La Francia al voto. Svegliarsi dall’anestesia: declino e violenza in Francia

L’LBD40 è una pistola antisommossa portatile dotata di un mirino elettronico che gli consente di lanciare proiettili di gomma di quaranta millimetri da una distanza di venticinque metri. Usata costantemente dalla polizia francese per reprimere i manifestanti scesi in strada per sfidare le “riforme” del presidente Emmanuel Macron, quest’arma non letale di fabbricazione svizzera ha lasciato sul campo dozzine di persone smembrate e accecate. L’LBD40 è l’arma scelta da un’élite al potere ansiosa che teme che la società su cui presiede sfugga al suo controllo e debba essere domata con proiettili di gomma.

In effetti, la società francese “sta diventando sempre più selvaggia”, secondo il ministro dell’Interno Gerald Darmanin. C’è una grave “crisi di autorità”, sostiene, e lo stato ha bisogno di “riaffermare il suo potere” e “non lasciare che nulla passi”. Nel maggio 2021 lo stesso ministro, in segno di pieno sostegno delle “sue truppe”, ha partecipato a una protesta organizzata dai sindacati di polizia francesi. Riuniti fuori dall’Assemblea nazionale, hanno accusato il sistema giudiziario di deluderli, di essere troppo indulgente nei confronti della crescente criminalità. Eppure le carceri francesi sono gravemente sovrappopolate e il numero delle persone incarcerate non è mai stato così alto come oggi. Per il ministro dell’Interno, però, le celle delle carceri non sono abbastanza piene.

Non sono solo i capi del governo ad essere nervosi. Nella primavera del 2021, un giornale di estrema destra ha pubblicato due lettere scritte da un gruppo di generali dell’esercito in pensione e firmate da migliaia di ufficiali militari in servizio, avvertendo che sta arrivando una guerra civile. Le lettere descrivevano un paese sotto minacce insopportabili: ideologi antirazzisti e fondamentalisti religiosi che preparavano il terreno per una guerra razziale e rivoltosi mascherati che approfittavano delle ragionevoli lamentele del popolo francese per creare il caos nelle strade. Secondo i firmatari, l’esercito dovrà inevitabilmente intervenire per ristabilire l’ordine. In un sondaggio dell’opinione pubblica condotto poco dopo, i francesi hanno espresso preoccupazioni simili: il 73% degli intervistati crede che la società francese stia crollando, mentre il 45% pensa che una guerra civile stia davvero per esplodere.

Minacce di golpe militari, una crescente sensazione d’insicurezza e una maggiore violenza dello Stato sono sintomatici del radicato declino economico che ha attanagliato la Francia. Come nella maggior parte dei paesi avanzati, la crescita sta rallentando da diversi decenni. L’economia francese non si espande più come una volta, non garantendo così la sicurezza economica e il benessere per tutti. Mentre la produzione di valore si sta esaurendo, le lotte per la distribuzione delle risorse esistenti diventano più intense, minacciando la stabilità sociale. La stagnazione crea un ambiente favorevole alla caccia alle streghe mentre la Francia cerca le cause della sua caduta nelle orde di migranti, nelle minoranze religiose o nei giovani rivoltosi.

Lo Stato è chiamato a governare questa società piena di tensioni svelando appieno il suo volto autoritario. La decelerazione economica spinge sempre più persone sull’orlo della pauperizzazione, creando livelli schiaccianti di disagio sociale che lo stato non è in grado di affrontare se non attraverso la repressione violenta. L’era Macron ha costituito il periodo in cui molte delle tensioni di governo in condizioni di stagnazione economica si sono manifestate in modo brutale.

Una presidenza turbolenta

La presidenza di Macron è stata senza dubbio una delle più turbolente della Quinta Repubblica. La determinazione del suo governo di portare avanti la sua agenda politica neoliberista è stata ripetutamente contrastata da massicce ondate di protesta. Subito dopo le sue elezioni del 2017, le riforme governative del mercato del lavoro erano già contrastate dai lavoratori in sciopero. Tre anni dopo, la sua riforma delle pensioni vide l’ascesa di un movimento di sciopero che non si vedeva da 25 anni. Nel 2018-19, le sue riforme fiscali a favore dei ricchi ampiamente contestate hanno visto la rivolta dei Gilets Jaunes (Gilet Gialli), un movimento nazionale che ha scosso l’establishment francese per mesi. Nel bel mezzo della pandemia, manifestanti e polizia si sono nuovamente scontrati per l’annuncio di un nuovo disegno di legge sulla sicurezza. Per ogni riforma significativa che ha cercato di attuare, il governo di Macron ha lottato con un potente movimento sociale insorto contro di esso.

La zelante opposizione del popolo alle riforme indesiderate è stata accompagnata dalle esplosioni autoritarie del governo. La repressione di massa dei Gilets Jaunes da parte della polizia è stata persino condannata da Anne-Sophie Simpere di Amnesty International come una minaccia al diritto di protestare “prima sconosciuta nella storia francese moderna”. Il suddetto disegno di legge sulla sicurezza mirava ad aumentare i diritti della polizia e, tra le altre cose, intensificare l’uso quotidiano dei droni per il mantenimento dell’ordine pubblico. Successivamente, in una svolta maccartisca, il governo ha sollecitato la necessità di affrontare il problema dell’“islamo-sinistra”, una corrente intellettuale immaginata dalla teoria della cospirazione che presumibilmente affligge le università francesi ed erode l’unità nazionale. In una campagna elettorale iniziata prematuramente, il discorso di Macron ha preso una drammatica svolta securitaria. La Francia è bloccata in una situazione di profondo conflitto: i movimenti sociali combattono l’attuazione di dolorose riforme fiscali e del mercato del lavoro e il governo perde la pazienza nei confronti del dissenso e non esiterà a bypassarlo attraverso un’intensificazione delle azioni della polizia. Questa tensione è il sintomo di una patologia di fondo dell’economia politica francese, per cui le forme esistenti di gestione del malcontento sociale sono diventate sempre più inadeguate e vengono progressivamente sostituite da forme più autoritarie.

Gran parte dell’opposizione di sinistra a Macron lo ha accusato di perseguire ostinatamente un programma economico neoliberista screditato che dà la priorità ai ricchi e trascura i bisogni della popolazione in generale. Il suo mercato del lavoro impopolare e le riforme fiscali favorevoli alle imprese gli valsero rapidamente il titolo di “Presidente dei ricchi”. Inoltre, molti hanno paragonato il suo stile di governo a quello di Luigi XIV, il “Re Sole”, dato il suo dimostrato disprezzo per le classi popolari francesi e la sua flagrante ignoranza delle loro lotte quotidiane. Non c’è dubbio che le politiche di Macron abbiano giovato ai ricchi. Tuttavia, le critiche personalizzate che incolpano unilateralmente i problemi della Francia sui singoli governi e sulle loro inclinazioni ideologiche neoliberiste mancano delle tensioni di fondo del capitalismo francese. La crisi sociale francese non è semplicemente il risultato di scelte politiche irrazionali dei governi, ma è plasmata dagli impasse strutturali generati dal rallentamento della crescita. Le origini dell’attuale malessere sono radicate e possono essere fatte risalire a quaranta anni fa, quando finì il boom del dopoguerra e iniziò la sua marcia il declino economico che ora affligge la Francia.

Dalla gloria al declino

Nei trent’anni che seguirono la sua liberazione dall’occupazione nazista, i cosiddetti Trente Glorieuses , la Francia conobbe una forma di modernizzazione economica fortemente statale. A quel tempo, la Francia era ancora un’economia prevalentemente agricola e la produzione era dominata da piccoli stabilimenti che impiegavano solo una manciata di lavoratori. I pochi stabilimenti più grandi erano di proprietà di una classe industriale nazionale conservatrice che, beneficiando dei mercati interni e coloniali al riparo dalla concorrenza estera, non aveva gli incentivi per investire in nuovi processi produttivi. Per superare l’arretratezza tecnologica dell’industria francese e consentirle di mettersi al passo con i suoi concorrenti europei e americani, i modernizzatori francesi hanno schierato una serie di meccanismi istituzionali di segno dirigista che hanno conferito allo Stato il potere discrezionale di controllare il ritmo e la direzione dello sviluppo industriale del Paese.1 Politiche industriali attiviste, controllo pubblico del sistema bancario nazionale e pianificazione indicativa erano tutti strumenti chiave utilizzati dai governi francesi per accelerare la modernizzazione. Attraverso il controllo diretto sulle principali industrie nazionalizzate o assegnando strategicamente crediti a campioni nazionali scelti, interi settori sono stati costretti a rispettare gli obiettivi di sviluppo fissati dallo stato stesso. La modernizzazione statale ha consentito all’industria francese di fare grandi progressi, poiché molte aziende sono state ora in grado di espandere le proprie capacità, raggiungere mercati internazionali più ampi e persino diventare multinazionali.

Il dirigismo si basava sull’emarginazione delle preoccupazioni della classe operaia. Nelle parole del politologo Jack Hayward, i sindacati francesi erano “estranei alla comunità politica”, poiché la loro capacità di influenzare il processo decisionale era notevolmente ridotta.2 Al posto di un dialogo sociale istituzionalizzato, i lavoratori hanno ottenuto guadagni salariali attraverso scioperi selvaggi, mentre i datori di lavoro a loro volta hanno risposto con aumenti dei prezzi per recuperare i loro profitti. Questo processo, che Elie Cohen ha definito il “compromesso sociale inflazionista”, è stato tollerato dalle élite statali in quanto ha consentito a una classe operaia militante di ottenere periodicamente guadagni salariali senza ostacolare l’intero processo di modernizzazione.3 Per proteggere l’industria nazionale dall’inflazione, lo stato ha frequentemente promulgato svalutazioni valutarie per ripristinare la competitività dei prezzi delle merci francesi sui mercati mondiali. Il maggio 1968 fu il culmine di questo compromesso sociale. Durante il mese di sconvolgimento che ha visto una serie di occupazioni di fabbriche, dieci milioni di lavoratori in sciopero e proteste studentesche quotidiane, l’establishment francese è stato messo in ginocchio. Lo sconvolgimento si è concluso con generosi aumenti salariali e l’estensione dei diritti di sindacalizzazione che sono diventati la base per significativi aumenti salariali futuri.

Tuttavia, la spirale inflazionistica che ha caratterizzato la crescita del dopoguerra ha sempre più svantaggiato le imprese francesi in seguito agli shock petroliferi degli anni ’70. L’inflazione e il crescente costo del lavoro hanno dovuto essere urgentemente domati per evitare l’ulteriore deterioramento della bilancia commerciale del paese. Durante i Trente Glorieuses , la Francia aveva ampliato enormemente le sue esportazioni mondiali, ma la corsa globale del dopoguerra per aumentare le capacità produttive ha incontrato i suoi limiti quando i mercati manifatturieri sono diventati saturi.4 Da un lato, la crisi ha rivelato che la competitività delle imprese francesi è ancora rimasta indietro rispetto a quella delle multinazionali tedesche, statunitensi o giapponesi nel settore manifatturiero avanzato. Dall’altro, la crisi ha evidenziato che il suo costo del lavoro relativamente elevato lo ha reso incapace di resistere alla concorrenza delle economie di nuova industrializzazione nei settori ad alta intensità di manodopera. Le industrie tessili e dell’abbigliamento tradizionali erano minacciate di estinzione, le industrie ad alta intensità di capitale come l’acciaio e i cantieri navali impiegavano ancora tecnologie antiquate, mentre i leader nazionali come le automobili potevano guidare lo sforzo di esportazione solo sostituendo gli impianti esistenti con quelli altamente automatizzati. La Francia è stata sollecitata a riorganizzare il suo apparato industriale per sopravvivere in mercati sovraffollati.

Negli anni ’80, con l’aggravarsi della crisi dell’industria nazionale, la Francia ha subito una svolta neoliberista e ha cercato di ristrutturare e riorganizzare l’economia interna secondo linee più competitive. Nel 1983, l’inversione di marcia del presidente socialista François Mitterrand, da un programma espansivo di ispirazione keynesiana all’austerità e a una maggiore integrazione europea, è stato il momento spartiacque che ha catalizzato questa transizione. Per riformare l’economia, lo stato ha ritirato l’assistenza finanziaria per le industrie improduttive e ha sponsorizzato una ristrutturazione tecnologica che uccideva il lavoro in altre. Nelle industrie nazionalizzate, i socialisti e i governi successivi hanno decimato la forza lavoro con infiniti cicli di misure di razionalizzazione mentre finanziavano generosamente i tentativi delle aziende private di impiegare le tecnologie del futuro. I governi successivi agli anni ’80 hanno anche intrapreso importanti riforme che includevano la deregolamentazione finanziaria, modifiche al diritto del lavoro, l’allentamento della regolamentazione delle imprese e ampi programmi di privatizzazione. La logica alla base di tutti questi cambiamenti politici era quella di esporre l’economia nazionale alla forza disciplinare del mercato mondiale, intervenendo strategicamente a sostegno di settori commercialmente strategici.

L’integrazione europea ha aiutato e favorito lo sforzo delle élite statali di portare avanti riforme economiche impopolari. I responsabili politici hanno limitato l’incanalamento di fondi verso impianti obsoleti facendo appello alla politica di concorrenza della Commissione europea e alle rigide regole sugli aiuti di Stato. Allo stesso modo, le regole fiscali sui disavanzi di bilancio iscritte nei trattati europei sono state viste dalle élite francesi come un modo per facilitare il perseguimento delle misure di austerità. In effetti, la famigerata regola del deficit del 3% del trattato di Maastricht era un’invenzione puramente francese inventata dall’amministrazione di Mitterrand mentre cercava una regola tecnocratica credibile con cui limitare la spesa statale.5 Il compromesso inflazionistico del dopoguerra è crollato, poiché le élite francesi hanno scelto l’integrazione monetaria europea proprio per soffocare le tendenze inflazionistiche dell’economia domestica e frenare la crescita del reddito. Inoltre, la moneta comune ha privato la capacità dello Stato francese di attutire i colpi della concorrenza estera attraverso svalutazioni valutarie, come in passato. Al contrario, l’aumento della produttività a livello d’impresa o la riduzione del costo del lavoro erano le uniche strategie realistiche rimaste per le imprese che dovevano adattarsi alle pressioni competitive del mercato mondiale.

La ricerca della competitività in un contesto di intensificazione della stagnazione economica globale ha comportato importanti dislocazioni sociali. L’eccesso di offerta dei mercati manifatturieri non ha consentito alle singole aziende di espandere in modo massiccio le proprie capacità, ma le pressioni della concorrenza le hanno comunque obbligate ad aumentare la produttività e produrre in modo più efficiente per rimanere a galla.6 La produzione non ha potuto crescere abbastanza velocemente per compensare la perdita di posti di lavoro che ha accompagnato il cambiamento tecnico all’interno delle aziende leader e la chiusura di impianti in difficoltà. La produzione francese è stata costretta ad adattarsi alle condizioni del mercato mondiale, ma il risultato è stata un’intensa deindustrializzazione che devasta il paese da decenni. Come affermato di seguito, il declino industriale ha avuto un costo sociale e di bilancio molto elevato.

Tempi sbagliati

L’integrazione europea e le misure di liberalizzazione successive agli anni ’80 hanno cercato di liberare lo stato dall’onere di sostenere le anatre zoppe o di negoziare direttamente con i sindacati il ​​destino dell’occupazione in diversi settori. Le élite statali speravano di proteggersi dal contraccolpo politico interno e perseguire la loro preferenza politica per riforme dolorose facendo appello ai regolamenti sovranazionali dell’UE o alle inevitabili pressioni della globalizzazione. Tuttavia, tali strategie non sono riuscite a portare lo stato fuori dai riflettori della contestazione sociale, poiché è rimasto l’obiettivo principale dei movimenti sociali che resistevano alla neoliberalizzazione. Per alleviare i costi sociali della deindustrializzazione, lo stato francese ha costruito un costoso apparato di welfare che ha successivamente cercato di annullare con l’intensificarsi della stagnazione. Fu così lanciata una nuova ondata di lotte sociali.

Le riforme neoliberiste che sono proseguite rapidamente durante le due presidenze consecutive di Mitterrand hanno avuto un costo sociale crescente poiché la disoccupazione è aumentata vertiginosamente, le ex regioni industriali sono precipitate in un declino economico permanente e i lavoratori sono stati lasciati in condizioni peggiori a causa dell’indebolimento del loro potere contrattuale. Il malcontento sociale è diventato evidente nel calo del sostegno ai socialisti nelle elezioni regionali o legislative, ma anche nelle strade. Inevitabilmente, la ristrutturazione economica è stata contrastata: i lavoratori automobilistici hanno fatto scioperi selvaggi, i lavoratori siderurgici hanno marciato a Parigi, i lavoratori delle ferrovie hanno paralizzato il paese. Ogni piano di riforma dell’economia francese rischiava di riaccendere le tensioni che portarono allo sconvolgimento di massa del maggio 1968.

Mentre lo stato considerava queste dolorose misure economiche necessarie per migliorare la competitività, doveva anche prevenire l’insorgere di una vera e propria crisi di legittimità che avrebbe reso ingestibile l’ordine sociale. Per affrontare lo spettro della rivolta, i politici francesi hanno avviato una modalità di gestione del malcontento sociale che Jonah Levy ha definito la strategia dell’“anestesia sociale”.7 Le élite statali hanno sviluppato uno stato sociale relativamente ampio per sedare le tensioni sociali provocate dalla ristrutturazione dell’economia francese. Hanno lanciato una serie di misure sociali, inclusi vari regimi pensionistici pubblici, aiuti sociali e sussidi di disoccupazione, che hanno cercato di intorpidire il dolore della ristrutturazione economica. L’anestesia sociale venne a sostituire il compromesso sociale inflazionistico dei Trente Glorieuses. Inavvertitamente, tuttavia, gli anni ’80 hanno gettato le basi di quello che sarebbe diventato lo stato sociale più costoso dell’OCSE, poiché la Francia ha ora i livelli di spesa sociale più alti all’interno di questo gruppo di paesi. Rispetto ad altre economie avanzate, lo stato francese si mette le mani molto più in tasca per finanziare uno stato sociale essenzialmente creato per comprare la pace sociale e rattoppare le ferite della deindustrializzazione.

Si potrebbe sostenere che con la strategia dell’anestesia sociale, lo Stato francese ha trovato solo un modo temporaneo per sposare gli obiettivi della riforma economica e della pace sociale. Vi sono infatti dei limiti fondamentali, il più importante dei quali è proprio il dinamismo calante dell’economia francese. Sono lontani gli anni d’oro del dopoguerra (1950-1974) quando l’economia cresceva a un tasso medio annuo di circa il 5%. Nell’era successiva al 2008, l’economia ha funzionato a un terzo di questo ritmo. La sottoperformance economica della Francia si riflette in tassi di crescita della produttività aggregata vacillanti, che hanno iniziato un graduale declino negli anni ’80 e si sono accentuati ogni decennio che passa. L’economia francese è semplicemente incapace di emulare gli standard di crescita economica e ricchezza crescente stabiliti durante il boom del dopoguerra.

Secondo il National Productivity Board francese, le qualifiche e le competenze relativamente più deboli della popolazione attiva, la lenta diffusione delle tecnologie digitali all’interno delle imprese francesi e i livelli di investimento privato fiacchi nella ricerca e sviluppo hanno tutti contribuito in misura diversa al rallentamento della produttività nell’economia francese.8 Tuttavia l’anemia economica non è un fenomeno specifico della Francia, poiché il rallentamento della produttività ha avvolto anche le sue controparti dell’OCSE. Per gli aspiranti riformatori, il declino economico appare come il risultato di carenze interne e persistenti rigidità istituzionali che impediscono ancora al Paese di realizzare il suo pieno potenziale competitivo. Ma per quanto si possono cercare a livello nazionale le origini del declino, il rallentamento economico della Francia è una manifestazione locale della recessione globale che ha caratterizzato l’economia mondiale dagli anni ’70.

Il problema della Francia è che ha iniziato a costruire un costoso stato sociale in un periodo in cui era in corso una recessione economica, cosa che non poteva permetterselo. Il rallentamento economico limita le risorse a disposizione dello Stato per sostenere alti livelli di spesa sociale. Per finanziarlo, lo stato inevitabilmente, da un lato, ha dovuto espandere le proprie capacità di tassazione al punto che ora la Francia ha il secondo rapporto tasse/PIL più alto dell’OCSE dopo la Danimarca. D’altra parte, ha accumulato ingenti quantità di debito poiché anno dopo anno il bilancio dello Stato è rimasto in rosso, con le autorità francesi per la maggior parte incapaci di soddisfare la regola del disavanzo del 3% imposta dai trattati europei. Le risorse necessarie per finanziare l’anestesia sociale stanno diminuendo pericolosamente e le norme fiscali europee si sono rivelate incapaci di disciplinare la spesa pubblica.

Poiché i tassi di crescita hanno continuato il loro movimento al ribasso, la strategia dell’anestesia sociale ha pesato sempre più pesantemente sullo stato francese. Dalla metà degli anni ’90 in poi, diversi governi lo hanno percepito come un ostacolo alle finanze sostenibili e alla competitività economica. Con una serie di riforme economiche ha cercato di decostruire questo costoso stato sociale con scarso successo. I tentativi di riformare il welfare e il mercato del lavoro sono avvenuti a scapito di sconvolgimenti sociali come gli scioperi del 1995 e il movimento studentesco del 2006, che hanno portato al ritiro delle proposte di riforma delle pensioni e dei contratti di lavoro, rispettivamente. L’espansione prematura di uno stato assistenziale costoso in un’epoca di stagnazione è lo sfondo sul quale si combattono le lotte sociali contemporanee in Francia.

Smantellare lo Stato sociale

Negli ultimi decenni, la sfida principale per le élite statali è stata quella di liberarsi dalle costose catene dello stato di anestesia sociale, pur tenendo a bada la minaccia di una rivolta. Ma chiaramente, come dimostra la presidenza Macron, si è rivelato impossibile affrontare con successo questi imperativi contrastanti. Spinto in due direzioni, lo stato deve affrontare forti pressioni economiche per smantellare lo stato sociale e pressioni dal basso che rendono tale strategia socialmente e politicamente insostenibile, dati i costi che impone alla popolazione francese.

Per i dirigenti statali, lo stato sociale successivo agli anni ’80 costituisce un problema sia fiscale che di competitività. Oltre a contribuire a livelli elevati di indebitamento, la spesa sociale assorbe una grossa fetta di fondi pubblici che potrebbero essere riassegnati ad attività presumibilmente più produttive. Ad esempio, le riforme delle pensioni pubbliche o del sistema di assicurazione contro la disoccupazione promosse dall’amministrazione Macron mirano a liberare lo stato da alcuni dei suoi costosi impegni sociali al fine di liberare i fondi necessari per finanziare la formazione di competenze, la ricerca e lo sviluppo e i progetti di innovazione scientifica che porterebbero la Francia all’avanguardia della frontiera tecnologica. Dal punto di vista dello Stato, i disoccupati e i pensionati sono pagati solo per sopravvivere in quando le risorse devono essere invece gettati nella reindustrializzazione della Francia.

Inoltre, i riformatori francesi hanno a lungo sostenuto che i livelli relativamente elevati di tassazione richiesti per finanziare lo stato sociale asfissiano le imprese e scoraggiano ulteriori investimenti. L’alto livello dei contributi sociali che le imprese francesi devono pagare rispetto ai loro concorrenti nell’OCSE impedisce loro di effettuare degli investimenti necessari per riconquistare un vantaggio competitivo nella corsa alla produttività globale e recuperare alcune quote di mercato perse a causa della concorrenza straniera. I dirigenti statali hanno cercato di aiutare le imprese riformando quello che considerano un mercato del lavoro rigido che aumenta i costi di assunzione (e licenziamento) per i datori di lavoro e un sistema di welfare che sta consumando le risorse private che potrebbero invece essere investite per aumentare la produttività delle imprese.

Allo stesso tempo, lo smantellamento del welfare state ha un costo sociale elevato che le persone logicamente non sono disposte a pagare. La sottoperformance economica della Francia ha rallentato il ritmo della creazione di posti di lavoro. Di conseguenza, ha visto un aumento sostanziale delle forme di lavoro precarie (cioè a tempo determinato, part-time) e un tasso di disoccupazione ostinatamente alto che ha oscillato intorno al dieci per cento negli ultimi quattro decenni. In questo contesto, gli aiuti sociali dello Stato svolgono un ruolo cruciale nel sostenere il tenore di vita delle persone: oggi poco più di un terzo del reddito disponibile totale delle famiglie è composto da aiuti sociali, rispetto a solo un settimo nel 1949.9 Eliminare questi aiuti senza una valida sostituzione spingerebbe le statistiche sulla disuguaglianza e sulla povertà a livelli ancora più elevati.

Inoltre, negli ultimi anni, le agevolazioni fiscali concesse alle imprese e gli incrementi di varie forme di imposte sul reddito delle persone fisiche o sui consumi hanno segnalato un movimento verso lo spostamento del peso del welfare state dal capitale alle famiglie. Soprattutto dopo la crisi del 2008, le riduzioni dei contributi delle imprese sono sempre più compensate dall’aumento delle tasse sugli alloggi, delle aliquote IVA e delle ecotasse pagate dai consumatori. Tipicamente, la rivolta dei Gilets Jaunes è stata innescata da un aumento delle tasse sul carburante, che è stato a sua volta preceduto dall’abolizione di una tassa sul patrimonio chiamata ISF. In altre parole, il tenore di vita delle persone è messo a rischio sia dal progressivo ridimensionamento del welfare sia dal continuo aumento delle tasse che divora gran parte del reddito delle famiglie, soprattutto di quelle della classe media.

Allo stato attuale, la Francia ha livelli di disuguaglianza, precarietà e salari più bassi rispetto alla media OCSE proprio a causa degli effetti redistributivi dello stato di anestesia sociale. Tuttavia, il suo disfacimento spingerà le persone nelle braccia di un mercato del lavoro disfunzionale, in cui una quota crescente di nuovi posti di lavoro sono mal pagati e precari.10 I riformatori suggeriscono che con l’ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro e la razionalizzazione dell’offerta di prestazioni sociali, l’economia creerà più posti di lavoro, poiché sarà più economico per le imprese assumere mentre renderà impraticabile la disoccupazione di lungo periodo per coloro che “tentano”. Le élite statali francesi cercano di emulare il tipo di riforme del welfare già intraprese in altre economie europee, come il Regno Unito o la Germania, dove la proliferazione dei contratti a zero ore o dei cosiddetti mini-job ha permesso loro di raggiungere qualcosa di simile a una piena ma precaria occupazione. Lo svantaggio non così pubblicizzato della riforma del welfare francese è che, in un’economia stagnante, l’alternativa all’assicurazione contro la disoccupazione finanziata con fondi pubblici non è la sicurezza del lavoro, ma la precarietà del mercato del lavoro.

Tuttavia, gli aiuti sociali francesi non sollevano necessariamente le persone dalla povertà, ma offrono semplicemente i mezzi per farvi fronte. Secondo le statistiche del ministero della Salute, due su tre beneficiari della RSA, un sostegno al reddito concesso alle famiglie con bassi redditi, vivono in condizioni di vita precarie poiché la loro capacità di soddisfare determinati bisogni sanitari, abitativi o alimentari è gravemente limitata.11 L’assistenza offerta dai meccanismi di welfare esistenti è per certi versi insufficiente per vivere una vita dignitosa. Tuttavia, gli imperativi economici perseguiti dalle élite francesi non solo precludono la loro ulteriore espansione, ma al contrario le costringono a trovare il modo di ridurle in un disperato sforzo di risanamento delle finanze e della competitività.

La pandemia globale ha amplificato queste tensioni di fondo. Come molti Stati, la Francia ha adottato massicce misure fiscali per mantenere le persone sul libro paga ed evitare fallimenti su larga scala. Gli sforzi che saranno necessari per ridurre a livelli più sostenibili gli ingenti debiti contratti di recente, se non altro per trovare un margine di manovra maggiore per rispondere alla prossima crisi, solleveranno ancora più esplicitamente i dilemmi distributivi che affliggono l’anemica economia francese: tagliare il welfare e tassare le persone consumi a rischio di rivolte à la Gilets Jaunes, o aumentare i contributi delle imprese a rischio di scoraggiare i già bassi tassi di nuovi investimenti e di creazione di posti di lavoro.

Dal Welfare ai droni

In risposta alla crisi dei Gilets Jaunes, il governo ha promesso di aggiungere altri 17 miliardi di euro ai budget 2019 e 2020 attraverso misure volte a migliorare i redditi delle persone. Nonostante la promessa pre-elettorale di Macron di sfondare “la resistenza dei Galli al cambiamento”, di fronte a un movimento sociale imprevedibile ha ceduto alla tentazione di innescare la pompa dell’anestesia sociale. Eppure i suoi 17 miliardi non sono stati sufficienti a sedare le tensioni esistenti ed è stato rapidamente seguito dalle sue stesse promesse di ridurre la spesa sociale riorganizzando completamente i sistemi pubblici di pensioni e di assicurazione contro la disoccupazione. In un contesto di crescente stagnazione, le élite statali scoprono che gli strumenti esistenti per gestire il malcontento sociale stanno rapidamente diventando obsoleti e sono costretti a escogitare modi alternativi per perseguire la riforma economica nonostante la resistenza sociale.

Il progressivo esaurimento della strategia dell’anestesia sociale si riflette nei modelli mutevoli di gestione delle proteste. Come suggeriscono Olivier Fillieule e Fabien Jobard nel loro recente libro Politiques du désordre (Politica del disordine), dalla fine degli anni ’90 in poi i governi francesi sono diventati sempre più intolleranti nei confronti dei movimenti di protesta che si opponevano alle riforme del governo. Nel 1995, il primo ministro Alain Juppé è stato costretto a ritirarsi da una controversa riforma delle pensioni di fronte a un’ondata di scioperi che non si vedeva dal 1968 e che al suo apice ha visto due milioni di persone marciare per le strade. I governi successivi hanno cercato di evitare di ripetere la traumatica sconfitta di Juppé. Nel discorso e nella pratica, si sono sforzati di delegittimare e reprimere i movimenti di protesta al fine di limitare la loro influenza sul processo decisionale. Come sostengono gli autori, i governi successivi al 1995 sono diventati sempre più dipendenti dalla polizia per mantenere l’ordine pubblico e sostanzialmente le hanno concesso carta bianca per reprimere con forza i movimenti di protesta anche al minimo segno di agitazione.12

Che la crescente precarietà e la repressione statale vadano di pari passo è un’osservazione banale per le periferie svantaggiate ( banlieues ) e per i cosiddetti quartieri popolari della Francia. Queste aree concentrano i livelli più elevati di disoccupazione e povertà e, di conseguenza, anche un numero elevato di beneficiari di aiuti sociali. Lì, le persone, molte delle quali musulmane e di origine immigrata, sono costantemente soggette a sorveglianza razzializzata, controlli quotidiani improvvisati sull’identità e all’uso eccessivo della forza da parte delle brigate anti-crimine che vagano per le banlieue francesi . Le aree e i quartieri indigenti sono percepiti non come luoghi che subiscono in modo sproporzionato gli effetti di una profonda crisi economica, ma come luoghi di delinquenza e disordini che devono essere disciplinati attraverso una maggiore sorveglianza.

Gran parte della periferia francese aveva beneficiato del boom dell’attività economica durante il periodo d’oro dell’industrializzazione dirigista . Ad esempio, le banlieues parigine ospitavano alcuni iconici stabilimenti di produzione automobilistica e metallurgica. Dagli anni ’70 in poi, nel contesto della deindustrializzazione, questi impianti sono stati chiusi o automatizzati e hanno impiegato solo una frazione della loro ex forza lavoro, lasciando la regione esposta a livelli di disoccupazione costantemente elevati. Nei due decenni successivi, i governi consecutivi inizialmente hanno investito denaro in politiche urbane solidali che cercavano di trasferire fondi dai comuni più ricchi a quelli meno fortunati e mitigare alcune dislocazioni del mercato del lavoro in corso. Tuttavia, quando il declino economico si è aggravato e gli anestetici sociali sono diminuiti, la crisi urbana è stata vista come una minaccia posta all’autorità statale e alla coesione nazionale.13 Incapace di riaprire le fabbriche chiuse, lo Stato ha iniziato ad affrontare l’insicurezza economica aumentando la presenza della polizia locale e rafforzando l’apparato giudiziario.

La gestione sempre più autoritaria del malcontento sociale appare come una risposta quasi naturale alla difficoltà di destreggiarsi tra mercato e imperativi sociali in un’economia traballante. Quando le persone perdono la capacità di contestare la politica per le strade, sono spesso costrette a trovare modi alternativi, spesso turbolenti, per farsi sentire. Ciò che dal punto di vista delle persone è una forma di resistenza all’immiserazione delle loro vite, appare ai dirigenti statali come una minaccia all’ordine pubblico. Mentre in passato lo stato avrebbe cercato di pacificare il malcontento allentando i cordoni della borsa, oggi diventa sempre più proibitivo farlo nel contesto di un’economia stagnante e di un debito crescente. Che si tratti di Gilets Jaunes che occupano rotonde o di giovani ribelli che alzano barricate per le strade.

Come dice il rapper Nakk in Chanson Triste (Sad Song), un gioiello dell’hip hop francese, “non ci sono rompicapi, solo ragazzi che vogliono esistere”. Mentre l’economia francese nega i mezzi per ottenere una vita dignitosa, la richiesta di esistere semplicemente diventa sempre più forte, ma lo stato sente solo l’aspettativa incoerente e irragionevole di una marmaglia indisciplinata.

La presidenza turbolenta e autoritaria di Macron è un momento all’interno di una traiettoria più lunga della politica francese in cui lo stato ha lottato per contenere il malcontento sociale aumentando la spesa pubblica. Oggi, lo stato subisce pressioni per smantellare il suo costoso stato sociale, ma non c’è nulla con cui sostituirlo a parte proiettili di gomma, droni e granate lacrimogene.

Impasse politiche

Tra una pioggia lunga anni di proiettili di gomma e una nebbia di gas lacrimogeni, i manifestanti feriti e le forze di polizia possono essere contati a migliaia. Alcuni hanno perso la vita, altri gli occhi, altri le mani . La turbolenta presidenza di Macron si concluderà con un’elezione altrettanto turbolenta e molto preoccupata. Tuttavia è dubbio che i problemi strutturali che stanno alla base della società francese possano essere risolti elettoralmente.

Nonostante tutti i loro sforzi per portare avanti riforme economiche impopolari, i governi non possono rimediare al calo della produttività a loro piacimento.14 Dagli anni ’70, il rallentamento economico è stato di portata mondiale e interrotto solo da boom di breve durata, seguiti a loro volta da crolli e deboli riprese senza lavoro. Inoltre, anche se le imprese francesi riusciranno a riconquistare un vantaggio competitivo nel mercato mondiale, è dubbio che ciò si traduca necessariamente in una vita più sicura per le persone. La Germania, spesso additata come modello economico ideale dai riformatori francesi, si è trasformata da “malato” d’Europa nel suo esportatore industriale più competitivo, ma non ha saputo scongiurare il contemporaneo aumento della precarietà e della povertà lavorativa.15 Le aziende tedesche hanno guadagnato quote di esportazione proprio mentre la quota di lavoratori a basso salario è cresciuta fino a diventare una delle più grandi dell’UE.16

In vista delle elezioni, vale la pena giudicare le scelte politiche esistenti rispetto agli stalli strutturali dell’economia francese. I partiti di centro-destra, tra cui La République en Marche di Macron o Les Républicains, guidati da Valérie Pécresse, desiderano solo rimanere sull’attuale traiettoria socialmente insostenibile che consiste nel rimuovere pezzi dell’apparato assistenziale nella speranza di riguadagnare competitività internazionale. In particolare, Macron cerca di riscattarsi e attuare con ancora maggiore fervore alcune riforme caratteristiche del suo programma che sono state rinviate dai Gilets Jaunes, dallo sciopero e dalla pandemia, in particolare la riforma delle pensioni. La presidenza di Macron promette di essere la sua precedente sotto steroidi: più riforme, più polizia.

All’estremità destra dello spettro, Rassemblement National di Marine Le Pen negli ultimi anni ha capitalizzato con successo la crisi sociale francese con la sua retorica nazionalista e anti-immigrazione. Tuttavia, se mai al potere, dovrà confrontarsi con il fatto che la decelerazione economica, non l’immigrazione frenetica, sta esaurendo le risorse del Paese. Prima o poi correrà il rischio di alienarsi parte del proprio elettorato quando arriverà il momento di dolorose riforme.

Il Rassemblement deve affrontare la nuova concorrenza di un altro candidato di estrema destra, Éric Zemmour, che ha anche la possibilità di figurare nel secondo turno delle elezioni presidenziali. Zemmour, un commentatore politico di lunga data con ben note opinioni islamofobe, è un sostenitore del grande sostituto teoria, avanzata da teorici della cospirazione di estrema destra, secondo la quale la popolazione bianca francese e i suoi valori occidentali sono stati soppiantati da ondate di immigrazione extraeuropea senza restrizioni. Per rimediare al declino della Francia, propone l’espulsione definitiva dalla Francia dei migranti “non assimilati” (es. disoccupati o con precedenti penali) tagliando ogni forma di aiuto sociale che potrebbe “indurre” gli stranieri a cercare rifugio sul suolo francese. Tuttavia, il suo appello eccessivamente politicizzato e appassionato a barricare i confini della Francia contro la presunta minaccia dell’immigrazione, è in contrasto con il suo discorso completamente depoliticizzato sugli affari economici. Nelle sue parole, “la rivoluzione sta altrove”, non nella politica economica. Caratteristicamente, il suo programma include una difesa piuttosto banale dello status quo e una proposta non originale di tagliare le tasse alle imprese al fine di ricostruire la competitività globale della Francia. Esprimendo il declino della Francia in termini di civiltà, il dolore economico dell’adeguamento viene fatto sembrare un piccolo prezzo da pagare. Mentre l’estrema destra populista monopolizza l’attenzione dei media e altri candidati di spicco (tra cui Macron e Pécresse) spostano il loro discorso anche sulle questioni dell’immigrazione, la “questione economica” è relegata in uno stato di quasi irrilevanza.

La sinistra, d’altra parte, assomiglia a un mercato in eccesso, con il voto frammentato tra sette candidati diversi, e attualmente non rappresenta una seria minaccia per i candidati di destra. Inoltre, sia la recente storia politica del paese che l’attuale congettura sollevano dubbi sulla fattibilità delle proposte socialdemocratiche esistenti. Il Parti Socialiste – che al momento in cui scriviamo ha il suo più basso livello di consensi, rivendicando circa il 2% dei voti – ha cessato da tempo di rappresentare una seria alternativa alla destra, come dimostra il suo record impeccabilmente pro-mercato negli ultimi decenni .17 Con un’inversione di marcia che ricorda in qualche modo quella di Mitterrand nel 1983, il presidente François Hollande (2012–2017) ha abrogato la sua tassa del 75% sui guadagni dei milionari durante il secondo anno della sua presidenza per le preoccupazioni sull’attrattiva economica della Francia. Inoltre, la sua amministrazione, in cui Macron è stato, in particolare, ministro delle finanze, ha visto l’attuazione di riforme del mercato del lavoro e della tassazione delle imprese che sono state semplicemente radicalizzate dall’attuale governo.

La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon ha, invece, una piattaforma socialdemocratica radicale. Tra le altre cose, i suoi piani includono una democratizzazione della vita politica, un’ambiziosa trasformazione ecologica dell’economia finanziata dallo stato, una reindustrializzazione verde della Francia con posti di lavoro sicuri per tutti e l’eliminazione della povertà aumentando la spesa sociale e tassando pesantemente il capitale. Eppure il rapporto del partito con la crescita economica è ambiguo. Condanna l’espansione economica senza scopo che distrugge l’ecosistema, ma la realizzazione degli obiettivi del suo piano presuppone le condizioni di una crescita in forte espansione. La Francia Insoumise ha il merito di mettere sul tavolo le questioni sociali ed ecologiche in un momento in cui altri contendenti politici scommettono su legge e ordine, immigrazione o questioni religiose per i voti. Tuttavia, le sue proposte non sono abbastanza radicali da spezzare la dipendenza sociale dalla dinamica del capitalismo di crescita o morte.

I dilemmi della Francia confermano l’urgente necessità di trovare alternative al paradigma della crescita capitalista, poiché i boom economici sono in definitiva sia ecologicamente suicidi e che difficilmente si ripetono. Negli Stati Uniti, le previsioni hanno già suggerito che i piani fiscali di Biden — che Mélenchon ha accolto come la campana a morto del neoliberismo — dovrebbero aumentare la crescita del PIL per due anni, per poi diminuire entro il 2023 e tornare a tassi più familiari a un’economia secolare stagnante . Se il più grande pacchetto di stimolo nella storia del dopoguerra della più grande economia mondiale non è in grado di rilanciare in modo sostenibile la crescita, si può ragionevolmente esprimere dubbi sul fatto che le élite francesi possano fare di meglio. Molti dei candidati — dalla socialista Anne Hidalgo, a Pécresse, a Zemmour — si sono inoltre impegnati esplicitamente a reindustrializzare la Francia e riportare la sua potenza industriale sulla scena mondiale.

Ogni cinque anni l’elettorato francese è chiamato a scegliere tra il male, il male minore e i progetti socialdemocratici che sono stati screditati da una storia di inversioni di marcia e divisioni tra i partiti. Tuttavia, concentrandosi sui singoli candidati, si perde il problema più grande che caratterizza la politica elettorale francese: non esiste attualmente una forza politica in grado di formulare un programma che possa realisticamente rinvigorire la vitalità economica del Paese e prevenire la precarizzazione accelerata della vita del popolo francese. Le scelte politiche offerte riflettono la misera condizione del tardo capitalismo. Promettere regole più severe sull’immigrazione e una forte repressione su tutto ciò che sfida l’ordine pubblico sembra una scommessa più sicura che cercare di cambiare la traiettoria di un’economia capitalista in declino globale.

L’esperienza politica della Francia sotto la presidenza di Macron è la variante nazionale di una più ampia tendenza verso forme di governo più autoritarie in Europa. Poiché il mercato del lavoro offre opportunità meno praticabili per le persone, crescono le risorse di cui gli Stati avrebbero bisogno per mantenere una qualche forma di coerenza sociale. Tuttavia, la stagnazione produce un conflitto distributivo a somma zero tra le risorse che devono essere mobilitate per rimanere competitivi in ​​mercati globali ristretti e le risorse necessarie per acquistare la pace sociale. Poiché i mezzi tradizionali per gestire il dissenso sono esauriti, gli Stati stanno facendo a gara per potenziare i loro apparati repressivi, con nuovi progetti di legge di polizia approvati nei parlamenti nazionali dal Regno Unito alla Francia fino alla Grecia. Tali manovre autoritarie rappresentano l’unica alternativa razionale rimasta agli Stati di fronte a un compito impossibile.18

Se la stagnazione economica è destinata a rimanere, allora la presidenza di Macron non è stata altro che un’istantanea del futuro della Francia: masse di precari e poliziotti antisommossa che si scontrano tra le rovine di un’economia in difficoltà che offre livelli crescenti di disagio sociale ma nulla per placarlo.

  1. John Zysman Governi, mercati e crescita: sistemi finanziari e politiche del cambiamento industriale , Ithaca, NY 1983.
  2. Jack Hayward, Lo Stato e l’economia di mercato: patriottismo industriale e intervento economico in Francia, New York 1986.
  3. Elie Cohen, L’Etat Brancardier: Politiques du Déclin Industriel (1974-1984), Parigi 1989.
  4. Robert Brenner, L’economia della turbolenza globale, Londra 2006.
  5. Pavlos Roufos, A Happy Future is a Thing of the Past , Londra 2018, p.33.
  6. Aaron Benanav, “Automation and the Future of Work – I”, New Left Review 119, settembre-ottobre 2019, p.28.
  7. Jonah Levy, “Dallo stato dirigista allo stato di anestesia sociale”, Francia moderna e contemporanea 16: 4, 2008.
  8. Consiglio Nazionale di Produttività, Produttività e Competitività: Où en est la France dans la Zone Euro? Parigi 2019.
  9. INSEE, Trente Ans de Vie Economique et Sociale , Parigi 2014, p.14; INSEE, Francia, Portrait Social , Parigi 2020, p.283.
  10. Olivier March e Claude Minni, “Le grandi trasformazioni del mercato del lavoro francese dall’inizio degli anni ’60”, Economie et Statistique , n. 510-511-512, pp.89-107.
  11. Mathieu Calvo e Lucile Richet-Mastain, « Les condition de vie des bénéficiaires de minimi sociaux et de la prime d’activité fin 2018, » Dossiers de la DREES, n. 61, 2020, pag.5.
  12. Olivier Fillieule e Fabien Jobard, Politiques du Désordre, Parigi 2020.
  13. Vedi Mustafa Dikeç, “Due decenni di politica urbana francese: dallo sviluppo sociale dei quartieri allo Stato penale repubblicano”, Antipode 38: 1, 2006.
  14. Marc Levinson, Un tempo straordinario, Londra 2016.
  15. Oliver Nachtwey, La crisi nascosta della Germania, Londra 2018.
  16. Secondo gli ultimi dati Eurostat (2018) disponibili, la quota di lavoratori a basso salario nella popolazione attiva era del 20,7% in Germania ed era solo leggermente preceduta dalle economie dell’Europa orientale, inclusa la Lettonia (23,5%), Lituania (23%), Estonia ( 21,9%), Polonia (21,9%) e Bulgaria (21,4%). Tipicamente la quota di lavoratori a basso salario in Francia è dell’8,6%. Fonte: Eurostat, Percentuali di lavoratori a basso salario su tutti i dipendenti 2006-2018.
  17. Cfr. Bruno Amable e Stefano Palombarini, The Last Neoliberal , Londra 2021, pp.42-72.
  18. Pavlos Roufos, “Governing the Ungovernable”, Brooklyn Rail, aprile 2021.