Paura 3/3. La paura tra difesa naturale, fenomeno sociale, disagio mentale

1. La paura come emozione/sentimento di base

 

L’emozione è uno stato di base pervasivo e funzionale che motiva e spinge a cambiamenti. Emozioni sono per esempio gli umori, le tonalità psichiche, ecc. Per “emozione” (dal latino ex-movere) s’intende in dettaglio: – un moto reattivo, rapido, acuto e per lo più incontrollato e/o incontrollabile a un evento stimolante; – una funzione biologica evoluta che permette a ogni essere animale di sopravvivere in un ambiente sempre insicuro e valutare i rischi del caso; – l’ebbrezza inaspettata di un momento; – l’aperta manifestazione di un vortice sensoriale; – il turbamento prevalentemente passivo dell’animo.

Le emozioni, esaltanti o disagevoli, primarie o secondarie, con un’intenzionalità specifica o aspecifica, costituiscono dunque la nostra fisiologica animalità e richiedono un comportamento adattativo (esplorazione e misure di relazione all’ambiente) che può essere di neutralizzazione, sostituzione, conservazione, lotta, fuga. Se da un lato le emozioni sono quel substrato positivo costituente il nostro stesso vivere e percepirci (senza emozioni è solo il morto, il non vivente, l’inorganico), esse – quando diventano squilibrate, impetuose, incontrollabili, mal gestite dalla ragione – si trasformano in stati patologici che alterano il nostro approccio col mondo, il nostro sistema di valutazione, la nostra conoscenza del reale, le nostre prestazioni sociali e persino la nostra stessa identità (inquietudine e smarrimento ci assalgono, ci domandiamo chi siamo, dove siamo, cosa dobbiamo fare, ecc.).

La paura rientra nel vasto quadro antropologico delle emozioni, come qualcosa di ordinario e quotidiano, basti pensare alle paure dei bimbi, espressioni di un atavico timore di separazione e di tutto ciò che, essendo estraneo, minaccia il proprio equilibrio e sopravvivenza. Quando la paura è stabile, strutturata e onnipresente, oltre ad essere un’emozione è denominata anche passione e/o sentimento (secondo un secolare lessico filosofico).

La paura può essere ereditata o congenita (specie negli animali inferiori), acquisita, indotta dall’educazione, dall’ambiente, dai condizionamenti, anticipata con una previsione, evocata da un ricordo, prodotta dalla fantasia, subita nei sogni o infine sintomo di qualche patologia e disturbo di personalità. La paura si correla a una serie di termini affini, implicanti una minore o una maggiore quantità/qualità di paura: semplice timore e semplice preoccupazione, spavento (quando l’oggetto minacciante ha il carattere della sorpresa), ansia, inquietudine, terrore, orrore (sconvolgente, destabilizzante, disgregante l’ordine esistente), panico (difficilmente controllabile sotto il profilo emotivo, volitivo, cognitivo), angoscia, ecc.

Nel corso della storia, la paura è stata affrontata e discussa da molti filosofi, come Tommaso d’Aquino, Cartesio, Spinoza, Hume, Hobbes, Kant, ecc.; che l’hanno però considerata prevalentemente come qualcosa di negativo, mentre oggi se ne rilevano anche tutti quegli aspetti utili e positivi per la nostra esistenza. Così la paura diventa: a) una compagna inevitabile dell’essere umano, necessaria per la sopravvivenza; b) un sistema d’allarme psichico (come la sensazione di dolore è un campanello d’allarme fisico); c) un fattore di rischio che attiva comportamenti di difesa preventiva e di apprendimento: − attenzione massima; − risolvere un problema con calma; − prontezza alla lotta (non solo nel senso dell’aggressione, ma anche della delimitazione, del coraggio dell’esplorazione) o alla fuga (non solo scappare, ma anche: nascondersi, mimetizzarsi, confondersi, aggirare lo scontro, ecc.); d) un dinamismo che marca i nostri limiti, mitiga i nostri conati di onnipotenza, segnala debolezze e difetti.

La paura, come reazione alla consapevolezza di un pericolo esterno (oltre a quelli interni creati per lo più dall’individuo stesso), è così importante e fisiologica nella vita, al punto che non avere mai paura è indice di squilibrio e incoscienza (con tutte le gravi conseguenze del caso). Scrive una psicologa che «la paura ci permette di valutare le conseguenze di una minaccia, e provare a evitarle, circoscriverle, dominarle. Essa, più che una condanna, è una nostra modalità specializzata di rielaborare informazioni e affrontare la realtà; è un sistema difensivo per rendere efficace la nostra azione sul mondo».[1]

Se l’animale attacca o scappa al minimo segnale di pericolo, l’uomo, pur avendo ereditato dall’animale una paura primitiva, è in grado di sublimarla e razionalizzarla. Paure disfunzionali, infatti, bloccano lo sviluppo dell’Io e delle sue potenzialità creative, restringe la coscienza, genera disadattamento, tarpa la libertà, soffoca il sentimento, narcotizza la critica, conduce alla morte. Sono molte le persone che scendono a compromessi con le proprie paure inconfessate, tentando di sfuggire ai problemi della vita e disperdendo tempo ed energie sottratte a una migliore vita di relazione. La paura

 

«è all’origine di rapporti disturbati, alla cui radice ci sono innatismi, errori educazionali, generalizzazioni sbagliate, esperienze disorganizzanti, distacco dalla realtà. La paura influisce sulla personalità e la sua formazione, inibendo e modificando i processi del pensiero (ideazione e creatività), diminuendo il controllo delle reazioni e la percezione delle situazioni, perdendo i possibili vantaggi di comportamenti alternativi possibili».[2]

 

2. Paure oggettive e no, costruzione dell’horror

 

Tutti hanno paura di qualcosa: malattia, dolore, microbi, virus e coronavirus, sporco, futuro (anche sposarsi di meno e fare meno figli, rientra in questo tipo di paura), morte, buio, dentista, stranieri e infedeli, insetti, fuoco, aereo (altezza in genere), incidenti, terremoto, acqua, fulmini, vuoto, soffocamento, ambienti chiusi, cambiamenti climatici, riforme politiche, novità tecnologiche, manipolazioni del DNA (invero la natura stessa ricombina sempre le sue forme di vita), nemici (veri o supposti), forze occulte e castighi divini (con tutte le superstizioni implicate), povertà (perdere un bene proprio in generale, e da qui la corsa ad accaparrarseli e goderne in sovrabbondanza, come nel fenomeno del consumismo[3]), prestazioni sociali (esami, performance, arrossire, parlare in pubblico, rivelarsi, interagire), uscire di casa, ecc.

Comune è persino la paura stessa di impazzire e quindi di essere catalogati come folli (e perciò emarginati, stigmatizzati). Si ritiene il mondo come qualcosa di pericoloso e si giudica se stessi incapaci di affrontarlo; ma mentre il pericolo è qualcosa di esterno a noi e imprevedibile, il sentimento della paura (delle nostre difficoltà e disagi) è sempre qualcosa d’interno. Però, partendo dal Sé, l’individuo si crea poi e spesso pericoli e catastrofi inesistenti, con i quali può confrontarsi solo virtualmente e nella propria fantasia

Si ha anche paura per lo più, di cose che non si conoscono a sufficienza (come certi ragni e serpenti del tutto innocui). Ci sono inoltre le “paure ricercate” (anche a pagamento), come quelle che si affrontano in vari tipi di competizioni e di sport estremi, giostre pericolose, prodotti mass mediali (film, fumetti, videogiochi, ecc.). Si affronta di proposito la paura per sentirsi più forti e per allenare il coraggio, per simpatizzare con i personaggi, per godere (esorcizzare) in sicurezza dei drammi della vita (ferite, incidenti, aggressioni, morte, ignoto), per giocare col rischio, ecc.

Molti giovani sono sempre alla ricerca di sensazioni forti perché vogliono conoscere il mondo fino a sperimentarne il male e mettersi volontariamente in pericolo (giocare sui binari ferroviari, attraversare autostrade, gettarsi da ponti, passare col semaforo rosso, guidare ad alta velocità, cercare amicizie pericolose, commettere reati, sfidare ogni autorità, alzare le mani, usare sostanze psicotrope, ecc.).

L’adolescente poi, secondo la psicoanalisi, si cimenta col genere “horror” perché in esso rivive inconsciamente il desiderio della trasgressione (mettere in crisi le norme, scardinare divieti, imporre la propria individualità, esaltare la propria libertà, ecc.) e soprattutto sperimenta simbolicamente il proprio disagio sessuale, il mutamento della realtà del corpo, l’angoscia di castrazione, il piacere dello sporco (linguaggio volgare), il tabù del sangue, introdursi nell’adultità (arte catartica dell’horror come auto-psicoterapia?). La costruzione fittizia delle paure, illanguidisce i confini della logica reale e spalanca il mondo del cosiddetto “sogno a occhi aperti” (tipico soprattutto del delirante e dello schizofrenico).

Sempre secondo la psicoanalisi, il gusto dell’horror serve allo spettatore per sperimentare emozioni senza rischio; soddisfare una libido rimossa; annullare la censura del super-Io; controllare l’ansia; identificarsi rispettivamente con un mostro (sublimazione degli impulsi sadici), oppure con una vittima (far emergere il Sé masochista) o infine con entrambi (si vive un pericolo e nel contempo ci si protegge). Si parla in merito di “comportamenti contro-fobici”: attrazione per situazioni e oggetti ansiogeni al fine di allenarsi al contenimento della paura e prepararsi alla difesa.

Bisogna poi vedere, caso per caso e fino a che punto, tutta quest’“arte della paura” raggiunga il segno; bisogna valutare se la trama è verosimile e ben costruita; se i simboli sono azzeccati; se il piacere nel lasciarsi turbare, scuotere e sedurre è sempre sano e opportuno; se il mondo della fantasia è di aiuto alla vita reale o la peggiora o la si rifiuta; se l’individuo elabora positivamente la paura (similmente all’“elaborazione del lutto”) o ne rimane schiavo (identificazione effettiva e affettiva col male, l’orrido, il vuoto, il nulla, ecc.) e quindi la usi per alimentare la propria aggressività e i demoni interiori che lo agitano. Quest’ultima cosa può spiegarsi col fatto che, se già in generale la paura può essere di stimolo per affrontare in modo adeguato certi pericoli, cercare intenzionalmente il pericolo e provare sensazioni forti,

 

«ci fa sentire ancora più vivi. L’attivazione fisica e mentale che la paura induce, aumenta le nostre energie e ci dà più potenza per affrontare i rischi della vita. In questi “piaceri paurosi” manca l’elemento del pericolo reale che priva del valore negativo la paura sperimentata. Tale consapevolezza permette di lasciarsi travolgere dalla paura con la tranquillità di chi si sente al sicuro, ci stimola il corpo e la mente, e la reazione adrenalinica che ci rimane ci dà molto piacere».[4]

 

«Ci sono diverse motivazioni di base alla passione per l’horror: – bisogno di esorcizzare le paure legate agli orrori del proprio tempo, sdrammatizzando angosce e inquietudini quotidiane, – esercitarsi per fronteggiare pericoli, – bisogno di evadere dalla noia e monotonia ricercando nuove emozioni, – eccitamento comune ad altre droghe, – appagamento di bisogni sessuali inconsapevoli, – scarica delle tensioni fra eros e thanatos, – allentare le catene della repressione sociale e soddisfare i desideri come nei sogni, – superare le barriere tra buono e cattivo, normale e patologico, lecito e no».[5]

 

3. Soglia ed espressione della paura

 

La paura può scivolare o tendere ordinariamente ora verso una sua sensibilizzazione che ne abbassa la soglia, dove ci allarmiamo e spaventiamo troppo, come pare sia successo nella recente pandemia (dove si vietava persino di passeggiare da soli in un bosco, o dove bisognava tenere la mascherina anche all’aperto a metri di distanza uno dall’altro!); ora verso una sua assuefazione (tolleranza) che ne alza la soglia (dove, non potendo vivere in un perenne allarme, non badiamo più ai pericoli).

In proposito, K. Scherer ha descritto un sistema di valutazione delle circostanze (“antecedenti emotigeni”) organizzato su cinque livelli: a) novità dello stimolo; b) grado di piacevolezza/sgradevolezza dello stimolo; c) rilevanza dello stimolo in relazione ai bisogni e scopi del soggetto; d) capacità-potere di far fronte allo stimolo; e) esame di compatibilità con le norme sociali e l’immagine di sé.[6]

La paura si sente sul piano fisico: tremore, sudore, senso di vuoto, tachicardia, stimoli escretori, ipertensione, contrazioni muscolari, paralisi temporanea, analgesia[7], blocco della digestione, mancanza di salivazione, ecc. La paura si esprime: grido, rossore, pallore, esibizione, riso[8], dilatazione delle pupille, spalancare la bocca, aggressività, alterazione del linguaggio e di parti del corpo[9], chiudere gli occhi, fuga, lotta, sottomissione[10], ecc.[11] In entrambi i casi entra in gioco il cosiddetto “sistema della paura”, che non sempre implica la coscienza o l’esperienza. Ordinariamente, infatti, tutti i viventi evitano per istinto certi pericoli e situazioni a rischio grazie a un schema psichico ormai sedimentato.

 

4. Fenomenologia del “sistema paura”

 

Se nell’animale meno evoluto domina il “sistema paura”, nell’uomo la paura è calibrata e regolata dal sistema della coscienza, che secondo i casi può assecondare l’istinto, o reagire in modo diverso o bloccare legittime reazioni. Se per esempio l’uomo evita di esporsi alle altezze (precipizi di montagna, terrazze, ponti, ecc.), egli può in seguito superarne la ripugnanza proprio cercandole o affrontandole, cioè, opponendosi al “circuito della paura”.

Esperimenti sugli animali dimostrano che asportandogli l’amigdala perdono determinate paure; ma non altrettanto avviene nell’uomo in caso di amigdala danneggiata o mal funzionante, sia perché intervengono in compensazione altre parti del SNC, sia perché esiste nell’essere umano un sistema dell’auto-coscienza che non trova paragoni nel mondo animale inferiore. Vari studiosi si sono interrogati su cosa succeda dentro di noi quando siamo di fronte a un evento pauroso, così che si possono valutare i modi per valutarlo in cinque momenti (spesso alquanto rapidi e persino inconsapevoli):

«1) novità o prevedibilitàl’organismo si attiva di fronte a stimoli che nuovi, non categorizzati in altre precedenti esperienze, oppure improbabili rispetto al contesto in cui accadono, cioè inattesi; 2) piacevolezza o piacevolezzal’individuo valuta il grado di piacere che trae dall’esperienza che sta vivendo; 3) funzionalità rispetto ai bisogni: si valuta l’esperienza in base alla sua utilità o meno rispetto a quanto si sia prefisso di raggiungere, ai bisogni immediati che prova in quel momento; 4) gestibilità della situazione: valutazione dell’impatto dello stimolo sugli scopi della persona e sulla sua facilità di gestirlo (coping); 5) compatibilità con le norme sociali: l’organismo valuta quanto e se il nuovo elemento possa essere coerente e compatibile con i principi e i valori dell’individuo».[12]

 

Il “sistema paura” può adottare varie strategie: diluizione e negazione. Con la prima, ci si prepara o predispone ad affrontare per gradi un pericolo-minaccia (pensiamo a un bambino che vuole salutare più volte la mamma prima di lasciarla). Con la seconda, innalzando al massimo la soglia della paura, si ridimensiona il pericolo stesso fino ad annullarlo. La paura si può affrontare per esempio con: a) l’osservazione del comportamento altrui, col quale si costata che non si spaventano; b) la partecipazione guidata, nel senso di accostarsi gradualmente all’oggetto che provoca paura, per conoscerlo meglio e vedere che in fondo non è da temere (processi desensibilizzanti); c) la ricostruzione sperimentale e immaginata dell’evento pauroso senza i pericoli reali implicati.[13]

E tralasciamo il caso di quando, dalla situazione difensiva di paura, si passa a una situazione di accettazione cronica dei pericoli, nel senso per cui ci si mette in uno stato di dipendenza proprio verso l’agente pericoloso, assunto come padrone e regolatore del proprio Sé, ma un padrone che a sua volta vive la stessa e drammatica situazione permanente di paura. In generale, le reazioni alla paura (fuga, lotta, ecc.) sono valide/efficaci solo se consentono comportamenti elastici/flessibili. Eccoli in dettaglio:

 

«1) Immobilità. A volte la persona si blocca come per essere meno visibile al suo aggressore e che porta a una specie di paralisi caratterizzata da un senso di ineluttabile sconfitta. 2) Evitamento. Nascondere l’elemento problematico o nascondersi ad esso. Questo modo di reagire è efficace solo se temporaneo e prendersi il tempo di organizzare le proprie forze. 3) Diluizione/negazione. La prima determina un’esposizione graduale allo stimolo, la seconda un evitamento. La negazione è disfunzionale perché non consente un esame di realtà rende vulnerabile il soggetto. 4) Frustrazione/collera. La reazione di rabbia e aggressività comporta una modificazione nell’aspetto e nel comportamento in senso negativo; (divenire spaventosi serve per intimidire l’avversario). 5) Reazione di attacco con tutte le sue implicazioni fisiologiche. Il segnale di pericolo trasforma il nostro organismo in una macchina da combattimento tramite l’ausilio di vari ormoni. 6) Sottomissione/pacificazione. Tentativo di scampare al pericolo accettando il ruolo di perdente e concedendo al vincitore la gestione di tutto ciò che avverrà successivamente […] Di solito però, dopo la sottomissione vi è una fase di pacificazione nella quale l’aggressore non ha più bisogno di esercitare comportamenti realmente minacciosi ma solo a volte di evocarli vagamente. In questa fase chi ha il potere utilizza il comportamento di fare delle concessioni ed elargizioni bonarie come ulteriore modalità per sottolineare il proprio dominio. 7) Riconversione. Consiste nella ridefinizione della situazione che è ristrutturata secondo una nuova ottica più positiva o comunque differente da quella che spaventava. Questa strategia Può aiutare non solo ad allentare la tensione ma anche a favorire un salutare distacco dall’evento che ci sta schiacciando. Vedere dall’alto significa, infatti, anche “staccarsi-da-terra”, porre una maggiore distanza tra noi e il pericolo, non nel senso che ci si allontana fisicamente, ma che si dà modo alla nostra mente di elaborare, valutare e ricostruire l’esperienza che si sta vivendo, per negativa e spaventosa che sia».[14]

 

5. Dipendenza, autoritarismo, populismo

 

Non c’è padrone senza servo: i due termini sono assolutamente correlati. Ugualmente, a chi ha un potere, serve l’esistenza di qualcuno che lo tema e da cui farsi obbedire; sebbene il primo stesso possa poi temere di perdere proprio colui che lo teme. Un dinamismo questo che avviene spesso anche nelle relazioni famigliari e soprattutto tra coniugi, dove chi domina deve fare attenzione a non esagerare altrimenti, viene abbandonato e rimane solo.[15] Nessun tiranno è sicuro dell’obbedienza e della fedeltà del proprio suddito; per cui chi ha potere percepisce sempre una precarietà esistenziale che lo spinge a essere tanto più tiranno quanto più ha paura; sebbene non tutti quelli che hanno potere sono tiranni, quando gestiscono la propria autorità secondo sapienza, giustizia, onestà e persino umiltà.

Il potere dovrebbe servire per controllare e dominare disordini reali o potenziali, ma quando non rispetta i principi che lo legittimano (per esempio con libere elezioni, con la sottomissione dei regnanti alla stessa legge), rinforza e allarga la paura stessa (tipica, appunto, dei cittadini dominati), che prima o dopo trovano però la forza di ribellarsi (dissidenza) e incutere paura al despota di turno, che a sua volta diventa ancora più crudele in un circolo davvero vizioso e tragico.[16] La storia politica recente ha offerto molti casi, pensiamo solo ai vari Hitler, Stalin, Mao, Franco, Pol Pot, Pinochet, Bokassa, Amin Dada, Gheddafi, Saddam, ecc. (alcuni di questi suicidatisi, esiliati o uccisi).

L’uomo è il più pauroso fra gli esseri viventi, ma buona parte di questa paura è generata dall’uomo stesso contro l’uomo, dalla sua sete di sopraffazione e dominio in una gara a chi fa più paura all’altro! Perciò lo stato moderno con i suoi poteri e le sue autorità, limita le libertà degli individui, li disciplina e sorveglia in vista di una convivenza sicura (patto sociale contro anarchia). Recita giustamente un motto: “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi e comandanti”. Questa è una buona utopia, ma il popolo è purtroppo e spesso debole, e così ha bisogno di vivere in dipendenza da un mito, un personaggio, un potere, un condottiero, duce, leader politico in cui identificarsi e sentirsi protetto!.

Nel suo Fuga dalla libertà[17], E. Fromm espone magistralmente il caso di quelli che, non essendosi formati una solida personalità e dunque incapaci di affermare la propria libertà, si sottomettono agli altri al fine di sentirsi un “qualcuno”! L’individuo, cioè, per compensare vuoti, paure e ansie interiori, ha bisogno di affidarsi ad autorità forti (bisogno di autoritarismo) o ha bisogno di qualcosa a cui adeguarsi per non sentirsi inferiore e diverso e quindi per sentirsi accettato (conformismo).

Fromm intravvede due tipi di autoritarismo corrispondenti al carattere masochista o sadico.[18] Il primo meccanismo consiste nella tendenza a rinunciare all’indipendenza del proprio essere e fondersi con qualcuno/qualcosa al di fuori di sé per acquistare la forza che manca al proprio essere; per cercare nuovi legami secondari in sostituzione dei legami primari perduti. Il masochismo comporta: passività, sentimento d’inferiorità e d’impotenza, umore depresso, mancanza di significati nella vita, auto-accusa, auto-critica, ipocondria, ritualità. L’altro, in generale, riveste per il masochista il ruolo di protettore magico, che tenta a suo modo di manipolare e di non perdere, e su cui scaricare in ogni caso le proprie responsabilità, incapacità, fallimenti, ecc. Ma il masochista avveduto tende altresì a giustificare il proprio stato, concependo per esempio la propria passività come amore, altruismo, fedeltà, e concependo ogni sofferenza come accettazione di un destino ineluttabile. (pp. 121-122).

Il carattere sadico, invece, vuole sottomettere gli altri al proprio potere, li sfrutta in ogni direzione, li schiavizza, nega loro un’identità/libertà, gode delle sofferenze altrui ma gode ancor di più del dominio che esercita, ignaro che il vero potere non consiste nel possesso/comando ma nella capacità di relazionarsi positivamente al prossimo e ancor di più nel sacrificarsi per lui. Una volta, madre Teresa di Calcutta, in un consesso internazionale fu introdotta da un capo di stato con queste parole: “vi presento la donna più potente del mondo!”. Ecco la vera, serena e invincibile potenza: la forza dell’amore! La genesi di tutti gli impulsi sadomasochisti sono da riportare secondo Fromm alla paura della solitudine che spinge a cercare qualcuno o qualcosa a cui legarsi in ogni modo e a qualsiasi costo.

Ci vengono in mente a tal proposito, perle di saggezza popolare che sentiamo spesso dire: «meglio un amico cane che nessun amico!», «meglio sposarsi che stare da soli!», ecc. Dichiarazioni infelici, sintomi di personalità immature. Ma, come lo stesso Fromm scriverà in seguito: bisogna prima essere capaci di concentrarsi sulla propria identità «e di stare prima da soli con se stessi, per poi essere capaci di stare con gli altri»![19]

La relazione di dipendenza (bisogno di autorità, compagnia, guida) nasce con l’uomo stesso, e tutti l’abbiamo sperimentata da neonati con l’ansia/paura/angoscia dell’abbandono. Il bimbo si sente rassicurato solo nel suo rapporto viscerale con chi lo nutre, coccola, rassicura. Su questo tema va letta l’opera pionieristica di J. Bowlby, che approfondì il legame della madre col bambino nelle sue tre fasi cronologiche di attaccamento, separazione, perdita, dalla quale deriverebbe gran parte della personalità dell’adulto.[20] La fase di attaccamento è composta in tre modelli: a) sicuro (dove si esplora l’ambiente serenamente e dove in caso di minaccia si reagisce col disagio cercando il genitore che subito consola e assicura); b) ambivalente (dove si reagisce alle minacce con ansia e si controlla ossessivamente la presenza del genitore); c) evitante (non mostrano disagio all’allontanamento del genitore e tendono a ignorarla al suo ritorno).

Queste modalità di attaccamento influenzeranno come fattore determinante o di semplice fattore di rischio, i futuri adattamenti psico-sociali dell’individuo e l’intero suo cammino esistenziale, sviluppando secondo i casi, paura, ansia, aggressività, ostilità, insensibilità, frustrazione, empatia, amicizia, fiducia, narcisismo, paranoia, disturbo di dipendenza, ecc. Bambini cresciuti con figure di accudimento (caregiver) affidabili e recettive, svilupperanno schemi positivi sul sé, gli altri, le relazioni in generale (quindi sicurezza e agio); mentre quelli le cui figure sono state trascuranti (o peggio, intrusivi e abusanti), svilupperanno rappresentazioni negative, insicurezza e disagio sociale.

Un altro punto di possibile riflessione in tema di “politica della paura”, è ravvisabile nel fenomeno del populismo.[21] Il populismo vive di paura, la diffonde e le offre bersagli immaginari sempre nuovi: uno, infatti, vale l’altro, poiché più che gli oggetti reali della paura conta la sua pura forma astratta! Per soddisfare il sentimento della paura, i politici di turno promettono (fanno propaganda) una sicurezza (quella che basta) per contenere rabbie, timori, risentimenti, rivendicazioni.

Il populismo sa come fare “comunità”, ma il suo modello non è quello ottimale dell’agorà ateniese ma il chiuso di un ascensore, quando, per brevi momenti, si è costretti a una coabitazione forzata che genera un senso di estraneità, claustrofobia, fastidiosa prossimità coatta. Il disagio trattenuto è lo specchio di quella “micro-paura” che i populisti manipolano lanciando grida di attacco contro qualsiasi cosa possa essere utile alla propria causa, sottacendo e mistificando invero questioni ben più gravi e reali:

 

«Questa eccedenza strutturale della paura è certo difficile da accettare per il senso comune, abituato a credere che realtà e determinatezza di contenuto coincidano (dunque, che se si ha paura, si deve aver paura di “qualcosa”), ma dopotutto si sta qui dicendo, molto semplicemente, che il populismo dà voce a una paura senza nome, a una paura così antica da aver perso perfino la memoria del proprio oggetto; addirittura, a una paura senza oggetto quale può essere per esempio quella che spiega il grido inarticolato di spavento di una creatura quando nasce al mondo».[22]

 

6. Sociologia della paura e del rischio

 

Etnologici, antropologi e storici delle religioni, hanno analizzato soprattutto le paure collettive, come scongiuro, rito propiziatorio per combattere forze oscure, pratica esorcistica e sovra-razionale, dominio dell’angoscia, fuga dalle calamità, strumento apocalittico e alchemico, ecc.; e sebbene nelle società avanzate varie paure tipiche del passato siano quasi scomparse, i tempi moderni ne hanno prodotte di nuove, quali per esempio, guerre atomiche, nuove povertà, terrorismo, perdita del lavoro, inquinamento, immigrati, manipolazioni genetiche, fisco, ecc. Ogni società

 

«ha paure primarie e secondarie. Le prime sono quelle spontanee e realistiche; le seconde sono il frutto di elaborazioni concettuali o strumenti volti a fornire obiettivi credibili su cui scaricare l’angoscia. Anche la chiesa trasformò paure viscerali in “paure teologiche” – male, demoni, peccato, inferno, eretici, streghe, ecc., – contro cui era però possibile ingaggiare una lotta morale e spirituale».[23]

 

Nonostante che nelle moderne società occidentali i pericoli per l’essere umano siano complessivamente e oggettivamente diminuiti, si continuano ad avere molte paure e si adottano infiniti sistemi di prevenzione, sicurezza, assicurazione.[24]

 

«La paura sembra così prosperare proprio quando si fa della sicurezza il criterio supremo del vivere, cercando in tal modo di evitare i rischi anziché fronteggiarli; e poiché questo sentimento si alimenta di suggestione e immaginazione, esso trova il suo terreno ideale proprio in chi, non dovendo affrontare quotidianamente pericoli reali, finisce per diventare prigioniero dell’immaginario, di ciò che non capita ma potrebbe capitare: il pericolo è sempre all’erta, pronto a manifestarsi. Tutto questo, alla fine, più che allontanare la paura, la ricorda a ogni istante, e da salutare campanello di allarme verso un pericolo concreto finisce per trasformarsi in panico ingiustificato. “Paura” è il nome che diamo alla nostre incertezze e ignoranze».[25]

 

Dagli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, l’umanità ha preso coscienze dei rischi ambientali cercando di porvi qualche rimedio; e la richiesta di sicurezza ha camminato assieme alla necessità di controllare sempre più le tecnologie, l’alimentazione, la salute, l’ambiente, i trasporti e i cittadini stessi, ormai monitorati in tutte le loro principali attività, comunicazioni, spostamenti. Se poi tutti vogliono conoscere sempre più, costruire nuove relazioni sociali, praticare nuovi sport, ecc., ebbene, tutto ciò comporta insieme la nascita di nuove paure e rischi fisiologici non sempre prevedibili. Ma questa è la nostra vita. Chiudersi in casa ci esporrebbe a un rischio ancor più grave: quello di bloccare lo sviluppo del Sé fino a farlo regredire! Per una difesa eccessiva della vita, finiamo magari per sprecarla e non goderla. Il nostro spirito non è fatto per stare fermo in poltrona a contemplare le idee, ma deve fare, agire, desiderare, osare, sperare, mettersi in gioco, ecc., pur nella consapevolezza dei pericoli e fallimenti della vita.

 

«Un mondo senza rischi sarebbe un mondo senza imprevisti, senza asperità e in balia della noia. Ipotesi impensabile, poiché da quando un essere vivente esiste, è proiettato nell’incertezza […] L’esistenza oscilla tra vulnerabilità e sicurezza, rischio e prudenza; non è mai scontata nel suo divenire. È per questo che il gusto di vivere l’accompagna e ricorda all’uomo il sapore di tutte le cose. La risposta alla precarietà consiste proprio in quest’attaccamento a un mondo il cui godimento è limitato. Ha valore solo quello che può andare perduto e la vita non è mai acquisita una volta per tutte».[26]

 

Tutte le società, in ogni caso, assumono misure cautelari contro paure/minacce di ogni tipo con forme di associazionismo, con assicurazioni previdenziali, con sistemi simbolico-religiosi, con stratagemmi tecnologici e accaparramento di beni e ricchezze. Tutte cose che, se da un lato ricordano a ogni singolo la sua condizione di precarietà, lo mettono insieme dall’altro lato sotto qualche forma di riparo/protezione.

Sentimento d’insicurezza, rischio, misure di prevenzione, ecc., sono tutte cose non sempre quantificabili/oggettivabili: si tratta spesso di valutazioni soggettive, di consapevole accettazione, di capacità di controllo, di gestioni politico-sociali che possono variare enormemente da un ambiente all’altro. Paradossalmente, influiscono anche le potenziali vittime, che se appartengono agli strati più marginali di una popolazione, si farà di meno per proteggerli; mentre nei quartieri più ricchi l’amministrazione locale installerà sistemi di sorveglianza con telecamere, aumenterà l’illuminazione notturna, assicurerà una maggiore presenza delle forze dell’ordine, ecc.

Gli abitanti vicini a una centrale nucleare o a una fabbrica inquinante, avranno più paure rispetto a chi vi lavora dentro, ben contento di guadagnarsi uno stipendio (e abitando poi magari più distante). Se nel passato la prudenza era relegata a semplice virtù morale individuale, oggi l’analogo politico chiamato “principio di precauzione” riceve un consenso generalizzato guadagnandosi lo statuto di norma giuridica in vari trattati internazionali e leggi statali. Non potendo prevedere e controllare tutto, e rimanendo troppe cose incerte, il nostro principio va impiegato senza parsimonia.

 

«Il principio di precauzione non vuole l’astensione, ma l’esercizio di un dubbio metodico, proprio della modernità riflessiva di una società che si sforza di misurare le conseguenze dei propri atti. Mette in atto un dispositivo di vigilanza, una focalizzazione della ricerca sulle zone verosimilmente sensibili e, se delle vulnerabilità sono portate alla luce, delle misure precise per contenere il possibile pericolo […] La precauzione anticipa le possibilità di pericolo e si mostra circospetta […] Il principio di precauzione ricorda che l’incertezza non scagiona i decisori dalle loro responsabilità nei confronti della comunità […] Nel dubbio, conviene prendere le precauzioni che s’impongono affinché nessuno debba pagare. Le decisioni sono prese secondo il contesto economico, politico, sociale ed etico. In questo senso, il principio di precauzione porta a una de-gerarchizzazione del sapere e a una democratizzazione più ampia dei dibattiti. È una delle ultime difese contro la corsa della globalizzazione e della ricerca feroce del profitto a ogni costo».[27]

 

Il principio di precauzione rimane certo un ottimo ideale, da applicare di volta in volta nelle più svariate circostanze ma insieme (come è stato osservato da alcuni sociologi) non deve trasformarsi in un principio meccanico e integralista che porta alla fuga, al ripiego individualistico, alla deresponsabilizzazione, al blocco della ricerca scientifica e del progresso civile ed economico in generale.

Recenti e clamorosi sono stati poi quei casi in cui, invocando il principio di precauzione e allarmando oltre misura, sono state giustificate “guerre preventive (come quella contro le presunte armi di distruzione di massa dell’Iraq?) o si è offesa la democrazia con la limitazione delle libertà fondamentali (come le norme repressive per combattere la recente pandemia, e fare poi invece poco nulla per combatterla davvero e rinforzare i sistemi sanitari). Ecco allora la precauzione piegata a interessi economico-politici di parte, mistificata in vista di consensi elettorali, ecc. (di fatti, politici di tutto il mondo hanno perso o vinto nel 2020 proprio sulla base della loro gestione della pandemia!).

Non c’è azione/evento in cui non si debba fare una stima del rapporto costi/benefici (quanto si è disposti a pagare per ottenere qualcosa? quanto si vuole rischiare e a spese di chi? Quante vite umane si potrebbero risparmiare e quante purtroppo sacrificare?). La cosa difficile è proprio questa, dove subentrano paure individuali e legittime scelte personali. In fondo ognuno sarà pure il gestore responsabile della propria vita e dunque tocca a lui valutare l’applicazione sia del generale principio di precauzione sia di più specifiche misure di prevenzione. In generale, gli europei sono più propensi alla regolarizzazione di ogni possibile norma di sicurezza e cautela (con la Svezia in testa che ha già eliminato tutto il PVC e sta convertendo tutte le auto in vetture elettriche), laddove gli statunitensi sono più propensi alla de-regolamentazione in assenza di prove inconfutabili sulla certezza del pericolo e sono dunque contrari a grandi campagne di prevenzione (se non nei casi assolutamente certi: droga, obesità, ecc.).

Da parte nostra e oltre la legge, osserviamo pure in generale che tutti quelli che vivono pericolosamente (senza prevenzione) hanno per lo più problemi psico-esistenziali che li portano a confondere i veri piaceri della vita, a cercare il proprio equilibrio/benessere/felicità in cose illusorie e in abitudini sicuramente dannose. Costoro non trovano un senso per vivere, sono sopraffatti dalla noia quotidiana, non hanno alti interessi, non credono ai valori, ecc., e così riempiono i loro vuoti con ogni possibile veleno!

Per tralasciare tutti quelli che giustificano persino le condotte pericolose (“si vive una volta sola!”, “abbasso il moralismo!”, “c’è bisogno di socializzare”, “mio nonno ha fumato fino a 80 anni”, ecc.!); e duqnue quelli che hanno criticato la “colpevolizzazione delle vittime” operata da varia propaganda di stato del tipo: “chi fuma è come se leccasse un posacenere”, “se guidi veloce andrai contro il muro”, ecc. Ma secondo noi vale qui il motto latino: “excusatio non petita, accusatio (culpa) manifesta”!

 

7. Paura, fobie, ossessioni

 

Si definiscono fobie le paure abnormi (ingiustificate, alogiche) causate da situazione prive di un carattere oggettivamente pericoloso. In una prospettiva funzionale, la fobia ha un valore difensivo contro l’angoscia, di cui permette lo spostamento e la condensazione in oggetti simbolici. Le fobie, spesso legate a disgusto e repulsione, sono numerose e frequenti.

Per Jung, i termini di paura e fobia sono sostanzialmente equivalenti: la fobia indica solo la stessa paura sistematizzata sul piano dell’inconscio, con i suoi complessi e i suoi oggetti carichi di elementi simbolici. Si passa dalla fisiologia della paura alla sua patologia (fobia, smisurata sensibilità ansiosa) quando essa si sedimenta e diviene inadeguata, irrazionale, morbosa per stimoli e per risposte, per quantità e qualità. Quando la paura difetta di regolazione, si protrae nel tempo, scatta per pseudo-minacce e pericoli trascurabili, si entra allora nel cosiddetto stato fobico.

Davanti a un medesimo oggetto, infatti, si possono scatenare reazioni diverse (minaccia, paura di contaminazione, ecc.), per cui andrebbe sempre distinto l’oggetto fobico in se stesso dall’esperienza soggettiva che se ne fa, dove subentrano mille interpretazioni, simbologie, condizionamenti ambientali, ecc. Un cane visto casualmente per strada, lo percepisco come qualcosa che mi può aggredire (un’apparizione improvvisa che mi suscita ansia); oppure lo percepisco come qualcosa col quale instaurare una relazione; oppure posso semplicemente catalogarlo secondo la sua razza (come fanno veterinari e cinofili). Sempre uguale rimane l’oggetto (uno stesso e identico cane), ma diversi sono i registri interpretativi, i vissuti, le intenzioni, le esperienze, le manipolazioni dell’oggetto, le proiezioni psichiche, i motivi di approccio/di rifiuto.[28]

“Fobia” è dal greco phobos (sinonimo di deos: paura): timore, sgomento, spavento, fuga, avversione (che dà poi origine a molti e noti termini composti). La paura «può trasformarsi in ansia e sconfinare nel patologico quando, oltre ad apparire svincolata da circostanze immediate comunemente valutabili come pericolose, è di tale persistenza e gravità da inibire reazioni vantaggiose per il soggetto ostacolando il vivere quotidiano».[29] C. André propone il seguente schema di differenziazione tra paura e fobia[30]:

 

PAURE NORMALI PAURE FOBICHE
registro dell’emozione registro della malattia
intensità limitata e controllabile possibile degenerazione in panico
situazioni effettivamente pericolose situazioni spesso non pericolose
evitamenti moderati, handicap leggero evitamenti importanti e invalidanti
scarsa ansia anticipatrice ansia esagerata che organizza tutta l’esistenza
il confronto ripetuto attenua la paura spesso non l’attenua

 

La fobia è nel contempo una specie di paura-della-paura e sconfina nella vasta area delle ossessioni, cioè, di contenuti mentali tenaci, dolorosi, parassitari, pronti a esplodere, generanti vergogna, che si tenta di evitare con riti e scongiuri (ripetizione di frasi, gesti, comportamenti). Scrive G. Perna: «paure e fobie c’invadono. La paura è un’emozione che ci aiuta a superare i pericoli, mentre le fobie sono paure eccessive rispetto ai pericoli che dobbiamo affrontare, e c’ingabbiano in comportamenti di evitazione che c’impediscono di vivere serenamente e liberamente. Superale vuol dire recuperare la nostra libertà di muoverci, pensare, decidere, vivere».[31]

Se per esempio può essere normale temere qualcosa da qualcuno che invade il nostro spazio vitale, diventa fobia non tollerare proprio che qualcuno si avvicini, o cammini dietro di noi, o ci guardi un attimo di più, ecc. La persona affetta da fobie, focalizza l’attenzione su se stessa, è iper-vigile verso i propri sentimenti anziché verso la situazione esterna. Paure, fobie e ossessioni, sono tutti blocchi costrittivi che provocano sofferenza e disabilità, sono presagio di sventura, sanzioni e danni. La fobia non è soltanto fuga e paura, ma è lo scacco emotivo di fronte alla paura, che per lo più viene appunto prevenuta e mai effettivamente affrontata.

Il fobico mette in atto condotte preventive di rassicurazione (come per esempio avere accanto una persona, un oggetto, ecc.). Paure e fobie andrebbero per lo più affrontate con l’aiuto di uno psicoterapeuta, che sappia intervenire sui giusti tasti per desensibilizzarsi da esse e agire (anche durante l’evento temuto).

 

«Evitare le situazioni fobiche è il modo migliore per mantenerle e dar loro longevità. Dal momento che sono ipersensibili, i pazienti fuggono da tutte le situazioni che li spaventano e organizzano le giornate in modo da non rischiare di trovarsi in situazioni che potrebbero gettarli nel panico. Gli evitamenti si collocano dunque proprio nel cuore delle fobie. Fuggendo con strategie anticipatrici per diminuire l’angoscia, si rafforza la paura che si alimenta da sola e chiude il ciclo […] Evitare la situazione critica procura un sollievo nell’immediato, ma mantiene il paziente in una dipendenza ansiosa dai propri comportamenti di evitazione. Questi comportamenti sottili aiutano a sopravvivere ma non a vivere bene […] Si preferisce sempre lanciare allarmi (a torto) e prefigurarsi scenari catastrofici prima che sia troppo tardi!».[32]

 

Nota sul disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Le ossessioni sono contenuti psichici (pensieri, sentimenti, sensazioni, ecc.) ricorrenti, intrusivi, provenienti dall’interno, riconosciuti per lo più nella loro irrazionalità (si conserva l’esame di realtà), generatori di ansia; mentre le “compulsioni” sono comportamenti standardizzati, ripetuti, ritualizzati, percepibili anch’essi come immotivati e messi in pratica per prevenire e/o contenere l’ansia.

Per quanto ossessioni e compulsioni siano di norma egodistonici (in psicologia, “egodistonico” si riferisce è tutto ciò che non è in armonia col proprio Io) o moralmente riprovevoli (drogarsi, giocare d’azzardo, rubare, ecc.), esse sono anche frequentemente e nel contempo vissute come qualcosa di piacevole, adatto al proprio essere, ricercato: diventano elementi coi quali si vuole convivere (nonostante risultino invalidanti sul piano sociale).

Esiste uno spettro o continuum dei fenomeni ossessivo-compulsivi, sebbene questi siano largamente presenti come elementi in numerose patologie, meglio caratterizzate però dall’appartenenza ad altre aree nosografiche: «le ossessioni-compulsioni, come ogni altro sintomo psichiatrico, possono fare la loro comparsa come elemento patologico dominante ed esclusivo, o possono essere associate a un quadro patologico in cui un altro sintomo o cluster di sintomi, caratterizzano in modo specifico un quadro clinico».[33]

Ci possono essere casi in cui avviene un passaggio dall’ossessione alle psicosi e ai deliri, e viceversa da questi a quella, che è già un miglioramento, poiché ora l’individuo vive almeno le ossessioni come proprie e non come provenienti dall’esterno (come negli stati psicotici e nello spettro della schizofrenia); e quindi in un contesto di recupero dell’Io e di presenza e coscienza dell’Io a se stesso (per quanto un Io ancora coartato). Le ossessioni erano rubricate un tempo nel capitolo sulle “nevrosi ossessive”, e secondo Pichot

 

«sono caratterizzate dall’irruzione nel pensiero di un sentimento o idea o tendenza in disaccordo con la coscienza del paziente che tuttavia non riesce a sbarazzarsene. Quei contenuti assediano dunque lo spirito e sopravvengono in qualsiasi momento indipendentemente dalle situazioni […] Si distinguono: a) ossessioni fobiche (si presentano anche in assenza dei corrispettivi oggetti); b) ossessioni ideative (pensieri ricorrenti su questioni esistenziali quali: vita, morte, al di là, esistenza di Dio, motivo delle azioni, scrupoli morali, ecc.); c) ossessioni impulsive (timore di commettere cose immorali o illegali che però non si commettono); d) azioni coatte e rituali (ripetizione di gesti di cui si ha coscienza della loro assurdità, vanità, inutilità, come per esempio uno scongiuro, rituali igienici, manie di ritorno, di calcolo, maniere di abbigliarsi, ecc.). Questi sintomi vanno giudicati secondo la loro gravità, estensione, variabilità, evoluzione, e non sono da soli sufficienti a diagnosticare una patologia».[34]

 

Secondo Scharfetter, le ossessioni sono esperienze imperative

 

«accompagnate da un senso di ineluttabilità e dall’impotenza di ogni sforzo cosciente per respingerle e resistervi, nonostante siano riconosciute come proprie (origine da se stessi e non da forze esterne, come negli schizofrenici), come irragionevoli, incongrue, immotivate. Le ossessioni possono comparire nell’ambito del pensiero, delle rappresentazioni [immagini], dei sintomi e delle malattie, del calcolo, del linguaggio, degli impulsi ad agire e viceversa dell’evitare certe azioni. Il contenuto delle ossessioni non è sempre assurdo, mentre assurde e ingiustificate sono tuttavia la loro persistenza, penetranza, tendenza alla ripetizione costante».[35]

 

Si tenga presente in generale che, ogni individuo sano può essere assalito da idee, dubbi e timori insistenti, impulsi ricorrenti, ecc. che infastidiscono e imbarazzano sia per la loro formale ripetitività (i contenuti sono pressoché neutrali o insignificanti), sia per i loro contenuti propri, come per esempio: desideri proibiti, moralismi, tabù, impulsi aggressivi (paura di far male a sé o agli altri, paura di dire oscenità, paura di essere responsabili per disattenzione), associazioni sgradite (pensare sempre al coltello per tagliare il pane come a uno strumento offensivo), ecc.

Si noti pure che il termine “ossessivo” è riferibile per lo più all’area coscienziale, noetica, ideativa; mentre il termine “compulsivo” si riferisce di prevalenza all’area degli atti esteriori, di azioni e comportamenti osservabili, dove “compulsivo” vale prevalentemente come coazione-a-ripetere, manifestazione obbligatoria di un principio d’inerzia ormai consolidato. Le caratteristiche formali dei fenomeni compulsivi come conseguenza di ossessioni, sono: – intenzionalità (diversamente dai tic, privi di elaborazione); – ripetitività di azione (talvolta queste azioni hanno l’aggravante di essere svolte con una lentezza snervante agli occhi del sano); – ripetitività di controllo (per esempio, ricontrollare più volte la chiusura di una porta o del gas e avere spesso il dubbio a distanza di averlo fatto); – ripetitività di fuga, evitazione, ritualità (per esempio, mettere sempre gli stessi oggetti nello stesso ordine; lavarsi sempre qualche parte del corpo trascurandone altre); – incoercibilità, finalità (hanno un preciso significato conferitogli dal paziente); – rigidità (non si tollerano deviazioni dalla norma); – eccessività.

C. André classifica quattro cause relative all’apprendimento di paure/fobie: a) eventi traumatici della vita: essersi trovati personalmente a confronto con una minaccia o un pericolo, e serbarne la traccia nella memoria, aggressioni, incidenti, ecc.; b) eventi penosi e ripetuti della vita: subire regolarmente piccoli traumi senza possibilità di controllo (umiliazioni, insicurezza, ecc.); c) apprendimento sociale per imitazione di modelli: vedere frequentemente qualcuno manifestare forti paure; d) integrazione-interiorizzazione di messaggi di allerta (ricevere un’educazione che insiste sui pericoli).

Così, le paure/fobie/ossessioni, hanno origine rispettivamente biologiche, psicologiche (l’espressione delle predisposizioni biologiche sono mitigate da stili educativi, eventi vitali, modelli ambientali) e socio-culturali.[36] I rimedi per superare le paure sono molti e diversi secondo le possibili terapie. In generale, si consiglia un regolare e buon esercizio fisico, sia perché questo migliora fra altro l’umore e il morale, sia perché riproduce le condizioni fisiologiche della paura (tachicardia, sudorazione, iperventilazione, ecc.) abituando il fisico a sopportarle. In secondo luogo, bisogna imparare per converso a rilassarsi, praticare qualche forma di meditazione, poiché abbassa la tensione psicologica e regola l’emotività. In terzo luogo, bisogna accettare i propri stati negativi ma insieme sforzarsi di gestirli al meglio, senza negarli ma viverli, al fine di volgerli in positivo e col tempo superarli.

 

8. Paura e ansia

 

Il termine “ansia” deriva dal greco anchein e dal latino anxietas (dal verbo ăngere) = “stringere, soffocare”, quindi: stato d’animo indicante preoccupazione, inquietudine. In senso più specifico, l’ansia è un vissuto emotivo caratterizzato da oppressione, costrizione, apprensione, impotenza, eccitazione, timore, sensazione di pericolo, imbarazzo, limitazione del controllo della volontà e della ragione.

L’ansia è nota da sempre, e anche la Bibbia ne parla più volte, come per esempio nel lamento di Davide (Salmo 13), come terapia spirituale («getta i tuoi affanni sul Signore ed egli ti sosterrà», Salmo 55,23), come suggerimento di Gesù («non preoccupatevi per il domani», Matteo 6,25), ecc. Nonostante il linguaggio ordinario e letterario usi spesso i termini di paura, fobia, ansia e angoscia come sinonimi, invero la paura è qualcosa che ha breve durata e si riferisce a pericoli noti, evidenti, imminenti (vi è attenzione, intenzionalità, presenza di oggetti definiti); la fobia è una paura eccessiva verso cose che normalmente non sono temibili; l’ansia è infine un’anticipazione di una minaccia futura e una forma acuta e particolare dell’angoscia (che analizzeremo più avanti).

Se nella paura l’individuo si ritira dal pericolo e indietreggia davanti a una minaccia imminente (stato emotivo dovuto a una circostanza), nell’ansia si sta come sospesi nel tempo, sopra un abisso interiore (domina il vuoto; mancano appoggi; tratto persistente dell’umore/emozione), mentre nell’angoscia si sprofonda realmente, si percepisce il terrore, ci si sente schiacciati dallo spazio-tempo.

Come per la paura, anche una certa dose di ansia è normale e fisiologica come condizione di allarme in risposta a un pericolo, basti pensare alla sofferenza del bambino quando deve staccarsi dalla madre o dal suo “oggetto transizionale” (bambolotto, ciuccio, animaletto di peluche, giochino, ecc.), o crescendo, davanti al trauma del primo giorno di asilo, di scuola, del primo appuntamento con una persona desiderata, dei cambiamenti lavorativi, della malattia e insomma di tutte le prove che siamo chiamati ad affrontare nel corso della vita.

Da un lato, l’assenza di risposte emotive e d’inespressività, ci fa vivere in uno stato quasi vegetale; dall’altro lato, la presenza dell’ansia è qualcosa di positivo e tipico dell’essere umano (gli animali non sono ansiosi, ma solo paurosi rispetto per esempio ai loro predatori); indica una tensione necessaria, una corretta preoccupazione e vigilanza che spinge a trovare soluzioni, ottimizzare le nostre prestazioni, preventivare difese, gestire al meglio le cose (ansia adattativa, ansia protettiva). Ma l’ansia può diventare un sintomo negativo (ansia disfunzionale) che si accompagna a numerose patologie: depressione, schizofrenia, sindromi mentali organiche, disturbi del linguaggio, malattie somatiche (ipoglicemia, ipertiroidismo, disturbi cardiaci, stati di astinenza, ecc.).

Il passaggio dall’ansia fisiologica a quella patologica, si verifica quando l’individuo non è in grado di adattarsi, quando entra in dissidio con se stesso, si distrae o si fissa, non ricorda, ha come la testa vuota, perde il controllo delle emozioni, blocca l’attività, tarpa la fiducia e la speranza, reagisce in modo anacronistico (ripiegamento sul passato), in modo asincronico (incapacità di vivere il presente, mistificazione del futuro), in modo fantasmatico (immaginazione di pericoli) e infine in modo ripetitivo (stereotipico).

L’ansia patologica consiste nella rilevante e duratura (persistente) distorsione delle funzioni cognitive (attesa, anticipazioni, incertezze, paura di essere rifiutati, ecc.); delle funzioni fisiologiche (palpitazioni, sudorazioni, brividi, tachicardia, tachipnea, pallore, urgenze dell’evacuazione o ritenzione, spasmi muscolari, secchezza delle fauci, pelle fredda, vertigini, ecc.); delle funzioni comportamentali (evitamento, incertezza, blocco, iper-vigilanza, prudenza spropositata, ecc.).

Secondo alcuni autori, bisogna distinguere l’ansia come stato dall’ansia come tratto: il primo è riferibile a un’esperienza momentanea (reazione a qualcosa che l’ha suscitata in modo contingente); il secondo si riferisce invece a una tendenza costante (si affronta tutto con ansia in maniera alquanto invalidante). Molteplici sono state nel corso della storia della psicologia, le interpretazioni dell’ansia:

 

– prospettiva evolutiva: l’ansia è una risposta inadeguata e rapida dell’omeostasi psichica, analogamente a quanto avviene sul piano fisico col sistema immunitario, dove l’organismo reagisce eccessivamente agli stimoli percepiti come pericolosi;

– prospettiva biologistica, secondo tre livelli di elaborazione dell’ansia: a) il circuito primitivo della paura situato nel sistema limbico (governa il repertorio di emergenza con la lotta o la fuga); b) il circuito razionale della paura situato nella corteccia prefrontale (permette di valutare con più attenzione cosa fare); c) il circuito riflessivo (la consapevolezza stessa delle proprie emozioni e delle loro cause);

prospettiva psicoanalitica, dove l’ansia è il risultato di un conflitto permanente e ordinario fra desideri inconsci, desideri consapevoli e istanze etiche del reale (ecco il “disagio della civiltà”), dove operano diversi meccanismi difensivi (nella proiezione si avrà una fobia, nella conversione un sintomo isterico, nell’isolamento una nevrosi ossessiva, ecc.). L’ansia è pure «un segnale adattativo che mette in moto le difese dell’Io finalizzate ad allontanare dalla coscienza, pulsioni, sentimenti e pensieri inaccettabili: in questo senso l’ansia è al centro sia dello sviluppo normale che delle deviazioni patologiche».

prospettiva esistenzialistica, dove l’ansia è la naturale consapevolezza della possibilità della morte, della colpa, del mancato senso della vita, ma che diventa patologica quando si fugge da tutto ciò, si fugge dall’essere pensando di vincerlo col non-essere.

 

9. Angoscia e nichilismo

 

Varie lingue possiedono un unico termine per indicare la paura, l’ansia e l’angoscia, avendo questi tre fenomeni mentali parecchie cose in comune. Il tema dell’angoscia è stato ampiamente svolto da filosofi, psicologi, psichiatri, teologi, romanzieri e poeti. A differenza della paura che fa riferimento a qualcosa di conosciuto e determinato, secondo Jaspers i «sentimenti dell’angoscia e dell’ansia sono più vaghi e senza oggetto»[37]; oppure hanno per sottofondo un sentimento d’inquietudine esistenziale con lo spettro (ombra) del nulla, della fine, del peggio, della morte.

Tuttavia alcuni autori psicoanalisti registrano anche angosce specificamente motivate: angoscia di separazione, isterica, depressiva, di castrazione, di separazione, di frammentazione, persecutoria, morale, ecc. Freud ha pure distinto un’«angoscia automatica» (situazione in cui il soggetto è sottoposto a un afflusso di eccitazioni che è incapace di dominare) da un’«angoscia segnale/reale», indicante la presenza di un pericolo effettivo (come la perdita di un oggetto libidico, perdita di attenzione da parte dei caregiver, perdita dell’amore, denigrazione dell’Io, formazione di sensi di colpa, paura dell’ignoto e della morte, ecc.). Altri hanno posto l’attenzione sulle “angosce persecutorie” e “depressive” (Klein), sulle “angosce impensabili” (Winnicot), sui “terrori senza nome” (Bion), sulla “frammentazione del Sé” (Kohut), ecc.[38]

Si vive in un mondo che sfugge e del quale non si colgono significati e valori che meritino attenzione: il mondo ora si dilegua nel nulla sotto il nostro sguardo. Ciò intimorisce e, secondo Fromm, ogni timore è in fondo una paura della morte, ma ogni paura della morte è in vero una “paura di coscienza”, cioè paura dell’individuo che non fa sua la vita, che non la padroneggia, che la trascura, che non le assegna un fine meritevole. Paure, ansie e inquietudini, sarebbero forme dell’angoscia attenuate, meno travolgenti, saltuarie e finanche utili per affrontare la quotidianità e raggiungere obiettivi (superare una prova, prevenire qualcosa, prepararsi a qualcosa): questi moti sono in fondo stimoli che, se da un lato evidenziano mancanze e pericoli, dall’altro lato ci spingono a prenderci positivamente cura del mondo.

Se l’uomo primitivo era terrorizzato dall’ambiente esterno che non conosceva scientificamente e non sapeva padroneggiare (basti pensare al sentimento di smarrimento di fronte a un’eclissi), l’uomo moderno è terrorizzato dal suo stesso interno, agitato da fantasmi, invaso da desideri tanto forti quanto irraggiungibili, terrorizzato dalla mancanza di punti forti capaci di direzionare la vita. Se l’uomo primitivo era più ansioso nel senso di una paura amplificata interna nei riguardi del mondo esterno, l’uomo moderno soffre maggiormente di angoscia, nel senso di una paura esternalizzata del suo mondo interno (una paura sempre pronta a degenerare in fobia, mania, scissione del Sé, ecc.).

L’angoscia, propriamente, indica uno stato generale e persistente di spaesamento esistenziale, di malessere fisico, psicologico, etico, spirituale. Nello stato dell’angoscia, il positivo, l’essere, il valore, sono occultati e l’uomo vive in terra come un naufrago permanente, sospeso in un’atmosfera sconvolgente e indefinita, con la coscienza lacerata dalla nausea, dalla vanità, dalla depressione, dalla vertigine che presentifica la fine del mondo (e di se stesso) e rende impossibile sia il controllo del reale sia l’inquadramento della vita in un orizzonte di senso. Sartre definisce l’angoscia come

 

«la coscienza umana di essere il proprio avvenire al modo del non-essere […] L’io dipende da quell’io che non è ancora e tuttavia ne dipende. La vertigine appare come la percezione di questa dipendenza che avvicina al precipizio, dove gli occhi percorrono l’abisso fino alla possibilità finale del suicidio come cessazione dell’angoscia stessa»![39] Per Sartre, la stessa libertà è causa di per sé di un’angoscia radicale: «condannato a essere libero, l’uomo porta il peso del mondo intero sulle spalle […] Io sono abbandonato nel mondo nel senso che mi trovo solo e senza aiuto, impegnato in un mondo in cui porto completamente la responsabilità […] Io sono condannato a essere integralmente responsabile di me stesso […] Ecco l’angoscia della coscienza come un essere che non è fondamento ma che è costretta a decidere del senso dell’essere in lei e fuori di lei!».[40]

 

Secondo Jaspers, «senza un pensiero trascendente, non si può vivere che in una disperazione radicale per la quale resta solo il nulla».[41] Già Kierkegaard scriveva: «angoscia e niente si corrispondono continuamente»; l’angoscia è ciò che sostituisce la libertà e lo spirito.[42] Certo, poi, dal fondo, dal vuoto e dal nulla dell’esistenza si può anche trovare qualcosa e risalire (ricominciare da capo). Le crisi dovrebbero essere solo temporanee e dovrebbero essere colte come momenti positivi di crescita, verifica, rimessa in discussione di tutte quelle cose lasciate in una pace apparente e improduttiva: ben venga allora il nichilismo, se serve a smuovere e scuotere le coscienze!

Aggiunge S. Kierkegaard, che «l’angoscia è l’avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo […] Chi ha imparato a sentire l’angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta della vita»![43] L’angoscia ci fa vivere l’essenza della vita come possibilità, ponendoci continuamente davanti al bivio radicale: o di qui o di là, o l’essere o il nulla, o il finito o l’infinito, o l’ottimismo o il pessimismo, o la salvezza o la perdizione, ecc. Ogni qualvolta la volontà si esercita fuori di un contesto di trascendenza, allora si spalanca il baratro del nichilismo soteriologico, la tragica impossibilità della salvezza dal niente del mondo. Allorché l’angoscia si fa sentimento devastante e improduttivo dell’anima, significa che essa è ormai sprofondata nel «negativo infinito» (nulla, vuoto, male, assenza di senso). L’angoscia è il risultato e il consolidamento di un pensare nichilistico rinchiuso ormai in un vicolo cieco: «l’angoscia è l’evento finale oltre a cui nessuna via parte più».[44] Ascoltiamo alcuni autori.

 

«Il nichilismo è un fenomeno inquietante che apre all’angoscia. […] L’angoscia esprime il fatto che non vi è alcun punto fermo su cui fondarsi. Nel nichilismo non si può far conto di alcuna sicurezza e di alcuna certezza».[45]

 

«L’angoscia non riguarda qualcosa, ma l’essere stesso. L’esistenza è in angoscia perché avverte che è come non deve essere e in definitiva non può essere. […] La finitezza è sentita come un pericolo e attorno a essa l’uomo avverte il nulla che vuole divorare, disgregare e annullare il senso. […] In sé non sarebbe necessario che la finitezza sia avvertita come angoscia, come quando sa di essere creata e mantenuta dal creatore; ma l’uomo moderno ha voluto essere solo con se stesso e col mondo, e così è nata l’angoscia».[46]

 

«L’uomo si sente salvo quando riesce ad evitare la distruzione e si angoscia quando non sa porsi al riparo da essa. […] Pensando il niente come opposizione all’essere, la filosofia greca portò alla luce la forma tipica dell’angoscia: quella per il proprio annientamento. Nella civiltà occidentale la salvezza è salvezza dal niente. […] Le inquietudini e l’angoscia dell’età contemporanea mostrano il loro significato solo se sono ricondotte all’evocazione originaria del niente, da cui incomincia la storia della nostra civiltà».[47]

 

Se non si è risposto nel modo giusto alle classiche domande che albergano sempre in tutti noi (“perché vi è qualcosa anziché il nulla?”, “com’è strutturato l’essere”, “da dove veniamo”, “che senso ha vivere?”, “cosa c’è oltre il mondo?”, ecc.), domande che martellano come non mai la coscienza di tutti soprattutto nei momenti di crisi, malattia, abbandono e disperazione, ebbene, la consistenza del tutto viene meno: ora è il nulla che riempie tutto, ora è il vuoto che sembra acquistare realtà!

La mancanza di valori e di risposte aprono all’angoscia come esperienza del nulla, sebbene si tratti per lo più – come ha osservato Heidegger – di una consapevolezza postuma del nulla, nel senso che noi ci accorgiamo dopo (guardando indietro nel ricordo ancora vivo) che ciò per cui ci eravamo angosciati non era nulla, non esisteva! Prosegue Heidegger: «l’angoscia è lo spaesamento dell’indeterminatezza e dell’indifferenza», l’angoscia è il «dileguarsi dell’essere», è il «sopravanzare del nessuno», è la «rivelazione del nulla»; «nello stato d’animo dell’angoscia, si raggiunge quell’accadere dell’esserci in cui il niente è manifesto»![48] Sempre Heidegger caratterizza l’angoscia come un trovarsi al cospetto della morte annichilente, la morte come impossibilità dell’esistenza, come anticipazione di quel possibile nulla a cui nessuno può sfuggire, come situazione emotiva che minaccia il Se-stesso.[49]

 

10. Paure pandemiche?

 

Le preoccupazioni per la salute occasionate dal nuovo virus (SARS-CoV-2) non sono apparse sempre giustificate, e si è sentito parlare proprio di tutto: “trincee e fronti di guerra”, “orlo angosciante dell’abisso”, “ciclone che ha travolto il mondo”, “cigno nero che ha precipitato il mondo intero in uno stato di desolazione e cambiato la storia”, “emergenza sanitaria più importante del secondo dopo guerra”, “traumatizzazione della normalità sospesa”, “tragica esperienza totalizzante mai vista prima”, “reinvenzione del futuro”, “nuova esperienza comune di contingenza, vulnerabilità, fragilità, finitudine”, “abbiamo toccato con mano il volto tragico della morte”, “senza le misure adottate avremmo avuto 150.000 persone in terapia intensiva e 600.000 morti!”, “la storia del mondo si è divisa in un prima della pandemia e in un dopo”, ecc.!

Ora, noi non sottovalutiamo il virus e non siamo negazionisti, ma neppure catastrofisti. In una prospettiva realistica osserviamo però che:

 

  1. a) questo virus non è un alieno arrivato da Marte ma un cugino di altri coronavirus che circolano comunemente nel mondo facendo ammalare ogni anno milioni d’individui con centinaia di migliaia di morti;
  2. b) ci si dimentica che le malattie infettive e le epidemie (con tutti i simbolismi e timori che suscitano) sono una presenza costante nella storia dell’umanità, con altri milioni di decessi[50];
  3. c) solo in Italia, batteri e virus colpiscono ordinariamente il 10% della popolazione con oltre 70.000 vittime per anno (senza che nessuno si sia mai scandalizzato o abbia evocato l’apocalisse). Del resto, secondo l’Istat, nel 2015 sono morte 54.000 persone in più rispetto gli anni precedenti, dovuti (secondo un documento del Ministero del Salute, febbraio/2016) alla circolazione di una variante di virus influenzale.

 

Ora, se la Sar-CoV-2 ha circolato per mesi, se è molto contagioso e ha infettato milioni di persone (circa 40 milioni), va rilevato insieme che: a) la maggioranza degli infettati è rimasta asintomatica; b) dei rimanenti, la maggioranza ha sviluppato sintomi guaribili; c) dei rimanenti ancora, la maggioranza dei morti sono state persone molto anziane già malate (circa 50.000 da noi a dicembre/2020) e, infine, che solo una piccola minoranza è morta per causa unica del virus (da noi, secondo l’ISS, circa 1500 individui, cioè lo 0,0025 dell’intera popolazione). Questi i dati, sebbene la statistica e l’epidemiologia non siano scienze esatte e considerando che la pandemia è ancora in atto mentre andiamo in stampa.

In ogni caso, va rimarcato che la malattia, la morte, la disgrazia e il dramma non sono qualcosa di estraneo alla nostra vita (quasi una cornice) ma un loro costitutivo interno: basta aprire gli occhi e vederne in abbondanza dappertutto e quotidianamente ben oltre il microscopico parassita stagionale!

Non è questa ora la sede per altri approfondimenti specifici che abbiamo già compiuto altrove[51] ma, quello che qui importa, a fronte di precauzioni draconiane e applicazione integraliste delle norme (la cui legittimità costituzionale, secondo alcuni, sarebbe discutibile), è solo denunciare una serie di altri “virus” ben più pandemici e letali quali: indifferentismo, menefreghismo, imprevidenza, incompetenza e ingiustizia sociale, e quindi domandare a chi ha governato e governa oggi:

 

− Cosa avete fatto davanti agli oltre 100.000 morti annui causati dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo e degli alimenti per cui siamo sotto procedura d’infrazione da parte della UE?

− Cosa avete fatto davanti ad altri 100.000 morti annui causati da una cattiva gestione del sistema sanitario? Esempi: mancata funzionalità delle reti di sorveglianza; piani pandemici mai aggiornati e mai attuati; esami invasivi e pericolosi; diagnosi errate; cure sbagliate e abuso di farmaci; cure ritardate o non somministrate (cresciute a dismisura durante la pandemia); insufficiente rispetto dei protocolli di sicurezza; chiusure di reparti ospedalieri, tagli di personale e di altre spese sanitarie dirottate sugli armamenti; trasformazione degli ospedali in aziende commerciali e affidamento alla sanità privata di troppe cose di utilità pubblica; ospedali costruiti e mai aperti; scarsa assistenza nelle residenze per anziani. Ma la salute non dovrebbe essere un settore strategico in uno stato moderno e civile? La sua offerta non dovrebbe superare la domanda al fine di poter fronteggiare sempre ogni emergenza?

− Cosa avete fatto per evitare contagi fra uomini e animali vivi, specie quelli selvatici (zoonosi, spillover); per eliminare gli allevamenti intensivi (malessere animale con relative influenze trasmissibili anche agli uomini e con decine di milioni di capi abbattuti); rendere vivibili le città contro l’urbanizzazione delle megalopoli; salvaguardare l’ambiente e il clima; incentivare la bioedilizia e le fonti energetiche rinnovabili; ottimizzare il ciclo dei rifiuti; potenziare i trasporti pubblici e la mobilità sostenibile; educare a corretti stili di vita, ecc.?

− Cosa avete fatto per evitare nel mondo decine di milioni di morti annue e/o aiutare un miliardo di individui al mondo che ogni giorno soffrono, si ammalano e muoiono per malattie curabili a poco prezzo, per carestie, alluvioni, siccità, fame, terremoti, mancata sicurezza sul lavoro, droga, fumo, alcol, incidenti stradali e altre mille forme di tragedie e di disagio? Nel mondo si tolgono la vita ogni anno oltre mezzo milione di persone (4.000 in Italia) perché non reggono ai loro problemi mentali, famigliari, economici, spirituali, ecc.: cosa fanno i sistemi sanitari per prevenire questa tragedia di cui ben pochi parlano?

− Infine, uscendo un attimo dal campo strettamente ambientale e sanitario, chiediamo ai governanti e ai loro devoti esecutori: come mai siete stati inflessibili nel far rispettare le norme anti-Covid (con sadiche multe fuori di ogni buon senso) ma non avete mostrato altrettanta sete di ordine, disciplina, giustizia, preoccupazione e cura davanti a milioni di vittime di guerre, massacri, genocidi, migrazioni, profughi, bambini maltrattati, lavoratori schiavizzati, ecc.? E poi ancora: cosa fa la politica per tutelare gente aggredita, rapinata, uccisa, derubata, truffata, violentata, molestata, sfruttata, disoccupata, analfabeta, discriminata, ecc.; o per contrastare il dominio della finanza, le oligarchie, le lobbies di potere, il turbo-capitalismo, la corruzione, le truffe, ecc.? Un paese in cui i processi durano decenni e ne manda in prescrizione 100.000 annui (per tralasciare condoni, indulti e amnistie) può qualificarsi come “civile”?

 

Dunque, il mondo è pieno di pandemie, di bisognosi, di tragedie sommerse e manifeste, lestofanti, evasori fiscali, diseredati e distruttori del creato, e voi governanti impiegate le vostre energie per correre dietro a inermi cittadini ed esibire la vostra mirabile efficienza poliziesca? Ogni anno fuggono dall’Italia decine di migliaia di giovani (molti laureati) e pensionati (350.000 finora!): cosa si è fatto per evitare questa emorragia di prezioso capitale umano che potrebbe contribuire al benessere interno? Cosa fate davvero per il welfare, la fratellanza, la cittadinanza reale (e non meramente anagrafica), ecc.? Morale della favola: «pensavamo di essere sani e di poter vivere sani in un mondo radicalmente malato?» (papa Francesco).

Se la polmonite infiamma solo gli alveoli e se il virus provoca trombosi, certa politica incancrenisce tutto l’uomo. C’è molta più “sanificazione” da fare nei cervelli e nei cuori che nelle suppellettili; per cui le emergenze sopra elencate sono ben più certe e più gravi rispetto ai danni e ai pericoli dei virus, almeno sotto il profilo morale, religioso, sociopolitico, economico, psicologico e affettivo; considerando che i virus fanno il loro mestiere da quattro miliardi di anni e che sono proprio loro (insieme ai microbi) a impollinare geneticamente la vita metabolizzandone i processi, mentre tutto il resto è dovuto alla responsabilità diretta, alla malvagità e avidità umana!

In ogni caso, i mali si risolvono alla radice; e altri mali si possono anche prevedere e tenersi pronti ad affrontare con la formazione e gli investimenti (come non è successo): dopo è troppo tardi e tocca pagare i debiti da noi stessi prodotti! Ha poco senso, allora, scandalizzarsi per un virus quando ben pochi si curano davvero del reale benessere complessivo dell’umanità e di altre pandemie peggiori quanto mai vive e letali!

Molti hanno gridato che “Niente sarà più come prima”: slogan già sentito altre volte! Infatti, dopo la Grande Guerra abbiamo visto la II Guerra Mondiale e altre cento guerre; dopo Chernobyl s’è visto Fukushima; dopo i Talebani s’è visto l’Isis; dopo l’11 settembre si sono viste altre numerose stragi; dopo gli ospedali congestionati a marzo li abbiamo visti ripieni in autunno, ecc.

Si spera ancora e certo che in futuro saranno rafforzate le precauzioni sanitarie ma, in generale, l’uomo fatica a imparare dalla storia, e rimane sempre un paese contro l’altro, Nord contro Sud, Ovest contro Est, regione contro governo centrale, quartiere contro quartiere, disequilibri economici, agricoltura insostenibile (distruzione di ecosistemi). Ma: o ci salviamo tutti o periremo tutti! Ci saranno allora altri virus e altre epidemie e “tutto sarà come prima”, cioè come sempre! Un mare di tragedie umane causate dall’uomo stesso più che dalla natura!

Molti hanno pure cantato “Ce-la-faremo!”, “Uniti-insieme-vinceremo!”, “Andrà-tutto-bene!”: tutte versioni del vecchio proverbio “la speranza è l’ultima a morire”; e, proprio perché l’ultima, auguriamoci allora che:

− nella fase post-pandemica si rifondi e migliori la sanità pubblica, facendo interagire maggiormente il medico di base, gli ospedali, le case di cura, le ASL e tutti i presidi pubblici territoriali (da rinforzare assolutamente);

− le nuove esperienze ci abbiano scosso dal torpore di vuote abitudini al fine di riprogrammare nuovi modi di vita; favorito corresponsabilità; arricchito tipologie di rapporti didattici, professionali e comunicativi (e-learning, home-working, e-commerce, tutorialon-line) che potranno essere mantenuti e implementati secondo i casi;

− ci abbiano disilluso dalla “religione” del progresso e della scienza, poiché sbagliano anche queste, rendendoci più accorti della criticità delle situazioni;

− fatto riconsiderare le cose più importanti della vita come, per esempio, il gusto di rimanere a casa riscoprendo i valori e la solidarietà famigliare (salvo che la casa sia percepita come una prigione o un semplice albergo dove mangiare e pernottare);

− fatto ripensare il ruolo genitoriale nella formazione dei propri figli (compito ormai delegato interamente ad agenzie esterne chiamate “scuole”);

− fatto riassaporare la virtù positiva di quell’otium che ci solleva dai mille affanni mondani; la sublimità del silenzio; la solidarietà verso il prossimo (molti volontari hanno gareggiato in generosità e prestazioni assistenziali ai più bisognosi);

− insegnato che in molti casi non c’è bisogno di toccare l’altro per amarlo: può bastare uno sguardo, un pensiero, l’intenzione del cuore;

− fatto sperimentare (in tempi di consumismo, ricchezza e competitività) un po’ di sobrietà, astinenza, austerità e privazione al fine di una corretta decrescita;

− sensibilizzato alla fragilità della vita (incertezze esistenziali, paure, spaesamenti, senso del limite) e alla bellezza delle piccole cose liberando energie positive per ripartire;

− spronato a considerare nuovi paradigmi di “governance” e sollecitato a nuove risposte sul senso complessivo del nostro essere e fatto acquisire una maggiore consapevolezza della preziosità di quella vita che ci è donata e che non va sprecata.

 

Rimanga in ogni caso chiaro per tutti, che quand’anche l’uomo governi per bene il suo mondo e viva in pace, salute e prosperità, egli non avrebbe ancora conquistato il suo ultimo scopo che rimane di natura soprannaturale, cioè, di partecipazione all’amore e armonia che regna in Cielo (dove tutto è prefetto), e dunque di salvezza in una dimensione altra da quella unicamente terrena.

L’agognato benessere, infatti, non può essere una semplice assenza di malattie (aspetto clinico, sanitario) o una semplice assenza di conflitti (aspetto sociale), poiché rimarrebbero nascoste nel cuore di ognuno, battaglie e caos maggiori dovuti a quella mancanza del divino che, alla fine, rende ogni uomo il nemico di se stesso e del mondo! Già Platone nel suo Politico affermava che, staccando il mondo dal suo Cielo, il mondo comincia a girare a rovescio finendo in sicura rovina. Ora, la dimensione della fede, non risolve certo tutti i problemi (il mondo è stato lasciato “in disputa all’umano”!), ma ci può aiutare senz’altro a dare un inquadramento metempirico delle cose; un ordine ai valori; un senso spirituale alla nostra esistenza; una speranza in qualcosa o in Qualcuno che il regno umano (“troppo umano”, come sentenziò Nietzsche) non può darci.

NOTE

[1] M. CICERI, La paura, Il Mulino, Bologna 2011, p. 8.

[2] A. OLIVERIO FERRARIS, Psicologia della paura, Bollati Boringhieri, Torino 1980, pp. 13-16.

[3] Cfr. invece la drammatica vicenda di chi, avendo comprando una casa indebitandosi con la banca, perdendo poi il lavoro ha perso insieme anche la casa e tutto quanto già speso per essa!

[4] G. PERNA, Fobie, Piemme, Milano 2001, p. 60.

[5] M. Giampietro, In F. DOGANA (ed.), Tipi d’oggi, Giunti, Firenze 1999, p. 152.

[6] Cfr. M. CICERI, La paura, cit., pp. 15-19.

[7] Quando non si percepisce un dolore poiché l’intero organismo è totalmente impegnato nella lotta per la sopravvivenza.

[8] Una mia ex-collega, ogniqualvolta entrava in conflitto con un altro collega e soccombeva, cambiava tattica e si metteva a ridere e sdrammatizzare (umorismo simulato).

[9] Soprattutto negli animali inferiori, che spalancano fauci, petto, ali, pinne, ecc., o che sono in grado di cambiare colore.

[10] “Immobilità tonica”, tipica negli animali: quando si sentono spacciati, assumono a volte un atteggiamento di disarmo quasi simulando la morte, così che l’aggressore allenta la sua pressione e soprassiede.

[11] Sulle “espressioni della paura”, cfr. A. OLIVERIO FERRARIS, Psicologia della paura, cit., pp. 14-33. Sulle “reazioni” che avvengono su tre livelli (sistema nervoso simpatico, neuro-ormonale, nuclei sottocorticali) cfr. le pp. 33-40.

[12] M.L. GARGIULO, La paura: cos’è?, in “Psichomedia” (in rete).

[13] Cfr. A. OLIVERIO FERRARIS, Psicologia della paura, pp. 46-51.

[14] M.L. GARGIULO, La paura: cos’è?, cit.

[15] In rari casi, per non sentirsi sconfitto, la persona arriva persino a uccidere l’altro coi suoi stessi figli (come registrano le cronache nere).

[16] Cfr. È. BALIBAR, La paura delle masse, Mimesis, Milano 2001; E. CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 2017; C. ROBIN, Paura. La politica del dominio, Bocconi Editore, Milano 2005 (e quanto sviluppato sopra da Meccariello al § 5).

[17] E. FROMM, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 1994.

[18] Ibid., pp. 121ss.

[19] E. FROMM, L’arte di amare, Il Saggiatore, Milano 1978, p. 142.

[20] Cfr. J. BOWLBY (1907-1990, psicoanalista e psichiatra inglese), Attaccamento e perdita, 3 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1999-2001.

[21] Cfr. R. RONCHI, Che cos’è la paura, in “DoppioZero”, 4 marzo 2019 (in rete).

[22] Ibid.

[23] A. OLIVERIO FERRARIS, Psicologia della paura, pp. 124-125.

[24] Cfr. Z. BAUMAN, Paura liquida, Laterza, Bari 2008, passim.

[25] Cfr. G. CUCCI, La paura. Un sentimento potente e sempre attuale, in “Civiltà Cattolica”, n. 3887/2012, pp. 438-450 (con citazioni e rimandi a W. Sofsky e Z. Bauman).

[26] D. LE BRETON, Sociologia del rischio, Mimesis, Milano 2017, p. 30. Ma cfr. anche G. CHIMIRRI, Prevenzione, Asterios, Trieste 2021; C. Sunstein, Il diritto alla paura. Oltre il principio di precauzione, Il Mulino, Bologna 2010.

[27] D. LE BRETON, Sociologia del rischio, cit., pp. 80-1.

[28] Cfr. L. CALVI, “La costituzione trascendentale dell’oggetto fobico”, in Il tempo dell’altro significato, Mimesis, Milano 2006, pp. 59-82.

[29] A. OLIVERIO FERRARIS, Psicologia della paura, p. 18. L’ansia sarebbe una paura amplificata interna nei riguardi del mondo esterno, differentemente dall’angoscia, che sarebbe una paura esternalizzata del mondo interno.

[30] C. ANDRÉ, Chi ha paura della paura?, TEA, Milano 2014, p. 17.

[31] G. PERNA, Fobie, p. 7.

[32] C. ANDRÉ, Chi ha paura della paura?, cit., pp. 66-71.

[33] AA.VV., Trattato Italiano di Psichiatria, vol. 1, Masson, Milano 1999, p. 553.

[34] In AA.VV., Psichiatria, Masson Milano 1989, pp. 99-101.

[35] C. SCHARFETTER, Psicopatologia generale, Fioriti, Roma 2010, pp. 274-275.

[36] C. ANDRÉ, Chi ha paura della paura?, pp. 45-57ss.

[37] K. JASPERS, Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 1989, p. 122.

[38] Per quanto i termini tedeschi e inglesi “angst” siano traducibili anche come paura/ansia/timore. Cfr. J. LAPANCHE – J-B. PONTALAIS, voce “Angoscia”, in Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 1, Bari 1973, pp. 27-29; U. GALIMBERTI, voce “Angoscia”, in Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Milano 1999, pp. 61-66.

[39] J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano , p. 67.

[40] Ibid., pp. 615-618.

[41] K. JASPERS, Metafisica, Mursia, Milano 1995, p. 364.

[42] S. KIERKEGAARD, Il concetto dell’angoscia, in Opere, Sansoni, Firenze 1978, p. 160. Kierkegaard svolge in quest’opera un’interpretazione sostanzialmente etico-religiosa dell’angoscia, ricca però di considerazioni filosofiche e psicologiche.

[43] S. KIERKEGAARD, Il concetto dell’angoscia, p. 193.

[44] K. JASPERS, Metafisica, cit., p. 366.

[45] G. PENZO, in AA.VV., Le parole dell’essere, B. Mondadori, Milano 2005, p. 476.

[46] R. GUARDINI, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 993.

[47] E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, pp. 35-36.

[48] M. HEIDEGGER, Segnavia, Adelphi, Milano 2002, pp. 67-68.

[49] M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Adelphi, Milano 1990, pp. 316ss. Sul tema del nichilismo cfr. il nostro Teologia del nichilismo, Mimesis, Milano 2012.

[50] Lebbra, peste (Atene 430 a.C., Sicilia 1575, Londra 1593, Milano 1630, Siviglia 1649, Vienna 1670, Marsiglia 1720, Cina 1855, Russia 1880, ecc.), vaiolo, poliomelite, morbillo, tifo, sifilide, malaria, febbre gialla, tubercolosi, rabbia, colera (Londra 1850, Napoli e alcune regioni meridionali, 1973), difterite, tetano, chikungunya, dengue, influenza spagnola (1918-1919, che però non circolò in Spagna e che da sola fece 50 milioni di morti), influenza asiatica, meningite, epatite virale, Ebola, Sars, Mers, Aids, zika, ecc.! Evidentemente il popolo non ha mai letto un libro di storia della medicina e dunque i suoi timori sono comprensibili.

[51] Cfr. G. CHIMIRRI, Virus, Asterios, Trieste 2020.