Paesaggio con agente di polizia

Il cadavere di un gatto congelato era incollato al pavimento come un’ostrica alla conchiglia. Strappata dal vento, l’insegna rosso fuoco di un mercante di marroni svolazzava follemente su di lui.

Un pennacchio di vapore bianco si alzava da cinque o sei bettolini a ruote che si stringevano all’angolo della strada. In piedi un po’ in disparte a seno scoperto una donna, con un mantello sporco da cui apparivano i seni induriti come una corazza di un color porpora annerito. La donna si abbeverava di una broda di tagliatelle generosamente innaffiata di peperoncino, soffiando il suo fiato in vapore.

L’agente Jo, che stava rientrando a casa dal commissariato, aspettava il treno e seguiva la scena con occhi assenti. Due cinesi vestiti di tessuto giallo imbottito gli passarono innanzi in fretta: portavano su una staffa tra loro vari panieri con dei resti di radici bianche. Era quel momento del tardo pomeriggio nel quale la folla sembra dissolversi come inghiottita da una risacca. Sotto il cielo crepuscolare che sembrava ricoprirsi di un velo di ghiaccio, le campane della Chiesa Francese rilasciavano un suono lugubre.

Rabbrividendo Jo accuccio’ la testa tra le spalle ed aggiustò d’un colpo secco il collo della sua uniforme fissando per un momento lo sguardo sulle scintille bluastre della linea elettrica. Dopo il passaggio del treno un uomo di taglia imponente attraversava a grandi passi il binario. Era il suo Capo Servizio. Lo saluto’ rispettosamente e l’uomo, levando appena la mano con un gesto magnanimo, si fuse nella folla.

Jo sali’ sul treno e, come sempre, visto che viaggiava gratuitamente a causa della sua professione, resto’ in piedi sulla piattaforma del conducente, appoggiato al vetro con le mani nelle tasche dei pantaloni. Ogni volta che prendeva un treno si ricordava immediatamente di quella storia con uno studente giapponese…era una mattina d’estate. Andando al commissariato stava come al solito nella cabina del conducente quando questo studente che stava andando all’università era salito salito a bordo. E poi, volendo senza dubbio profittare del vento fresco, era rimasto sulla piattaforma invece di invece di prendere posto all’interno. Ma siccome in linea di massima non si staziona in quella zona poiché si potrebbe interferire con la manovra, il conducente lo aveva pregato di spostarsi. Ed ecco che si permise di replicare dandosi delle grandi arie:

—E l’altro allora? — e lo studente indicava lui, l’agente di polizia che si trovava in quell’angolo,

—Se non fate rientrare anche lui, non me ne andrò neanche io (quel conducente era senza dubbio anch’egli coreano) poi era rimasto la a fissare con aria soddisfatta il conducente e l’agente di polizia per vedere chi sarebbe stato il più in imbarazzo…..

Ripensò ancora una volta allo sguardo dello studente, che gli sembrava ancora   davvero offensivo.

Il treno era gremito. C’era uno studente con dei pattini appesi al collo; un uomo dal naso particolarmente rosso che doveva essere un impiegato; e una donna dalle braccia cariche di compere. Una omomi che portava il suo bambino sull’anca; degli yangban col collo rannicchiato in folte pellicce scure.

Dopo qualche minuto il baccano di una disputa si levò improvvisamente. Gli sguardi dei passeggeri si diressero tutti in quella direzione. Si vedeva una donna giapponese poveramente vestita, seduta, e davanti a lei un giovane uomo coi pugni alzati, apparentemente uno studente, vestito di bianco alla coreana…

—Era una gentilezza, poiché ti ho proposto di sederti là, protestava la donna.

—Ma cos’era quel yobo? Cosa vuol dire yobo

—Veramente, ho detto: yobo-san.

—L’uno o l’altro sono la stessa cosa. Sempre Yobo.

—Ma non ho mai detto yobo! Ho detto: yobo-san.

La donna era davvero imbarazzata. E si girava verso il pubblico con aria incredula, come per elemosinare un po’ di approvazione.

—Yobo-san, gli ho detto, il posto libero, siediti là, era gentile, perché si arrabbia?

Ci fu qualche risata sommessa tra i passeggeri. Il giovane uomo aveva abbandonato la partita e senza dire niente fulminò con lo sguardo quella donna analfabeta. La malinconia prese di nuovo il sopravvento in Gyoyong. Perché il ragazzo si era buttato in una simile discussione? Perché una persona evidentemente moderata protestava in quel modo, pensava forse che ci fosse tanta gloria nell’essere qualcosa che non era? Perché aveva vergogna di essere se stesso?… Ripensò agli avvenimenti della mattinata.

Quella mattina, incaricato di sorvegliare lo svolgimento della campagna per le elezioni al consiglio generale si era recato in un giardinetto per bambini, luogo della riunione, con un agente giapponese dello stesso commissariato che si chiamava Takagi. Un unico coreano prese la parola dopo i discorsi di candidatura di vari uomini provenienti dalla capitale. Questo candidato che era già stato alla testa della camera di commercio e che godeva di grande credito anche tra la gente della capitale, esponeva dettagliatamente le sue ambizioni in un ottimo giapponese. Ma nel bel mezzo del suo discorso uno degli ascoltatori della prima fila si alzò e urlò: “sta’ zitto, sporco yobo”. Era un moccioso dall’aspetto lurido che non aveva ancora vent’anni. L’agente Takagi lo afferrò rudemente per il collo e lo portò fuori. Il candidato alzando la voce esclamò:

—Ho appena sentito delle parole altamente riprovevoli. Persisto comunque a credere che anche noi abbiamo il nostro orgoglio di giapponesi.

E subito da un angolo della sala scaturì uno scroscio di applausi……

Se ne ricordò adesso. Poi provò a comparare quel candidato a quel giovane. Dopodiché provò ancora una volta a pensare a quel paese, il Giappone. Provò a pensare al popolo coreano. Provò a pensare a se stesso. E lasciò ancora il pensiero soffermarsi sul suo mestiere e poi su sua moglie e suo figlio che stava per raggiungere a casa.

A dire il vero si trovava da qualche tempo in questo strano stato d’inquietudine che si prova “quando ci si sta dimenticando qualcosa”. Provava spesso, da qualche parte nella sua testa, la sensazione opprimente e soffocante di un compito che non è stato terminato.

Ma da dove venisse questa pressione così pesante non aveva intenzione di chiederselo. No, ne aveva decisamente troppa paura. Temeva di svegliarsi. Aveva paura di montarsi la testa.

E perché aveva paura? Perché?

In risposta a ciò, invocava il viso di sua moglie di suo figlio, il loro pallore. Cosa sarebbe stato di loro se lui avesse perso il suo impiego? “Evidentemente il problema sta tutto là. Ma è veramente questo, è davvero la sola cosa che ti fa paura?” Bisognava anche a rispondere a queste domande……

Rabbrividendo ritirò la testa tra le spalle e volendo smetterla, guardò attraverso il vetro le luci vacillanti della città e la calca della folla al rientro nelle case …. Le campanelle dell’edizione della sera. I clacson delle macchine. La chiarezza glaciale delle luci si rifletteva sull’asfalto. E su di esso lo scivolìo di orde impellicciate……………

Discese dal treno davanti al parco della prosperità.

In una stradina, al vivo chiarore dell’acetilene il viso di un indovino tisico sorse dalle tenebre. Contro le vetrine di un venditore di libri usati agitando le sue mani tremolanti un vecchio leggeva l’Onmun a voce alta.

Alla prima svolta Jo venne salutato improvvisamente da un uomo che gli veniva incontro. Dopo aver ricambiato il saluto con un inchino da pappagallo, vide che aveva a che fare con un perfetto gentiluomo con un mantello dal collo di lontra.

—Potete ragguagliarmi, vi prego? Se non vi è di troppo disturbo? La persona che si rivolgeva a lui con parole di rara educazione cercava la residenza del signor X — un alto funzionario del governo civile — (e se si dirigeva a casa del signor x forse era anch’egli un alto funzionario).

Mai un gentiluomo gli aveva parlato così educatamente: si ingarbugliò un po’, ma riuscì a indicargli la strada. Avendo avuto risposta alle sue domanda l’uomo inchinò di nuovo educatamente la testa e andò nella direzione indicatagli.

È là. E’ in quel momento preciso che fece una grande scoperta che lo costernò.

—Mio Dio, non è che ho provato della soddisfazione senza saperlo – si domandò con un sussulto di terrore.

—Essere trattato con cortesia da un gentiluomo giapponese mi ha reso, almeno un po’, felice. Sì, mi sono rallegrato inconsciamente anch’io, esattamente come un bambino è tutto felice quando un adulto lo prende un po’ sul serio….Adesso non poteva più ridere del giovane di prima. E non era migliore del candidato al consiglio generale.

—Perché non è solamente una questione mia. Il nostro popolo è stato storicamente condizionato attraverso i secoli affinché il suo carattere sia questo e non un altro.

Il suo sguardo cadde su di un uomo che pisciava accovacciato sul bordo della strada. Fece meccanicamente la connessione con i modi della sua gente, la gente di quella penisola, che non sapeva “pisciare in piedi”.

—Forse in quest’abitudine senza importanza si nasconde il nostro animo eternamente votato alla servitù.

Ecco il genere di cosa a cui cercava di riagganciare il suoi pensieri.

II

Il sole ramato, seguendo la sua traiettoria gelata di dicembre, cadeva tremando sulle colline rosse e spoglie.

Il monte Pukhan sembrava fossilizzato dal gelo frastagliato e livido in un cielo di cenere. Dalla sua cima un vento acuto filava veloce come la luce a scavare le guance. Faceva un freddo da spezzare le ossa.

Si scoprivano ogni mattino, sotto la porta del sud dei pellegrini che durante il cammino si erano fermati là. Alcuni tra loro erano morti con le braccia tese, aggrappati ai rami di edera essiccata della muraglia.

Altri, i loro visi chiazzati di viola, giacevano come appisolati.

Sul fiume Han dei vecchi aprivano dei buchi nel ghiaccio e soffiavano il fumo delle lunghe pipe di ferro, stuzzicavano le carpe con l’aria sorniona. Nelle foreste i poveri rubacchiavano senza sosta del legno da ardere per alimentare il loro ondol*. La bava scendeva in aghi di ghiaccio dalle mascelle dei buoi che tiravano il loro carico di ghiaccio grande come una montagna azzurrognola.

Nevicava un po’. I sentieri erano secchi e induriti dal gelo, e tutti i tipi di piedi scivolavano e capitombolavano. Gli zoccoli a forma di barca dei coreani. I sandali luccicanti delle signorine giapponesi. Gli stivali dei cinesi, pelosi come zampe d orso. Gli stivaletti vertiginosi delle studentesse giapponesi. Le scarpe degli scolari della nobiltà coreana. Gli stivali rossi dai tacchi alti delle russe bianche… e poi le ciabatte bucate dei facchini – di quei coreani che trasportavano dei carichi sulle loro spalle – ciabatte dalle quali i piedi escono a meta. Più raramente i feltri tagliati al ginocchio di un mendicante… ed i piedi rossi e gonfi, a causa del freddo, sul bordo del marciapiede.

  1. L’inverno era sudicio e gelato.

Tutto era sporco. E questo sudiciume si era fissato sul ghiaccio. Nelle stradine all’ esterno della porta S. ciò arrivava al parossismo.

Odore d’oppio e d’alito di cinesi, odore mescolato di tabacco a buon mercato e di peperoncino rosso dei coreani, odore di cimici e di pidocchi schiacciati, odore delle interiora di porco gettate nel ruscello e della pelle dei gatti scorticati, tutte queste cose sembravano essersi fissate nel ghiaccio in quell’angolo, conservando tutto il loro fetore.

E tuttavia al mattino l’atmosfera finiva comunque per decantarsi un po’. Poi, verso il crepuscolo, nel momento in cui le gazze cominciano a cantare nei buchi delle acacie gelate, si respirava un aria leggermente più pura. Ed è sempre a quell’ora che si vedono uscire da quelle stradine molti uomini che ritornano a casa loro, inebetiti, ma sfregandosi vigorosamente le mani.

L’angolo riuniva donne di tutti i tipi. E Kim Dongyon era una di queste donne. Ella era ancora agli inizi e non aveva amiche. La sola che andava d’accordo con lei era una certa Fukumi. Nessuno conosceva il suo nome di famiglia. Quella donna era sempre di un pallore inquietante, tutte in effetti lo erano, ma lei in particolare.

“Quella la, non è una qualunque” – aveva detto loro una vecchia del vicinato. Ma cosa avesse lei più delle altre nessuno lo sapeva, lei stessa si guardava bene dal farvi allusione. E dopo ogni giornata, allo scoccare delle quattro si rialzava la manica e si bucava il braccio.

Dongyon si domandava da dove poteva arrivarle tutto quel denaro. Allora un giorno le pose la domanda. E la donna le disse ridendo tristemente:

—Piccola mia, tu non sei che una debuttante, come potresti guadagnare quanto me….

III

Un cannone sul suo fusto sferragliava trasportato sul grande ponte sul fiume Han. Nelle sabbie di Yongdungpo le punte delle sciabole dei soldati della divisione Ryuzan riflettevano il ghiaccio bluastro e scintillavano lugubremente in una luce invernale. Sera dopo sera si riformava il bivacco e si vedevano salire le fiamme rosse dei fuochi del campo.

Un gruppo di studenti che portavano una cerbiatta, correvano derapando sulla via principale. Nel mezzo di una vetrina la faccia rossa di un generale sotterraneo** di terra cotta sorgeva con aria imponente. I colpi di martello del santuario scintoista della Corea, che era completato per più di metà, risuonavano alti e forti sotto il cielo disperatamente secco.

Nel cortile del liceo il direttore ritornato dalla capitale predicava con solennità le virtù della sottomissione, (pensando con un certo disagio allo spirito di indipendenza e di dignità che predicava poco prima, secondo il regolamento, nel collegio della capitale in cui era in funzione).

Durante l’ora di storia giapponese della scuola elementare un giovane insegnante un po’ imbarazzato evocò discretamente le spedizioni di guerra in Corea.

—E’ così che Hideyoshi attaccò la Corea…

Tuttavia tra le file di bambini ciò non evocava che un’eco indebolito: essi ripetevano come pappagalli una storia che avrebbe potuto essere quella di un qualsiasi altro paese.

—E Hideyoshi attaccò la Corea

—E Hideyoshi attaccò la Corea

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Era un pomeriggio chiaro e freddo.

Le acacie ridotte a degli scheletri di spine scure dondolano cigolando sotto il vento del nord.

I curiosi attendevano in pieno vento, allineati davanti alla stazione della Porta Del Sud. Tutti avevano gli occhi puntati sull’entrata della stazione. Delle automobili arrivarono in tromba e dal lato dell’uscita sbarcò una delegazione di alti funzionari.

—Il governatore generale è tornato!

—Sua Eccellenza è rientrato da Tokio!

Dei poliziotti sorvegliavano strettamente il quartiere facendo tintinnare le loro sciabole sulle cinture. Jo Gyoyong era di servizio e, mescolato alla folla, controllava da dietro cosa succedeva nelle vicinanze immediate. Calpestando sotto le sue scarpe dalle suola bucate un foglio di giornale che lì si era posato col vento, Jo si ricordò dei tratti paffuti sotto i capelli bianchi del governatore generale che gli era già capitato di vedere. Il governatore era un militare in carriera, come gli altri governatori prima di lui, ma nessuno dei suoi predecessori aveva una reputazione comparabile alla sua. C’era molta gente tra i coreani che lo considerava benevolmente… anche se…

Proprio in quell’istante il viso paffuto dell’amabile governatore obeso avvolto in uno spesso mantello nero apparve all’uscita. Subito i funzionari venuti ad accoglierlo inchinarono simultaneamente il capo come delle macchine ben regolate. Il governatore generale fece un piccolo gesto da gran signore e si precipitò nell’auto. Lo seguiva il magrissimo e insignificantissimo direttore generale degli affari politici che prese posto nella seconda vettura. Poi senza tardare le due macchine si diressero verso l’angolo dell’ospedale Severance in direzione della Porta del sud.

E fu il segnale. Si ebbe appena il tempo di veder balzare fuori dalla folla un uomo in blusa bianca, che già il suo braccio si tendeva armato di una pistola, mirava sulla macchina di testa e premeva il grilletto. Il colpo non partì. L’uomo premette ancora frettolosamente il grilletto.

Questa volta il proiettile fracassò il vetro della macchina in coda esplodendo con un rumore tonante. Le due macchine allertate, accelerarono bruscamente e si dileguarono in tutta fretta. Per un istante la folla assisté all’avvenimento come colpita dallo stupore. Ma d’istinto i poliziotti accorsero e l’istante seguente il terrorista era circondato. Quella canaglia aveva ancora la sua pistola. Si minacciarono, fissandosi negli occhi. L’aggressore era un giovane uomo minuto di ventiquattro o venticinque anni. Restò un momento col pugno chiuso sulla sua pistola, gli occhi iniettati di sangue, sfidando la polizia. Poi, d’un tratto si tolse il casco e lo scaraventò a terra, scoppiando in una risata disperata, e gettò subito anche la sua arma, vicino ai curiosi. La folla si scostò velocemente. I poliziotti, che avevano avuto un momento di ritirata involontaria, videro la pistola che giaceva al suolo. L’attimo dopo si precipitavano e bloccavano l’aggressore che non oppose alcuna resistenza. Guardò i poliziotti sfoggiando un sorriso di disprezzo sulle sue labbra livide che tremavano a scatti. I capelli in disordine gli cadevano sulla fronte livida. Tutti i segno di panico e di esaltazione erano scomparsi dal suo sguardo: sopravviveva solamente la calma dello spirito e una ironia impietosita.

Per Jo Gyoyong, che l’aveva preso per le braccia, quello sguardo era più di ciò che potesse sopportare. Gli occhi dell’assassino parlavano troppo chiaramente, Gyoyong sentì pesare su di lui venti volte più forte la sensazione opprimente che provava solitamente.

Chi è stato arrestato?

Chi l’ha arrestato?

 

 IV

Quattro o cinque donne adescavano clienti battendo i denti sotto il trucco scrostato, con la schiena appoggiata al muro, là sotto, nelle stradine. Sotto la luce rifratta di un lampadario le ombre delle condutture di terra cotta proiettate sul muro le facevano sembrare delle prigioniere, mute, allineate.

—Cara, vieni? Andiamo…

—Ah, lascia stare, lascia stare! L’uomo mise le mani nelle tasche dei suoi pantaloni e le agitò ridendo. Quel viso giovanile col caschetto sotto un cappuccio di lana scomparve rapidamente dalla luce del lampadario. Quando non passava più nessuno, c’era sempre da qualche parte nell’aria il suono nitido di un muro che si incrina nel mezzo del silenzio.

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—Io? E’ semplicemente così, dopo la morte del mio uomo senza famiglia, che altro lavoro avrei potuto trovare?

—Cosa faceva il tuo uomo?

—Vendeva pelli a Jongo.

Nella camera della puttana Kim Dyongyon, un uomo dalla pelle chiara, un artigiano senza dubbio, si scaldava i piedi sotto il sottile piumino sporco che copriva la carta oleosa di ondol e parlava.

—E quando e morto?

—Questo autunno. Se n’è andato di colpo.

—Di cosa? Malattia?

—Né malattia né niente, solo che la terra ha tremato. È il terremoto che gli è caduto addosso e …

L’uomo tese la mano, afferrò la bottiglia e bevve una grossa sorsata.

– Allora se capisco bene, il tuo uomo, si trovava in Giappone in quel momento?

– Si, per l’estate. Giusto per fare un po’ di affari aveva detto, con un amico, anche se voleva tornare presto …andarono a Tokio. E subito dopo…quel che sappiamo. E quindi non è più tornato.

L’uomo sussultò improvvisamente e alzò gli occhi verso il suo viso. Dopo un lungo silenzio tagliò corto bruscamente:

– Maledizione, allora in verità non sai niente al riguardo?

– Eh? Al riguardo di cosa?

– Tuo marito…pover’uomo…

Un’ora più tardi, Dyongyon era sola a piangere al buio, avvolta nel sottile piumino. Davanti ai suoi occhi passava e ripassava il viso insanguinato di suo marito che fuggiva perdutamente, illuminato dalle fiamme.

“Sarebbe meglio non parlare troppo di questo. E’ pericoloso.”

Le parole che l’uomo le aveva detto andandosene le risuonavano flebilmente da qualche parte nella testa.

Molte ore più tardi, Dyongyon correva come indemoniata sull’asfalto grigio proprio mentre l’alba spuntava. E interrogava i passanti i passanti:

– Voi sapete cos’è successo quando è tremata la terra?

A grandi grida, faceva intendere a chi lo voleva ciò che aveva appreso la sera prima. Scapigliata, con gli occhi iniettati di sangue, correva in camicia nonostante il freddo che faceva.

I passanti assiderati si radunarono intorno a lei.

– E tutti questi stronzi che ce l’hanno nascosto, si questi bastardi!

Infine un agente di polizia venne per arrestarla.

– Hei! Tranquilla ! Tranquilla!

Quando si vide alle prese con l’agente di polizia la tristezza la sommerse d’improvviso, e urlò lasciando cadere delle grosse lacrime:

– Come! Ma anche tu, ma sei coreano e anche tu! anche tu!

Venne spedita in prigione e la vita nelle stradine all’esterno della porta S. continuò , la stessa vita di tenebre sommerse nel degrado,

Era di più che freddo, era dolore. Era come sentire che tutto in sé, tranne il cuore, era già morto congelato.

Lische di pesce gettate sul bordo della strada, brandelli di teste di porco dilaniate, appoggiate brutalmente su cumuli di neve sporca. Nelle case le persone vivevano a malapena, respirando coi loro polmoni gracili l’aria impestata di erba cipollina e di aglio come un gas che risale dalle fogne.

Niente cambiava.

Ogni giorno verso le quattro Fukumi, che era stata l’unica amica di Dongyon, denudava il suo braccio bluastro e si bucava come d’abitudine. È solo allora che ricordava vagamente dell’esistenza di Dongyon sparita Dio sa dove. Poi, quando veniva la sera, immancabilmente un giovane giapponese cencioso passava con il suo violino emettendo dei cigolii come di una ruota mal oliata. All’aurora, quando l’oscurità stava per andarsene, un cinese grande e grosso spesso usciva da una di quelle stradine:

– Cattiva costellazione, diceva guardando il cielo nero. Poi sprofondava le mani nelle tasche a cercare il suo denaro.

– Peuh! Costellazione Marcia!

Ripeteva quella frase assurda e se ne andava titubante facendo scricchiolare le sue scarpe sulla strada ghiacciata.

 

V

Jo Gyoyong, con aria smarrita, camminava davanti al vecchio consolato americano immerso nel buio. Pensava indistintamente a tutto ciò che gli era accaduto dopo la veglia.

……era ritornato a casa sua la notte passata, quando c’era stata quella convocazione d’urgenza nell’ufficio del commissario. Ripartito di fretta ed in preda alla paura, era corso al commissariato…. Il commissario gli diede silenziosamente un foglio di carta e una busta contenente la paga degli ultimi giorni. Ecco, doveva proprio accadermi questo, pensò lui. Quattro o cinque giorni prima gli studenti del liceo Kibun si erano scontrati con gli studenti dell’università K. E Jo aveva avuto una leggero diverbio con il suo capo riguardo le sanzioni da prendere.

Ricevette senza dire niente i suoi pezzi di carta e si ritrovò in strada. Poi, invece di andare a casa, si mise a vagare per qualche tempo in mezzo alle luci, sempre stringendo tra le mani la busta con la sua paga ….era entrato in un bordello nella zona dietro alla porta S. e non è che adesso, un giorno dopo, che ne usciva….

Tutto ciò gli sembrava appartenere ad un passato lontano.

Una nebbia fine si alzava da terra. La luce delle lampade passava tra i rami degli alberi della strada e disegnava dei raggi cadendo sull’asfalto.

“Che si fa adesso?” pensò, mentre la nebbia sembrava invadergli i pensieri, e proprio come ci si chiede che fare quando si tratta di un’altra persona.

“Cosa diventeranno?”. I visi pallidi di sua moglie e di suo figlio cominciarono ad andare e venire davanti ai suoi occhi.

Fu allora che d’improvviso intravide una camera al pian terreno di una piccola casa che dava su una vecchia viuzza che conosceva bene.

C’erano cinque o sei grosse sedie e un tavolo fatto con mezzi di fortuna. Sul tavolo c’erano due candele. Alla luce delle candele i visi appena illuminati dei compagni riuniti là. Uno dal viso arrossato dà dei pugni al tavolo. Un altro riflette, grattandosi furiosamente la testa. Un altro ancora, in silenzio, fa scorrere la sua matita su un foglio di carta. La speranza nel futuro li infiamma…. Qualcosa sfugge presto dai loro conciliabili segreti.

– Kyongsong….Shangai….Tokio.

-…

…..

Cercò di imprimersi bene quella scena. Cercò di confrontarla con la sua miseria.

“In ogni caso bisogna agire – pensò – in una maniera o nell’altra!”.

Si accorse che aveva continuato ad avanzare senza saperlo e adesso si trovava all’angolo della Banca per lo Sviluppo. All’ombra dei pilastri di questo grande edificio in pietra bugnata dalle fredde porte chiuse, un gruppo di facchini. Dormivano come sassi.

– “Ho! Ho!”. Si gettò in mezzo a quei corpi che puzzavano di tabacco e tentò di svegliare uno di loro scuotendolo.

-…….borbottando non si sa cosa con un’aria assonnata, il facchino socchiuse un occhio annebbiato per chiuderlo subito dopo. La sua mano magra si agitò, ghiacciata e quando si girò dall’altro lato respingendo la mano di Gyonyon, una lunga pipa di ferro scivolò dalla sua bocca cosparsa di tigna bianca e colpì l’asfalto.

– “Oh tu, voi! Tutti! “- bruscamente una strana emozione di una natura sconosciuta sorse in lui. Fu preso da un brivido, affossò la testa in uno straccio e si mise a piangere.

– Oh, voi, voi….questa penisola….questo popolo.

Giugno 1929

 

 

Sotto gli alberi tentacolari

(l’ultimo scritto di Nakajima Atsushi)

Non una sola volta, mentre svolgevo il mio lavoro tra gli indigeni di un arcipelago del Pacifico del Sud, avevo posato gli occhi su un giornale o una rivista della metropoli. Credo anche di aver quasi dimenticato persino l’esistenza della letteratura. Poi ci fu la guerra ed io pensavo sempre meno a queste cose. Dopo svariati mesi sono ripartito per Tokyo e d’un tratto tutto era così diverso, il clima, l’aria circostante: ero totalmente disorientato. Non potevo credere di vedere quelle alte pile di libri nelle vetrine delle librerie. Avevo piacere a rimettermi, dopo così tanto tempo a rileggere delle opere letterarie, ma tutto mi sembrava troppo raffinato e di troppo difficile accesso per la mia povera testa annebbiata dalle lentezze dei mari del Sud. Ciò era ancora più palese quando si trattava di lavori critici e non più delle opere stesse. Mi mancavano tutte le conoscenze preliminari che permettono di entrare nei ragionamenti, nei modi di considerare propri del mondo letterario; ignoravo il gergo e qualcuna delle parole chiave che bisogna evidentemente conoscere; ero diventato un essere psicologicamente e logicamente ridotto alle approssimazioni semplicistiche: ecco le cause, almeno, quelle che potei allora immaginare. Tuttavia, attraverso quelle letture, riuscivo ad afferrare confusamente quali erano le questioni sentite come attuali da coloro che facevano letteratura. Me ne stupivo io stesso ripensandoci, era questo dunque, tutto ciò di cui ero stato capace fino a quel momento sotto gli alberi tentacolari: riflettere oziosamente su ciò che stavano diventando l’epoca e la letteratura? Oziosamente sarebbe anche dire troppo, poiché di fatto non riflettevo semplicemente su niente. La guerra da un lato, la letteratura dall’altro. Giudicavo che esse non avessero niente a che vedere l’una con l’altra. Per il momento il lavoro pratico che mi era stato assegnato era la prima delle urgenze, non avevo il tempo di preoccuparmi d’altro. Mi era capitato di mettere qualche parola in fila nei rari momenti in cui avevo del tempo libero, ma non lo facevo con la preoccupazione di creare un’opera letteraria. Non avendo mai pensato di introdurre il colore dell’epoca nei miei scritti, ero ancora meno disposto a pensare che una cosa come la letteratura potesse essere messa al servizio di un obiettivo statale. Non ero in ogni caso così ingenuo da credere che essa potesse essere utile alla guerra nella maniera in cui lo sono le scienze applicate, di modo che mi dicevo che la cosa migliore, viste le circostanze, era dimenticare la letteratura e consacrarmi interamente a un lavoro più urgente. È vivendo onestamente come un cittadino tra gli altri che avrei visto, se uomo di lettere, la mia opera compiersi in un certo senso da sola. Ma non mi disturbava l’idea che potesse non succedere. Dopotutto, date le circostanze, che un individuo diventasse o no uno scrittore, non aveva poi una grande importanza. Arrivato a Tokyo in questo genere di disposizione sognante, ero stato ancora più sorpreso dall’afflusso di questioni tutte più sottili e complicate le une delle altre: e sembrava che la letteratura potesse dunque anche servire alla guerra; dovevo essere davvero distratto per non essermene accorto prima. Ma è veramente questa, l’efficacia della letteratura, e cioè che un movimento di rinnovamento culturale fondato sull’erudizione e il sapere delle persone di lettere sia utile, che le persone di lettere si rendano utili attraverso i loro commenti dei classici o la loro arte di redigere dei bollettini informativi? Se essa doveva dispiegare la sua efficacia, sarebbe stato piuttosto come una specie di antisettico contro la nostra mentalità di falsi duri – che abbiamo la tendenza a non vedere più a causa dei tempi che corrono – o contro un certo rifiuto di pensare, nascosto sotto un’ apparenza esaltata, ma questo, non abbiamo ancora il coraggio di dirlo apertamente. Aspettarsi di esprimere subito le nostre emozioni così come le proviamo nel presente sembra comunque un po’ troppo affrettato. C’è anche qualcosa di comico nel pretendere a forza un colore di politica nazionale dalle proprie produzioni, per paura che manchino di attualità. Posto anche che le emozioni siano là, esse non hanno ancora fermentato sufficientemente per produrre letteratura e, così come i vecchi temi – sicuramente – non sono più adatti, si capisce come, per tutte le ragioni aggiunte a queste, il presente non sia facile da scrivere. Allora perché scrivere se non si può scrivere, perché bisognerebbe sforzarsi? (Ritorno alle mie riflessioni iniziali , quelle che facevo nei mari del sud.) Perché non rinunciare al titolo di scrittore per occuparsi piuttosto, in quanto semplice cittadino di un paese in guerra, degli obiettivi pratici necessari per condurre questa guerra? Molti sostengono che il campo di battaglia dell’uomo di lettere sia il suo ufficio. Se queste persone sono possedute ancora oggi da una febbre creativa sempre più divorante, se questi scrittori hanno l’assoluta certezza di servire il loro paese attraverso i loro scritti, hanno perfettamente il diritto di affermare questo. Ma che almeno coloro che non possono più scrivere niente o che sono presi dall’angoscia davanti alle proprie opere, non si sentano obbligati, col pretesto che non hanno fatto che questo fino ad oggi, ad aggrapparsi ancora al loro ufficio. Viste le circostanze e la mancanza di braccia, penso che sia meglio, per la letteratura e per lo Stato, gettare la penna ed impegnarsi in maniera più concreta. (Può darsi in realtà che ogni scrittore si impegni già in questa maniera, semplicemente io non lo so. E in tal caso non c’è niente da dire.) Queste riflessioni grossolane vi sembrano sottostimare la letteratura? Non vedeteci nessuna intenzione personale. È il contrario, poiché la tengo in gran considerazione, che non soffro nel vederla ridotta in questo mondo a un ruolo di surrogato. Noi non abbiamo bisogno di surrogati per ciò che non è né nutrimento né vestiario. Che non si faccia se non si può fare, credo che non c’è altro da fare che aspettare di avere l’autentico. Allora, aspettando, mi esprimo come posso. Quando vivevo nell’isola dagli alberi tentacolari facevo una discriminazione molto ridicola tra la guerra e la letteratura: è che in me si affrontano ostinate e naif “il desiderio di servire concretamente a qualcosa” e “il sentimento che la letteratura non deve essere utile come lo può essere un manifesto”. Questa tendenza non si corregge più velocemente adesso che ho lasciato l’isola dagli alberi tentacolari per la nostra bella capitale. Forse non sono ancora uscito dal torpore dei mari del sud.

Pubblicazione postuma, gennaio 1943