La politica come possibilità di fare esperienza

Nel tempo del totalitarismo morbido, per dirla con Günther Anders, tutto è merce, non dobbiamo immaginare le conseguenze di ciò che accade, intanto perdiamo la capacità di provare angoscia e la relazione tra la logica di mercato e la guerra viene nascosta. Per questo abbiamo bisogno di dare un significato diverso alla parola politica. Ma possiamo farlo soltanto accogliendo il punto di vista critico di cui parla Raúl Zibechi in L’illusione di cambiare dall’alto. Se il mondo non si cambia in profondità attraverso la conquista del governo allora si tratta di mettere al centro l’esperienza, scrive Gian Andrea Franchi: il rapporto quotidiano con i migranti della rotta balcanica (con i loro corpi, le loro storie, i loro desideri), nella piazza al centro di Trieste, ad esempio, è già l’apprendistato di un nuovo modo di fare esperienza. Tuttavia, è necessario che quell’apprendistato, quel modo di fare politica, risuoni in una rete di altre situazioni locali: questo è produrre alternativa sociale dal basso.

Partendo dall’esperienza dell’impegno quotidiano con i migranti della Rotta balcanica, cerco di pensare la politica come ricerca della capacità di fare esperienza: nel significato benjaminiano del termine. Mi sembra opportuno, a questo proposito, riprendere la fondamentale riflessione di Walter Benjamin sulla perdita dell’esperienza (Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi 1982, trad. R. Solmi). Benjamin ha avuto questa singolare esigenza di comprendere la dinamica storica profonda della perdita della possibilità di fare esperienza (Erfahren) propria della modernità capitalistica, cogliendo l’intimo nesso di soggettività e collettività:

“con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato” (p. 248): “nel sostituirsi dell’informazione alla più antica relazione, e della ‘sensazione’ all’informazione, si rispecchia l’atrofia progressiva dell’esperienza” (p. 93). “Gli interessi interiori dell’uomo non hanno già per natura questo carattere irrimediabilmente privato, ma lo acquistano solo quando diminuisce per gli interessi esterni, la possibilità di essere incorporati alla sua esperienza. Il giornale è uno dei tanti segni di questa diminuzione. Se la stampa si proponesse di far sì che il lettore possa appropriarsi delle sue informazioni come di una parte della sua esperienza, mancherebbe interamente il suo scopo. Ma il suo intento è proprio l’opposto ed essa lo raggiunge. È quello di escludere rigorosamente gli eventi dall’ambito in cui potrebbero colpire l’esperienza del lettore” (p. 92).

Quello che Benjamin coglieva nella diffusione primonovecentesca della stampa e anche nella diffusione della fotografia e del cinema, oggi noi vediamo esplodere in ciò che viene chiamata “infosfera”. Benjamin rileva che la matrice di questa dinamica storica profonda deriva dall’organizzazione capitalistica del lavoro, in cui, secondo Marx, “non è il lavoratore a utilizzare la condizione lavorativa, ma la condizione lavorativa a utilizzare il lavoratore” (p. 111). L’organizzazione capitalistica del lavoro è basata sul “calcolo del tempo che sovrappone la sua uniformità alla durata” (p. 121) rendendolo “omogeneo e vuoto”. Trasforma la qualità in quantità, mediante quella efficacissima modalità di relazione sociale puramente quantitativa che è il denaro, effetto appunto di quel “calcolo del tempo”. Sul potentissimo impulso elettronico, la trasformazione quantitativa è divenuta il modello implicito ed esplicito di una capillare forma di socializzazione ormai mondiale: trasformazione della vita in prezzo.

La logica del mercato e la guerra

Benjamin, inoltre, coglie anche il nesso fra organizzazione capitalistica del lavoro – quindi logica di mercato – e guerra, che oggi sperimentiamo acutamente e con modi anche di grottesco conformismo nella crisi in Ucraina e diffusamente nel mondo:

“appartiene forse alla preparazione della società alla guerra totale che l’esercizio emigri, dalla prassi produttiva, a quello della distruzione”(p. 111, nota).

La durata, nel significato benjaminiano, è l’esperienza intensiva del tempo proprio della singolarità soggettiva. È la durata a consentire il rapporto profondo fra soggettività e collettività:

“Dove c’è esperienza nel senso proprio del termine, determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato collettivo. I culti con i loro cerimoniali, con le loro feste … realizzavano di continuo la fusione fra questi due materiali della memoria. Essi provocavano il ricordo in epoche determinate e restavano occasioni e appigli di esso durante tutta la vita” (p. 93).

Totalitarismo morbido

Con diverso sguardo, Günther Anders, un autore la cui importanza si incomincia oggi a comprendere, prosegue la ricerca del cugino Benjamin. Direi anzi che, sul tema dell’esperienza, è colui che ne ha meglio colto l’importanza. Uno dei suoi filoni di ricerca più interessanti, infatti, è la discrepanza fra il produrre e l’immaginare. Da questa indagine nasce l’efficace concetto di totalitarismo morbido, riferito, appunto, alla capillare espansione attuale della produzione di strumenti di controllo della possibilità di fare esperienza. Parte essenziale del “fare esperienza”, infatti, non è la mera percezione dell’accadimento, ma la capacità di immaginarne le conseguenze. Fare esperienza è una dimensione essenzialmente temporale, in cui lo spazio è subalterno al tempo: immaginazione, appunto.

Nel tempo in cui ci troviamo a esistere, la capacità di fare esperienza, cioè di immaginare le conseguenze del dominio assoluto di quella chi può chiamare la Cultura del Mercato – ci dice Anders – significa immaginare l’apocalisse. Il rischio dell’apocalisse non riguarda solo l’arma atomica – spunto iniziale del pensiero di Anders – ma anche, oggi soprattutto, l’inarrestabile attacco alle fonti della vita, in innumerevoli modi diffusi come l’aria che respiriamo: “Tra la nostra capacità di produzione e quella d’immaginazione, si è aperta una frattura, e … questa si allarga di giorno in giorno” (Noi figli di Eichmann, Giuntina 1995, p.30). La produzione di merci ha preso il comando della vita. “Viviamo nell’era dell’incapacità di provare angoscia” (249): ci grida Anders. Siamo “analfabeti dell’angoscia”. In tal senso, come titola un suo testo, “siamo tutti figli di Eichmann”. Ma, mentre Eichmann era incapace di provare angoscia in mezzo all’orrore nel cuore del totalitarismo razziale con i suoi vistosi riti di morte di massa, noi viviamo nell’epoca del “totalitarismo morbido” che sta trasformando “il mondo intero in campo di concentramento” (cit., p. 69). Senza che ce ne accorgiamo. Non siamo, infatti, in grado di fare esperienza, di immaginare cioè una vita altra da quella che ci viene ogni giorno rappresentata e consegnata nell’universo mediatico, in cui siamo immersi come in una nube oppiacea.

«La morbidezza del tipo di totalitarismo chiamato “conformismo” non è affatto un segno di umanità. Se siamo trattati con mitezza, questo è dunque un segno della nostra sconfitta. […] Il conformismo non è sanguinario soltanto perché ci ha già inghiottiti; perché ormai può risparmiarsi di fare i conti con il sorgere di quella opposizione per la cui liquidazione il totalitarismo di ieri aveva bisogno o credeva di avere bisogno del terrore. Il conformismo è mite perché può permettersi di rinunciare alla minaccia e allo spargimento di sangue». (G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 249.)

La relazione con l’altro

La politica, allora, come trasformazione dell’inaccettabile, deve partire dalla ricostruzione della possibilità di fare esperienza. “Esperienza” implica in primo luogo relazione con l’altro da sé. Alla base dell’esperienza c’è la percezione che l’intrinseca relazione con l’altro costruisce il “sé”, nel gioco continuo fra “io” e “sé”, costitutivo di ciò che Hannah Arendt chiamava “l’insorgenza” dell’unicità soggettiva “poiché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico a nessun altro che visse, vive o vivrà”: “la pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri unici” (Vita Activa, Bompiani 2001, pp. 8 e 128). Questa relazione è alla base di ciò che chiamiamo “politica”. Ma, contrariamente a quel che sosteneva Hannah Arendt, io ritengo che non ci sia differenza fra una dimensione “privata” e la dimensione collettiva o “politica”. Questa differenza è il frutto avvelenato delle società “occidentali”.

Oggi questi migranti, che sono anche profughi – in fuga, cioè, da situazioni invivibili – sono quindi il nostro “sé” storicamente attuale. L’impegno quotidiano con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della stazione di Trieste offre, quindi, questa possibilità, storicamente determinata, di fare esperienza, cioè di fare politica. Si tratta dell’impegno con “corpi di dolore”, corpi con la loro storia singolare, portatori, insieme, di un messaggio universale: il dolore inciso nei loro piedi gonfi, nelle membra provate, anche dalle violenze poliziesche, nella fame e nelle vesti stracciate, è il dolore della “catastrofe” geostorica in atto, di cui sono gli annunciatori. È una catastrofe nota, ma nell’indifferenza diffusa, sottile, patetica, secondo la paradossale coazione costituiva del sistema di informazione: che usa l’informazione proprio per nascondere meglio. Qui agisce appunto la produzione dell’incapacità di fare esperienza.

Fare esperienza vuol dire, quindi, instaurare il rapporto fra unicità e universalità. L’universalità storica è data dal rapporto interattivo fra singoli unici, ciascuno dei quali riceve se stesso dagli altri. L’universalità è il rapporto fra i singoli nella misura in cui ogni singolarità è complementare di ogni altra. Ogni migrante è, in un corpo unico, la sua storia singolare, ma intrinseca a ogni altra. Il rapporto quotidiano con i migranti è dunque l’apprendistato di un nuovo modo di fare esperienza che parte dall’incontro con un corpo sofferente e offeso, espressivo della condizione storica in cui siamo, che ci prospetta un futuro che l’immaginazione esperienziale può ben definire apocalittico. Oggi deve essere assolutamente chiaro che per fare politica senza naufragare nella nebbia bisogna cominciare da un punto concreto d’esperienza: l’esperienza, se è veramente tale, è insieme concreta, singolare – si deve toccare con mano come il corpo – e universale. Solo se è concreta, corporea, è universale. Nel nostro caso una piazza, in una città sul confine balcanico, affollata di corpi migranti.

La composizione politica dell’universale comincia da un luogo.
Ma deve diramarsi in rete, rampollando dal basso come una sorgente. Questo significa fare politica nel tempo del totalitarismo morbido e della catastrofe terrestre
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Quanto precede è uno scritto – elettronico. La scrittura è un mezzo fondamentale con cui gestiamo il rapporto con il tempo: “La scrittura aveva dato all’ispirazione poetica e al pensiero astratto un nuovo contratto con il tempo” (George Steiner, Le Antigoni, Garzanti 1990, p. 154).
La scrittura elettronica rompe l’antico contratto. È il paradosso del mio scrivere: difficile agire politicamente questa contraddizione.

Fonte: comune-info