Colui per il quale un solo dito è più prezioso di tutto

e che non vede che perde la spalla e la schiena,

si dice di lui che ha il male del lupo.

MENCIO

I

Sullo schermo scorrevano delle scene di vita degli indigeni dei mari del sud. Delle donne indigene dagli occhi stretti, le labbra carnose e il naso piatto, con appena un fondo di tessuto messo attorno alle anche e coi seni che ballavano, mangiavano sbeccottando senza sosta in una specie di piatto posato davanti a loro. Un piatto di riso, sembrava. Un ragazzino completamente nudo arriva correndo. Anche lui immerge in gran fretta le mani nel riso e si riempie la bocca. Con le guance riempite fino a scoppiare, si gira come abbagliato verso la macchina fotografica: le palpebre superiori e la parte intorno alla bocca sono coperte da bottoni incancreniti e marci. Di nuovo guarda altrove e rincomincia a mangiare.

Questa immagine sparisce e lascia spazio ad una festa, una scena più movimentata in ogni caso. Don don don don, il suono dei tamburi si allontana e si avvicina. Uomini e donne allineati faccia a faccia si mettono a muoversi ritmicamente scuotendo le natiche. Dalla bianchezza luminosa dell’immagine si intuisce come se fossimo là, la durezza del sole dei tropici che batte sul suolo sabbioso. I tamburi risuonano. Un duro coro maschile gli risponde. Le natiche oscillano, i fondi di tessuti avvolti sulle anche frusciano e oscillano. Al centro di un gruppo di anziani che si tiene un po’ in disparte dalla danza, colui che sembra essere il capo della tribù è seduto a gambe incrociate. Un vecchietto magro dagli zigomi sporgenti,con il collo ornato, si direbbe, da svariati tipi di rosari. La consapevolezza di essere filmati, forse lo fa guardare la danza con un occhio stranamente agitato, come spogliato per sempre della fiducia in se delle tribù selvagge. Il suo occhio cingolante segue l’interminabile movimento monotono impietosamente uguale a se stesso, tranne di tanto in tanto una specie di sussulto, un balzo brutale, un richiamo, un colpo di tamburo più violento…

Sanzô ha sentito una misteriosa angoscia da tempo dimenticata, che improvvisamente si era di nuovo insinuata in lui, mentre guardava. Veniva da molto lontano.

Si chiedeva in questi ultimi tempi, ogni volta che leggeva dei documenti sulla vita dei selvaggi primitivi o riguardava delle foto — precisamente questo genere di foto — si chiedeva se non sarebbe potuto nascere anche lui tra loro. E in questi ultimi tempi pensava: certamente si. Come non avrebbe potuto nascere tra i selvaggi? Come non avrebbe potuto finire la sua vita sotto il sole splendente dei tropici, ignorante del materialismo, di Vimalakirti il maestro di casa, dell’imperativo categorico, e senza conoscere niente della storia dell’umanità o della struttura del sistema solare? Questi pensieri sulla incertezza dello destino angosciavano stranamente Sanzô. “E si” proseguiva lui “se avessi avuto alla stessa maniera la possibilità di nascere a un grado di esistenza differente, più elevato dell’umanità attuale – vivere su un altro pianeta o in un’esistenza invisibile ai nostri occhi, o ancora in tutt’altro tempo o apparire sulla terra dopo l’annientamento della specie umana? Chi può dire che questo non mi sarebbe accaduto?, se questa cosa che chiamiamo CASO con un sentimento di terrore perché non sappiamo veramente cos’è, avesse deviato di un pollice, solo di un pollice? E quanti oggetti al momento invisibili, inascoltabili o impensabili avrei allora potuto vedere sentire e pensare, se fossi nato in un’altra esistenza.” Questo pensiero aveva qualcosa di intollerabile e di spaventoso, e allo stesso tempo di intollerabilmente irritante. C’erano dunque (era una questione di facoltà non di esperienza) delle cose che non poteva né vedere né sentire, né pensare in questo mondo qua. Così com’era al presente, e unicamente a causa di ciò era incapace di pensare a cose a cui avrebbe potuto pensare in un’esistenza differente. Quando gli venivano queste idee, in un’angoscia imprecisata, il Sanzô di quell’epoca provava ancora di più un certo sentimento che assomigliava all’umiliazione.

Sullo schermo la danza di prima è scomparsa, rimpiazzata da un panorama della giungla. Delle scimmie completamente nere, dalle lunghe braccia e lunghe code, saltano di ramo in ramo. Una di esse che si è immobilizzata improvvisamente guardando la cinepresa, ha dei cerchi bianchi intorno agli occhi. Si direbbe che porta degli occhiali. Un uccello il cui becco fa, forse, due piedi di lunghezza prende il volo da un ramo con un grido spiacevole.

I pensieri di Sanzô ritornano all’ “incertezza dell’essere”.

Era ancora studente quando aveva provato per la prima volta questa angoscia. Giustamente, i segni scritti cominciavano a sembrargli bizzarri- nel senso che poteva analizzarne gli elementi, ma da quando si domandava se tale segno era tracciato correttamente, esso diventava sempre più sospetto, come se perdesse un po’ alla volta la sua NECESSITÀ – e più era attento a ciò che lo circondava più l’esistenza gli appariva incerta. Dove si trovava la ragione per la quale le cose fossero tali che al presente? Esse avrebbero potuto anche essere diverse. E non era per di più il più brutto dei possibili che esistevano al presente? Da studente questa idea lo perseguitava senza respiro. Pensava per esempio a suo padre: i suoi occhi, la sua bocca ( quegli occhi, quella bocca, quel naso, in particolare, che lo stupivano stranamente quando li analizzava uno ad uno separatamente dal resto) e si domandava stupefatto come, nell’insieme un uomo così conciato poteva essere suo padre, perché bisognava che ci fosse tra loro questa prossimità; spesso lo scrutava con questa domanda dentro di sé. Perché questo doveva essere proprio così? Non avrebbe potuto esserci un altro uomo al posto di quel padre… Sanzô provava la stessa sfiducia nei confronti di tutto ciò che lo circondava. La necessità mancava talmente a tutto ciò che lo circondava! Che casuale ammasso di apparenze era il mondo! Pensava a questo sempre con la stessa irritazione. Facendolo gli sembrava a volte di essere sul punto di capire tutto. Era uno di quei pensieri oscuri adatti all’adolescenza: l’idea che non c’è altra necessità che quella, sarebbe a dire la casualità, in ogni caso- poiché tutto non era che casualità. Arrivò dunque a credere semplicemente che la soluzione era là. E in altri momenti non lo credeva. Quei momenti erano di gran lunga i più numerosi. Le sue riflessioni puerili ritornavano con un fastidio irritante, a girare intorno alla parola “necessità” e poi ritornavano indietro.

Il film mostrava un vecchio piroscafo che discendeva un fiume dalle rive piatte. Senza dubbio un gruppo di uomini bianchi che ritornavano da una spedizione presso i selvaggi.

Anche questo è scomparso, le ultime parole dei titoli sono scomparse a loro volta e le luci si sono riaccese d’un tratto.

Uscendo dal cinema, Sanzô era entrato in un vicino ristorante per cenare presto, un ristorante all’occidentale. Quando il cameriere si era ritirato dopo aver posato il piatto sulla tavola, aveva notato più lontano un uomo che cenava a due tavoli da lui. Quest’uomo (che offriva allo sguardo il suo profilo sinistro) portava alla base del collo una curiosa escrescenza di color rosso scuro. Era così grossa, e brillava di una lucentezza così vigorosa che all’inizio l’aveva osservata per accertarsi che non fosse un’illusione; ma non aveva dubbi, era una grossa bozza. Un ammasso di carne luccicante della dimensione di un pugno saliva tra il collo e l’orecchio. Distinto dal profilo di quest’uomo e da quel giro di collo di un rosso lercio la cui superficie era cosparsa di pori, l’ammasso aveva uno splendore ramato, teso come la pelle di un pomodoro maturo appena lavato. Il bozzo di carne arrotolato come un essere astuto, completamente autonomo e che violava la volontà di quest’uomo, tra una giacca dal colletto blu scuro e un ciuffo di capelli tagliati corti- questa orribile figura di parassita incarnato vegliando da solo e ridendo in segreto, mentre l’ospite è addormentato, evocava a Sanzô, non sapeva bene perché, gli Dei malefici che si vedono apparire nelle tragedie greche. In tali momenti non poteva non pensare, con sempre lo stesso dispiacere e la stessa angoscia, alla ristrettezza (forse la nullità) dei campi d’azione lasciati al libero arbitrio dell’uomo. Noi veniamo al mondo per una causa assurda che non dipende dalla nostra volontà. E moriamo per la stessa inconoscibile ragione. E ogni sera attualmente cadiamo, non si sa perché, in questo stato supremamente enigmatico di sonno che trascende la nostra volontà…

Allora senza alcun legame, si ricordò bruscamente la storia di Vitellio, imperatore romano. L’imperatore avido che si dispiaceva di non poter mangiare più perché era sazio e che, sazio, aveva inventato il modo, vomitando, di svuotare lo stomaco per potersi rimettersi a tavola.

A che scopo ricordarsi di queste storie idiote?

Un grossa pendola elettrica è appesa al muro bianco del ristorante, la lunga lancetta gialla dei secondi gira come una creatura inquietante, riflettendo le luci. Cammina in tondo senza sosta, con una freddezza che trita la vita senza pietà. Sotto, l’uomo con la bozza, l’uomo maturo, rumina con applicazione e poco a poco l’ammasso di carne sul suo collo si mette, si direbbe, a muoversi anche lui.

Sanzô ha perso tutto l’appetito, si è alzato, lasciando un piatto pieno a metà.

Cammina lungo il canale e se ne ritorna verso la sua camera. Nelle case, nelle strade, le luci hanno cominciato ad accendersi, ma in fondo al cielo che non è ancora nero si delinea la silhouette delle cime di Yamate con i loro campanili e i loro tetti spioventi bizzarramente lavorati. Si direbbe che è la marea crescente, che fa sciabordare le immondizie contro il fianco delle barche sporche ormeggiate alla riva. Sull’acqua galleggia una luce un po’ fredda dove il chiaro e lo scuro sembrano mischiarsi. Delle ombre indistinte se ne staccano salendo nell’aria, poi si dissolvono senza un grido.

Lui si sente pedinato da un inseguitore che non si mostra ma che lui intuisce mentre cammina da solo sul bordo della riva.

Era successo alle scuole medie? Aveva allora un professore principale, con un fisico magro da tubercolotico sotto una lunga capigliatura, che un giorno per sbaglio, si mise a parlar loro del destino della terra. Gli raccontò, li martellò con un’insistenza fastidiosa, predicò ai suoi piccoli allievi il raffreddamento della terra e l’estinzione della specie e a qual punto la nostra esistenza è priva di senso. Ripensandoci più tardi, era evidente che gli aveva iniettato questo veleno con lo scopo sadico di seminare il terrore in dei giovani spiriti, senza dopo fornir loro né i mezzi per resistere né il minimo calmante. Sanzô aveva avuto paura. Senza dubbio era impallidito ascoltandolo. Che la terra si raffreddasse, che la specie umana perisse era ancora sopportabile. Ma che dopo questo, tutto, perfino il sole, sparisse, che anche il sole si raffreddasse e sparisse e che non restassero più che i soli astri neri e freddi che continuano a girare invisibili in uno spazio tenebroso, questo pensiero gli era intollerabile. Perché allora siamo in vita? Noi possiamo morire come esseri umani perché siamo assicurati che la Terra e l’Universo resteranno invariati anche quando uno di noi muore. Se è come dite, adesso, non ha alcun senso venire al mondo, Uomo, Universo ,questo non ha alcun senso. Allora ditemi, perché sono venuto al mondo? E per un istante Sanzô -a nove anni-, si vide sprofondare nella nevrastenia. Prese la cosa sul serio: tentò di interrogare suo padre e un cugino più grande che era studente. E tutti gli rispondevano ridendo, ma in fondo non erano tutti d’accordo, in linea di massima, con questa teoria? Come facevano per non avere paura? Come potevano riderne?come potevano rassicurarsi col pretesto che la cosa, in ogni caso, non si sarebbe verificata prima di cinquemila o forse diecimila anni? Sanzô non se ne capacitava. Per lui non era la sua vita ad essere in gioco. Era una questione di fiducia nei confronti dell’uomo e dell’universo. È per questo che era incapace di ridere anche di una cosa che non sarebbe avvenuta prima di decine di migliaia di anni. A quell’epoca aveva un cane che amava molto. Qualora la terra si raffreddasse, supponendo che lui sia ancora là per vederlo, potrebbe sempre all’ultimo momento scavare un buco nel suolo gelato e intrufolarcisi dentro col suo cane; morirebbero uno nelle braccia dell’altro, scena che si rappresentava volentieri intrufolandosi nel suo letto. Giacché il terrore allora spariva per magia: aveva, per riscaldarsi, il pensiero dell’amore del suo cane e la temperatura del suo corpo. Ma la maggior parte del tempo, quando restava immobile con gli occhi chiusi, la notte, nel suo letto si immaginava come sarebbe stato il corso del tempo dopo la sparizione degli uomini, insignificante, tenebroso, infinito; era talmente spaventoso che spesso si svegliava d’un tratto lanciando un gran grido di terrore. Suo padre lo aveva sgridato più di una volta a causa di ciò. Camminava lungo la tramvia, la sera, il terrore sorse in lui bruscamente. Non sentiva più il fracasso dei treni che colpiva le sue orecchie, non vedeva più le folle che incrociava; gli sembrava di essere solo in mezzo al silenzio ronzante di un mondo muto. La terra che calpestava, in questo momento, non era più la superficie abitualmente piana ma l’esterno bombato di un pianeta gelato dal quale l’uomo era sparito. Il ragazzo di nove anni, gracile, nevrastenico e precoce, rifletteva che: “ tutto perisce, tutto gela, niente ha senso”, pensiero veramente spaventoso che gli procurava dei sudori freddi e lo obbligava a fermarsi un attimo. E si riprendeva tutto a un tratto, attorno a lui la gente andava e veniva, certo, le lampade brillavano, i treni funzionavano, le automobili sfrecciavano. Tanto meglio! Era sollevato. Tutto era come sempre. (Commenti 1 e 2)3.

Sanzô si chiede se questa diffidenza semplicistica nei confronti della specie, nei confronti del nostro pianeta, non si era radicata nella sua carne, come il disgusto per un alimento che vi ha intossicato una volta da bambini si radica in voi per la vita: non più concetto ma sensazione viva.

Adesso gli capita ancora, per esempio al risveglio da una siesta nell’umidità del pomeriggio, di essere assalito da uno sensazione di spavento, da una vacuità irrefrenabile e assurda. In quei momenti non può evitare di ripensare ai vecchi terrori del piccolo scolaro precoce. Anche dopo essersi in parte sbarazzato della corazza di idee puerili abbandonate (credeva) nelle complicazioni della vita reale, aveva ancora questa vecchia angoscia che sentiva solamente come distaccata dal resto. I lama dell’America del Sud nel periodo glaciale della terra, in tempi molto antichi, possedevano un rifugio che era il solo angolo sicuro nel bel mezzo dei pericoli. La terra era entrata in una nuova era e i pericoli che li minacciavano erano cambiati di natura, l’antico rifugio aveva perso il suo senso, e tuttavia, si diceva che i lama che vivono al presente sul nuovo continente, cercheranno tutti, appena avranno un presentimento di morte o di pericolo, di fuggire verso quell’angolo dove i loro antenati un tempo avevano trovato rifugio. L’angoscia di Sanzô era forse anch’essa una retaggio dei primi anni della specie. Ma questa vaga angoscia minacciava di costituire il groud bass, il “basso continuo” della sua vita. Alla base di tutti gli avvenimenti della vita corre un filo invisibile e buio che limita l’esistenza, la limita da tutti i lati e a volte Sanzô credeva di sentirlo frusciare attraverso dei piccoli interstizi, impercettibile e vano come le acque di scarico che circolano attorno alla sua città. Quando era ancora più o meno in buona salute, ubriaco di sensazioni fisiche, o nella vita solitaria e passiva che conduceva ora, ecco, vi era sempre la stessa piccola nota nascosta che lo accompagnava dappertutto come un tema pascaliano. E fintanto che era là, per quanto tenue fosse, qualunque felicità e qualunque gloria, non potevano che essere limitate. Quali sforzi non aveva fatto per restare sordo a questo rumore. Quante volte vi aveva ragionato sopra senza riuscire mai a convincersi veramente della sua esistenza.

– Davvero abbiamo bisogno sempre del meglio? I migliori piatti, i vestiti più belli, e se no niente? Non sappiamo scoprire buone cose anche in ciò che ci viene donato, a condizione di non fare i difficili al punto di giudicare inabitabile un pianeta perché non sarebbe il meglio…

O ancora:

– Ti sto per insegnare l’ottimismo con un mezzo facile. Tutte le differenze tra il genio e l’uomo mediocre, tra i vigorosi e i deboli, tra i ricchi e i poveri…prova un po’ a compararle con la differenza che c’è tra l’essere nato o il non aver nemmeno avuto questa possibilità!

– Guarda cos’è diventato l’uomo ammirevole che diceva: Dio ha il dovere di promettere il mondo futuro a colui che avrà, in questo mondo, vissuto una vita perfetta…

Tu non puoi non essere felice! Chi ha deciso questo? Tutto comincia con il rigetto di questa pretesa di felicità…

Che altro? Se il seme non muore di Gide? I tentativi ottimisti di Chesterton? Com’erano deboli tutte queste voci che cercavano di convincerlo? Ma ciò che lui desiderava era di possedere, in proprio!, una “stima della realtà” veramente convincente e che non gli fosse stata insegnata o imposta da nessuno. Non sapeva che farsene di raggiungere la felicità arrivandoci attraverso una logica contorta, persuadendo se stessi che quello si, è essere felici.

Certo, c’erano anche degli istanti, molto rari, di esaltazione gioiosa, durante i quali la vita sembra un lampo folgorante che squarcia la densa notte infinita del tempo e dello spazio, e poiché si crede alla verità; lui credeva a volte in una bellezza, una santità della luce tanto più eclatante quanto le tenebre circostanti sono più nere. Ma il suo spirito era così mutevole che l’istante dopo, precipitando subito nella disillusione amara, si ritrovava lui stesso più miserabile e più vuoto che mai. Allora per finire, si sforzava anche di soffocare la gioia presente mettendosi in guardia al culmine dell’esaltazione, contro i disagi della disillusione che seguivano questo stato di grazia.

Ora ecco che per una volta mentre cammina lungo la riva, il piccolo pelle e ossa ragionevole che Sanzô ospitava in se, si fa beffa di tutte le sue sciocchezze che vanno contro il senso comune e gli da una lezione: “no ma… è uno scherzo? alla tua età sei ancora là? Non credi che ci siano altre mille questioni più importanti e più immediate? Cos’è questo irrealismo imbecille e futile nel quale ti compiaci! Sono secoli che l’umanità ha superato questo stadio…forse se ne è addirittura disinteressata dall’inizio tanto è ridicolo. Dovresti vergognarti, non credi?”.

“Credi veramente che questa questione sia superata?” – replicava un’altra parte di sé.

“L’abitudine generale di togliersi dalla testa le domande che non si ha nessuna possibilità di risolvere è molto comoda, in effetti. Beato chi fa il bagno in questa abitudine benefica. La maggior parte delle persone, hai ragione, non conosceva né questa angoscia né questi dubbi stupidi. E potrebbe essere che provarle perennemente faccia dell’uomo un infermo. Dovrei nascondere anche io le mie anomalie psichiche come gli zoppi nascondono il loro claudicare? Ma alla fine cosa vuol dire normale, anormale, vero, falso? E se alla fine non fosse stata che una questione di pesi e misure? No, lasciamo stare. La cosa più importante, ne riderà chi vorrà, è che questa specie di angoscia per così dire metafisica è, per una natura come la mia, prima di qualunque altra questione. E non possiamo, non posso, farci niente. Fino a che non ci vedrò chiaro in questo affare, i fenomeni del mondo umano non avranno per me che un significato limitato. E le diverse soluzioni proposte fin da tempi antichi dimostrano che il dubbio, in particolare, è impossibile da eliminare. Il che significa che il riposo del mio spirito esige una sola cosa: “rinunciare attraverso la metafisica alle ombre della metafisica”. Lo so fin troppo bene. E non sono mai andato più avanti di ciò. Poiché essere nato fornito di una tale avidità per le domande idiote (e privo della fredda perspicacia dalla quale si riconosce un filosofo) è il solo dato che non è sostituibile. In fondo ognuno non fa altro che cavarsela con ciò che porta in se. Vi si dice puerile? Sarebbe sicuramente più ridicolo curarsi delle prese in giro o volersi giustificare ai propri stessi occhi. E perché non ci sarebbero uomini pronti a dannarsi per la metafisica, come degli altri si rovinano in donne e bevute? Senza dubbio è incomparabilmente meno frequente che perdere la testa e lasciare tutto per una donna, ma di uomini che inciampano e restano bloccati all’entrata dell’epistemologia, ce ne sono sicuramente. Perché la letteratura non si interessa ad essi, mentre prende volentieri in prestito la sua materia dai primi? Perché essi non sarebbero nella norma? Ma un personaggio straordinario come Casanova non trova forse quantità di lettori?”

Nel mezzo di questa confusa auto-giustificazione, ripensò tutto a un tratto alla stampa di Durer, Melencholia – la disperazione dell’Angelo, seduto, pensoso, nel mezzo del caos. Intanto, il buio era sceso attorno a lui e già non si distingueva più la chiesa di Yamate. Molto vicino, mentre camminava, una giunca nel canale lo superava senza far rumore. Con uno strascico di luce attaccato alla sua poppa, si allontanava scivolando, girando a sinistra sotto il ponte. Come attirato da questo movimento il filo dei suoi pensieri cominciò a deviare malgrado lui.

– In breve non ho altra scelta che sacrificarmi alla mia stupidità. Quando tutto è stato detto e pensato, l’uomo, alla fine, segue il cammino che la sua natura gli traccia. Non si tratta più di discutere, è così. E i suoi ulteriori sforzi saranno interamente indirizzati nella difesa delle scelte che la sua natura ha fatto per lui. le idee di tutti i tempi non sono mai state, in un certo senso, che una maniera per ogni pensatore di giustificarsi di fronte alla propria natura….

 

Commento I

Questo povero ragazzo precoce fu poi tormentato da due aspirazioni violentemente opposte: un desiderio di “possedere la totalità (o i principi primari) del sapere” e allo stesso tempo lo strano desiderio contrario, “che ci sia al di là del sapere la più grande quantità di cose (o di casualità) che sfuggono alla comprensione”. Da un lato il desiderio che abbiamo tutti di “sostituirci a Dio” – per parlare come gli adulti, e dall’altro, al contrario, “credere che questo mondo è degno di una fiducia assoluta, che è incrollabile” – sarebbe a dire il richiamo potente che nasce dal terrore, di fronte all’incertezza e alla miseria di questo mondo.

“In un mondo completamente comprensibile per un essere minuscolo come me, non potrei vivere senza angoscia. Voglio abbandonarmi a un Grande Essere incrollabile e che non avrò nessuna possibilità di capire, nemmeno parzialmente.” Questa era la potente invocazione disperata nata dal terrore del giovane. A dispetto di un tale desiderio, tutto era già chiaro, spaventosamente chiaro: aveva capito crescendo che il suo primo desiderio, di sicuro, e il secondo ancora di più, erano irrealizzabili. Né il mondo, né le opere degli uomini erano solidi come li voleva questo ragazzo. Gli sembrava che anche rimpiazzando la teoria del crollo dell’universo, della quale aveva parlato il loro professore delle elementari, con la seconda legge della termodinamica, anche con un giudizio del mondo completamente differente, che non ignorasse questo genere di considerazioni improntate a una fisica semplicistica, sarebbe stata la stessa cosa, ancora e sempre la stessa cosa. Sarebbe a dire, alla visione del nulla che il ragazzo si era forgiato nella sua testa, si aggiungeva adesso una visione della transitorietà direttamente ricavata da ciò che osservava attorno a lui. Come il re delle Persie che piange, si diceva, alla vista delle migliaia di soldati sotto i suoi ordini, pensando che tra cent’anni nessuno di loro sopravvivrà, questo ragazzo adesso riconosceva in tutto ciò che lo circondava “il segno della finitezza” e questa visione lo trafiggeva. La sua preoccupazione non era solamente materiale. Il fatto, soprattutto, che anche l’amore vero non è meno effimero e che scomparirà alla stessa maniera delle altre cose perfettamente vane, gli suscitava un sentimento violento di tristezza, di solitudine bruciante. – (Qualche anno ancora, e sarebbe stato il contrario; che anche le peggiori stupidaggini e bruttezze abbiano il diritto di esistere tanto quanto le cose sublimi, e che esse terminino la loro esistenza senza il minimo segno, nessun castigo ignobile, che li distingue dalla bellezza, gli procurava delle emozioni crudeli che gli ghiacciavano il cuore.)

Commento 2

Curiosamente, nei suoi anni di scuola elementare lo preoccupava solo l’estinzione totale della specie, mentre la sua morte in quanto individuo non gli faceva direttamente paura. Questo sarebbe venuto ben più tardi – quando sarebbe diventato studente di scuola media. Dal suo ingresso alla scuola media, la sua salute si era affievolita; a letto, con gli occhi chiusi, pensava a questa cosa: “la morte – non l’idea astratta, ma la MORTE, diretta, che sarebbe venuta a colpo sicuro tra non molto tempo (era realmente persuaso, allora, che la sua esistenza sarebbe stata breve). Pensava a ciò che si prova verso la fine, tentava di immaginare la sensazione della brevità del Tempo vissuto che si deve provare in quegli istanti gettando lo sguardo all’indietro (brevità che sarebbe la stessa, avessimo vissuto vent’anni o duecento anni). Eh si,in quegli istanti “prima”, quanto la vita deve apparire corta, con un sentimento di svelamento profondo, e senza nessun tipo di spavalderia.

Ci sarebbe arrivato anche lui, come tutti coloro che vivono quaggiù, essendosi speso senza riposo negli affari del mondo, dimentico di se, ignorante del suo posto in seno al Grande Tutto ( o forse, chissà, essendosi una volta o due, come un uomo che indietreggia un momento dal mezzo della folla per riflettere, accorto per caso del suo vero posto?) e là, all’ultimo momento, aprirebbe infine gli occhi. Aprirebbe gli occhi, e poi…e poi cosa?

Non faceva altro che immaginare queste cose senza sapere dove lo portavano: non aveva la forza di affrontarle direttamente, temendo il faccia a faccia e evitandolo, giorno dopo giorno, con una pigra indolenza che rimanda a domani l’ora della grande pulizia. (E malgrado tutto, detestava l’uomo che ha detto: “Voi ancora non conoscete la vita. Come potreste conoscere la morte?”. Gli sembrava che ci fossero al contrario degli esseri dotati di una sensibilità che faceva loro dire: “Non conosco ancora la morte. Come potrei conoscere la vita?”).

Era come un lettore impaziente che non sopporta, quando legge un romanzo, di leggere anche gli episodi infelici – gli oltraggi che subisce l’eroe -, li salta e sfoglia la fine del libro perché vuole conoscere il seguito, vuole sapere la conclusione – lo svolgimento e le tappe non suscitavano nessun interesse nelle persone come lui. Importava solo il risultato – le riflessioni che ci si fa lungo il cammino e tutte le specie di prove, le saltava volentieri, gli erano insopportabili. Non aveva né il coraggio né la pazienza combattere con esse; voleva solamente sentire l’ultima parola, la parola finale della questione. (Ma chi gliela avrebbe data? Dio?). “La nostra anima è immortale? Oppure perirà anch’essa con il corpo?”. Scoprire che è immortale non l’avrebbe salvato, gli sembrava (o piuttosto sembrava esserci nel disgusto per la morte, oltre la paura del proprio annientamento, un grande attaccamento al modo di esistere dell’Io, anche se non ne poteva essere del tutto sicuro) ma non sopportava assolutamente l’idea che “io” scomparissi, e poi (come se fosse secondario) non poteva sopportare che tutti gli esseri umani fossero sottomessi a questo terrore. “Il terrore di vivere in eterno”? Questa era un’altra storia ancora. Non ci preoccuperemo di questo adesso. E inoltre, a cosa rassomiglierebbe ciò? Come il lusso di un ricco che si danna l”anima per sapere come utilizzare il suo denaro!Così pensava il Sanzô di quell’epoca.

 

II

Era la stagione nella quale, quando si cerca nella tasca per prendere le chiavi, esse vi lasciano sul palmo una sensazione glaciale.

Entra nel buio, accende la luce e comincia cambiando l’aria, spalancando la finestra che dà sulla strada. Poi, essendosi assicurato che restavano dei semi nella gabbia del pappagallo sospesa in un angolo, senza neanche spogliarsi si getta all’indietro sul letto con le mani incrociate sotto la testa.

Si sente molto stanco, anche se non ci sono ragioni particolari. Cos’ha fatto della sua giornata? Niente. Si è alzato tardi; dopo aver fatto colazione, che era anche il suo pranzo, nella sala da pranzo del pianterreno, si era obbligato a leggere a grandi colpi di dizionario un libro che non aveva voglia di leggere; quando ne ebbe abbastanza, si è ricordato la lettera di condoglianze che doveva inviare a dei parenti che avevano perso un figlio, ha cercato di scrivere, ma non ci è riuscito. Aveva finito per rinunciare: uscendo precipitosamente per recarsi in città era andato al cinema e stava per rientrare. Una giornata senza il minimo interesse? E domani? Domani, sarebbe venerdì. Andrà a lavorare. La cosa più seccante per lui è che ne provava un certo sollievo.

Non era che uno studente senza talento, troppo imbranato per arrivare a fine giornata e troppo timido per frequentare le persone. Il lavoro in questione: insegnare, due giorni la settimana, la storia naturale in una scuola per ragazze.

Non metteva molta passione nei suoi corsi, senza però neanche mostrarsi particolarmente negligente. Più che l’insegnamento apprezzava essere vicino a delle giovani ragazze, curioso di provare davanti a loro un “gentile disprezzo”, e poi, imitando in segreto Spinoza, poi pensò di fare un trattato di geometria riunendo teoremi cinici assortiti a dei corollari sul comportamento delle studentesse. (Per esempio, teorema XVIII: le studentesse detestano più di tutto l’equità. Dimostrazione; esse non amano in genere che le iniquità che gli sono favorevoli. E così a seguire.). In fondo quest’uomo voleva persuadersi che i due giorni che passava a scuola non avevano grande importanza nella sua vita,anche se ciò non era vero, al contrario: certe volte era stupefatto di vedere la considerevole posizione che la scuola o piuttosto le ragazze, sembravano, a quei tempi, occupare nella sua vita.

Quando si era ritrovato completamente solo alla morte di suo padre, un anno dopo l’università e senza il peso della famiglia, Sanzô si era fatto un piano di vita con i pochi beni che gli restavano all’epoca. Com’era esitante e rammollita e lamentevolmente ignava, questa vita secondo il suo piano, ritirata in un comodo buco. Sanzô non poteva ripensarci oggi senza bollire di collera.

A quel tempo immaginava per se due vie possibili. La prima era quella della riuscita sociale – una vita nella quale ci si batte col solo scopo di fare carriera diventando famosi. Evidentemente questo non sarebbe avvenuto né come industriale, né come politico; essendo dato il carattere di Sanzô ed essendo dato anche il suo tipo di formazione, non sarebbe stato niente di ciò. Si trattava, in fin dei conti di conquistare la gloria nel mondo dei sapienti, ma sempre, e su questo punto nessun cambiamento, sacrificando la sua vita presente giorno dopo giorno a un obbiettivo futuro (e forse morendo senza aver raggiunto questo obbiettivo). L’altra via, che se ne infischia della celebrità o del successo professionale, era la vita di giorno in giorno, una maniera di cogliere l’istante e di goderselo, vivendo oltre a questo vecchio edonismo ammuffito arrivato d’Europa, un po’ della solitudine imbronciata del letterato orientale: tutto quanto vi era (gli sembrava oggi) di più indeciso e di più stentato.

Ebbene, Sanzô aveva scelto il secondo modo di vivere.

Supponeva adesso che fosse per debolezza fisica.

Il suo corpo tormentato senza sosta dall’asma, dalla dispepsia, dall’enfisema, aveva senza dubbio rifiutato le sofferenze della prima delle due vie, consapevole che la sua vita sarebbe stata breve. E il suo “orgoglio pusillanime” per il quale non aveva mai nessun rimorso, aveva certamente contato in questa scelta. Senza dubbio l’alta considerazione che aveva di se stesso (e su questo punto non cedeva di fronte a nessuno, anche quando osava appena mostrarsi in pubblico), scartava spontaneamente la prima maniera di vivere che avrebbe potuto rivelare agli occhi altrui, e ai suoi, la sua mancanza di talento. Come che fosse, Sanzô aveva scelto la seconda. E come la trovava, adesso, la sua vita, due anni dopo? Questo vuoto delle notti d’autunno in una camera da scapolo poveramente decorata? Anche le riproduzioni a tinte sgargianti appese ai suoi muri gli fanno orrore, adesso. Nella sua scatola di dischi ci sono almeno gli ultimi quartetti di Beethoven al completo e più nessuna voglia di lasciarseli sfuggire. La grande corazza di tartaruga di mare non gli sussurra più nessun invito al viaggio. Allineati sugli scaffali della sua biblioteca, testimoni di preoccupazioni molto diverse dagli studi che ha seguito, Voltaire e Montaigne prendono tristemente la polvere. Anche dare da mangiare al pappagallo o ai due cocoriti agaporni gialli è una faticaccia. Sanzô restava seduto sul letto, inebetito. Era come se le molle del suo corpo e del suo spirito si fossero rotte. La vacuità della vita, giorno dopo giorno aveva scavato in lui un abisso? Questo non aveva niente a che vedere con l’angoscia senza fondo che si era svegliata poco prima nella sua memoria. Un rottame, ecco ciò che era diventato, preso in un torpore nel quale non sentiva più né angoscia né sofferenza.

Sullo schermo sfocato della sua coscienza, tuttavia, si profilava l’immagine luminosa delle giovani ragazze che avrebbe ritrovato l’indomani a scuola, come se fosse la sola cosa vivente che esisteva ancora nella sua vita letargica. I soli esseri viventi che gli era dato di incontrare in questa vita: delle giovani ragazze che potevano essere individualmente sporche, volgari e stupide? Il futuro che prometteva di essere ricco era dunque così povero e così vano? E gli uomini, in fin dei conti, non potrebbero vivere senza affetto, senza follia, senza oggetto del desiderio? Aveva dunque bisogno anche lui della società – una società per applaudirlo, per odiarlo, per invidiarlo, per adularlo? Prendiamo un esempio, poiché gli servono sempre degli esempi! Come la settimana scorsa, a scuola, quando il vecchio collega di letteratura classica percorreva la sala professori declamando la sua ultima produzione, un quartetto cinese in eptametri in rima; lo aveva divertito – lui che era cresciuto in una famiglia di letterati confuciani – rinviare la palla in versi e sulle stesse rime. Che importa del risultato, questa performance inattesa da parte di un giovane professore di storia naturale aveva sbalordito il vecchio signore cortese che l’aveva accolto con un gesto teatrale, ma per Dio, quale gioa meschina, che solletichìo all’orgoglio per l’arrogante Sanzô! Non ricordava forse parola per parola i complimenti del vecchio signore, tanto ne era stato contento?

Weininger dice che le donne sono capaci di ricordarsi per tutta la vita i complimenti che loro son stati fatti; apparentemente non sono le sole. Ed io, quanti mesi e anni erano che non mi era stato fatto il minimo complimento… Era dunque di ciò, di queste banalità, che era affamato? Allora perché, se avevi un tale bisogno di soddisfare la tua così piccola vanità, perché avevi scelto una vita ritirata? – Credevo che con i Libri delle Odi commentati da Zheng Xuan, con l’Odissea, con Tito Lucrezio Caro e il “po’ di latino e ancora meno greco” che alla lettera non mi permettevano neanche di digerire tutto ciò , la mia vita sarebbe stata riempita: ero proprio uno scadente conoscitore di uomini!

Sanzô sembrava scoprire solamente adesso il fatto umano, troppo umano, che non si riempe di un sol colpo, con un complimento, con una lusinga, un vuoto che né César Frank, né Spinoza, né Du Fanchuan hanno potuto colmare (e questa verità valeva anche per gli inetti e gli scemi come lui che si sfiniscono nei libri).

Era ancora troppo presto per dormire. E in ogni caso, anche se si era messo al letto adesso, non avrebbe dormito prima di due o tre ore, come d’abitudine. Niente da ridire al riguardo, Sanzô si rialza; seduto sul bordo del letto lascia vagare lo sguardo nella camera. Due o tre giorni prima, frugando nel cassetto del suo ufficio , aveva trovato un sacchetto di bengala in una pila di fogli da gettare. Li aveva dimenticati là alla fine dell’estate; il sacchetto conteneva ancora qualche bastoncino. Adesso, tutto a tratto, si era appena ricordato che li aveva quindi rimessi nel cassetto. Si alza e va a cercarli. I bastoncini, estratti dal cassetto, non hanno l’aria di aver sofferto troppo l’umidità. Spegne la lampada e accende un fiammifero. Dei minimi tratti di luce, forti e opachi sgorgano nel buio, degli aghi di pino, delle foglie di acero si illuminano e scompaiono improvvisamente. L’odore della polvere che gli pizzica il naso, il suo spirito dopo un attimo di inerzia si emoziona di questa bellezza delicata fuori stagione. Una povera piccola emozione, triste e tutta accartocciata su se stessa.

 

III

Nell’aula di storia naturale, con calma, tra un alligatore, un grande pipistrello impagliato e un calco dalla forma di ornitorinco, Sanzô leggeva. I campioni e gli strumenti che gli servivano per la prossima ora di lezione consacrata ai metalli giacevano alla rinfusa sul tavolo. Una lampada ad alcol, un mortaio, un crogiolo, delle provette- una fluorite blu pallido, un’olivina, una barite e una calcite di un bianco trasparente, una granata dall’impeccabile sistema di cristallizzazione isometrica, una pirite di rame le cui facce brillavano di una luminosità viva….nella stanza poco illuminata, la luce esterna proveniente da un lucernario cade sui cristalli in modo tale che si distingue anche il sottile strato di polvere sugli esemplari che non sono serviti da molto tempo. Seduto tra le pietre mute, davanti alle loro magnifiche arborescenze e alle loro tracce di perfetto clivaggio, gli sembra di toccare questa cosa fredda, penetrante, senza voce: la volontà della Natura, la saggezza della Natura.

Fuggendo dalla troppo rumorosa sala dei professori, era sempre tra le sue pietre fredde, i suoi vegetali e i suoi animali morti che Sanzô trovava rifugio per abbandonarsi al piacere egoista della lettura.

In quel momento leggeva una storia intitolata La Tana, di un certo Franz Kafka. Una storia, diciamo, ma che strana storia. L’ IO, che ne era il protagonista, era all’apparenza una talpa o una donnola; qualcosa di simile, in ogni caso, anche se fino alla fine rimaneva imprecisato. L’ IO dunque, sfrutta tutto ciò che ha facoltà intellettuali necessarie per vivere sotto terra – organizza la sua tana. Un’attenzione minuziosa e impeccabile deve essere data a tutti i nemici e a tutte le catastrofi immaginabili al fine di assicurare la propria sicurezza; e bisogna inoltre stare in ogni momento scrupolosamente attenti ai punti in cui la nostra difesa è deficitaria. La paura del grande “ignoto” che lo circonda e la sua impotenza quando deve fronteggiarlo: è soprattutto questo che mantiene nell’IO l’idea di una minaccia costante.

“IO non sono minacciato solamente da nemici esterni. I nemici si trovano anche nelle profondità della terra . IO non li ho mai visti, ma le leggende parlano di loro, e IO credo che esistano veramente. Sono degli esseri che vivono nascosti nel suolo. Le leggende stesse non possono descriverli. Coloro che gli vengono offerti in sacrificio soccombono senza quasi averli visti. Essi arrivano: senti il rumore delle loro unghie (quel rumore di unghie che è la loro stessa sostanza), giusto sotto di te nella terra. E da questo momento tu sei perduto. Non ti credere al sicuro a casa tua. È piuttosto come se fossi tu nella loro tana”.

Forma di terrore quasi fatalista di fronte alla quale IO si trova spalle al muro. Le nebbie di un incubo come quelle che assillano i malati febbrili si insinuano attraverso i terrori e le angosce del piccolo animale che vive all’interno di quella tana. Tutti le storie di questo autore hanno lo stesso carattere di stranezza. A leggerle vi viene questa inevitabile impressione ossessionante di una minaccia esercitata in sogno da un oggetto non ben identificato.

In quel momento un colpo batté alla porta, un viso apparve all’entrata: il signor M., dell’amministrazione. “C’è questa lettera che è arrivata per voi” disse, appoggiando una busta sul tavolo. Se ci ha tenuto a portarla lui stesso, è senza alcun dubbio, vista la distanza tra gli uffici dell’amministrazione e quest’aula degli esperimenti, perché cercava qualcuno a cui parlare. Il personaggio è piccolo, senza essere magro, intorno alla cinquantina, ma la sua fisionomia è assolutamente straordinaria. Un naso rosso coperto di pori come una fragola, un naso che sporge a tal punto in mezzo al viso che sembra scollegato dal resto del viso; degli occhi come delle biglie infossate nelle orbite e, rampicanti verso l’alto, delle nerissime e spessissime sopracciglia che si incollavano letteralmente all’occhio. Un sottile baffo sottolinea il contorno delle labbra, un grosso labbro negroide e imbronciato e, per completare il quadro (niente calvizie, comunque): una pelosità cranica che presenta nei vari posti delle differenze di di implementazione più o meno densa, come se i capelli, diciamo, fossero stati trapiantati uno ad uno, il tutto troppo corto e attorcigliato, per di più, come i boccoli del venerabile Shakamuni.

Nella sala professori, tutti prendevano palesemente questo signor M. per un idiota. Stavano tutti a sogghignare ogni volta che menzionavano il suo nome. È cero che aveva l’aria balorda, nella sua maniera d’essere e di comportarsi; e anche nelle sue parole, quando diceva per esempio: “ Suppongo…che…si” trascinando ogni parola e fermandosi per controllare lui stesso ogni articolazione prima di passare alla successiva. Lavorava da più di vent’anni in quella scuola, tuttavia la sua reputazione era meno dovuta alla sua anzianità di servizio che alle donne che nel frattempo aveva sposato, le une morte, le altre scappate. E poi ancora una cosa che tutti sapevano: aveva la mania quando vedeva una giovinetta, senza fare distinzione tra personale e le allieve, di prenderle spesso per mano. Non ci metteva malizia (si riteneva generalmente che quest’uomo non aveva abbastanza testa per avere delle cattive intenzioni), semplicemente era più forte di lui – doveva afferrare quella mano. Le grida, i pizzichi, gli sguardi furiosi, non servivano a niente: lui non sentiva niente, o, se sentiva, la volta successiva tutto era dimenticato. Curioso che non fosse già stato licenziato….anche se con quella sua faccia era veramente difficile attribuirgli malizia! Le risate comunque non mancavano certo tra il personale. Il signor M , senza dubbio perché non aveva nessuno con cui fare conversazione, si aggrappava a Sanzô che non veniva che due volte la settimana, ed aveva sempre un mucchio di storie da raccontargli. Diceva di voler imparare il francese; molto bene, ma scoprivate presto che aveva solo ascoltato una volta o due il corso per principianti alla radio; eppure lui sembrava credere realmente che fosse sufficiente per pretendere di aver imparato il francese. Continuando su questo andare, faceva anche tedesco, studiava la poesia cinese, la poesia giapponese, in sostanza tutto. Delle storie che Sanzô ascoltava – scoprendo a volte nello sguardo spento del signor M. una forma di brutalità – gli sembrava di riconoscere quella specie di disperazione della persona debole che passa bruscamente all’attacco quando si trova alle strette.

Dopo avergli dato la lettera, il signor M., in effetti, non intendeva certo ritornare sui suoi passi: si era seduto sull’alligatore impagliato e cominciava a parlare con lo stesso tono strascicato. Ad un tratto, senza potersi accorgere di come ciò fosse potuto succedere, ecco che il discorso si era portato sulla sua moglie attuale, di vent’anni più giovane di lui, e il signor M. si era messo a raccontare – con la massima serietà – la carriera professionale che lei aveva avuto prima del matrimonio.

D fatto, come storia, tutto ciò aveva l’aria un po’ contorta; ma fu allora che il signor M. aprì il fagotto che teneva in mano (toh! non l’avevo notato: è dunque per mostrarmi questo che è venuto fin qua da me?) da dove tirò fuori un grosso volume che posò sul tavolo. In copertina un foglio bianco incollato su una seta malva, sul quale c’era scritto: “Vite di donne celebri del Giappone.”

⁃      il nome di mia moglie figura là dentro. Ciò pronunciato molto lentamente, ed in seguito a ciò, il signor M. contento dell’impresa e dell’effetto ottenuto, sorrise.

⁃         ???

All’inizio Sanzô restò incredulo, ma guardando comunque il libro che il signor M. si era curato di aprire davanti a lui – nel punto segnato da un segno di corteccia di betulla, il genere di oggetto che piace alle ragazze -, era proprio vero, la pagina si divideva in due colonne orizzontali e in quella in alto il nome della sua sposa appariva in grassetto. Seguivano la data di nascita, il luogo di nascita, la scuola nella quale si era diplomata, e infine il suo matrimonio con il signor M., sposa casta, che assisteva ammirabilmente il suo sposo e tutto l’armamentario del caso… dopo, curiosamente, si passava d’un tratto alla biografia del Signore suo sposo in persona: il curriculum vitae per cominciare, la sua natura amabile, la sua reputazione di uomo onesto e saggio, tutta un’eloquenza messa in fila come una formula di elogio funebre…

Sanzô questa volta aveva capito tutto. Il signor M. era stato vittima di una specie di truffatore che si faceva passare per un editore. – insomma aveva voluto pubblicare un articolo sulla sua onorabile moglie in una recensione biografica delle donne illustri del Giappone; si trattava per forza di fesserie, di estorcere delle somme considerevoli a tutti i mariti idioti e le donne limitate che si contavano nel paese, per pubblicare un libro inutile che sarebbe stato loro rivenduto a prezzo d’oro secondo un meccanismo perfettamente assurdo, ed è da questo gioco che il signor M. si era fatto prendere. Purtroppo dubitava così poco dell’inganno che faceva il giro degli uffici esibendolo con fierezza. E di queste frasi evidentemente, ne era lui stesso l’autore.

Se si sfogliavano le prime pagine, con sorpresa si cadeva su Murasaky Shinkibu, Sei Shonagon, il nec plus ultra che si trovava quindi elencato allo stesso modo e con lo stesso rilievo che la signora M., con una mezza pagina per ognuna.

Sanzô ha alzato gli occhi e ha guardato il signor M. Questa espressione di stupore, poteva passare per dell’ammirazione? M. non si teneva più dalla gioia, e l’orgoglio che cresceva in lui si notava come il naso in mezzo a un viso. (Quando rideva il suo naso rosso fremeva letteralmente – senza esagerazione e né fronzoli di stile – mentre il ridere scopriva i suoi denti gialli). Sanzô abbassò subito gli occhi. Tutto ciò non era sopportabile. Era della commedia? Può essere. Ma ancora una volta, che disgustante commedia umana. E mentre il suo sguardo si girava verso un piccolo camaleonte impagliato posato su una mensola, immaginò il nome che gli si sarebbe potuto dare: commedia celenterata !?

 

IV

Avvenimento veramente misterioso, quando ci si pensa, fu l’invito del signor M., quella sera, e come Sanzô spinse la porta di una taverna. In primo luogo non aveva mai sentito dire che il signor M. amasse il sakè, soprattutto non al punto di andare per i bar, cosa alquanto inimmaginabile, e la cosa più inattesa era che aveva coinvolto. Senza dubbio aveva sentito che doveva mostrarsi amabile in un modo o nell’altro, poiché adesso era sufficientemente vicino a Sanzô ( ciò che il signor M. credeva) per renderlo partecipe dei dettagli della sua vita coniugale. La gioia dell’emarginato, persuaso una volta tanto di essere preso sul serio, l’aveva spinto a quest’atto inaudito da parte sua, andare alla taverna. Era altrettanto incomprensibile ai suoi occhi, l’attitudine di Sanzô in risposta all’invito del signor M. Sanzô infatti aveva praticamente smesso di bere a causa della sua asma e rifuggiva le conversazioni serie quando non sapeva, come col signor M. , dove avrebbero potuto condurlo: se gli aveva tenuto compagnia quella sera, non era tanto per incapacità a sottrarsi alle sue sollecitazioni maldestre ma tenaci, quanto per curiosità, forse una curiosità malevola, nei confronti di quest’uomo che lo aveva provocato con la sua “vita di donna celebre”.

Bicchiere dopo bicchiere, che si scolava in solitudine piuttosto che importunare Sanzô che non beveva per niente, il signor M. aveva sempre la sua aria beata, il suo naso rosso, sempre più rosso e grasso e i suoi denti gialli che esibiva sorridendo. E sempre la stessa confusione di parole scandendo lentamente le sue storie coniugali. Le stesse storie appena un pò osé, che esponeva innocentemente nei minimi dettagli. E comunque, anche se l’interlocutore si accorgeva che erano forse un po’ osé, M. non era più padrone di ciò che diceva, le sue storie si raccontavano da sole. Si apprendeva che il segreto dell’alcova aveva nella sposa attuale un punto che lasciava a desiderare, e si capiva a quel punto si trattasse di una fissazione, pur se detta con termini educati, come si parlasse di una terza persona: “è del tutto deplorevole!”. Ma che idea raccontare cose simili! Per un momento Sanzô aveva provato a guardarlo bene in faccia, quell’uomo, ma non ci aveva guadagnato che un sorriso incoerente e viscido che lo aveva fatto battere in ritirata. Come sapere su che piede danzare, che figura fare, davanti a tali storie? Era totalmente disorientato, obbligato ad alzare il suo bicchiere per deglutire il suo imbarazzo.

Improvvisamente vide davanti a sé, e si chiese da quanto, sul piattino bianchissimo di porcellana, una cavalletta di un leggero color di giada splendente, che agitava le sue antenne in silenzio. Ah lo splendore delle sue ali dolcemente allungate. Sotto la dura luce bianca, anche il piattino sembrava volersi colorare di verde. Ancora per un po’, affascinato da quel verde e quel bianco, Sanzô ascoltò il signor M. discorrere di sua moglie.

Ascoltava, e l’impressione di assurdità che gli dava così spesso questo essere umano finiva coll’estinguersi; una timore di pessimo augurio, una irritazione bizzarra (che non era propriamente collera nei confronti del signor M., né il fastidio di trovarsi in una situazione assurda) formavano il curioso miscuglio di emozioni che occupavano il suo spirito in quel momento.

Senza accorgersene anche Sanzô bevette molto; le parole non attiravano più la sua attenzione da un po’, quando improvvisamente notò come un cambiamento di tono e comprese che il signor M., lasciando i suoi racconti di marito era passato a un’ “altra certa questione”. Se se la rappresentava in questi termini è perché l’affare in questione era in effetti molto diversi dagli argomenti di conversazioni del signor M. fino ad allora: con sua grande sorpresa (all’inizio, certamente, ben poco si capiva , ma tutto divenne chiaro a poco a poco) si trattava di una specie di sentimento astratto; ciò che potremmo chiamare un esempio della sua concezione della vita. Ma il discorso era sempre così straordinariamente confuso, l’elocuzione sempre così confusa e rallentata, appesantita da innumerevoli ripetizioni: una vera tiritera.

Con pazienza siamo riusciti tuttavia a individuare un senso che si formulava con delle parole comuni, e l’opinione espressa dal signor M. in quel momento si esprimeva più o meno come segue:

La vita è come salire una scala a chiocciola. Avete la vista su un paesaggio, fate ancora un giro e vi ritrovate davanti lo stesso paesaggio. La seconda visuale è praticamente uguale alla prima, con la differenza, però, che si vede un po’ più lontano. Colui che si è elevato fino al secondo panorama può capire questa minima differenza, ma non colui che è ancora al primo livello. D’altra parte l’uomo del secondo livello pensa che non si può avere che una visuale perfettamente identica alla sua. Infatti se li ascoltate parlare, non c’è quasi nessuna differenza tra loro…

Invece che dire “scale a chiocciola” vi ripeteva più volte sale girando in tondo, sapete, degli scalini, come quando si sale su una torre, si vede tutto il paesaggio attorno, ci sono degli scalini, con una “rampa” intorno, e continuando così, di modo che gli ci volevano almeno trenta minuti di penose circonlocuzioni solo per avvicinarsi a ciò che era stato detto prima, ma il senso, se lo si selezionava attentamente come si estrae da una roccia una piccola parte di metallo, il senso era proprio quello. A Sanzô sembrava che Montaigne non avrebbe potuto dirlo meglio e il suo sguardo nei confronti del signor M. ne venne modificato anch’esso, siccome il signor M. non era un lettore, non era sui libri che si era procurato tali idee. Esse non potevano venire che da un sentimento personale nato da cinquant’anni di osservazione lenta e ottusa, ed ecco che Sanzô si mise a pensare, guardando il viso del signor M. senza trovarci nessuna traccia di intelligenza che l’avesse preparato a sentire tali parole.

Tutti si prendono gioco di lui, ma se abbiamo abbastanza pazienza per cercare di capire la goffaggine di quest’uomo non potremmo forse scoprire d’un tratto un pensiero come quello che aveva appena esposto? È semplicemente che non abbiamo abbastanza forza e resistenza? Siamo forse capaci anche di andare oltre, analizzando questo discorso sporco, inintelligibile, al fine di accorgerci in cosa la stupidità di quest’uomo è necessaria – perché, per quale necessità psicologica “ci si pone sempre agli occhi degli altri in maniera così sciocca”? è così che cominceremmo a sentire l’impossibilità di stabilire (se non altro soggettivamente) una scala di valori tra le necessità che fanno si che il signor M. è il signor M. e noi siamo ciò che siamo – o che Goethe era Goethe.

È certo, evidentemente, che il signor M., secondo ciò che ha appena espresso ci considera, noi, i beffardi che ci crediamo arrivati agli scalini superiori, come “degli ignoranti che stanno in fondo alla scala rispetto a colui che è in alto”. Cos’altro se non la sufficienza ci fa credere che i criteri dei nostri giudizi di valori siano assoluti? Alla stessa maniera (spostiamo leggermente l’esempio del signor M. seguendo il filo delle analogie) se noi avessimo la facoltà di capire le parole e gli altri modi di espressione delle bestie, per esempio di un cane o di un gatto, potremmo capire anche, con il nostro corpo a cosa queste forme di vita sono necessarie, e non è escluso che scopriremmo tra gli animali una saggezza e un pensiero ben superiori ai nostri. Non abbiamo forse un’eccessiva fiducia nell’intelligenza umana per la semplice ragione che noi siamo umani?…

L’ultimo rifugio quando il vino sale alla testa e pensare diventa una faticaccia sarà sempre: Ignoramus et ignorabimus4. Sanzô mandava giù uno dietro l’altro tre o quattro bicchieri preoccupato si sentirsi come un uomo che ne viene braccato. È da un bel pezzo che la cavalletta se n’era andata altrove. Il signor M. aveva chiuso gli occhi, ebbro senza dubbio, ma biascicava ancora appoggiato ad un pilastro.

V

Pfuiii! Guardatelo, che calma compassata, e non ha nemmeno trent’anni: è il momento per farsi passare per Bergeret o per l’abate Jérome Coignard! Solitudine orgogliosa che si tiene al di sopra degli affari del mondo? Vita interamente consacrata ai piaceri dello spirito? Se questa è la fierezza c’è veramente di che ridere. È l’incapacità di agire che lo tiene ai margini? Con questo voglio dire che essere inadatti al mondo non ha mai voluto dire essere che eravamo al sicuro dai desideri materiali. È pieno di desideri volgari, e ha il cattivo gusto di vantarsi di non essere in gara… la solitudine forzata non ha pertanto niente di eroico! E c’è un’altra cosa che bisogna pur dirsi: la mancanza di talento mondano non è mai stata una garanzia di talento intellettuale. Mai. Inoltre, pretendere di gioire dell’esistenza è in genere l’ultimo retaggio chic delle persone incompetenti. Che dici? “La vita è troppo lunga per non fare niente e troppo corta per fare qualsiasi cosa”? Che tracotanza! Troppo lunga o troppo corta: comincia col fare qualcosa, parlerai dopo.

Non capisce mai niente, non fa nessuno sforzo e ha la brutta mania di annunciare delle verità profonde. Se non è tracotanza…. Guarda questa storia del “dubbio esistenziale” che ti trascini dall’infanzia, che cosa buffa, ma va bene, proverò a rispondere. Ascolta bene. L’uomo è fabbricato in maniera che non può pensare che all’interno di certe categorie: il tempo, lo spazio, i numeri. E’ dunque fatto per non capire nulla di ciò che è al di là delle forme. Dio, il sopranaturale, fanno parte di quelle cose la cui esistenza (o inesistenza) non può essere dimostrata, per la ragione che ho già detto. Ebbene, tu sei allo stesso punto. Tu concepisci il tipo di dubbio che il tuo spirito è portato a concepire; e poiché il tuo spirito (sarebbe a dire lo spirito umano) è fatto per non trovare soluzione a questo dubbio, tu, semplicemente, non la trovi. E’ davvero così, infinitamente semplice.

Sarebbe meglio rinunciare una buona volta a tutte queste approssimazioni, “il mondo”, “la vita”…non credi? In primo luogo esse sono ingombranti, no? Un uomo che ha il gusto minimamente delicato non può conviverci, se ne vergognerebbe. E poi, il mondo (subito una parola che non dovrei utilizzare, ma tanto peggio, lo faccio per te) il mondo come tu lo temi, in una visuale d’insieme non è né grande, né bello, né profondo. Al contrario, osserva attentamente i dettagli, esercita la tua azione su esso e lo vedrai ingrandirsi all’infinito. Abbiamo noi il diritto di fare i pessimisti con un aplomb insolente, tanto più che non abbiamo penetrato questo mistero? Nessuna persona veramente adulta si divertirebbe a sottilizzare così, per disprezzo del mondo e delle sue convenzioni lei andrebbe piuttosto a cercare ciò che la dentro c’è di più intelligente. Anche un fatto della vita che non ha niente di straordinario, visto così prende senso ad un tratto e diventa interessante quando lo trasforma in una certa maniera e lo trattiamo con metodo. Ecco perché c’è bisogno di convenzioni nella vita. Il colmo del ridicolo , di sicuro,, sarebbe non avere che esse in testa; ma decidere al primo colpo d’occhio che esse sono disdicevoli o spregevoli non è meno idiota. Sai cos’è un quadrato perfetto in algebra elementare? solo con esso possiamo risolvere delle equazioni che sembrerebbero irrisolvibili se non conoscessimo questo metodo. Per i dati dell’esistenza è lo stesso, bisognerebbe acquisire una tecnica che li renda eloquenti e facili da capire aggiungendo (b/2a)2 dai due lati dell’equazione. Sarebbe la fine dello scetticismo.

Ma che siano ciò che siano, io lo ripeto: mi piacerebbe che tu rinunciassi a questa maniera pretenziosa e sfrontata di annunciare delle verità profonde. A mia volta esse mi fanno provare ancora più vergogna che a te, ho voglia di nascondermi nella tana del topo. Ricordati l’altro giorno, quando parlavi di matrimonio con delle colleghe celibi. La maniera nella quale lo dicevi. Com’era? Ah si: “ Come le opere più interessanti diventano dei testi noiosi quando…. Così la più meravigliosa delle donne, se è sposata diventa una donna noiosa.” Quando ripenso alla tua aria frivola, quell’aria compiacente e lusinghiera che avevi dicendo ciò, la tua età, la tua esperienza, tutto questo messo insieme , non basta nemmeno più la vergogna, parola mia! Mi fa venire la pelle d’oca. Si. E non è che l’inizio. Ce ne sarebbero di cose da dire. Poiché non contento di essere un infrequentabile poseur, bisognerebbe che tu sia anche un immondo maiale! Sono al corrente, lo sai. Quella volta che hai portato due allieve a passeggiare con te nel parco in riva al mare….eravate là seduti sul prato, tranquilli, e vicino a voi due o tre uomini, degli operai, provavano un evidente piacere a scambiarsi di nascosto storie sconce. Il tuo comportamento in quel momento, i tuoi sguardi! Agitato, giravi gli occhi facendo sembrare di non sentire, ma le ragazze, loro, non potevano non sentire e tu avessi visto quali sguardi viziosi (con la coda dell’occhio) tu portavi su di loro……

Aspetta, non mi farai dire che sono gli istinti naturali dell’uomo che disprezzo in te. Sei un porco, benissimo. Ma perché non esplicitamente porco: un porco che fa il porco? Che provi a dissimulare la tua concupiscenza sotto dei modi snob, delle giustificazioni ingarbugliate, è questo che è grottesco. E non solo questo. Anche nelle altre situazioni non potresti mostrarsi più semplice e più franco? Piangere quando sei triste, battere i piedi quando sei in collera, ridere a crepapelle, e tanto peggio se sono degli scherzi volgari, ridere di ciò che è scherzo? Tu pretendi che l’opinione della gente ti sia indifferente e in fin dei conti chi si preoccupa più di te dell’impressione che da di se? Questo è il tuo problema, amico mio, poiché la società se ne infischia totalmente di te: in breve, tutto ciò non è che una commedia nervosa che tu reciti a te stesso. Guardati, inguaribile cretino, incorreggibile istrione. Guardati…

Sanzô riprese i sensi in una posizione instabile, aggrappato alla rampa, la fronte appoggiata contro il vetro, si era mezzo addormentato davanti alla vetrina di un negozio. Sotto la luce abbagliante distingueva un’esposizione di perle, nient’altro che perle montate, in collari , in braccialetti. Aveva lasciato il signor M. davanti alla taverna e se ne era andato a casaccio per le strade arrivando senza dubbio, non si sa quando né come, al quartiere commerciale di Banten, nel cuore della città portuale, la dove si tratta con gli stranieri. Mentre il resto della strada dietro di lui si taceva abbandonata dai negozianti e dai passanti, solamente questo negozio, vai a sapere perché, sembrava aperto. Le perle riposavano, la loro luce chiusa dentro, su un tappeto di velluto nero luccicante sul davanzale del negozio. L’illuminazione era composta in modo che ogni perla si patinava di un bianco latte e si copriva di una fine ombra pallida. Sanzô le contemplava stupito, disincantato, con l’occhio sognante. Poi si allontanò dalla vetrine, si era dimenticato del signor M. e i rimproveri che faceva a se stesso; camminava come un esploratore in una città deserta.

Novembre 1942

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