Atolli

Mariang

MARIANG è il nome di una donna delle isole che conosco bene.

Mariang è Maria. Maria, come la Santa Madre di Dio. Gli abitanti della regione delle Palaos mettono suoni nasali dappertutto così che all’orecchio risulta Mariang.

La sua età esatta non la conosco. Non sarei stato in imbarazzo nel chiederlo, è solo che non ci ho pensato. Una cosa è sicura in ogni caso: non ha trent’anni.

Non so nemmeno se Mariang è bella o no agli occhi del suo popolo. Ma sono certo che non è brutta. Il suo viso che non ha niente di giapponese né di occidentale (poiché nei Mari del Sud, affinché i tratti vengano giudicati nella norma, bisogna in genere che si abbia il sangue misto da una parte o dall’altra) rientra nel campo del più puro tipo kanak micronesiano che io trovo peraltro ammirevole. Ritornando inevitabilmente alle delimitazioni di razza, penso che è un viso opulento, spensierato, sbocciato. Tuttavia sembra che Mariang stessa sia un po’ imbarazzata da quella che è la sua fisionomia. Poiché, come si vedrà, lei è in primo luogo e prima di tutto, un’intellettuale il cui cervello non contiene più granché di kanak. E poi bisogna dire che a Koror, città dove abita Mariang (e centro culturale dell’arcipelago), anche tra gli isolani, sono i criteri di bellezza del mondo occidentale a dominare. Si sentiva davvero, in questa città di Koror – è là che ho soggiornato più a lungo, una sorta di confusione di valori: si era in una zona tropicale e contemporaneamente si imponevano criteri della zona temperata. Questo non mi aveva colpito di primo acchito, ma solo più tardi, quando sono partito per fare il mio giro delle isole dove non abita nessun giapponese, e sono poi tornato a Korok. Qui, il tropicale, il temperato, niente vi sembrava bello. O piuttosto non esiste nessuna sorta di bellezza – né tropicale né temperata.

Ciò che avrebbe potuto testimoniare la bellezza tropicale è stato inaridito e castrato dalla civilizzazione temperata, e ciò che doveva rappresentare la bellezza temperata non fa che rivelare sotto questo clima e questa natura,questa luce! Tropicale, delle debolezze incongrue.

In questa città non c’è che la povertà caratteristica dei sobborghi coloniali, una povertà decadente, e tuttavia stranamente presuntuosa. Mariang, in ogni caso, nuotava in questo ambiente e non sembrava minimamente felicitarsi dell’opulenza dei suoi tratti kanak. Opulenta, si, lei lo era senza dubbio per la sua fisionomia: misurava quasi cinque piedi e cinque pollici e diceva di pesare centocinquanta libbre quando era dimagrita un po’. Ma gran dio! chiunque avrebbe adorato avere un corpo altrettanto splendido.

La prima volta che la vidi mi trovavo nella casa dell’etnografo H. Era notte, eravamo, H. ed io, in quell’angusta abitazione, funzionale, per scapoli; stavamo discutendo seduti su delle stuoie di giunco che facevano da tatami quando improvvisamente, da fuori, arrivò lo squittio di un topo e nella sottile fessura della finestra socchiusa ( dopo più di dieci anni di vita nei mari del sud H. non sente più il caldo; appena fa un po’ fresco, la sera e la mattina, chiude la finestra) una voce di una giovane donna disse: “si può entrare?” Bene, bene mi dicevo incuriosito, il signor Etnografo ha ben nascosto il suo gioco fin qui, e fui doppiamente sorpreso quando la porta si aprì non su una giovane persona della metropoli, ma su una donna delle isole, dal corpo maestoso. “Il mio professore di palauano” disse H. presentandomela. Egli si occupava infatti, in quel periodo, di riunire una raccolta di antiche ballate di Palau che voleva tradurre in giapponese, e questa donna, Mariang, veniva regolarmente tre giorni alla settimana per aiutarlo. Anche quella sera iniziarono subito a lavorare tenendomi vicino a loro.

La scrittura non esiste a Palau. Era il professor H. che, andando a intervistare i vecchi del paese, scriveva queste antiche ballate sotto loro dettato e servendosi dell’alfabeto latino. Mariang cominciò guardando i quadernetti dove erano trascritte le antiche ballate palaune: e correggeva gli errori. Poi restava a lato del professor H. mentre lui traduceva, rispondendo di tanto in tanto alle sue domande.

“Ah bene! mi stupii, lei sa anche l’inglese? – Può andarne fiera.”.

“È che siamo state alla scuola per ragazze della metropoli vero?” – scherzò il professor H. guardando di sottecchi verso Mariang. Lei fece un po’ la timida arrotondando le sue labbra carnose, ma si guardò bene dallo smentire il professore.

H. mi precisò più tardi che Mariang aveva frequentato per due o tre anni una scuola per ragazze da qualche parte a Tokio (senza portare a termine i suoi studi, sembrava): “Per l’inglese non ne aveva bisogno, come può immaginare: lo aveva appreso dal suo vecchio”, disse, “insomma, quando dico il suo vecchio voglio dire il suo padre adottivo. Vi rendete conto? era la figlia adottiva di William Gibbon!”….Gibbon: mi venne in mente solo l’autore del monumentale Declino e caduta dell’impero romano, ma compresi presto che si trattava di un intellettuale meticcio (inglese e indigeno) che aveva avuto una fama considerevole alle Palau: dai tempi della colonia tedesca era servito da interprete all’etnografo Kramer per tutta la sua missione. Non sapeva il tedesco, pertanto tra Kramer e lui tutto si svolgeva in inglese; ma a quel punto non stupiva più che sua figlia adottiva sapesse parlare inglese.

Con i miei colleghi impiegati alle Palau, forse perché ero troppo eccentrico per loro, non riuscivo ad avere delle relazioni franche e non mi ero fatto nessun amico al di fuori del professor H. E siccome ero costantemente a casa sua, naturalmente mi ero avvicinato anche a Mariang.

Lei lo chiamava mio zio. È vero che lo conosceva fin da quando era piccola. E di tanto in tanto lo omaggiava con della cucina di Palau che gli portava da casa. Venivo ogni volta invitato ad unirmi a loro. È grazie a Mariang che per la prima volta ho assaggiato le caramelle di tapioca, chiamate Binlumm, e le titinl che sono delle specie di dolci zuccherati.

Un giorno con il professor H. passavamo davanti casa di Mariang e ci fermammo un momento. La sua casa è uguale a tutte le altre case dell’isola, con un pavimento quasi interamente costituito da tronchi di bambù, tranne una piccola parte che è in tavole di legno. Ci invitammo senza fare tanti complimenti; sulle tavole di legno c’era un piccolo tavolo sul quale erano posati dei libri; me ne impadronii. Uno era una selezione di poemi inglesi tradotti da Kuriyagawa Hakuson, l’altro Il Matrimonio di Loti, nella collezione dei classici tascabili Iwanami.

Su una mensola appesa al soffitto, tutta una serie di cesti in fibra di cocco; i vestiti di tutti i giorni erano gettati alla rinfusa su una corda tesa attraverso la stanza (gli isolani non sistemano i loro vestiti; li lasciano pendere in modo trascurato come sul filo ad asciugare); sotto le tavole di bambù sentivamo le gallina schiamazzare. In un angolo della stanza una donna, senza dubbio parente di Mariang sonnecchiava poco vestita; prima ci aveva lanciato uno sguardo sospettoso, poi si era semplicemente girata dall’altra parte. Scoprire Kuriyagawa Hakuson e Pierre Loti in un ambiente simile era veramente strano. Posso anche dire che era un po’ doloroso. Ma non sono capace di dire se questo sentimento doloroso era diretto ai libri o a Mariang.

Quanto al Matrimonio, Mariang non era soddisfatta. Lei riteneva che Loti passasse completamente a lato della realtà: i mari del sud, non erano questo. “Forse perché tratta di un tempo passato, ed io non conosco abbastanza la Polinesia, ma è così esagerato” diceva.

Lei conservava svariatissimi tipi di riviste e di libri che teneva stipati in delle scatole che dovevano aver contenuto arance, in fondo alla sua camera.In cima a una pila credo di aver intravisto qualche vecchio numero del Bollettino dei vecchi allievi della sua scuola (quella dove una volta aveva studiato, a Tokio).

Nessun negozio nelle strade di Koror aveva sugli scaffali la collezione dei classici Iwanami. In occasione di una riunione di persone della metropoli nella quale avevo incidentalmente pronunciato il nome di Yamamoto Yuzo, mi si replicò all’unanimità: ma chi è questo signore? Non è che vorrei obbligare il mondo a leggere letteratura, ma ad ogni modo, questa città intrattiene con i libri un rapporto singolarmente distante. Mariang era probabilmente in tutta Koror (metropolitani inclusi) quella che leggeva di più.

Mariang ha una figlia piccola, di cinque anni. Niente marito, non più. A sentire il professor H. è lei che lo ha cacciato. Per la ragione, semplicemente, che era geloso aldilà di quanto è permesso.

Dicendo questo potrei far pensare che Mariang è una vera furia – e in effetti nessuno la prenderebbe per una donna debole e sottomessa – ma bisogna anche tener conto del rango importante, dovuto alla sua nascita, che lei occupa nell’isola. Ho detto già che suo padre adottivo era un meticcio; questo non cambia tuttavia niente nelle origini di Mariang poiché le genti di Palau hanno un’organizzazione matrilineare. La madre di Mariang, lei, è discendente degli Ididzu, i primi Grandi Anziani di Koror. In altre parole Mariang appartiene alla famiglia più illustre dell’isola. Se lei è ancora oggi presidente dell’associazione giovani ragazze di Koror, è alla sua nascita, oltre che al suo talento, che lo deve. Il marito di Mariang era di Ngiwal, un villaggio sull’isola principale di Palau ( e alle Palaos, anche se il sistema è matrilineare, è regola che la sposa, una volta maritata, se ne vada a vivere a casa del marito; a meno che lui non muoia, in tal caso essa prenderà con se tutti i figli e ritornerà dalla sua famiglia) – ma con tali origini familiari, sapendo anche che Mariang detestava la vita di campagna, era stato fatto uno strappo alla regola; suo marito era venuto a vivere a casa sua. E dunque, ad un certo punto lei lo aveva cacciato. Può essere che, fisicamente l’uomo non fosse stato della stazza giusta per competere! Era sempre lui che non smetteva di ritornare, reclamando da un lato dei risarcimenti di danni (il suo tugakileng) e dall’altro supplicandola di riprendere la vita in comune, cedendo alle sue istanze; ma il geloso non era guarito dalla sua gelosia (o piuttosto da ciò che era a base del problema, ossia la differenza tra il suo cervello da uomo e quello di Mariang), per cui si separavano di nuovo. E da quel momento lei viveva da sola. La sua nascita le impediva di frequentarsi con chiunque (punto sul quale si è particolarmente rigidi alle Palaos); essendo troppo civilizzata e non avendo in genere niente da condividere a suo gusto con gli isolani, il professor H. temeva che in fin dei conti Mariang non avrebbe mai più potuto risposarsi. Ho l’impressione, a tal proposito, che Mariang non avesse che amici giapponesi. La sera si trovava sempre un posto su una panchina in mezzo alle spose dei commercianti della metropoli per chiacchierare. Credo anche che la maggior parte del tempo fosse lei a condurre la discussione.

Mi è capitato di vedere Mariang abbigliata in pompa magna. Era la sua tenue de sortie: vestita tutta di bianco all’occidentale, tacchi alti e ombrello corto. La carnagione luminosa come al solito, brillante o piuttosto lucida di un bel bruno profondo, delle grosse braccia ramate che sporgevano dalle corte maniche come per sconfiggere i demoni, e delle gambe come delle colonne sotto le quali i tacchi torniti delle scarpe sembravano vicini al rompersi. Sforzandomi di respingere i pregiudizi degli esseri gracili nei confronti dei principi del corpo, non ho potuto trattenermi da una voglia di ridere non sapendo perché. Ma è anche vero che allo stesso tempo risentii di nuovo quel dolore che avevo provato il giorno che avevo scoperto nella sua camera i poemi tradotti da Kuriyagawa Hakuson. Anche questa volta non distinguevo con chiarezza se il dolore era diretto all’abito di un bianco immacolato o a colei che la portava.

Due o tre giorni dopo averla scorta in alta uniforme, stavo leggendo nella mia stanza quando sentii fischiare da fuori in una maniera che credetti riconoscere. Ma affacciandomi alla finestra, trovai Mariang che stava falciando l’erba nel bananeto che si trova giusto a lato della pensione. Suppongo che era la corvè “volontaria” che questa città di tanto in tanto impone alle donne indigene. Mariang era accompagnata da altre sette o otto donne piegate tra le erbe, falce alla mano. Questo fischiettio apparentemente non era destinato a me (la vedevo sempre a casa del professor H., ma lei non avrebbe dovuto sapere dove vivevo). Lei falciava senza lasciarsi distrarre, senza sapere che la guardavo. Comparata alla toilette dell’altro giorno, il minimo che si possa dire è che non si era messa in ghingheri: un vestito di tela grezza per il lavoro nei campi e assieme a questo i piedi nudi come usano le donne delle isole. Per quanto riguarda il fischio, sembrava uscirle di tanto mentre lavorava, senza che ne fosse cosciente. Quando il grande cesto al suo lato fu pieno di erba tagliata, lei si sollevò lentamente e il suo sguardo si girò verso di me. Mi vide e fece un grande sorriso, ma qualcosa le impediva di venire a parlarmi. Allora dissimulò il suo imbarazzo sotto un “oh! hissa” sonoro, mise il paniere sulla sua testa e partì nella direzione opposta senza un arrivederci.

Era l’anno scorso, la vigilia del nuovo anno, c’era un chiaro di luna splendido e noi camminavamo per le strade — il professor H., Mariang ed io, accarezzati dal vento fresco della notte. Si trattava di resistere fino a mezzanotte per fare la nostra prima visita al Santuario dei Mari del Sud nello stesso momento in cui avrebbero suonato i dodici colpi. Ci dirigevamo verso i moli di Koror. Una piscina era stata sistemata alla fine del molo e noi ci siamo seduti al bordo di quella piscina.

Il professor H., che nonostante la sua età aveva un gusto esuberante per il canto ci interpretò a squarciagola diversi pezzi del suo repertorio- con una forte predilezione per le arie d’opera. Mariang, lei, si contentava di fischiettare. Strinse a culo di gallina le sue grosse labbra carnose e fischiettò energicamente. Per lei non complicate arie d’opera: quasi unicamente delle melodie dolci di Foster. Ascoltandole mi ricordai improvvisamente che tutte queste melodie avevano la loro origine nelle canzoni malinconiche dei Neri nordamericani.

Non si sa quale mosca punse il professore; e disse d’un colpo a Mariang:

— Mariang! Mariang! (parlava molto forte e l’alcol adulterato che aveva ingerito prima di uscire era senza dubbio servito a qualcosa) se prendi di nuovo marito bisogna assolutamente che sia un ragazzo della metropoli. Eh? Mariang!

“ hum…”, senza rispondere Mariang contemplava la superficie della piscina, piegando giusto un po’ l’angolo delle sue labbra carnose. La luna era quasi all’apice, segno di marea discendente, e questa piscina che era collegata al mare era quasi a secco, al punto che le pietre sul fondo quasi affioravano. Dopo un po’, quando non mi ricordavo già più dell’argomento nel quale il professore ci aveva introdotto, Mariang prese la parola.

— Si, ma comunque, gli uomini della metropoli, lo sapete bene….

Cosa!? Continuava dunque a pensare seriamente al suo prossimo matrimonio? Tutto ciò mi sembrò improvvisamente assurdo e scoppiai a ridere. E sempre ridendo le domandai: “ allora, cos’è che hanno gli uomini della metropoli? ” Forse infastidita dal mio tono deridente lei si girò e non rispose niente.

Questa primavera quando è successo per caso che io e il professore dovevamo tornare alla metropoli per un po’, Mariang, sacrificando una gallina, ci ha offerto un ultimo pasto di cucina delle Palaos.

Il gusto della carne del quale eravamo stati privati dall’inizio del nuovo anno ci incantò le labbra, ripetemmo entrambi che saremmo tornati al più tardi in autunno ( ne avevamo tutti e due realmente l’intenzione) e Mariang scherzò.

— Per quanto riguarda mio zio, si, credo bene che ritornerà poiché è metà isolano, ma Tonchan (è così che mi chiamava, imitando inavvertitamente i modi del professor H.; all’inizio ero un po’ arrabbiato, anche se ho deciso di lasciar fare mostrando un sorriso infastidito)….come sapere?

— Ciò vorrebbe dire che non si può contare su di lui? dissi, e lei rispose con una gravità inusuale:

— Con le persone della metropoli si può essere amici quanto si vuole, una volta tornati al paese, nessuno è mai tornato…

Dopo il nostro ritorno alla metropoli, Mariang ha dovuto inviare due o tre volte delle notizie al domicilio del professor H. Ogni volta chiedeva che ne fosse di Tonchan.

A dire il vero poiché si parla di me, appena sbarcato a Yokohama ero stato colto dal freddo: presi un raffreddore che si trasformò in pleurite. È più che improbabile che ritorni mai al mio posto in questo paese.

Ed ecco che recentemente il professor H. vide andare a buon fine, come per caso ( e in ritardo) un progetto di matrimonio e si trasferì a Tokyo. Lui che consacrò la sua vita alla ricerca etnografica nei mari del sud, avrà ben colto la possibilità di ritornare laggiù per le sue inchieste, ma in ogni caso non si stabilirà al paese come aveva sperato Mariang.

Che direbbe Mariang se sapesse tutto ciò?

Novembre 1942

Mezzogiorno

 

SVEGLIATO. Hmmm, il piacere di stiracchiarsi dopo aver dormito a sazietà sentendo sulle proprie membra, sulla propria schiena le pieghe della sabbia – polvere immacolata di fiori di corallo, che scivola leggermente. Facevo la siesta a meno di due passi dalla riva sotto una fitta ombra color melanzana ai piedi di un boschetto di tanami. I rami e le foglie sopra la mia testa erano talmente fitti che il giorno filtrava appena.

In piedi, faccia al lago, la freschezza di una vela rossa triangolare fendendo il blu turchese delle acque ha aiutato il mio risveglio. Era una piroga a vela che usciva proprio in quell’istante dall’alta marea per infilarsi in una breccia al centro della scogliera. Dalla riverberazione del sole mi faccio l’idea che deve essere un po’ più tardi di mezzogiorno.

Mi accendo una sigaretta e mi siedo di nuovo sulla polvere di corallo. Tutto è calmo. Nessun altro rumore oltre al fruscio delle foglie sopra la mia testa e lo sciabordio dell’acqua che viene a lambire la spiaggia, se non a momenti la debole eco di un’onda che si frange sugli scogli.

Nessuna urgenza che mi pressa, nemmeno il variare delle stagioni: in quest’sola non esiste che il pacifico scorrere del tempo, la storia di Hurashima Taro (1)  non è più una semplice favola. Fatico solamente un pò a scoprire ora, attraverso le nere e robuste ragazzine di quest’isola, il fascino che l’eroe di questo antico racconto trovava nella donna dei suoi pensieri. La parola tempo esiste forse su quest’isola?

Improvvisamente mi chiesi cosa mi avesse potuto tormentare a tal punto nelle fredde brume del nord un anno fa. Era come se tutti quegli avvenimenti appartenessero ora ad un mondo lontano. Era impossibile ormai far rivivere nella mia memoria le sensazioni invernali che pure avevano impregnato la mia pelle. Così tutti i problemi che una volta nel nord mi mettevano in agonia non erano più che dei pallidi ricordi che non lasciavano che delle ombre incerte dietro la membrana di un comodo oblio.

E la felicità suprema che mi ripromettevo prima di partire per il sud si limitava a questo? A questa siesta dalla quale mi svegliavo con delizia – oblio sereno, ozio e riposo sulla polvere dei coralli?

“No!” C’è in me qualcosa che lo nega ferocemente. “No, non può essere questo. Non erano questo ozio e questa noia che ti ripromettevi venendo al Sud. Non era questo, no; piuttosto un gettarti in un nuovo ambiente che non conoscevi per sperimentare a piacimento le forze che hai in te e che sono ancora sconosciute anche a te stesso? Non era anche per senso di avventura poiché prevedevi che l’imminente guerra avrebbe scelto inevitabilmente i mari del Sud come campo di battaglia?”

Si. Certamente. E malgrado tutto, questa attesa passionale di qualcosa di nuovo e di rude aveva finito per dissiparsi nella dolcezza della brezza marina; adesso ero circondato solo da un’indolenza e una pigrizia che erano come un sogno, malinconico e gioioso e non provavo alcun rimorso.

“Senza rimorso? Credi veramente?” rieccolo il mio maligno contraddittore di prima! “Per la pigrizia e l’oziosità non m’importa. Se veramente eri senza alcun rimorso. Se eri completamente libero dai tuoi fantasmi: l’artificio, l’Europa, la modernità. Ma in realtà, ovunque tu sia, in ogni momento, tu sei ciò che sei. Quando camminavi freddamente nelle ampie ali esteriori del santuario di Meji ricoperte di foglie di gingko, o quando con gli isolani mangiavi con voluttà la frutta dell’albero del pane tostato sulla pietra, sempre tu sei tu. Niente è cambiato. La luce del sole e il vento ardente non hanno fatto che gettare sulla tua coscienza un denso velo effimero. Ti immagini in questo momento che guardi il mare e il cielo splendente. Forse anche ti vanti di guardarlo con occhi da isolano. Sciocchezze. In realtà tu non vedi né il mare né il cielo. Tu tieni solo gli occhi sull’altra estremità dello spazio e ripeti a te stesso come una formula magica: lei è ritrovata! – Cosa? – L’eternità è il mare mischiato al sole. Tu non vedi neanche le persone dell’isola, tu non vedi che delle riproduzioni di Gauguin. Tu non vedi la Micronesia. Tu non fai altro che guardare una copia scolorita della Polinesia dipinta da Melville e Loti. Ma quale eternità?! con queste scaglie pallide che ti si attaccano agli occhi! piccolo miserabile!”

“Bisogna fare attenzione vecchio mio” disse un’altra voce “primitivismo non vuol dire salute. Non più di quanto la pigrizia non sia sana. Non c’è niente di più pericoloso di un’evasione culturale mancata.”

“Esatto” rispose la voce allora. “Il primitivismo, in effetti, non è la salute Almeno non ai giorni nostri. Ma non è forse in ogni caso più viva della tua civilizzazione? Andiamo, il sano ed il malsano non hanno in genere niente a che fare con la civilizzazione e il primitivismo. Colui che non ha paura della realtà, colui che vede chiaro con i suoi occhi e non con occhi presi in prestito, lui forse ha la salute quale che siano l’ora e il luogo. O che ne è del l’uomo falsamente onesto rivestito di fronzoli dell’antica Cina che porti in te o del buffone astuto che si crede Voltaire? I tuoi maestri alzano molto il gomito, si direbbe, i mari del sud li fa titubare, ma quando si pensa alla faccia triste che fanno a digiuno, si apprezza ancora di più vederli ubriachi…”

Tre o quattro piccoli paguri caraibici coperti da insolite conchiglie e arrivati molto vicino al mio piede sentirono la presenza umana, arretrarono, osservarono e subito dopo essersi girati, fuggirono.

Il villaggio è nell’ora della siesta, si direbbe. Nessun vagabondo sulla spiaggia. Anche il mare – almeno le acque interne della laguna, sembra assopito nei suoi colori di giada. Di tanto in tanto uno scintillio accecante riflette il sole. Solamente i pesci sono svegli, a credere ai rari balzi sull’acqua di quelli che sembrano dei cefali. Il mare e il cielo sono chiari, calmi e splendidi. Adesso, da qualche parte in questo mare, un Tritone fa risuonare la sua conchiglia per metà appoggiato all’acqua tiepida. Da qualche parte in questo cielo limpido Afrodite si prepara a nascere da una schiuma rosa.

Da qualche parte tra le onde di un blu profondo il soave canto di una sirena tenta di sedurre l’astuto re di Itaca…

State in guardia! Rieccoli i fantasmi. Gli spettri plumbei della letteratura, e come se non bastasse della letteratura d’Europa!

Sono in piedi, sbattendo la lingua. Un gusto un po’ amaro mi resta per un momento sullo stomaco.

Cammino nella sabbia umida: gli innumerevoli paguri caraibici, i piccoli granchi fuggono da tutti i lati come dei giocattoli verdi e rossi. Do un colpo di piede ad una noce di cocco caduta da dove spunta un germoglio lungo cinque pollici ed ecco che rotola nel mare con un grande pluff.

E toh! la notte scorsa è successa una cosa strana. Ero coricato in una casa tradizionale sulle tavole in canna di bambù ricoperte da un sottile tappeto di foglie di palma quando, d’un sol colpo, senza motivo, mi sono ricordato dei negozi di souvenirs del Kabuki-za di Tokyo con le loro esposizioni di meraviglie ( biscotti, caramelle, vecchie stampe teatrali, fotografie di divi) e i curiosi che si aggirano attorno, nei loro abiti più belli. Gli emblemi delle famiglie di attori seminati dappertutto, su scatole, barattoli, asciugamani appariscenti, e poi gli occhi truccati dei commedianti e su tutto ciò la bianca luce cruda delle ampolle elettriche, tutto ciò che mi restituiva vita fino allo sguardo affascinante delle giovani donne e delle apprendiste gheishe curate perfino nell’odore dei loro capelli oliati. E tuttavia, il kabuki in se non è un teatro che amo. Ed in più credo di non sentire nessuna particolare attrazione per le boutiques di souvenir. Allora, perché questo minimo pezzo di vita di tokiota carente di senso e di contenuto mi torna in mente d’un tratto su una piccola isola del Pacifico circondata da onde , in una casa indigena coperta da foglie di palma mentre sento attorno alla casa il suono sordo delle noci di cocco che cadono? Questo è non capirci niente. Si direbbe in ogni caso che tutti questi tipi bizzarri coabitano in me, intrecciati gli uni agli altri. Dei tipi ignobili direi, e che non meritano neanche che gli si sputi addosso.

Seguendo fino alla fine l’ombra dei tamani (2) dal bordo del mare ho visto accorrere un ometto completamente nudo sulla sabbia bruciata dal sole. Arrivato alla mia altezza si è fermato a piedi uniti inclinandosi così profondamente che la testa ha toccato le sue ginocchia e mi ha annunciato che il pasto era pronto. Era il bambino della casa nella quale ero alloggiato, farà otto anni quest’anno. Magro, dai grandi occhi, il ventre enorme e la pelle coperta da macchie secche di quella malattia tropicale che noi chiamiamo framboesia. Quando gli chiedo cosa c’è nel menù , mi spiega che suo fratello maggiore è appena tornato dalla pesca con un kamdukl preparato in sashimi, alla maniera giapponese.

Mentre stavo per mettermi al suo seguito e posando il piede sulla sabbia bollente, un bianchissimo soho’soho prese il volo. Gli isolani li chiamano così a causa del loro canto, mentre da noi sono conosciuti come uccello-aereo. E, così improvvisamente come era apparso, dopo aver sfiorato le cime dei tamani, sparì nel cielo di un azzurro accecante.

Novembre 1942

(1) Eroe di uno dei più celebri racconti giapponesi, questo giovane pescatore fu un giorno ricompensato per aver salvato la vita a una tartaruga. Trasportato poi in fondo al mare, visse tre anni in un palazzo di corallo, presso una principessa (che non era altro che la tartaruga che lui aveva soccorso); poi volle ritornare al suo paese. Ma, una volta rientrato, nulla era più come prima: in realtà trecento anni erano già passati e lui stesso si ritrovò vegliardo per il tempo necessario ad un ultimo sogno, guardando il mare.

(2) Calophyllum inophyllum

 

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