rivoluzione nel Novecento ha rivelato esiti totalitari. La decantazione totalitaria è stata provocata da quelle rivoluzioni che nel loro statuto programmatico rivelavano la domanda di delegare alla politica il compito di dirigere società ed economia, quale presupposto necessario per la formazione dell’«uomo nuovo». La caratterizzazione antropologica è stata la spia che annunciava che il modello rivoluzionario rivelava una vocazione totalitaria associata a una prospettiva fortemente antiborghese. La società borghese liberale, infatti, era imputata di avere ridotto l’uomo e i rapporti fra gli uomini alla sola dimensione economica.

Ora, agli storici della Rivoluzione francese si presenta il macigno storiografico del Terrore, ossia di come una rivoluzione che proclamava l’avvento dei diritti fosse poi degenerata in un periodo di soppressione dei diritti medesimi. Così di recente Marcel Gauchet:

Tutto il problema degli storici, e più largamente di coloro che riflettono sull’eredità della Rivoluzione, è di raccordare questi due momenti e i due aspetti che essi hanno trasmesso alla posterità. Come si passa dall’uno all’altro e qual è il legame tra essi, se si ammette che ve n’è uno?[16]

La risposta di Gauchet è che la Rivoluzione francese è attraversata da un «paradosso […]: è la sua timidezza iniziale che spiega la sua radicalità finale»[17].

Viene da osservare che il nesso timidezza iniziale-radicalismo finale forse vale per il caso francese, ma, procedendo sempre per comparazioni, quel nesso diviene problematico per quanto riguarda la Rivoluzione d’ottobre. Per la vicenda storica russa vale la constatazione che la rivoluzione bolscevica era  radicale fin dalle origini; ed è tutt’altro da escludere che questo radicalismo politico e sociale avrebbe costituito una delle basi delle successive efferatezze dello stalinismo. Quel nesso, del resto, non vale neanche per il nazismo e il fascismo, considerato che il Lager di Dachau fu aperto poche settimane dopo la nomina di Hitler a Cancelliere del Reich, mentre la fondazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fu decisa già alla fine del 1922.

In ogni caso, mentre fino al 1793-94 l’empatia dello storico può anche evolvere in una simpatia, più o meno dichiarata, nei confronti dell’opera di eliminazione delle strutture economico-sociali e politiche dell’Ancien Régime, col Terrore diviene difficile trovare momenti di mediazione e di giustificazione. La storiografia, almeno per richiamare qualche esponente rappresentativo, si è limitata a vedere – come nel caso di Albert Mathiez, storico di orientamento marxista – in Robespierre un antesignano di Clemenceau: se il primo aveva promosso il Terrore quale scelta politica per salvare una rivoluzione che rischiava di essere soffocata dagli oppositori interni e dai numerosi nemici esterni, il secondo nel 1917 aveva fatto ricorso a misure autoritarie per salvare una Francia ormai esaurita dal perdurare del conflitto con gli Imperi Centrali. Più di recente, Jean-Clément Martin, uno dei maggiori specialisti viventi della Rivoluzione francese, ha inteso addebitare ai Termidoriani la costruzione del mito negativo di Robespierre quale mostro politico; e questa «associazione di un uomo e di un sistema esercita un fascino genuino che impedisce di leggere gli avvenimenti passati nella loro fattualità»[18]. Rimane comunque che, a detta degli stessi membri del Comitato di salute pubblica, la politica del Terrore era ritenuta una strategia adatta alla situazione d’eccezione: il 10 ottobre 1793, nel Rapporto alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica, Saint-Just aveva proposto un decreto il cui articolo primo stabiliva che «Il governo provvisorio della Francia è rivoluzionario fino alla pace»[19].

Del tutto differente si pone la questione per quanto riguarda lo storico del fascismo perché quest’ultimo non presenta alcun momento comparabile alla notte del 4 agosto 1789, cioè a un momento che lo storico formatosi in ambiente politico-culturale pluralista possa condividere. C’è forse una fase positiva da valorizzare della ventennale vicenda fascista distinguendola dalle fasi negative? Il fascismo era nato da una guerra mondiale; era tramontato in seguito a un’altra guerra mondiale, ancor più sanguinosa della precedente; si era imposto nel panorama politico ricorrendo alla violenza, un atteggiamento, come si avrà occasione di vedere, che rimandava a una ben definita visione della vita e della storia.

Ma proprio perché lo storico nulla ha da condividere della parabola fascista, è tenuto ad assumere un atteggiamento molto più cauto, separando rigorosamente le proprie posizioni politico-culturali dalla ricostruzione storica, quale presupposto necessario per comprendere come fosse stata possibile questa tumultuosa rivolta contro la società e la cultura dei diritti.

Si può appena rilevare che il Novecento non ha ammesso neutralità o zone grigie in cui gli intellettuali potessero trovare un riparo davanti agli scontri e alle guerre ideologiche. Ma sia detto senza retorica, senza enfasi e, in particolare, senza alcuna nostalgia per un rankismo di altri tempi: la cautela è tipica dello storico; e il resto, lo si lasci al dibattito politico. A questo dibattito, lo storico può scegliere di partecipare o di astenersi – anche se in genere prevale più la prima scelta che la seconda -, rivendicando il diritto sia di analizzare le posizioni che quel dibattito presenta sia – soprattutto – di fare risaltare le ragioni di Clio, quando la politica pretende di formulare giudizi storiografici a uso del consenso elettorale. Lo storico, come qualsiasi cittadino, è un elettore; studia i risultati elettorali, nel caso in cui questi rientrassero nei suoi interessi di studio; ma, al contrario dell’uomo politico, non sottopone alle urne i risultati cui perviene nel suo lavoro.

 

Note

[1] H. Mazurel, L’inconscient ou l’oubli de l’histoire. Profondeurs, métamorphose et révolution de la vie affective, La Découverte, Paris 2021, p. 155 (corsivo nel testo).

[2] E. Gentile, Chi è fascista, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 6. Ma vedi anche le osservazioni di C. Galli nel recente, La destra al potere. Rischi per la democrazia?, Il Mulino, Bologna 2024, pp. 33 sgg.

[3] G. Lukács, Visione del mondo aristocratica e democratica, ed. or. 1950, ma cit. da Id., Testamento politico e altri scritti sullo stalinismo, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Edizioni Punto rosso, Milano 2017, pp. 21-49 (la citazione è a p. 21).

[4] A. Campi, Storiografia sul fascismo, in G. Pasquino, a cura di, Quel che è stato, quel che rimane, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2022, p. 89. Ma così anche nel recente Id., Sull’antifascismo la sinistra si fa del male, in «Il Messaggero» 22 aprile 2024.

[5][5]  U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2017.  Il testo di Eco è stato offerto quale supplemento gratuito in «a Repubblica» del 19 settembre 1920. D’ora in poi si citerà dall’edizione 2017.

[6] Così S. Pugliese nella Presentazione al testo di Eco in Id., Italian fascism and antifascism. A critical anthology, Manchester University Press, Manchester and New York  2001, p. 231.  Nel volume curato da Pugliese sono riprodotte alcune pagine del testo di Eco, in particolare quelle in cui il semiologo elenca alcuni aspetti ideologico-politici del fascismo (pp. 36-50 dell’ed. it.).

[7] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1983, p. 222. La comparazione fra la posizione di Levi e quella di Eco è richiamata anche da Pugliese, Italian fascism and antifascism cit., p.231.

[8] CFr., da ultimo, A. De Francesco, Tutti i volti di Marianna. Una storia delle storie della Rivoluzione francese, Donzelli, Roma 2019.

[9] A. Corbière, Jacobins! Les inventeurs de la République, 1a  ed. 2019, ma cit. dalla n. ed., Perrin, Paris 2021, p. 13.

[10] E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna 1996, pp. 3-49.

[11] N. Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione. Lezioni di filosofia politica, a cura di L. Coragliotto, L. Merlo Pich, E. Bellando, Donzelli, Roma 2021, p. 507.

[12] Cfr., per un’interpretazione del fascismo quale cultura politica antimoderna, L. Pellicani, Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cs) 2009.

[13] Cfr., ad es., quanto sostiene in G. L. Mosse, Intervista sul nazismo, a cura di M. A. Ledeen, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 91, 102, 108.

[14] Così nell’intervista a G. Ferrara, Deficit etico-politico e continuità nella storia italiana, in «Corriere della sera», 27 dicembre 1987.

[15] Z. Sternhell, Fascisme: de la révolte culturelle à la politique des masses, in Id., sous la dir. de, L’histoire refoulée. La Rocque, les Croix de feu, et le fascisme français, Les éditions du Cerf, Paris 2019, p. 104.

[16] M. Gauchet, Robespierre L’homme qui nous divise le plus, Gallimard, Paris 2018, p. 16.

[17] Ivi, p. 27.

[18] J.-C. Martin, Robespierre. La fabrication d’un monstre, Perrin, Paris 2016, p. 328.

[19] A.-L. de Saint-Just, Rapport au nom du Comité de salut publique, in Id., Oeuvres complètes, Édition établie et présenté par A. Kupic et M. Abensour, Gallimard Paris 2004, p. 643.