Che il capitalismo produca guerre e sia capace di alimentarsene per affrontare le sue crisi è una realtà storica nota e piuttosto indiscutibile. Che però i processi avviati nel caos sistemico attuale, con l’esplosione dello scontro tra imperi e l’invasione russa dell’Ucraina, generino situazioni simili a quelle che favorirono l’uscita dalla crisi del 1929 è tutto di dimostrare. Raúl Zibechi segnala tre delle principali grandi trasformazioni intervenute che rendono il quadro odierno molto differente da quello dei tempi della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda. Quel che sta vivendo il sistema dominante è qualcosa di molto più simile a una decomposizione che a una transizione, il suo collasso non deve spaventarci più della sua tremenda capacità di riconfigurazione. Anzi. Il vero problema, afferma Zibechi, è che – salvo forse rarissime eccezioni territoriali – non abbiamo alcuna strategia per resistere alla tremenda escalation della militarizzazione e della violenza di ogni tipo che le élite sono disposte a mettere in campo per tentare di conservare il loro dominio facendone pagare un conto sanguinoso a milioni e milioni di persone. Le raffiche della tempesta, negli anni Venti del nuovo secolo, si sono fatte molto più intense con straordinaria rapidità. La salute delle persone, quella dell’ambiente e del pianeta e adesso le minacce di guerra nucleare sono lì a dimostrarlo. Non ci resta probabilmente molto tempo per pensarci su e provare a rovesciare uno scenario pensato per condannarci a restare in balia degli eventi.

Sono molti i dati che segnalano sostanziosi benefici, dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, per le grandi imprese del complesso militare-industriale. Altri dati assicurano invece il contrario. Dicono che la crisi capitalista si sta facendo più profonda: la minaccia di recessione negli Stati Uniti, l’aumento dei prezzi in tutto il mondo, le difficoltà della Cina nel mantenere le catene di approvvigionamento globali, per citare solo alcuni esempi.

Possiamo certo concordare con William I. Robinson quando sostiene che le guerre hanno aiutato il capitalismo a superare le sue crisi e che hanno distolto l’attenzione dal deterioramento della legittimità del sistema. Il suo concetto di accumulazione militarizzata, la fusione dell’accumulazione privata con la militarizzazione statale, è utile per comprendere i processi in atto. Robinson considera la repressione necessaria per sostenere l’accumulazione di capitale in questo periodo di crescenti proteste sociali.

Tuttavia, è probabile che stiamo assistendo alla radicalizzazione delle élite globali, che – nel caso siano convinte che i loro interessi siano davvero in pericolo – sembrano disposte a provocare un genocidio di massa contro una parte della popolazione mondiale. Infatti, la distruzione del pianeta continua ad avanzare, nonostante le dichiarazioni e gli accordi che pretendono di difendere l’ambiente.

Ogni volta che un modo per risolvere le situazioni va in crisi, le élite intensificano le attività verso un altro modello ancora più distruttivo. Poiché la guerra non è più sufficiente per assicurare l’accumulazione infinita del capitale, verrà utilizzata per un altro scopo: mantenere le classi dominanti nel loro privilegio quando anche il capitalismo sia logorato.

Ritengo che le tesi di Robinson, di per sé interessanti, così come lo sono quelle di altri analisti, non tengano conto che non siamo di fronte a situazioni simili a quelle delle due guerre mondiali del XX secolo, o alla guerra fredda , ma piuttosto a nuove derive sistemiche. A rigor di termini, non dovremmo più parlare di repressione o di crisi, perché le mutazioni in atto vanno oltre questi concetti.

In primo luogo, perché l’Occidente non era mai stato sfidato (e che sfida!) nelle relazioni internazionali da nazioni non europee – come la Cina, già vittima di un colonialismo e di un razzismo che ancora persistono. Questo non vuol dire che le élite cinesi siano meno oppressive di quelle occidentali. Né che esse costituiscano una sorta di alternativa, dal momento che le élite ragionano tutte allo stesso modo.

Non siamo più di fronte a conflitti per la preminenza all’interno del capitalismo occidentale, come è accaduto nelle guerre precedenti. Ora il fattore “razziale” ha un peso determinante e, quindi, le élite occidentali non esitano – come hanno fatto in Iraq e Afghanistan – a distruggere intere nazioni, compresi i loro popoli.

Le invasioni si misurano con parametri diversi in base agli interessi geopolitici e al colore della pelle delle vittime. Nello stesso momento in cui l’esercito russo sta invadendo l’Ucraina, quello turco invade i territori curdi nel nord della Siria, ma i grandi media non gli danno certo la stessa importanza.

In secondo luogo, non dobbiamo ignorare la rivoluzione mondiale del 1968, poiché essa ci ha posto di fronte a realtà completamente diverse da quelle delle guerre mondiali del Novecento: i popoli si sono organizzati e si sono messi in movimento. Questo è il fatto centrale, non tanto le crisi economiche e politiche. I popoli indigeni, neri e meticci dell’America Latina, i popoli oppressi del mondo, stanno ponendo limiti al capitale che il capitale considera insostenibili. Ecco perché attacca con paramilitari e trafficanti di droga.

La terza differenza è una conseguenza delle prime due. Siamo di fronte a qualcosa che va oltre le crisi ed è molto più profondo: una decomposizione del mondo che conosciamo, una crisi della civiltà moderna, occidentale e capitalista, che è molto più della crisi del capitalismo inteso come mera forma di economia.

In linee molto generali, la situazione creata nel 1968 si potrebbe risolvere con l’installazione di un nuovo sistema, meno diseguale di quello attuale, oppure con l’annientamento dei popoli. A mio avviso siamo davanti a una minaccia senza precedenti perché le élite (di tutto il mondo) sentono che i popoli oppressi minacciano i loro interessi come non accadeva dal 1917.

Siamo in una transizione verso qualcosa che non conosciamo e che può essere drammatico. La transizione ha più una forma di decomposizione che di transito ordinato. Come diceva Immanuel Wallerstein: dalle transizioni controllate sono nate nuove oppressioni. Ecco perché bisogna perdere la paura del crollo dell’attuale sistema, che “può essere anarchico, ma non necessariamente disastroso“*.

Il problema è che non abbiamo strategie per affrontare questo periodo. Con la notevole eccezione dello zapatismo, non abbiamo neppure costruito saperi e modi di fare per resistere in società militarizzate, nelle quali los de arriba, quelli che stanno in alto, scommettono sulla violenza genocida per continuare a dominare. Non è facile, ma dovremmo lavorarci oppure rassegnarci a essere oggetto dei potenti.

In Marx e il sottosviluppo .

Fonte originale: la Jornada

Traduzione per Comune-info: marco calabria