L’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità (John F. Kennedy)

Indice: Premessa • 1. Il Novecento, un secolo dai molti volti • 2. Il secolo più lungo • 3. Il secolo delle tenebre? • 4. Barbarie moderna • 5. Confrontare le atrocità: il ruolo dello storico • Conclusione

Premessa

«Solo noi mamme capiamo quanto sia disastrosa una guerra, perché solo noi mamme sappiamo quanto sia difficile generare la vita». Quest’unica frase servirebbe a spiegare l’inutilità di tutte le guerre e il loro drammatico insulto al valore della vita. Spiega anche quella stupida e orgogliosa volontà di combattere – tipica del genere maschile più che del femminile – che porta a considerare la distruttività umana e il conflitto armato violento cose “naturali”[1]. Non è a caso che anche il grande stratega cinese Sun Tsu (leggi: Sunzi), inviti a evitare la guerra[2].

Il dramma è che non si può fare una guerra rispettando delle “regole”. La guerra – con il fallimento della diplomazia – è già la fine di tutte le regole! Essa agita sentimenti di ostilità verso il “diverso”, causando tanti mali e inutili conflitti: si preferisce lo scontro al dialogo, abbattere l’avversario e vederlo come nemico[3] piuttosto che incontrarlo come prossimo[4].

A seguito della celebrazioni per il centenario della Grande guerra molto si è scritto sul tema[5]. Il primo conflitto mondiale costituisce il “peccato originale” della storia recente, una ferita aperta tra popoli cristiani che si sono scontrati con una spietatezza tanto disumana quanto insensata[6].

Ma c’è anche un altro terribile episodio dell’inizio che ha sconvolto la storia, lasciando svanire le illusioni che il XXI secolo potesse essere migliore del XX.

È l’11 settembre 2001. Un terribile attacco terroristico sconvolge Manhattan (New York), polverizzando le Twin Towers e seppellendo migliaia di civili indifesi. L’America è sotto shock, il mondo è sconvolto. Milioni di spettatori, coinvolti dal repentino intervento dei mass media, partecipano in diretta a un evento che ha segnato l’immaginario di questi anni. Questo evento “ha cambiato la storia” e pone nuovi interrogativi e sfide alla nostra civiltà e agli uomini del nostro tempo. Proviamo a tentare un bilancio del secolo passato, contro un’inquietante, rinnovata barbarie e dinanzi agli attuali scenari che sconvolgono il mondo intero[7].

La realtà attuale ci sorprende nella sua inaudita violenza e una domanda risuona: la storia può insegnarci qualcosa oppure l’essere umano è, veramente, “un animale che dimentica”?

1. Il Novecento, un secolo dai molti volti

Il Novecento rappresenta il nostro passato prossimo. Un passato importante che determina il nostro presente. Per capire e interpretare il suo retaggio sono utili le riflessioni dello storico contemporaneo Valerio Castronovo, che, in un documentato studio, ne sintetizza il percorso:

Una visione d’insieme, che non si limiti ai “picchi” e alle “onde in superficie”, è tanto più indispensabile se vogliamo rendere conto di un secolo dai molteplici tasselli come il Novecento e stendere un inventario dei suoi retaggi, delle sue proiezioni sul presente. Quanto mai vasto è infatti il campo d’osservazione e numerosi e cangianti i suoi punti cardinali. Poiché il Novecento non è stato solo un secolo segnato in modo indelebile da una prima e da una seconda conflagrazione mondiale, con un lugubre strascico di guerre civili; e da due ideologie totalitarie che, mosse dall’idea di plasmare le coscienze e di cambiare il mondo, hanno coinvolto e sedotto milioni di uomini e si sono macchiate di immani delitti. È stato anche un secolo che ha visto, oltre all’emancipazione civile della gente di colore, il disfacimento dei vecchi edifici imperiali e un processo di decolonizzazione in tre quarti del globo, sotto la spinta sia di lotte armate di liberazione nazionale sia di “rivoluzioni non violente”, nonché l’apogeo e la fine dell’apartheid, delle discriminazioni più odiose e intollerabili, e dunque una serie di eventi che hanno ampliato il teatro della storia ancora incentrato nei primi cinquanta-sessant’anni sui conflitti intereuropei e sui grandi scontri ideologici all’interno del mondo sviluppato. Ed è stato, il Novecento, un secolo segnato da profonde trasformazioni economiche e dagli esordi di una seconda rivoluzione tecnologica, da eccezionali e strepitose conquiste scientifiche; da una sequenza pressoché ininterrotta di mutamenti, nella vita sociale e nelle istituzioni pubbliche, nello status civile e giuridico delle donne e nella condizione dei giovani, nei costumi e nei comportamenti collettivi, di tale intensità e incidenza da propagarsi dall’uno all’altro capo del pianeta e da coinvolgere sia pure in diversa misura larga parte dell’umanità. È stato inoltre il secolo dello sbarco sulla Luna, delle avventure spaziali e delle esplorazioni dell’Universo che hanno dischiuso le porte dell’età cosmologica; e il secolo in cui, per i grandi progressi della medicina e la diffusione dell’assistenza sanitaria, è venuta trasformandosi la condizione umana, sulla base di una transizione demografica quale mai era avvenuta nel corso della storia, essendosi allungata notevolmente la speranza di vita nei paesi più avanzati e ridotti gli indici di mortalità nelle aree più povere. Senza contare il ruolo determinante della psicoanalisi, che ha rivoluzionato, all’insegna della teoria di Freud, la nostra comprensione delle motivazioni irrazionali e dei processi inconsci, della sfera interiore dell’uomo, determinando la comparsa di nuovi modelli e paradigmi ermeneutici[8].

Il quadro, come si vede, è abbastanza ampio e variegato. Se volgiamo lo sguardo indietro, rivediamo, insieme ai lati positivi, tragiche vicende e terribili atrocità che hanno funestato, in particolare, la prima metà del Novecento:

Due guerre mondiali, una più spaventosa dell’altra; l’apocalisse della prima bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki; una trafila di dure e devastanti competizioni imperialistiche, e una scia di sanguinose guerre civili. E al centro di tutto le esperienze più sconvolgenti e traumatiche del secolo ventesimo, il fascismo e il nazismo, il bolscevismo e lo stalinismo, i mostruosi stermini di massa nelle camere a gas dei lager; e l’orrenda sorte, da cui pochi scamparono, di un immenso numero di dannati ai lavori forzati nell’inferno concentrazionario dei gulag; le nefandezze, ancorché le si debba giudicare con un metro diverso, perpetrate in nome della “stirpe eletta” o della “dittatura del proletariato”. Da un lato, l’Olocausto, il genocidio di circa sei milioni di ebrei europei, in nome della preservazione della razza ariana, un unicum di violenza politica in tutta la storia dell’umanità, in quanto risultato di un disegno aberrante volto all’annientamento biologico di un’intera comunità, spogliata dello stesso status di esseri umani. Dall’altro, la soppressione fisica di milioni di uomini in nome della lotta contro la borghesia, quale classe sociale ideologicamente definita e demonizzata tra i “nemici oggettivi” della causa socialista, indipendentemente dai comportamenti o dalle responsabilità individuali dei singoli, nonché la deportazione lontano dalle loro terre d’origine di gruppi e popoli di matrici etniche diverse da quella russa, per sradicare le tradizioni e le culture identitarie[9].

2. Il secolo più lungo

Alla luce di questi elementi, non c’è dubbio che il secolo trascorso, che qualcuno ha definito “il secolo breve”, tra avvento e caduta del socialismo reale[10], è piuttosto il secolo “più lungo”, per la quantità e la qualità dei fatti accaduti, che sono ancora oggi oggetto di svariate indagini ed interpretazioni.

Il Novecento può essere considerato, per la sua particolare “ampiezza”, un vero e proprio “labirinto” in cui c’è il pericolo di smarrirsi. Ci offre molti fatti su cui riflettere e si conclude lasciandoci in una estrema incertezza:

Il secolo ventesimo è stato, insomma, più “lungo” e più “largo” di quanto s’immaginasse alla fine degli anni Ottanta sull’onda travolgente delle reazioni politiche ed emotive suscitate dal collasso del Comunismo in Europa. E si è concluso nel segno di un’estrema incertezza, smentendo talune profezie, tanto più gratificanti quanto di più facile maneggio, che l’epilogo della contrapposizione tra Est ed Ovest fosse il preludio di un itinerario rettilineo e a senso unico, culminante necessariamente nell’avvento di una nuova epoca contraddistinta dallo sviluppo della democrazia politica e dalla pacifica composizione dei contrasti fra i popoli e le nazioni. Anche perché c’è da stabilire se e in che modo sia possibile governare l’economia globale affinché essa concorra alla crescita di una società più giusta e progredita e a combattere la povertà del terzo mondo. Non ci sono, dunque, per il futuro pagine di storia già bell’e scritte ma tanti fogli bianchi o quasi ancora da riempire. Tutte le prospettive sono aperte e quel fenomeno di accelerazione della storia che ha caratterizzato il corso del ventesimo secolo ha assunto negli ultimi tornanti cadenze ancor più concitate al punto che siamo costretti a rincorrere affannosamente il succedersi degli avvenimenti[11].

3. Il secolo delle tenebre?

Il bilancio del Novecento è piuttosto negativo sotto il profilo del tema “umanità”, come appare su diversi fronti: dal genocidio ebraico, alla violenza stalinista, fino alla bomba atomica, al Vietnam e ad altre stragi e genocidi.

Il fatto più terribile è che, nonostante tutto, il male sopravvive come un residuato bellico. È il retaggio di una mentalità comune, condizionata da pregiudizi diffusi e narcotizzata da ideali utopici:

Il male è sopravvissuto ad Auschwitz, ‒ scrive Castronovo ‒ poiché le efferatezze perpetrate dal nazismo sono state il prodotto non soltanto delle farneticanti concezioni politiche di Hitler sulla superiorità razziale e la missione del popolo germanico in Europa, ma anche di quella che Hanna Arendt ha definito la “banalità del male”, ossia dei modi di pensare e degli atteggiamenti di tanta gente comune, del contegno ordinario di numerosi uomini e di donne. E il male è sopravvissuto a Kolyma, giacché i crimini compiuti sotto le insegne del comunismo non sono stati unicamente il risultato della contraffazione e dello stravolgimento di un’utopia politica, ma anche dell’assuefazione di milioni di persone all’idea che il bene della vita, il rispetto della dignità e dei valori dell’individuo, fosse qualcosa di insignificante rispetto a un fine superiore come la promessa di una palingenesi sociale di portata universalistica[12].

La situazione attuale è piuttosto fluida, come hanno dimostrato i fatti della ex Jugoslavia nel cuore dell’Europa fino ad allora pacifica al suo interno, e il presente non è privo d’inquietudine:

Fatto sta ‒ continua Castronovo ‒ che è tornato ad affacciarsi negli ultimi anni del Novecento un incubo angoscioso che credevamo esorcizzato una volta per tutte, dopo che nel cuore dell’Europa, nei vari spezzoni della ex Jugoslavia, si sono riprodotte, tra persecuzioni ed eccidi di massa, angherie orripilanti e brutali violazioni del codice di convivenza umana che sembravano appartenere a un’epoca lontana. Tant’è che lo spettro di nuove carneficine ha finito per spingere i paesi dell’Occidente, rimasti per troppo tempo alla finestra, ignavi o cinicamente passivi, a impegnarsi non più soltanto con sanzioni economiche ma anche con interventi armati a tutela dei diritti più elementari della persona e a protezione delle minoranze, in nome di una nuova etica internazionale, che tuttavia non è ancora assurta a norma generalmente riconosciuta e attuata[13].

Questa situazione è paradossale, perché oscilla tra livelli di alto benessere collettivo e rischio di nuovi conflitti, legati proprio a questa nuova condizione, della quale beneficia una minima parte del mondo, a scapito di una più ampia parte:

Ci troviamo così a oscillare, a essere come sospesi, fra impressioni e stati d’animo divergenti. La realtà che abbiamo sotto gli occhi ci dice che mai, in nessun’altra epoca della sua storia, l’Occidente è giunto a godere un livello analogo di benessere collettivo e a vantare potenzialità così ragguardevoli, ben più elevate di quelle prodotte complessivamente dalla prima e dalla seconda rivoluzione industriale. Eppure, ad onta dell’esistenza di condizioni tanto propizie, dubitiamo del nostro futuro, come se esso dovesse risospingerci indietro. In effetti c’è il rischio che, proprio in conseguenza delle rendite di posizione così acquisite, il mondo occidentale finisca per adagiarsi sugli allori o per presumere troppo dalle proprie forze, perdendo così il suo dinamismo, la sua carica innovatrice. E c’è il timore che nel contesto di una società affluente e disincantata, non più o assai meno animata d’un tempo da forti ideali e passioni civili, vengano a mancare gli anticorpi indispensabili a neutralizzare certi aspetti più ambigui e contraddittori delle trasformazioni in corso, in quanto suscettibili di alimentare il conformismo, l’eteronomia, l’edonismo di massa. Ciò che (sic!) metterebbe a repentaglio il nostro sistema di valori, il cui lievito sta nel confronto delle idee, nella libertà individuale, nel riferimento al bene comune[14].

In due recenti convegni si è tentato di leggere e di interpretare il nostro secolo affrontando il tema dei totalitarismi[15], e dei crimini di guerra[16]. Nel secondo convegno si è centrata l’attenzione sui temi storia, verità e giustizia, tenendo presente i livelli d’intreccio, con un’accurata analisi comparata[17]. Il quadro emerso è quello della “complessità”. Il confronto multidisciplinare, che ha coinvolto e cercato di intrecciare le analisi e i punti di vista di storici e giuristi, filosofi e sociologi, letterati e psicologi,

non è solo un contributo nuovo e stimolante all’analisi di un aspetto centrale della storia recente; è anche un antidoto necessario al riduzionismo con cui essa è spesso presentata, raccontata e discussa, alla falsa alternativa tra vero e falso, giusto e ingiusto, chiaro e scuro con cui troppo spesso la si legge per tacitare ‒ insieme alle proprie coscienze ‒ i problemi e gli interrogativi che essa apre e ripropone incessantemente[18].

4. Barbarie moderna

Nel suo contributo d’apertura, Todorov si domanda: «Il XVIII secolo è stato designato dagli storici “secolo dei Lumi”, si finirà un giorno per chiamare il XX “il secolo delle Tenebre”?»[19]; e dichiara che l’elemento caratterizzante del XX secolo è l’affermarsi del totalitarismo, il “male nuovo” che segna la nostra epoca e del quale paghiamo ancora oggi le conseguenze[20].

Alla tesi del “secolo delle tenebre” di Tzvetan Todorov fa eco quella del “secolo barbaro” di Michael Löwy[21].

Il tema della barbarie è uno dei motivi centrali della discussione. Nel suo intervento Löwy si chiede in che cosa consista il “processo di civilizzazione” e lo individua nel passaggio dalla violenza spontanea degli individui a quella concentrata nelle mani del potere politico[22].

Si può parlare perciò di un passaggio dalla barbarie come “mancanza di civiltà” e “crudeltà di barbaro” alla “barbarie civile”:

 Nessun secolo della storia ha conosciuto manifestazioni di barbarie così estese, così massive, così sistematiche come il XX. Certo, la storia umana è ricca di atti barbari, commessi tanto dalle nazioni “civili” che dalle tribù “selvagge”. La storia moderna, a partire dalla conquista delle Americhe, si presenta come una successione di atti di questo tipo: il massacro degli indigeni delle Americhe, il traffico negriero, le guerre coloniali. Si tratta di una barbarie “civile”, sostenuta dagli imperi coloniali economicamente più avanzati[23].

Secondo Michael Löwy la prima guerra mondiale ha inaugurato il nuovo stadio della barbarie civile: «Con il XX secolo viene varcata una soglia, si passa a un livello superiore: la differenza è qualitativa. Si tratta di una barbarie specificamente moderna, dal punto di vista dell’ethos, dell’ideologia, dei mezzi, della struttura»[24]. Due autori hanno ne hanno dato l’allarme per primi: Rosa Luxemburg e Franz Kafka. La prima «ruppe con la concezione […] della storia come processo inarrestabile, inevitabile, “garantito” dalle leggi “oggettive” dello sviluppo economico o dell’evoluzione sociale. […] Non si tratta più di attendere che il frutto “maturi”, secondo le “leggi naturali” dell’economia e della storia, ma di agire prima che sia troppo tardi»[25].

La Luxemburg si rese conto che non si trattava semplicemente di una ricaduta nella barbarie come annullamento della civiltà, quanto piuttosto di una barbarie eminentemente moderna: «Mai nel passato delle tecnologie a tal punto moderne ‒ i tank, i gas, l’aviazione militare ‒ erano state poste al servizio di una politica imperialista di massacro e di aggressione su una scala così estesa»[26].

Sull’altro versante, in forma letteraria geniale e “visionaria”, Kafka coglie l’aspetto diabolico della modernità nel racconto intitolato Nella colonia penale, scritta nell’ottobre del 1914, a tre mesi dallo scoppio della Grande guerra[27].

In una colonia francese un soldato è condannato a morte da alcuni ufficiali, la cui dottrina, totalmente arbitraria, si riassume nell’assioma: “La colpevolezza non deve mai essere messa in dubbio!”. L’esecuzione spetta a una macchina di tortura che traccia lentamente sul suo corpo, con degli aghi che lo trafiggono: “Onora i tuoi superiori”. Questa Macchina, l’Apparecchio (Apparat), è il vero protagonista del racconto che presenta in modo penetrante la logica omicida della barbarie moderna in quanto “meccanismo impersonale”: esso non è lì per giustiziare l’uomo, è piuttosto quest’ultimo a essere presente per l’Apparecchio, per fornire un corpo sul quale questo possa operare.

Le caratteristiche della barbarie moderna ‒ secondo Löwy ‒ sono le seguenti: utilizzo dei mezzi tecnici moderni, industrializzazione dell’assassinio, sterminio di massa grazie a tecnologie scientifiche di punta; impersonalità del massacro, intere popolazioni (uomini e donne, bambini e anziani) sono “eliminate” con il minor contatto possibile tra coloro che decidono e le vittime; gestione burocratiche, amministrativa, efficiente, pianificata, “razionale” (in termini strumentali) degli atti barbari; ideologia legittimante di tipo moderno: “biologica”, “igienista”, “scientifica” (e non religiosa o tradizionalista)[28].

I quattro massacri ‒ scrive Todorov ‒ che raffigurano nella maniera più compiuta la modernità della barbarie sono: il genocidio nazista contro gli ebrei e gli tzigani, la bomba atomica a Hiroshima, il gulag staliniano, la guerra americana nel Vietnam. I primi due sono forse i più integralmente moderni: le camere a gas naziste e la morte atomica americana racchiudono praticamente tutti gli ingredienti della barbarie tecno-burocratica moderna. Auschwitz incarna la modernità non solo per la struttura di fabbrica di morte, scientificamente organizzata, e che impiega tecniche efficientissime[29].

Per Baumann l’Olocausto è un prodotto della modernità, risultato di un processo civilizzatore che manifesta al suo culmine la razionalizzazione della violenza e la produzione dell’indifferenza morale:

Come ogni altra azione condotta in maniera moderna ‒ razionale, pianificata, informata scientificamente, gestita in maniera efficace e coordinata ‒ l’Olocausto ha lasciato dietro di sé […] tutti i presunti equivalenti premoderni, facendoli apparire al suo confronto primitivi, sperperatori e inefficaci. […] Esso si leva ben più in alto che gli episodi di genocidi del passato, allo stesso modo in cui la fabbrica industriale moderna si innalza ben al di sopra dell’atelier artigianale[30].

Secondo Enzo Traverso il genocidio di Auschwitz appare come una “manifestazione patologica della modernità”[31], ma anche un evento singolare, non paragonabile cioè ai campi sovietici, ai massacri coloniali o ai progrom[32].

Il gulag staliniano ha certamente molto in comune con Auschwitz, ma se ne distingue per il fatto che l’obiettivo non era lo sterminio dei prigionieri, quanto ma il loro sfruttamento come schiavi e, in ultima analisi “tecnicamente” inferiore[33].

Più affinità con Auschwitz presentano Hiroshima e il Vietnam. Hiroshima si presenta come «macchina di morte formidabilmente moderna, tecnologica e “razionale”. […] Sotto molti punti di vista, Hiroshima esprime un livello superiore di modernità, sia per la novità scientifica e tecnologica costituita dall’arma atomica, che per il carattere ancora più distante, impersonale, puramente “tecnico” dell’atto sterminatore: spingere un bottone, aprire il portello che libera la carica nucleare»[34].

La guerra americana in Vietnam, infine, terribile per il numero di vittime e di civili sterminate dai bombardamenti, il napalm o le esecuzioni collettive, rappresenta, sotto molteplici punti di vista, un intervento estremamente moderno: fondata su una pianificazione “razionale” ‒ con l’impiego di computer, e di un esercito di esperti ‒ essa mobilita armamenti molto sofisticati, alla punta del progresso tecnico degli anni sessanta e settanta: B-52, napalm, diserbanti, bombe a frammento, ecc.[35].

5. Confrontare le atrocità: il ruolo dello storico

Johann Wolfgang von Goethe ha scritto: «Colui che non è in grado di darsi conto di tremila anni rimane al buio e vive alla giornata». Il compito dello storico è innanzitutto un compito di raccolta e di ordinamento dei materiali, per poter offrire, attraverso un’analisi comparata con le altre scienze, una prospettiva giusta come “tutore di universalità”[36]. In secondo luogo il suo compito è “cercare di comprendere”. Questo è anche il compito al quale dobbiamo educarci tutti, per maturare una nuova prospettiva, dal momento che, come scrive Marc Bloch, «non comprendiamo mai abbastanza»:

Un motto, in sintesi, domina e illumina i nostri studi: “Comprendere”. Non diciamo che il bravo storico è estraneo alle passioni, ha per lo meno quella. Motto, non nascondiamocelo, carico di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, motto carico di amicizia. Non comprendiamo mai abbastanza. Chi è diverso da noi ‒ straniero, avversario politico ‒ passa, quasi necessariamente, per un cattivo. Anche per condurre le lotte che non si possono evitare, un po’ più di intelligenza nelle anime sarebbe necessaria; a maggior ragione per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, purché rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. Essa è una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro fra gli uomini. La vita, come la scienza, ha tutto da guadagnare dal fatto che questo incontro sia fraterno[37].

Comprendere è difficile, date le implicazioni del tema a livello psicologico, morale, politico e sociale. Esigenza di giustizia e di memoria s’intrecciano, nel Novecento, assieme a comportamenti e scelte, rendendo l’analisi e il giudizio più complessi, come appare soprattutto per il senso della verità:

La verità della storia è più ampia e al tempo stesso più sfuggente, più concreta ma anche meno assoluta: può raccontare i fatti raccogliendo prove e testimonianze, ricostruendo gli eventi in modo incontrovertibile: ma l’interpretazione sarà sempre soggetta al punto di vista, all’angolazione, all’interrogativo che lo storico, e l’epoca in cui vive, ritengono di dover assumere. Proprio un tema come quello dei crimini del XX secolo, soggetto all’interferenza delle ideologie e dei regimi che li hanno prodotti, oltre che alla presenza emotiva della memoria e della giustizia che ne sono seguite, pone il problema della verità in modo più complesso e significativo. E più carico di riflessioni per le responsabilità collettive che un mondo sempre più integrato e globalizzato pone alla questione del rispetto dei diritti di tutti e della convivenza internazionale che su esso dovrebbe fondarsi[38].

È una priorità per lo storico – e anche per noi oggi più che mai – comprendere meglio il passato e approfondire una questione così spinosa, che investe morale e politica, esigendo un giudizio storico e decisioni impegnative nel presente:

L’argomento ‒ scrive Flores ‒ che è stato al centro della discussione, infatti, pur essendo cruciale per la comprensione del XX secolo, costituisce un momento ineliminabile anche per la coscienza attuale, sottoposta di continuo e in ogni parte del mondo ai crimini che continuano a essere compiuti. È cresciuta negli ultimi tempi la consapevolezza della necessità e possibilità della loro eliminazione, anche se non sempre la capacità di attuarla […] soprattutto in un secolo come il Novecento che ha potuto, non senza buoni motivi, essere definito anche un secolo barbaro[39].

Alla luce di queste riflessioni ci pare che, per maturare una nuova prospettiva antropologica, dovremmo esercitarci tutti nella comprensione e nell’educazione alla verità, dal momento che «non comprendiamo mai abbastanza» e siamo sempre troppo timorosi della verità, fino in fondo.

Conclusione

L’analisi che abbiamo fin qui tracciato ci invita a prendere coscienza che le guerre e la barbarie moderna, con le loro atrocità, hanno influito sul Novecento più di quanto si possa immaginare. Il nostro compito è di puntare sulla comprensione e sull’educazione alla verità, dal momento che «non comprendiamo mai abbastanza» (Bloch) e siamo sempre troppo timorosi della verità fino in fondo.  Dal secolo scorso fino ad oggi è in atto una “eclisse di umanità” dal duplice volto: quello della vittima che la subisce, attraverso la violenza, la guerra o il non riconoscimento della sua “umanità”; quello dell’aguzzino che la impone e, nell’atto stesso dell’imporla, “nega” la sua stessa umanità.

Dai fatti dell’11 settembre a quella che è «l’attuale guerra mondiale a pezzi» (Papa Francesco) la nostra attenzione è richiamata sul senso della vita e sul valore dell’essere umano. Le guerre in corso e i crimini contro gli esseri umani ci allarmano, perché mostrano che non possiamo abbassare la guardia, pena la perdita di umanità e di civiltà. I crimini contro l’umanità e i genocidi nascondono, infatti, dietro esigenze politiche, sociali, militari, un fondo oscuro che è la negazione della propria e dell’altrui umanità.

Il presente e il futuro dell’uomo sono appesi a un filo, quello della sua consapevolezza antropologica e della sua responsabilità etica. La sfida è quella di ripartire da una visione “umana” dell’essere umano: pensare l’uomo pensando all’uomo, pensare l’altro pensando all’altro. La serenità e il necessario distacco, con i quali ci apprestavamo ad affrontare il bilancio di un secolo, sono, in qualche modo, inficiati. Ancora una volta la realtà ci sorprende e ci supera nella sua inaudita violenza. Potrà la storia insegnarci qualcosa, potrà essere per l’uomo contemporaneo “maestra di vita”? «Il futuro, è lecito sperarlo, sarà degli uomini e per gli uomini»[40].

 

Note:

[1] D. Mazzullo, La guerra naturale. Inevitabilità della violenza nei conflitti, prefazione di F. di Mare, Fefé, Roma, 2016; E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1973.

[2] «Il bravo stratega rifugge qualunque scontro non inevitabile, e se proprio deve combattere, non combatte un minuto di più dello strettamente necessario» (Sun Tsu, L’arte della guerra, Premessa di Wu Ming, edizione integrale, Newton Compton, Roma, 2016), p. 11 (premessa).

[3] Dopo averla paragonata a un duello ingrandito Karl von Clausewitz scrive: «La guerra è un atto di forza per ridurre l’avversario al nostro volere» (Pensieri sulla guerra, a cura di L. Cura, BIR, Milano, 1995, p. 17). Di fronte a un “altro” che minaccia realmente o virtualmente la nostra identità la vera sfida è quella di impedire la violenza distruttiva (cfr. A. Papa, Tu sei il mio nemico. Per una filosofia dell’inimicizia, Vita e Pensiero, Milano, 2013).

[4] Nel film di Wim Wenders, Un uomo di parola (2018) Papa Francesco afferma: «La diversità fa paura perché aiuta a crescere. La conformità non fa paura perché non aiuta a crescere».

[5] Sul versante filosofico segnaliamo in particolare: P. Amato, La filosofia e la grande guerra, Mimesis, Milano, 2015; Filosofi nella grande guerra, “Per la filosofia. Filosofia e insegnamento”, 2017/1, n. 99.

[6] Sul versante documentario c’è un testo che mostra come la guerra sarebbe potuta terminare in poco tempo: M. Jürgs, La piccola pace nella Grande guerra. Fronte occidentale, 1914: un Natale senza armi, il Saggiatore, Milano, 2005. Il libro ha ispirato il film Joyeux Noël – Una verità dimenticata dalla storia (2005), diretto da Christian Carion. Mario Monicelli ha diretto il film La grande guerra (1959), Francesco Rosi si è liberamente ispirato al romanzo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu nel suo Uomini contro (1970) e Ermanno Olmi è il regista di Torneranno i prati (2014).

[7] Cfr. La guerra del terrore, I quaderni speciali di “Limes”, rivista italiana di geopolitica, suppl. al n. 4, 2001; Il terzo dopoguerra, “Aspenia”, 2003, n. 21.

[8] V. Castronovo, L’eredità del Novecento. Che cosa ci attende in un mondo che cambia, Einaudi, Torino, 2000, pp. 4-5.

[9] V. Castronovo, L’eredità del Novecento, cit., p. 11.

[10] È la tesi di Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano 1995. «Come se la Rivoluzione d’Ottobre nel bel mezzo della Grande Guerra, e la caduta del muro di Berlino, l’avvento e il crollo dell’Unione Sovietica, fossero stati l’alfa e l’omega del Novecento» (Ivi, p. 5).

[11] Ivi, p. 9.

[12] Ivi, p. 12.

[13] Ivi, p. 12.

[14] Ivi, p. 13.

[15] AA.VV., Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores, Milano, 1998.

[16] AA.VV., Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, a cura di M. Flores, Milano, 2001.

[17] Nell’Introduzione agli Atti, Marcello Flores scrive: “L’obiettivo del convegno Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, svoltosi a Siena dal 16 al 20 marzo 2000, è stato quello di intrecciare piani di lettura che spesso si alimentano a vicenda ma non si sono mai incontrati e confrontati in modo sistematico: quello di un’analisi storica comparata dei crimini e delle violenze di massa compiute dagli stati nel corso del Novecento; quello di una riflessione sul ruolo della memoria e dell’interpretazione del XX secolo; quello della giustizia per i crimini contro l’umanità, della sua legittimità, del consenso popolare o del disagio dell’opinione pubblica, dei difficili rapporti tra la giustizia internazionale e quella delle singole entità statali e nazionali, della responsabilità individuale e collettiva di persone e istituzioni” (AA.VV., Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, a cura di M. Flores, Milano, 2001, p. X).

[18] Ibidem.

[19] Cfr. T. Todorov, Il secolo delle tenebre, in AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., p. 1.

[20] “L’avvenimento centrale, per me, consiste nel manifestarsi di un male nuovo, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato su buona parte del mondo; un regime che è attualmente scomparso dall’Europa ma indubbiamente non da altri continenti, e i cui postumi continuano ad agire tra noi. Il XX secolo sarebbe dunque contrassegnato dalla lotta tra il totalitarismo e la democrazia o da quella fra le due ramificazioni totalitarie” (AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., p. 1).

[21] Cfr. il suo contributo La dialettica della civiltà: figure della barbarie moderna nel XX secolo, in AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., pp. 9-19.

[22] “Come ha indicato con esattezza Norbert Elias, uno dei suoi aspetti rilevanti è dato dal fatto che la violenza non viene più esercitata in modo spontaneo, irrazionale ed emozionale dagli individui, ma monopolizzata e centralizzata dallo Stato, più precisamente dall’esercito e dalla polizia. In virtù del processo di civilizzazione, le emozioni sono dominate, la vita sociale pacificata e la coercizione fisica concentrata nelle mani del potere politico” (cfr. N. Elias, La dynamique de l’Occident, Calmann-Lèvy, Paris, pp. 181-190; tr. it. Potere e civiltà, Bologna, 1983, il Mulino, cit. in AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., p. 9).

[23] Ivi, p. 10.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 11.

[26] Ibidem.

[27] Cfr. F. Kafka, Nella colonia penale, in Tutti i racconti, Milano, 1970.

[28] Cfr. AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., p. 12.

[29] Ivi, p. 13.

[30] Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, London, 1989; tr. it. Modernità e Olocasuto, Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 15, 28.

[31] E. Traverso, L’histoire déchirée. Essai sur Auschwitz et les intellectuels, Cerf, Paris, 1997.

[32] Cfr. E. Traverso, La singularité d’Auschwitz. Hypothèses, problèmes et dérives de la recherche historique, in Pour une critique de la barbarie moderne. Ecrits sur l’historie des Juifs et de l’antisémitisme, Ed. Page Deux, Lausanne,1997.

[33] «Il gulag è stato una forma di barbarie moderna nella misura in cui era burocraticamente amministrato da uno stato totalitario, e posto al servizio dei faraonici progetti staliniani di “modernizzazione” economica dell’Urss. Esso, tuttavia, si contraddistingue anche per alcuni tratti più “primitivi”: corruzione, inefficienza, arbitri, “irrazionalità”. Per questa ragione esso può essere situato a un livello di modernità inferiore al sistema concentrazionario del Terzo Reich» (E. Traverso, Segnalatori d’incendio. Riflessioni sull’esilio e le violenze del XX secolo, in AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., p. 16).

[34] Ivi, pp. 15-16.

[35] Ivi, pp. 16-17.

[36] «Lo storico può e deve raccogliere tutto il materiale di cui può disporre dai settori più diversi, anche quello del mondo della memoria o della giustizia. Sta a lui selezionarlo, contestualizzarlo, porlo in una giusta prospettiva e attribuirgli il valore che merita. Egli è necessariamente parte di un processo di costruzione identitaria (che ci si augura finalizzato alla democrazia, alla tolleranza, alla civile convivenza tra culture diverse), ma al tempo stesso guardiano che quel processo non usi strumentalmente la storia sovrapponendosi alla verità, al senso critico, al libero confronto di memorie diverse. Egli dovrebbe, insomma, essere il tutore più dell’universalità che dell’identità. Usando, tuttavia, un metodo di analisi delle singolarità e di comparazione tra esperienze uniche che possa affiancare i risultati di conoscenza e di verità ottenuti da altre discipline o con altri mezzi» (AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., p. 392).

[37] M. Bloch, Apologia della storia, 1942, cit. in AA.VV., Storia, verità e giustizia, p. 392.

[38] AA.VV., Storia, verità, giustizia, cit., pp. XI-XII.

[39] Ivi, p. XI.

[40] N. Abbagnano, La saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Rusconi, Milano, 19879, p. 26.