Clandestino nel Mediterraneo 2/2

Ogni anno centinaia di persone annegano nel Mediterraneo mentre attraversano su imbarcazioni di fortuna lo stretto di Gibilterra o l’Adriatico nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Fawzi Mellah ha deciso di seguire le peripezie di un gruppo di immigrati clandestini e di partire da un porto nei pressi di Tunisi alla volta di Pantelleria. Di questo viaggio, che attraverserà la Sicilia, Roma e Domodossola per arrivare fino in Svizzera, il giornalista e scrittore tunisino ci racconta le paure e le speranze dei dannati del mare, pronti a tutto pur di assicurarsi un futuro. Dalla traversata sul mare in tempesta all’attraversamento illegale di diverse frontiere, dalla brutalità dei doganieri alla cupidigia dei passeur, Mellah ci trasporta in un viaggio ai limiti dell’orrore. Eppure, nonostante tutto, dalla sua penna non traspira alcun pathos: egli ci offre un resoconto freddo e implacabile su uno dei drammi umani che affliggono la nostra era e derivano dai nuovi soprassalti della Storia e dal nuovo ordine economico mondiale.

Indice: 1. La folle pazienza dei cercatori d’oro,  2. Se non avete paura del mare,  3. L’Occidente comincia da Messina,  4. Scassinando la Svizzera…,  5. Trasudare la razza…

Nel lontano 2001 abbiamo pubblicato il racconto di Mellah. In questi ventun anni migliaia di persone sono morte in mare e altre migliaia lo hanno attraversato.

Domenica 19 Giugno abbiamo pubblicato le prime tre parti. Oggi gli altri due. Una buona lettura.

 

Se desiderate avere una copia stampata del racconto di Mellah cliccate sul link

https://www.asterios.it/catalogo/clandestino-nel-mediterraneo

 

Scusate se non siamo

morti in mare.

Non siamo venuti

per restarci.

Le mura che avete

costruito intorno a voi

altri, prima di noi

hanno demolito.

AD, 2016.

4. Scassinando la Svizzera…

Seguire la filière: la parola francese che indica la trafila del passaggio clandestino delle frontiere sembra terribile; da lontano, sembra ideale per un film giallo. Quando la si vive, tuttavia, la prospettiva cambia totalmente di genere e di colore.
Per un clandestino, difatti, la trafila non evoca né la bruma dei banditi, né l’oscurità dei delitti; designa, al contrario, un promettente inizio.
Cercherò di descrivere più avanti il sentimento ambivalente e il rapporto sempre meno distante che finiscono per stabilirsi tra il clandestino e il suo passeur. Adesso, per poter tratteggiare il mio stato d’animo mentre ero a Roma, mi limiterò a dare queste tre definizioni del termine filière, così come le propone il vocabolario francese Robert:
1) Cavo teso sul ponte, da davanti a dietro, al quale, in caso di cattivo tempo, l’equipaggio di un vascello aggancia il proprio imbrago di sicurezza.
2) Sequenza di situazioni da attraversare, di gradi da superare, di formalità da sbrigare prima di arrivare a un risultato.
3) Successione di intermediari, di tappe attraverso le quali passa un traffico.
L’ultima delle tre definizioni è quella che certamente più si avvicina alla realtà e alla quale di solito fanno riferimento i giornalisti, i politici e i doganieri. Le prime due, nondimeno, corrispondono meglio allo stato d’animo e ai bisogni del clandestino. Tant’è vero che, per chiunque percorra l’Europa senza visto, senza sostegno e senza risorse, il passeur rappresenta un vero e proprio cavo (e una gomena) cui aggrapparsi in caso di cattivo tempo.

In breve, laddove la televisione e i benpensanti credono di ravvisare nel passeur un trafficante senza scrupoli, il clandestino non vi vede che una formalità… sgradevole… può essere… ma necessaria… Come del resto lo sono tutte le formalità…
La mia formalità, io dovetti sbrigarla a Domodossola. Era là che l’amico di Jeff aveva scovato per me un passeur disposto a farmi attraversare le Alpi in direzione della Svizzera.

Alla partenza, vagliando le offerte che mi aveva fatto, mi riproposi di evitare le Alpi e di passare direttamente in Francia per la Costa Azzurra. Quel varco però, mi informò l’amico, era finito nelle grinfie degli europei dell’Est e, per di più, era diventato molto costoso, perché i controlli vi si erano fatti sempre più frequenti e rischiosi. La saggezza (posto che sia lecito parlare di saggezza in questo genere di cose), di conseguenza, consigliava di scegliere un altro itinerario perché, in quella situazione, era meglio essere prudenti ed evitare di immischiare serbi o rumeni nei nostri affari. Non potevo che arrendermi a siffatta argomentazione.
Prima di mettermi in marcia per affrontare il freddo delle Alpi e gli sguardi degli svizzeri, offrii da mangiare agli amici in una modesta trattoria a Campo di Fiori. Oltre alla mia piccola banda, avevo come ospiti la fidanzata napoletana della nostra guida, una giovane somala conosciuta alla parrocchia, un marocchino incontrato alla pensione e un libanese che sembrava se la cavasse abbastanza bene: s’era specializzato e arricchito nel traffico di vetture d’occasione verso i paesi dell’Est…
Sia ben chiaro, nessuno di noi aveva le carte in regola! Si stava tutti su un’ipotetica lista d’attesa… Ma, di fatto, nessuno sapeva esattamente per quale destinazione… A ogni modo, confortati dai buoni piatti e dai vini italiani, in quel ristorante facemmo buon viso a cattiva sorte, accalorandoci in un mare di progetti che neanche l’intera nostra vita sarebbe stata sufficiente a contenere.
Il libanese ci confidò che gli mancavano autisti. Cercava degli uomini che sapessero guidare per fare arrivare le automobili fino in Ungheria, Romania, Polonia…
“Gli europei dell’Est non vogliono più lavorare!” ci spiegò con quel tono arrogante che spesso hanno gli arrivisti consapevoli d’essere arrivati. “Figuratevi che, da settimane, cerco di ingaggiare degli autisti, ma non ne trovo! Mentre a Roma i disoccupati sono sempre in giro! Ah! Credetemi, qui i sussidi ai disoccupati rappresentano un vero premio alla disoccupazione…”.
Continuò a lamentarsi ancora di una tonnellata di cose e poi, di slancio, si offrì di ingaggiare seduta stante chiunque gli mostrasse una patente valida e dei documenti “più o meno in regola”. Nessuno azzardò a candidarsi, ma giurammo tutti che avremmo sparso la voce di quest’offerta di impiego…

Jeff non sapeva ancora né quando né come avrebbe potuto continuare la sua avventura verso la Francia. Avrebbe iniziato il suo lavoro presso la pizzeria, quindi, appena restituito il denaro che doveva e messo da parte il resto, avrebbe preso una decisione…
Il marocchino non sembrava avere alcun progetto. Per quel che serviva! Dopo sei mesi di soggiorno a Roma, non aveva intravisto alcuna prospettiva percorribile. Vivacchiava da una parrocchia all’altra, passando dal fascino avvizzito di qualche donna olandese alle promesse di fidanzamento di una non meglio identificata siciliana. Sembrava confuso e fragile. Più svanito che canaglia. In ogni caso, pareva essere in procinto di una scivolata o, nel migliore dei casi, sull’infida vetta di un matrimonio bianco…
La somala si stava dibattendo in un dilemma diverso, ma più arduo. Lavorava al nero presso una lavanderia ed era stata spesso violentata dal padrone. Questi, non soddisfatto di umiliarla, si rifiutava anche di pagarle il salario. La ragazza sarebbe stata anche disposta a perdonare la violenza e a incassare l’umiliazione, in cambio del denaro necessario per adempiere alle formalità che le avrebbero permesso poi di diventare regolare… Vittima nel mirino della legge, a fronte di un colpevole protetto dalle carenze della legge stessa, la malcapitata si sentiva attanagliata dal suo stato di illegalità: non poteva denunciare, né perseguire, e neppure lasciare il suo padrone… Per andare dove? Per fare cosa?
Neanche la nostra guida, ormai, sfuggiva più all’incertezza generale! Era venuto a sapere, infatti, che l’italico Cariddi l’aveva brutalmente rigettato verso lo Scilla algerino. Si trovava praticamente in bilico: senza matrimonio niente regolarizzazione, senza regolarizzazione niente permesso di ritornare al suo paese se non con un biglietto di sola andata… Ordunque, poiché gli mancava un documento ufficiale per poter legalizzare il fidanzamento (era indispensabile un certificato di celibato per poter celebrare il matrimonio davanti al sindaco), doveva trovare il modo di ottenere quel documento senza doversi recare di persona in Algeria… Insomma, vale a dire che si trattava di un labirinto… del quale soltanto i burocrati possiedono la chiave…
Fatta salva la fidanzata della nostra guida, insomma, la nostra tavolata poteva dirsi un concentrato di tentativi. Una serie di spallate contro il destino. Non era possibile pianificare alcunché, nemmeno azzardare cosa la vita ci avrebbe potuto riservare da una settimana all’altra. Una lotteria, insomma! Terribile metamorfosi del profilo psicologico degli immigrati! A differenza di coloro che erano espatriati molto tempo addietro, quelli di oggi non si possono permettere di stabilire né una durata, né un itinerario per il loro viaggio; sono obbligati a navigare a vista, anche se vedono ben poco lontano….

Avevo in tasca i due documenti che avrebbero potuto aprirmi i cancelli della Svizzera: il biglietto del treno Roma-Domodossola e l’indirizzo di un nuovo passeur. Al mio posto, qualsiasi altro si sarebbe accontentato e avrebbe benedetto il cielo di avergli messo sul cammino una simile catena di solidarietà. Devo ammettere, però, che da parte mia non mi sentivo né fiero né felice di lasciare il mio piccolo gruppo! Tutt’altro, nell’aspettare la partenza sentivo il cuore pesante perché, senza rendermene conto appieno, anticipavo quella solitudine e quel silenzio che mi stavano attendendo! Non era solo un vago presentimento o un moto dell’anima! Proprio no! Lo smarrimento era reale! Dopo tutto, finora ero stato inserito in un gruppo; il calore dei compagni aveva sempre schiuso la morsa del dubbio… Immediata­mente dopo, su quel treno dall’andatura che mi faceva sobbalzare diretto a Milano, non avevo più accanto a me né complicità, né confronto, né condivisione…
In più, come se anche il tempo si fosse messo a tingere di tristezza i miei mille pensieri, a Domodossola un cielo e un paesaggio invariabilmente grigi mi annunciarono le Alpi, la Svizzera, con in più una stretta di freddo e il ricordo immediato dell’angoscia provata al primo incontro con un passeur.
Trovai subito l’indirizzo di questo nuovo passeur, ma non potei incontrarlo immediatamente. Una signora mi chiese di ritornare verso la fine del pomeriggio e così mi piazzai al buffet della stazione leggendo i giornali nell’attesa del momento cruciale.
Quella pausa involontaria fu salutare! Mi aveva permesso di riallacciare un po’ i contatti con la galassia degli esseri umani. Va ricordato che per giorni interi il mio rapporto con gli accadimenti del mondo circostante si era limitato a sporadiche e vaghe notizie. Fino a quel momento non mi ero curato che dei turbamenti e delle riflessioni proprie dei clandestini (diffidenze e misteri, paura della polizia, diatribe con gli affittacamere…). A questo punto, lontano com’ero dalle comuni preoccupazioni di un cittadino comune, il fatto di rimettermi a leggere i giornali mi sembrò costituire l’inizio della mia riconciliazione con le cose della vita, quasi un visto con destinazione terra… Mi resi conto, una volta di più, di quanto il mondo dei sans-papiers fosse, per forza di cose, ristretto e autoreferenziale. Non voglio dire che un clandestino si disinteressi di come vada il mondo – tutt’altro! – ma le sue giornate e la sua sopravvivenza gli impongono un ritmo che gli permette a malapena di dare una scorsa alle prime pagine dei giornali in funzione delle proprie preoccupazioni. Insomma, quel poco di energia che gli resta della sua vita convulsa, lo dedica ai problemi urgenti… Ossia alla semplice riproduzione della sua angoscia… Leggere un giornale, apprendere notizie dell’altra parte del pianeta, informarsi delle vicende degli altri, significa inserirsi nel mondo dei vivi. Quanto basta a dare un senso di appartenenza. Ma quando non si appartiene che a dei gruppi effimeri e instabili? Quando si è pervasi dalla desolante impressione che il mare si sia richiuso alle nostre spalle senza che davanti appaia la terraferma?
Come d’accordo, incontrai il mio nuovo passeur a casa sua all’ora di cena. Nonostante la vicinanza delle Alpi con la loro aria rarefatta, l’appartamento sapeva di chiuso. L’ammasso di mobili e soprammobili dava più l’impressione di un bivacco che di una casa abitata. Inoltre, quasi a volermi incitare ad andarmene al più presto, si incrociavano senza soluzione di continuità conversazioni e grida, porte sbattute e brontolii, squilli di telefono e strepiti della televisione. Non c’era un attimo di tranquillità. L’atmosfera di quell’ambiente contrastava alquanto con la serenità e la pace che si collegano comunemente alla vicinanza della Svizzera.
Di per sé, quell’uomo sembrava altrettanto irrequieto. Nello spazio di due bicchieri di birra, fra scoppi di risa e gracchianti strepitii di un portatile, non la finiva di andare avanti e indietro, di squadrarmi dall’alto in basso e di pormi domande al limite della maleducazione: se ero sposato, dove avevo conosciuto l’amico di Roma, qual era il mio lavoro, se ero musulmano praticante, perché la Svizzera… e tante altre domande da farlo sembrare più un poliziotto che un passeur…

Nonostante il disagio, decisi di parlargli chiaramente. Pagai caro il mio slancio di onestà: il signore non gradiva affatto né i giornalisti né le inchieste. Dovetti attingere a tutto il fiato che avevo in corpo per dargli delle solide garanzie sulla mia discrezione e… per fare in modo di non pagare uno sproposito… Superai l’esame ma dovetti tuttavia sborsare una cifra superiore rispetto a un qualsiasi clandestino. Dopo un’accesa trattativa in cui dovetti specificargli i minimi dettagli del mio viaggio, suggellammo il nostro accordo (600 mila lire) e ci demmo appuntamento per l’indomani alle 22 spaccate all’uscita di Varzo. Mi spiegò come raggiungere il paese, mi avvertì che non sarei stato il solo della partita e promise che mi avrebbe chiamato in albergo nel caso l’affare non fosse andato in porto.
Né il nome né l’accento di questo nuovo passeur mi davano l’idea di essere italiani. Poteva essere sia svizzero che austriaco. Poiché non vedeva di buon occhio le domande, non gliene feci. A che mi sarebbe servito? Forse che Caronte, nella mitologia greca, aveva un’origine e un volto? Era un dio o un uomo, un angelo o un demonio? Troppo preoccupati sull’inferno e il paradiso, i defunti che egli trasportava sulla sua barca si ponevano forse questo tipo di domande? Un altro paradosso: mentre i clandestini non fanno che cozzare contro i drammatici problemi della loro origine, del visto, del passaporto, dentro di sé non badano molto a questo tipo di considerazioni. È come se l’essere nell’illegalità cancellasse tutte le idee di nazionalità e appioppasse una sola origine: il peregrinare…

Prima ho voluto tratteggiare quanto un passeur possa rappresentare per un clandestino. Ho cercato di raffigurare l’ambiguità e la preoccupazione che sono legate alle immagini della trafila e del passeur. Pensando di cavarmela senza troppa fatica, sono persino ricorso al vocabolario e alle sue definizioni. Puro esercizio di retorica! Nessun vocabolario potrà mai render conto dei pensieri e delle immagini che mi avrebbero tenuto sveglio per tutta una notte, quella che trascorsi a Domodossola. Credo altrettanto di poter garantire che mai nessuno al mondo mi aveva messo tanto in ansia e aveva occupato i miei neuroni quanto questo nuovo passeur. Non lo avevo trovato affatto simpatico. La sua avidità e le sue domande mi avevano nauseato.
Questa antipatia, però, non bastava da sola a giustificare le preoccupazioni e i timori che continuavano ad assillarmi. Per quanto cercassi di ripetermi che, dopo tutto, una volta imbarcato in quest’avventura non potevo certo pensare che avrei incontrato degli ingenui, non riuscii a prender sonno. Non pensavo che al viaggio del giorno successivo. Mi ero talmente fissato sui miei cattivi presentimenti che giunsi persino a temere quel secondo incontro e ad augurarmi di ricevere una chiamata che annullasse tutto l’affare.
Ero stanco e non ne potevo più? Senza dubbio. Ma c’era dell’altro.
Senza finire per far della psicologia spicciola da sala d’attesa, si può dire, tuttavia, che negli incontri fra clandestino e passeur compaiono ben altri elementi, oltre al semplice calcolo. Prima di tutto, l’andare di pari passo delle angosce dei due non manca di lasciare il segno. Oh, certo! Il passeur vuole denaro e il clandestino vuole arrivare a destinazione. In questo passaggio gli interessi si intersecano. Ma è solo uno degli aspetti del loro rapporto. Addirittura il meno interessante, forse. Il tocco in più è quella certa complicità dell’essere fuori legge. È quella, che si voglia o no, a creare fra i due una specie di intimità. Un’intimità rozza e (talvolta) brutale, indefinibile con un nome o una definizione precisi, ma comunque tanto stretta da dare ai due, a quelle due comparse, la sensazione di essere per un attimo alleati contro il mondo intero. Si tratta di un sentire reale, non del frutto dell’immaginazione. Dopo tutto, i due sono, nel senso stretto della frase, uniti nel bene e nel male. Una coppia quei due là? Insomma, conosco poche coppie che si possano fregiare di una simile complice intimità! Si tratta di quella strana commistione di fiducia e diffidenza che si instaura subito fra i due compari. Il clandestino sa che deve abbandonarsi per un bel po’ nelle mani di quello sconosciuto, ma, così facendo, sa anche che dovrà stare continuamente in guardia e sorvegliare da vicino anche il più piccolo gesto della sua guida. Questa, a sua volta, non la finirà mai di sospettare mille e una astuzie da parte del suo cliente (perché compie questo viaggio? E se si tratta di una spia? Ha addosso della droga? Cosa trasporta veramente nella sua sacca? È armato? Creerà problemi per camminare o nuotare? E così via). Non essendo pratico di rapporti umani stretti in così breve tempo salvo per le mie vicissitudini del momento, paragonerei volentieri il rapporto tra clandestino e passeur a quello esistente in una cordata di alpinisti mai prima legati insieme. Si possono immaginare la tensione e le problematiche proprie a una simile scalata! Darebbe adito a quella inestricabile catena di odio e di attaccamento che finisce sempre per legare gli esseri umani gli uni agli altri. Il tempo di una tappa e si ama l’altro perché si dipende da lui, e nel contempo, per questo fatto stesso, lo si comincia a odiare. Ecco allora come non ci sia solo il denaro fra il passeur e il clandestino. Nel giro di alcune ore, quei due vivono tutta la gamma di emozioni che, dovunque, legano e sciolgono le coppie.
In fondo, più che l’apprensione per la stessa traversata, erano questi pensieri e queste emozioni che mi avevano impedito di prender sonno in quella notte di fine inverno a Domodossola…

La mattina mi aveva restituito il sonno confiscato dalla notte. Dormii perciò fino a mezzogiorno e resi le chiavi in ritardo all’addetta alla portineria che non si fece scrupolo di imprecare e ostentare la sua collera. Nello stesso ristorante feci colazione e pranzo insieme. Andai a fare il giro di quella tranquilla città. Comperai del pane, del formaggio, delle olive, dell’acqua minerale e sigarette. Indossai calzettoni grossi e una spessa giacca a vento. Presi infine il treno per Varzo… senza sapere che quel paese non distava che due passi dal mio punto di partenza… Arrivai perciò troppo presto al luogo dell’incontro, un borgo di appena qualche centinaio d’anime!
Era ancora giorno. Dovevo pazientare fino alle 22. E senza attirare l’attenzione. La mia fretta di partire da Domodossola, insomma, era stata sciocca e inutile!
Che fare nel frattempo per aspettare senza dar l’aria di farlo? Come fare a darsi un qualsiasi contegno in un borgo che un qualsiasi normale viaggiatore avrebbe semplicemente oltrepassato? Aver pazienza? Passi! Ma che contegno darsi? Provateci voi, a Varzo! Non c’era niente da vedere. Né una chiesa da ammirare, né una latteria da visitare. Non un supermercato in cui curiosare, né qualche casa caratteristica da andare a vedere. Un vero villaggio alpino fatto per i suoi abitanti e non per i turisti. Una borgata da attraversare in punta di piedi per timore di svegliarne gli abitanti.
Che fare?
Non potevo mica piazzarmi sulla banchina della stazione e fingere di aspettare il treno! E se arrivava? Non potevo nemmeno cacciarmi nel bar del paese e passare tre ore a sorseggiare una bevanda! O dovevo appoggiarmi allo steccato di un prato e far finta di star là a osservare le vacche che brucavano! Sì! Feci tutto questo! Nell’ordine e no. Mi restavano due ore! Ancora due ore da passare in qualche modo!
Rifeci la strada, stavolta a piedi, per… Domodossola…
Il problema, ovviamente, non era quello di ritornare sul luogo, ma di far trascorrere il tempo restante.
La passeggiata riempì un’ora per l’andata e un’ora per il ritorno.
Era notte già da parecchio. Vennero le 22. Varzo e i suoi dintorni s’erano assopiti davanti alle loro televisioni o ai caminetti. Non c’era anima viva se si eccettua qualche automobile che scendeva dal passo del Sempione verso l’Italia o che saliva da Domodossola verso la Svizzera. Mi andava bene così. Partii dal villaggio seguendo la strada che si inerpicava verso il massiccio grigio che sbarrava il passaggio.
Proveniente dal basso, un’auto fece dei segnali con i fari, poi frenò dolcemente e si fermò alla mia altezza. Si trattava di una jeep. A bordo c’erano quattro passeggeri: il passeur e un altro seduti davanti, una coppia dietro. Mormorarono qualcosa che interpretai come un saluto. Mi fecero spazio dietro, vicino alla coppia. Ripartimmo prendendo la strada indicata più in basso dal cartello: Iselle-Traforo del Sempione.
La strada era deserta. Era buio pesto. Non potei osservare i miei nuovi compagni. Credo, a dire il vero, di non essere mai riuscito a vederli sul serio. A ogni modo, mi sarebbe difficile riconoscerli anche se per caso li dovessi incontrare di nuovo. Da un lato, nell’oscurità della vettura, riuscivo a distinguere a mala pena gli indistinti profili dei miei vicini più prossimi e la piccola nuca del terzo passeggero. E in seguito, quando arrivò il momento di mettersi in cammino, o se ne stavano davanti e ben lontani da me, oppure dietro. Provatevi a fissare qualcuno in analoghe condizioni! Parlare, allora! Per l’amor del cielo! Magari poter scambiare almeno qualche parola! Sotto altri cieli, sì; ma là, e in quella circostanza, non accadde. L’esperanto degli illegali (tre brontolii e due esclamazioni) non dà modo di conversare.
Le sole cose che potrei dire allora di questi compagni di congelamento sono che dovevano essere abbastanza giovani (30-35 anni?) e sicuramente di tipo europeo (albanesi, bosniaci, russi?). Diamine! È possibile dunque affidarsi allo stesso sconosciuto e camminare fianco a fianco attraverso sentieri a strapiombo e boschetti, verso le stesse promesse e le stesse disillusioni senza sentire il bisogno di conoscersi almeno un po’ né di guardarsi in faccia! Era un cambiamento troppo brusco rispetto alla mia piccola tribù mediterranea. D’un tratto, mi colse un profondo malessere. Cielo! In più, oltre all’oscurità della montagna dovevo anche sopportare il silenzio degli uomini? Fui tentato da un sentimento di rancore verso i nuovi compagni. La marcia, tuttavia, non mi diede il tempo di meditarci. Me ne lasciò solo quanto bastava a che io considerassi in modo completamente diverso il silenzio. Non è sempre vero che voglia dire indifferenza. Può anche significare soltanto un grande e irrimediabile senso di solitudine. Quella stessa solitudine che permea l’insopportabile pesantezza di alcuni personaggi di Kafka, Kundera, Musil o Bergmann. Cosa potevo dunque rimproverare a quegli uomini? Era colpa loro se i miei punti di riferimento erano Fellini, Mahfouz, Habibi o D’Ormesson?
Stranamente, anche lo stesso passeur sembrava aver perso la sua verve. Mentre il giorno prima aveva chiacchierato di tutto e di niente, ora osservava il silenzio, quasi fosse pervaso dall’atmosfera tagliente e austera imposta dagli altri suoi clienti. Fu proprio nel silenzio più totale che ci fece segno di scendere dalla vettura e di seguirlo. Lasciammo il mezzo a qualche passo dalla stazione di Iselle (proprio là dove i treni imbarcano camion e automobili per attraversare il traforo del Sempione). Alcuni addetti della ferrovia (svizzeri? Italiani?) ci guardarono con insistenza per poi riprendere la loro conversazione. Camminammo per qualche centinaio di metri a fianco dei binari, poi, quando la stazione e il suo parcheggio furono decisamente dietro di noi, attraversammo la strada asfaltata per andare a imboccare un sentiero sulla sinistra, che correva fra prati e pascoli.
All’inizio bisognava salire. La cosa mi inquietava perché, credendo di orientarmi un po’ nel paesaggio, ero convinto che la Svizzera stesse in basso. Perché allora la nostra guida ci faceva affrontare una salita? Di nuovo la paura. Di nuovo la diffidenza. Riprovai il medesimo terrore che ebbi sul battello. Ne ero assalito: laggiù, mi ero trovato con degli uomini di cui non solo conoscevo la lingua e le abitudini, ma riconoscevo anche gli sguardi e i limiti; qui non c’era niente che mi fosse familiare o che mi fosse almeno spiegato.
In più, il paesaggio: la notte ci aveva subito accerchiati. Senza riguardo per lo spavento che incuteva, ci inoltrammo. Molto presto il passeur fu ben avanti a noi; vedevamo di lui soltanto la giacca a vento di colore vivace. L’altro lo seguiva; il tenue bagliore delle sue sigarette accese di continuo fungeva quasi da lanterna. Della coppia, lui stava a volte davanti, a volte dietro. Quando mi sorpassò, l’uomo mormorò qualcosa cui mi affrettai a rispondere per gettare l’esca. Niente! Quella notte non c’era verso di far uscire le parole.
Silenzio e paura.
Mi stavo preparando a interpellare il passeur, quando iniziò la discesa.
Mi tranquillizzai.
Ormai, pensavo, le cose sarebbero state più semplici. Bastava scendere.
Allargandosi e stringendosi di continuo, il sentiero serpeggiava, immerso nel bosco o sfiorando dirupi, per poi perdersi fra i campi. Seguendo la sua traccia incrociammo la strada asfaltata, la lasciammo alla nostra sinistra, e poi la riattraversammo per vederla proseguire in lontananza. Lo stridio di un uccello, lo stormire delle fronde, il rumore di un torrente ci sorprendevano per poi svanire. Ogni tanto, spuntando come fuochi fatui, i fari di un’auto o le tremule luci di uno chalet ci segnalavano una vaga presenza umana. Le sole tracce di vita che ci offriva la notte. Prender fiato era la cosa più importante. Noi camminavamo e basta. Quasi senza renderci conto di seguire qualcosa: e quel qualcosa era la giacca a vento giallo-arancio del passeur. Non ci guardavamo nemmeno attorno, perché al di fuori dell’erba di cui distinguevamo appena i ciuffi, delle pozzanghere, dei monticelli di neve e delle nere falde della montagna, non c’era niente da guardare.
Verdi frontiere, le chiamano i giornalisti e i doganieri. Ma sono davvero verdi, queste frontiere?
Suvvia!
Seppure il verde sia sempre per i musulmani un colore di speranza, bisogna ammettere che questo colore non si addice proprio all’avventura dei clandestini. Al giornalista di scarsa fantasia che ha scelto questo colore, il primo clandestino che capita potrebbe tranquillamente ribattere di averne viste di tutti i colori nel suo percorso (il blu cupo del mare, i sentieri grigi delle montagne, le tinte indescrivibili di miserabili pensioni…), ma assai di rado il verde.
A ogni modo, in quella notte senza stelle, incollati a un sentiero scuro e avvolti nelle montagne, non vedemmo né colori né frontiere.
Eccezion fatta per i doganieri o per qualche abitante del luogo, chi mai era in grado di stabilire dove fossero queste famose linee di confine?
L’Italia stava dietro, in alto; la Svizzera davanti, in basso! Senza dubbio rudimentali, queste indicazioni soddisfacevano ampiamente il nostro bisogno.
Quanto al reale tracciato delle frontiere – queste linee tanto invisibili sul terreno quanto precise sulle carte geografiche – era un argomento che, in quella notte, non ci preoccupava molto. Era tutto buio e bisognava camminare senza perdere un attimo di vista il passeur. Faceva tanto freddo che si doveva andare avanti senza sprecare energia. Allora, le frontiere! A parte il rispetto che si deve ai diplomatici e ai loro cartografi, confesso che a noi – i marciatori notturni – quelle linee di frontiera avrebbero potuto interessare soltanto quando le avessimo superate senza controlli.
Giunti quasi a metà strada, ci concedemmo uno spuntino. Avevamo camminato per due ore e respiravamo tutti a fatica. Quella fermata non era affatto superflua. Arrivare alla meta? Sì! Ma almeno in uno stato decente! Chi poteva dire cosa ci attendeva laggiù? Ciascuno tirò fuori le sue vettovaglie e si dedicò a masticare rimanendo vigile e silenzioso. Non ci si guardava, ma l’oscurità e la discrezione proteggevano comunque ogni gesto. Si indovinava soltanto quello che uno era in procinto di fare. Ed era la stessa cosa che anch’io, come gli altri, mi preparavo a fare: spezzare il pane, masticare il formaggio, bere una bevanda, fumare una sigaretta, guardarsi attorno, pregare per il domani. Un picnic di fantasmi su una frontiera astratta.
Non eravamo molto distanti dalla strada; trecento metri? Sentivamo distintamente il rumore del traffico. D’un tratto, dei forti colpi di clacson interruppero quel nostro attimo di sosta. Cominciammo ad agitarci e a raccogliere le nostre cose. La guida si allontanò. Noi ne osservammo i movimenti…
No! Un controllo della dogana o un’incursione della polizia sarebbero stati senz’altro più circospetti ed efficaci. Non ci avrebbero dato il tempo di ritornare sui nostri passi…
Finalmente la vettura si allontanò e, sulla sua scia, anche lo stridore del clacson. Dopo qualche minuto il passeur ritornò, l’espressione del volto distesa, e ci raccontò, in una lingua incomprensibile fra l’italiano, l’inglese e il tedesco, che si era trattato di una combriccola di giovani svizzeri, decisamente ubriachi, diretti a casa dopo aver trascorso il sabato sera in Italia.
Continuammo la nostra sosta. Ci scambiammo molte sigarette. La donna, che voleva riposarsi un po’ e magari dormire, s’era accoccolata a terra. Credo che il suo uomo l’avesse rimproverata, perché si alzò con aria stanca, borbottando qualcosa come volesse litigare. La nostra guida canticchiava sbadigliando. L’altro fece quattro passi. Io offrii del cioccolato. Mi diedero un bicchiere di vino. Diamine! Era sabato (o piuttosto domenica, data l’ora); me l’ero scordato!
Del freddo, invece, non ci eravamo scordati per niente.
Portavamo degli abiti decisamente inadeguati (una giacca a vento primaverile quando sarebbe stato necessario un vero cappotto!), la donna tremava e cercava di scaldarsi le mani col fiato; il suo compagno la stringeva fra le braccia strofinandole la schiena; l’altro saltellava sul posto e trangugiava del vino; il passeur camminava avanti e indietro fissando la strada che scendeva verso una valle che noi non potevamo ancora vedere…
Solo rimettendoci in cammino potevamo scaldarci.
Senza parlarci né scambiare alcun cenno, riprendemmo il sentiero. Ma ce n’era davvero ancora uno?
Si trattava piuttosto di una stradina non asfaltata che, senza sentirsene da meno, costeggiava l’altra, quella vera, quella che poteva accogliere automobili, camion, corriere e anche gente appiedata, ma tutti provvisti di documenti in regola e di vestiti caldi. Noi camminavamo decisi ai bordi di quella strada internazionale che congiungeva la Svizzera alla pianura lombarda! Ero comunque preoccupato. Il passeur si prendeva la grande responsabilità di accompagnare quattro clandestini quasi sotto il naso dei doganieri e, comunque, a portata d’occhio di un qualsiasi onesto automobilista? Che fare? Chiederglielo? Era ben davanti a noi! E, inoltre, avrei avuto il coraggio di farlo, magari per farmi semplicemente ridere in faccia e sentirmi dire con fare noncurante che avrei potuto scegliermi io la strada fra i mille sentieri che percorrono la vasta terra del buon Dio? No! Niente domande, né proteste! A quale scopo?
Seguire la guida… Camminare… Scendere…
Era lampante, non potevamo fare altro…
Dall’alto, cominciavamo a intravedere traccia delle luci che, come aureole, erano soffuse attorno a una città. Le montagne si erano distanziate quel tanto che bastava a farci vedere i campi che più e più si allargavano andando verso il basso e diventando più pianeggianti. Non c’eravamo ancora, ma la valle del Rodano si stava profilando ai nostri occhi. Ormai, la frontiera italiana non era che un ricordo… Eravamo dunque in Svizzera…
Che strano paese, la Svizzera!
Ecco, un paese di montagne al quale non si arriva se non per lo più in discesa(5). Dopo una curva, si presentò d’un tratto alla nostra vista una vallata; da là in poi, il nostro passeur non avrebbe fatto più il nostro cammino. Egli si fermò su un piccolo dosso, ci chiamò attorno a lui e con la mano ci indicò la valle che si apriva in fondo a quella strada. Era buio e non riuscivamo a vedere distintamente il paesaggio che ci attendeva, ma era chiaro che eravamo in Svizzera. Il compito della guida era dunque finito. Toccava a noi percorrere il resto del cammino. Va detto, me lo ricordo bene, che la strada internazionale scendeva verso Briga e la valle del Rodano. Era una delle arterie più frequentate di tutta la regione! Stavo scoppiando di collera. Ebbi qualche sussulto nella voce! Tremavo di rabbia! E allora, si abbandona così un clandestino palesemente davanti a un posto di frontiera! Sarebbe come lasciarlo davanti al Ministero dell’Interno! Avrei voluto sbottare ma non una parola uscì dalla mia gola. Protestare? Mettermi a gridare che quella glaciale e miserabile escursione di pochi chilometri non era valsa certo la spesa di seicentomila lire? Pretendere che il passeur continuasse il tragitto e ci conducesse fino in fondo? Sciocco e ridicolo! A quale scopo? Un passeur non è niente di più che un agente di viaggio! Non sta nemmeno scritto da nessuna parte che un passeur sia in dovere di condurvi fino al termine del vostro percorso. Il suo compito si limita a farvi attraversare una linea astratta e invisibile, anche se solo di pochi metri! Quanto al costo, ciascuno sa benissimo che viene determinato secondo la legge della domanda e dell’offerta. Se l’attraversamento di quei pochi chilometri di montagna (così avevo ormai cominciato a classificare quei dintorni) valeva così tanto, allora bisognava credere che la domanda era molto consistente, e l’offerta decisamente scarsa…
Il passeur, comunque, dava l’impressione di avere la coscienza tranquilla. Ci fece uno strano e indistinto discorso d’addio (tre parole in un italo-tedesco-inglese), ci indicò ancora la vallata là in basso, ci spiegò concitatamente che ormai doveva tornarsene in alto; con le dita delle mani ci fece quel segno che dappertutto nel mondo significa marciare, ci indicò la strada, riprese il sentiero e sparì nella notte e nella montagna.
I miei compagni erano rimasti perplessi quanto me. Ci osservammo furtivamente; accendemmo qualche sigaretta; poi, non ci restava altro che camminare, e riprendemmo la marcia. In fila indiana. Senza proferir parola. Restammo in gruppo per qualche centinaio di metri; dopo: ciò che deve accadere accade. Il solitario cominciò a distanziarci; la coppia affrettò il passo; mi trovai tutto solo e ben dietro agli altri…
Ciò che mi pesò più ancora dell’oscurità e di quel particolare spavento che essa può suscitare fu – stranamente e con mia gran rabbia! – l’immediata reazione nei confronti del passeur che dentro di me incominciai a rimproverare. Ma non si trattava di un rimbrotto di pura convenienza (un poco come strapazzare un qualsiasi autista o una guida). No. Il mio, stranamente, era un rimprovero di carattere affettivo! Insomma, quel passeur all’improvviso mi mancava. Si, lo confesso. Avevo considerato quell’uomo quasi repellente. Alla vigilia della partenza quell’individuo mi era sembrato stare agli antipodi di ciò che amavo e rispettavo. Ebbene sì, nell’oscurità di quella notte alpina ora mi mancava, improvvisamente, e mi mancavano anche la sua giacca a vento dal colore stridente, il suono ovattato dei suoi passi, il suo modo di strapazzarci quando, secondo lui, ci eravamo un po’ troppo sparpagliati.
Va’ a capire…
Tanto peggio per i sedentari cui piace credere che un sentimento non potrà mai essere che nero o bianco. Un’emozione può avere contemporaneamente tutti i colori dell’arcobaleno. Dopo tutto, separandosi dall’asino che tante gliene aveva combinate sulle Cevenne, Stevenson aveva le lacrime agli occhi. È vero, lasciando l’uomo che mi aveva condotto una notte attraverso le Alpi, potevo provare un po’ di tristezza senza dovermene vergognare.
Raggiunsi la strada internazionale. Non vi erano vetture. Non un segno di vita. Appena un brusio. L’asfalto risuonò un poco sotto i miei stivaletti e mi sembrò che quel piccolo rumore improvviso avesse preso una risonanza inusitata. Orribile! Come se metà vallata rischiasse di svegliarsi a causa del mio scalpiccio. Come se centinaia di occhi invisibili e malvagi si fossero messi a seguirmi e a contare i miei passi fino al primo posto di polizia. Mi scontrai di nuovo con il dilaniante problema di darsi un contegno. Per l’ennesima volta si ripresentò il problema di fare qualcosa senza dar l’idea di farla. In quel caso, dovevo camminare su una strada deserta alle quattro del mattino di una domenica, in uno sconosciuto angolo delle Alpi, facendo finta di… Ma di che cosa? Di che cosa, perbacco! Non avevo proprio l’aria di fare alcunché, né un contegno da poter assumere. Dovevo per forza marciare su una strada deserta alle quattro di mattina di domenica in uno sconosciuto angolo delle Alpi. Facile no? Forse! Ma la clandestinità si incrocia sempre con le complicazioni! Paura? Associazione di immagini? Storie al limite dell’assurdo che ci raccontiamo camminando da soli in un luogo poco familiare? Sempre la stessa cosa, per distrarmi e non ascoltare più il rumore delle mie calzature incominciai a pensare… Ad Annibale e ai suoi elefanti… Allo stesso modo in cui gli altri marciano intonando “quel mazzolin di fiori…”, io camminavo ripetendomi che era stato su quel colle là che Annibale il Cartaginese era venuto con i suoi elefanti a sfidare i Romani sul proprio territorio(6). Così, per schernirmi delle mie paure, non finivo di ripetermi che se tre secoli prima di Cristo un grande soldato era riuscito a scendere quella strada con una truppa di elefanti, cosa avrebbe potuto impedire ora, a un piccolo civile, di farlo da solo in pieno ventesimo secolo?
A dire il vero, quell’immagine, per quanto esemplare, non mi aveva né confortato né incoraggiato. Al contrario, al punto che, anche adesso, mi torna subito in mente, fu proprio là, su quella strada (e senza che nulla l’avesse preannunciato) che provai per la prima volta dall’inizio del viaggio quella sensazione orribile (piena, vuota, distinta, fosca) e impossibile a descriversi: la paura. Quella vera e non uno dei suoi succedanei ai quali – per pigrizia o per carenza lessicale – si attribuisce normalmente quello stesso nome.
Ho rievocato così, con questi pensieri, la fedele compagna del clandestino. Ho già detto che alcuni timori provati qui e là non si meritano il nome di paura e che sarebbe il caso di riservare questo vocabolo a un modo di sentire molto più confuso e tormentato che a un semplice turbamento fisico. Più precisamente, il malessere che mi aveva preso lungo quella strada in discesa verso il Rodano non aveva niente di fisico. Non era paragonabile a quello che avevo provato sul battello o in certe notti a Roma. Era più indefinito e più opprimente. Non si trattava di palpitazione cardiaca, né di gonfiore alle tempie, né di ronzio alla testa. Del resto non sapevo nemmeno dove si localizzava. Nel ventre? Al fondo dello stomaco? Al plesso solare? Nelle mani sudate? Nella pesantezza delle gambe? Non aveva un punto d’inizio ma era diffuso dappertutto. Non faceva capo ad alcunché, sembrava quasi essere un organo a sé stante che si autogenerava annientando tutti gli altri. Potevo almeno consolarmi raccontandomi che il silenzio, l’oscurità e la solitudine della montagna erano stati peggio? No. Di solito queste cose non mi disturbano affatto. Anzi, mi capita di cercarle e, una volta trovate, di immergermi in esse come se fossi davanti a una biblioteca. Insomma mi danno il massimo piacere. No. Non si trattava né del silenzio, né della solitudine, dell’oscurità. E ancora meno dei controlli doganali che avrebbero potuto cogliermi di sorpresa. Quella paura, ne sono convinto, si era radicata ben prima della montagna. Verso Palermo, o Roma. Insomma a metà dell’avventura, quando avevo visto i miei compagni agitarsi, come storditi, in quel confuso miscuglio di stanchezza, preoccupazioni, incertezze, e insonnia. Questa paura non era perciò solo mia. Era quella di un gruppo di cui condividevo la vita. I miei vecchi compagni me l’avevano trasmessa senza saperlo, allo stesso modo di una malattia contagiosa. Ora era resuscitata improvvisamente. Non aveva niente a che fare con la montagna. Veniva da molto più lontano. Ma come il virus dell’aids si era annidata in me, sotto una forma passiva e nascosta, molto prima di scatenare i suoi effetti. Questi esplosero nelle Alpi svizzere.
Furono così violenti e dannosi che ne subii i contraccolpi sino in Francia…

Nella discesa verso il Rodano vidi l’alba affacciarsi con i primi colori del giorno. Il blu era il colore predominante. Quasi che il chiarore nascente avesse affievolito il peso del reato che avevo commesso, quella luce mi aveva ridato le forze. Cominciai a camminare con un passo più sicuro e deciso. Attraversai due comuni vicini. Solo allora potei sentire il canto di un gallo o l’abbaiare di un cane; fino a poco prima, su quel fianco della montagna dominava ancora un prepotente silenzio che a malapena tollerava il canto di un uccello o il gorgoglio di un ruscelletto. In alcune case si stavano già accendendo le luci; dai camini di altre, ancora addormentate, provenivano grosse volute di fumo. Non avevo ancora visto un essere umano, ma ne percepivo i segnali. Non era poi tanto male. La vita si stava risvegliando.
Quando arrivai a fondovalle, dopo un’ora e mezza di marcia, la città di Briga stava emergendo dalla bruma mattutina che si stava ritirando. Alcuni treni fischiavano. Dei camion cominciavano a percorrere le strade. Lattai e panettieri cominciavano il loro giro. Alcuni ubriachi smaltivano la sbornia prima di ritornare alle loro case. Alcune spose recuperavano i loro mariti.
Era l’ora in cui apriva il buffet della stazione, vi entrai e presi posto. In tutta calma, i camerieri non sembravano aver fretta di riprendere servizio. Si affaccendavano pigramente nel bar; chi accendeva la macchina del caffè, chi riscaldava il pane, chi imburrava le tartine. Di fatto, mi ignoravano; insistetti; presero la mia ordinazione con una lentezza tipicamente domenicale. Dovetti ripetere che desideravo un caffè e non un caffè con il latte (là lo chiamano renversé). Un cameriere venne a chiedermi se desideravo del pane imburrato o dei normali croissant…
In breve, come mi disse un giorno un compagno di Zurigo: “Gli svizzeri si alzano di buonora, ma si svegliano tardi!”
In tutta sincerità, non me la sentivo di dar torto al personale del buffet della stazione di Briga…
Cercai di mettermi più comodo che potevo, sotto gli sguardi obliqui dei camerieri che iniziavano il loro turno e di quelli che avevano finito la notte. Ero ubriaco di stanchezza e di sonno e per contrastarlo bevvi una quantità assurda di caffè; mi diedi un contegno. Tutto ciò, comunque, non mi servì a espletare le altre cose di cui avevo bisogno: fare un minimo di toilette, cambiarmi d’abito, decidere dove andare, prendere il treno o addentrarmi un po’ di più nel territorio facendo l’autostop.
Prendere il treno mi avrebbe consentito di risparmiare un bel po’ di energia ma, nel contempo, avrebbe presentato qualche rischio. A Briga, che è una stazione di confine, i controlli doganali potevano protrarsi a lungo. Meglio quindi evitare questa via. D’altro canto, per uno straniero provvisto di una sacca da viaggio, mal rasato, dall’aspetto irsuto e pure sudato per la fatica, fare l’autostop la domenica mattina avrebbe potuto comportare altrettanti rischi e dar adito a sospetti. Il primo poliziotto capitato là avrebbe avuto il diritto di chiedersi che razza di turista io fossi.
Quale soluzione scegliere?
Gli sguardi scorbutici dei camerieri e gli accenni di sarcasmo che cominciai a percepire decisero per me: uscire subito da quel buffet e quindi mettersi a ragionare.
In quella specifica situazione, ragionare significava: incamminarsi.
Lasciai dunque la stazione e mi inserii con passo noncurante sulla strada cantonale in direzione di Sierre e Sion. Per quel tratto in cui costeggiava il Rodano, non riuscii a trattenermi dal pensare che quel fiume stava tranquillamente scorrendo verso il Mediterraneo…
Camminavo sollevando il pollice. Le automobili sfrecciavano. I loro conducenti fingevano di non vedermi. All’uscita di Viège, comunque, un giovane si fermò, mi chiese dove fossi diretto e propose di farmi scendere qualche chilometro più avanti.
Dov’è che stavo andando?
L’automobilista mi aveva posto quella domanda in modo ingenuo e cortese, ma mi aveva d’un tratto risvegliato. Dove stavo andando, veramente? Dovevo pur rispondergli qualcosa e dissi: “Ginevra”. Avrei potuto benissimo dirgli Francia, Losanna, Neuchatêl, Berna, il Giura… perché, in fondo, non avevo ancora stabilito quale sarebbe stata la mia destinazione. Avere una meta è un po’ come avere idea del proprio destino. Allora, in quella condizione di vagabondo, il mio destino non dipendeva affatto soltanto dalla mia volontà, ma dalla casualità degli incontri e dalla qualità delle informazioni che mi avrebbero dato i miei prossimi compagni su vantaggi e svantaggi dei paesi che avrei attraversato. Poiché avevo deciso di vivere fino in fondo l’indeterminatezza della vita clandestina, non mi sarei certo adagiato proprio adesso a stabilire un piano elaborato e a mio uso e consumo. Dovevo andare dove vanno tutti i clandestini; vale a dire dappertutto e da nessuna parte. Ginevra era al confine della Svizzera e, di conseguenza, su quello francese, perciò mi sembrava una meta ragionevole. Nel corso del tragitto, comunque, avrei sempre potuto deviare verso Neuchatêl, o fermarmi a Losanna. Ancora una volta, tutto era lasciato al caso, l’itinerario di un clandestino ha spesso tinte indecise.
Il giovane guidatore non era un chiacchierone.
Né lo fui io.
Ci separammo davanti alla stazione di Sierre, augurandoci la buona domenica.
Da Viège a Sierre non avevo certo risolto i miei problemi; mi ero soltanto spostato di qualche chilometro.
Che fare?
Treno o autostop?
Andare direttamente a Ginevra o far sosta durante il tragitto?

È proprio davanti a tali quesiti che un clandestino solitario si trova spesso senza risposta. Quando si è in gruppo, non solo si trova sempre il nome e l’indirizzo di un contatto, ma si ha anche modo di discutere, di pesare e ripesare le decisioni, di valutarle, modificarle, insomma, non si decide nel vero senso della parola, ma in definitiva si applica l’idea meno malvagia. Da soli, tutto diventa infinitamente più complicato. A meno di non avere disposto già prima le fila per un contatto, il clandestino isolato è tre volte perduto. Prima di tutto riguardo alla scelta geografica (Ginevra? Roma? Losanna? Parigi? Che importa quale si sceglie quando non si dispone né di un contatto né di informazioni precise?), subito dopo in merito alla legislazione (qualsiasi scelta faccia, il clandestino resta comunque senza un documento), e infine dal lato psicologico (non c’è decisione che possa dipendere dalla propria volontà o da una scelta personale). Quanto appena detto, lo so, può sembrare strano a chi sia abituato a pensare (per pura ignoranza delle cose del mondo) che è sempre la destinazione a improntare il cammino e non il contrario. Persone così non possono neanche immaginare che al giorno d’oggi, sulla terra, ci sono milioni di individui che, messi davanti a un treno o a un pullman, non sanno letteralmente in che direzione andare. Non l’avrei immaginato neanch’io, prima di intraprendere quest’avventura. Ora so che questa è la sorte di una parte non indifferente dell’umanità. Jeff, per esempio, che aveva preso la via del mare per andare a studiare in Francia, era rimasto in Italia. Il compagno del Mali, che avrebbe dovuto raggiungere Lilla, s’era probabilmente fermato a Marsala. Un marocchino incrociato a Roma, che aveva dapprima chiesto asilo politico in Germania, era vissuto tre anni a Berlino prima di stabilirsi sulle rive del Tevere. Un’infermiera algerina, incontrata a Ginevra, doveva raggiungere una compagna a Bruxelles, ma si sta ancora attardando sulle sponde del lago Lemano… Insomma, sono veramente pochi i sans-papiers che hanno deciso coscientemente, e solo secondo la loro volontà, il luogo dove vivere (letteralmente: la loro meta!). E infatti, tutti quelli che ho intervistato in proposito mi hanno confermato di essere in quel luogo soltanto perché erano là… o perché un incontro ve li aveva indirizzati… o perché ve li aveva trattenuti una speranza…

Il buffet della stazione di Sierre era molto più accogliente e vivace rispetto a quello di Briga. L’ambiente non era scorbutico né gli sguardi sospettosi. Nessuno aveva notato la mia presenza. Va detto che per gli amanti dello sci, che riempivano la saletta e stavano commentando le piste prima ancora di averle viste, stava cominciando una gran bella giornata. Mentre attendevano l’autobus che li avrebbe condotti a Crans o a Montana, facevano provviste di bevande calde e di gustosi spuntini salati. Gli esseri umani stavano dunque preparando la loro domenica. Mi rallegravo per loro e (un po’) anche per me: la felicità rende egoisti e a quella gente non passava neanche per la testa di sapere da dove sbucava quell’essere irsuto, quale sicuramente dovevo essere io. Dal giorno prima, bisogna ricordare, non mi ero potuto lavare i denti, né pettinare i capelli, né sciacquare il viso. La mia bocca era impastata, le mani sudate, le unghie sporche. Mi precipitai alla toilette per cercare di recuperare un aspetto più domenicale. Mi cambiai velocemente d’abito, mi spazzolai i denti, tagliai le unghie, mi passai la saponetta del lavandino sulle mani, sul collo, sulla faccia e la nuca e annaffiai il tutto con dell’acqua di colonia. Non fosse stato per le profonde occhiaie, postumi delle notti in bianco che mi segnavano gli occhi e facevano risaltare il pallore dei miei lineamenti, sarei potuto passare per un tranquillo viaggiatore.
Restituito agli umani in grazia del mio nuovo aspetto, andai a sedermi in fondo a una tavolata di sciatori rumorosi. Non lo feci a caso: avevano un aspetto gioviale e chiacchieravano allegramente. Dovevano essere olandesi o belgi. Sta di fatto che parlavano uno di quei dialetti di timbro germanico, dal suono tuttavia più dolce. Indossavano giacche a vento e completi da sci. Alcuni portavano ai piedi quelle grosse calzature che indefettibilmente indossano i turisti quando si parla di Svizzera.
Nessuno badava a me, bevvi il mio caffè leggendo l’oroscopo sul giornale Le Matin. La locale Élizabeth Teissier(7), senza rischiare troppo, mi predisse che il mio spirito si era orientato all’indipendenza e cominciavo a sentirmi a mio agio e che in tutto quanto si stava muovendo e si stava preparando il rinnovamento…
Quanto a muoversi, ebbene sì, mi stavo proprio muovendo! Quanto all’indipendenza e al rinnovamento… Tutto da vedere! Il mio avvenire immediato, però, poteva dipendere da un semplice controllo di polizia.
Bando ai cattivi pensieri! Come inizio, le previsioni non erano male, per il seguito, l’astrologa svizzera non avrebbe certo potuto indovinare, la poveretta, che ero entrato nel suo paese senza peritarmi di bussare, ma anzi, violando tanto il codice penale quanto le più elementari norme dell’ospitalità.
Era chiaro, la contraddizione fra quanto mi preannunciavano gli astri (l’indipendenza) e quello che mi riservavano gli uomini (la reclusione) all’inizio mi faceva sorridere, poi, di punto in bianco, mi ricordò la strana situazione in cui stavo sguazzando: straniero e clandestino! E in Svizzera, per di più! Conoscevo un po’ quel paese, sapevo che il solo termine “clandestino” significava reato e che “straniero” equivaleva a un insulto. E così, un po’ alla volta, in quel buffet della stazione, senza aver ricevuto imbeccate esterne, presi atto di come fossi portatore di tutti e due quei difetti e quindi della mia doppia colpevolezza. Nessuno sguardo ostile, nessun gesto mi aveva portato a quella considerazione. Era venuta da sola. Perché proprio a Sierre? Era indifferente, a Sierre o altrove…
Ripensandoci, oggi, mi dico che la cosa più strana non è che sia stato a Sierre, ma che sia accaduto così in ritardo. In realtà, me lo sarei dovuto aspettare molto prima. Ma chi mai può comandare a quella strana scintilla che si chiama coscienza? Accadde dunque a Sierre, in mezzo a un gruppo di sportivi e di festaioli, che la coscienza d’essere straniero e clandestino cominciò a tartassarmi. La promiscuità con i miei vicini settentrionali avrebbe dovuto attenuare il peso di queste cose (dopo tutto avevo scelto di sedermi al loro tavolo proprio per questo). Anche loro erano stranieri e lo ostentavano orgogliosamente parlando ad alta voce un’altra lingua. E invece no! Sappiamo benissimo, ormai, che esiste – ahimè! – una gerarchia anche nell’essere stranieri. I miei vicini di tavolo erano europei, perciò meno stranieri di me. Io ero arabo e clandestino, il che equivale a dire due volte più straniero di loro…
E così, mentre sfumava a poco a poco quella sicurezza che non avevo smesso di trascinarmi dietro da Pantelleria, si stagliava davanti a me la verità nuda e cruda del mio reato. Proprio a Sierre, la frase “attraversamento illegale dei confini” perdeva definitivamente il suo aspetto puramente concettuale, per assumere il suo vero significato: un fatto concreto e preciso. Così, sebbene quello svizzero fosse stato il terzo dei confini che avevo varcato illegalmente, la Svizzera mi era apparsa come il primo paese nel quale ero entrato commettendo un reato! Paradosso? Affaticamento? Stanchezza? Credo che sia un po’ più complesso.
Primo: la prima frontiera varcata fu in mare aperto. Il mare, però, è di per sé una sorta di patria, la sua traversata (con o senza visto) non vi dà mai l’impressione di cambiare paese. Di conseguenza, su un battello, un viaggio clandestino assomiglia più a una crociera che a un reato. Per contro, sulla terraferma, per quanto poco vi guardiate attorno, arrivate comunque a rilevare qualche segno di cambiamento: il colore delle case, l’organizzazione degli spazi, la consistenza dell’asfalto sulle strade, la forma dei tetti, ecc. Per esempio, a Domodossola, dai dettagli appariva lampante che si era in Italia. A Briga moltissimi segni rivelavano la Svizzera. La valle dell’Annemasse (Francia) e quella di Thonex (Svizzera), pur distanti solo qualche chilometro, sono tanto differenti l’una dall’altra quanto lo possono essere Francia e Svizzera. In poche parole, là dove il mare rende uniti gli uomini, la terraferma decreta la loro differenza.
Secondo: a Pantelleria ero approdato su un terreno familiare. Già alla prima occhiata, la similitudine dei paesaggi, la somiglianza degli uomini e dei luoghi mi avevano rassicurato e avevano sminuito (almeno ai miei occhi!) la gravità delle cose. Dopo tutto, nel Mediterraneo, ero ancora tra i miei. Da Briga a Sierre, per contro, tutti i segnali mi indicavano che non ero più nel mio ambiente e nei miei colori. Questo significava per me la diversità e mi rammentava di colpo il reato che avevo commesso. Si trattava dunque di cominciare a “visualizzare” la mia propria specificità: straniero e per di più clandestino. In Svizzera, l’ho già detto, queste sono cose che vengono perdonate molto di rado!

Gli sciatori si erano ammassati dentro un autobus. I nordici avevano ordinato un giro di acquavite. Io presi il treno per Ginevra. Mi allontanavo dunque dall’Italia, questo incerto confine d’Europa, per avvicinarmi pericolosamente a Schengen.
Oh, sì, lo so! La Svizzera è ancora lontana da Schengen. Non è nemmeno uno stato membro dell’Unione Europea e non c’è alcun trattato comunitario che la possa riguardare direttamente. È quello che vi direbbe un qualsiasi giurista. Questo paese pertanto, in materia di immigrazione e di diritto d’asilo, non ha avuto certo bisogno di attendere le raccomandazioni di Schengen per assumere delle proprie concezioni asettiche all’insegna della sicurezza. Anzi, si è precipitato nell’applicarle anticipando spesso gli stati membri dell’Unione. Restia a qualsiasi tipo di obbligo comunitario, sembra che la Svizzera non abbia tenuto conto, per quanto riguarda la costruzione di un’Europa comune, che delle tematiche più dure e sfavorevoli agli stranieri. Qui, un clandestino non ha da nutrire molte speranze. Tutto l’apparato elvetico in fatto di leggi e ordinanze, emendamenti e direttive, è preparato a puntino per scoraggiare qualsiasi velleità di infiltrazione. Costituisce, infatti, una delle blindature più ermetiche che un paese occidentale abbia elaborato contro gli stranieri. Specialmente quelli poveri e quelli di colore. Di fatto, per coloro che provengono dal Sud (ciò riguarda centoventicinque paesi), non solo il visto per la Svizzera è uno dei più difficili da ottenere, ma anche le cifre richieste per giustificare una passeggiata a Losanna o una settimana a Montreux sono talmente esorbitanti che (a meno di non essere amici intimi di qualche banchiere) non c’è alcuna speranza di convincere un console o un doganiere a lasciarvi passare. La Svizzera, infatti, non rispetta che i turisti blasonati o molto ricchi. E chi volesse recarvisi per studio? Oh, bene. Ma a condizione che si iscriva presso una delle scuole private che costeggiano il lago Lemano e che (dietro il versamento di un oneroso assegno mensile) insegnano alle future principesse e spose di miliardari come occupare il loro tempo senza disonorare i propri mariti. Quanto ai comuni mortali, nelle università svizzere regna una legge non scritta per gli stranieri: numero chiuso invalicabile. Un diploma, infatti, non è sufficiente. Ci devono essere in più una onorevole menzione, un ricco conto in banca e un nome che odori di alto rango sociale. Poiché è abbastanza difficile che queste tre condizioni siano presenti in contemporanea, la maggior parte degli studenti del Sud è pregata di andare a istruirsi altrove. I lavoratori? Rifacendosi a Dante, la Svizzera ha previsto tre gironi. Il primo è quello dove sono immersi i fortunati (quelli che provengono dall’Europa). Quando riescono a ottenere un posto di lavoro, quelli possono entrare e ottenere un permesso di soggiorno. Il secondo girone riguarda gli americani e gli australiani; la loro presenza sul suolo elvetico non pone alcun problema. Il terzo, infine, somiglia all’inferno dantesco: racchiude la gente del Sud. Non ne accetta che col contagocce e solamente una volta che siano esaurite tutte le possibilità offerte dai primi due gironi. Non solo! In seguito all’esperienza di lavoro fatta per parecchi anni a Ginevra, posso assicurare che la preferenza per un lavoro è data sistematicamente a un occidentale, anche se il candidato del Sud ha al suo attivo un profilo nettamente migliore. Non soddisfatta di applicare la preferenza “nazionale”, la Svizzera ha aggiunto anche quella “occidentale”. Ma questa condizione razzista e intollerabile posta dai tre gironi urta almeno la suscettibilità degli abitanti di questo paese? Esternano la loro indignazione con dimostrazioni e manifesti contro un segregazione così violenta? No. Al massimo, fra la massa assenziente, possono esserci qualche anima buona e un manipolo di umanisti annoiati, ma la maggior parte degli svizzeri è aderente a questa ripartizione di uomini in razze e colori. Peggio! Sembra la ritengano normale e sensata. E chiedere asilo politico? A meno di non arrivare in barella accompagnati da due medici e, se possibile, dal vostro carnefice, non sognatevi nemmeno asilo in questa terra (l’85% delle domande è respinto). Subirete immediatamente lunghi e umilianti interrogatori da parte di funzionari il cui ruolo non è sempre chiaro (cercano forse di aiutarvi in considerazione del vostro dramma o cercano invece di scovare la minima contraddizione nella vostra deposizione?). Per tutta conseguenza, dal momento che pensano di aver dimostrato che siete degli efferati mentitori e che lo scopo delle vostre manfrine era quello di ottenere la benevolenza del paese(8), vi notificano la vostra espulsione e, se non vi ottemperate, vi assoggettano a quelle che, da queste parti, si chiamano “misure di costrizione”; ossia un periodo di detenzione amministrativa, che può arrivare fino a nove mesi, le cui condizioni sono ancora più rigorose rispetto alla vera e propria incarcerazione(9). Il fatto che esse siano contrarie ai principi di libertà dell’individuo e alla legislazione della Corte europea dei diritti dell’uomo non sembra preoccupare troppo gli svizzeri. La legge federale che decreta queste misure eccezionali è stata votata a larga maggioranza. A parte i politici di Ginevra, ci sono ben pochi che contestano il principio.

Si deve pensare, allora, che gli svizzeri abbiano perduto a tal punto il gusto della loro propria libertà che non si preoccupano più di quella degli altri?
Rousseau l’aveva temuto già a suo tempo…

A Losanna fui distratto dalla sconcertante lettura delle pratiche svizzere in materia di immigrazione dal balbettio in arabo di un bimbo. Aggiustai le mie carte e mi misi a osservare la famiglia che era venuta a installarsi a due scompartimenti dal mio. Compresi velocemente che si trattava di egiziani; il padre, sua moglie e il loro figlio.
Non c’era più motivo per continuare il viaggio da solo.
Parlare con qualcuno!
Non era forse un segnale di definitivo ritorno sulla terra?
Finsi di giocare con il bimbo per avvicinarmi ai genitori. Tattica classica ed efficace! Facemmo conoscenza.
L’uomo era un commerciante al dettaglio, la moglie gestiva l’amministrazione; il bimbo frequentava la scuola materna. In Svizzera da più di cinque anni, a loro il paese piaceva.
“Non c’è paragone qui, con il razzismo che regna in Francia” mi assicura il marito.
“No” rincara la moglie “il razzismo è lo stesso, ma gli svizzeri non lo danno a vedere; si accontentano di pensarlo”.
L’uomo si lamentava dell’esosità delle tasse e delle imposte. La donna deplorava la mancanza di comunicazione. Nell’insieme, comunque, le cose andavano bene. Mi aveva reso felice, tuttavia, il fatto che quelli erano i primi arabi incontrati nella mia peregrinazione che davano l’idea di vivere una vita normale e di avere le stesse preoccupazioni di un qualsiasi cittadino (le imposte, i vicini, il tempo libero, la scuola…).
Finsi di non conoscere affatto il paese; la coppia mi fornì una gran quantità di informazioni dalle quali risultò che non avevo nulla da sperare a Ginevra. La disoccupazione e la crisi sociale cancellavano qualsiasi sogno di integrazione. Il marito mi precisò che a Ginevra, negli anni precedenti, era stato ancora possibile guadagnarsi il pane facendo il giro dei cantieri o dei caffè.
“Ma adesso” aggiunse “i settori delle costruzioni e della ristorazione sono in crisi e ci sono solo licenziamenti. Inoltre, i frontalieri e gli stagionali tolgono qualunque speranza a chi cerca lavoro”.
Frontalieri? Lo sapevo: in tutti i settori della vita economica ginevrina si trovano migliaia di francesi dell’Ain o dell’Alta Savoia. Il loro numero si avvicina a trentamila. Sono pendolari. Risiedono raramente in loco. Ma gli stagionali? Si tratta di una peculiarità svizzera. Migliaia di portoghesi e di spagnoli hanno il permesso di lavorare là per qualche mese all’anno. Impiegati per la maggior parte nei settori delle costruzioni edili e alberghieri, essi costituiscono la parte più debole della classe operaia svizzera. Lavorano in condizioni più che precarie e non hanno alcuna possibilità di farsi raggiungere dalle famiglie. Con questi braccianti, la classe padronale svizzera può dormire tranquilla. Frontalieri e stagionali sono una riserva di lavoro fidata, docile e quasi invisibile (non se ne trova la benché minima traccia nelle statistiche ufficiali di disoccupazione).
Eccomi dunque ben informato sulle mie reali possibilità in Svizzera!
Chiesi se ci fosse almeno la possibilità di trascorrere una o due notti a un prezzo ragionevole prima di continuare il mio viaggio verso la Francia. La coppia si prodigò a enumerarmi tutta una serie di alberghi a buon mercato (trecentoventi franchi a notte); questa uscita mi costrinse a precisare che cercavo piuttosto un ostello o un centro d’accoglienza. Per quello furono discordi: la donna giurò che la “grande moschea di Ginevra” era perfettamente adatta a offrirmi ospitalità per una notte o due. Il marito, invece, fu più prudente e mi indicò un luogo di accoglienza sorprendente: un’imbarcazione ancorata nella rada della città, alla fine del Giardino Inglese, la Genève.
Ci separammo davanti alla stazione, vidi l’uomo avere un attimo di esitazione prima di sussurrare qualche parola alla moglie. La donna fece un cenno d’assenso al marito che mi si rivolse chiedendomi qualcosa per scrivere e vi tracciò il nome di una signora e un numero di telefono:
“Se ha bisogno di una mano o di un consiglio, l’aiuterà. Vedrà, è una persona dinamica e molto attiva nel campo del sociale…”.
Ancora una volta non si trattava di un sostegno, ma dell’abboccamento di un contatto.
Rinunciai all’idea di bere un caffè al buffet della stazione perché avevo fretta di cacciarmi da qualche parte prima che finisse il giorno.
Mi precipitai al Giardino Inglese.
Malgrado il grigiore, alcuni giapponesi si facevano fare il ritratto davanti a un orologio intarsiato. Alcuni poliziotti camminavano con fare bonario. Della gente passeggiava in tutta tranquillità. Proseliti di non so quale setta si esibivano in uno spettacolo deprimente: su una base musicale disgustosamente melensa, una coppia mimava la nascita di Cristo, una donna annunciava a gran voce la sua gioia di aver incrociato il cammino di Gesù, delle giovanette incespicavano in passi scomposti che pretendevano fossero passi di danza, un giovane in abito abbottonato dalla testa ai piedi, proclamava la venuta di un salvatore…
La Genève era proprio là davanti, attraversai la passerella e mi ritrovai nel bel mezzo di una festa improvvisata. Dal battello, la vista era idilliaca. Nel riflesso dell’acqua si specchiavano le Alpi e gli alberghi di lusso. Alcuni cigni si contendevano pezzetti di pane con i gabbiani. Dei giovani ascoltavano musica bevendo birra. Mi frammischiai all’amichevole folla e chiesi ingenuamente a una ragazza dove fosse il responsabile. Credo si stesse burlando di me mentre mormorava qualcosa come “che, chi, perché”. Mi resi conto d’un tratto che il battello stava ancorato lì tutte le domeniche e che era improbabile che ospitasse passeggeri. Era una specie di punto d’incontro, d’ascolto e di animazione per giovani tossicodipendenti. Certo, il battello aveva un’aria gaia e ospitale, i suoi occupanti erano amichevoli e baudelairiani, ma non aveva nulla a che fare con quello che cercavo. Restai là qualche minuto. La musica era senz’altro migliore di quella dei proseliti della setta e non avevo alcuna voglia di farmi perseguitare nel giardino da una donna isterica e da un giovane uomo in un abito tutto abbottonato. Tossici per tossici, preferivo senza dubbio quelli del battello.
Le coordinate che mi aveva scarabocchiato in fretta l’egiziano mi sarebbero servite molto presto: telefonai all’algerina. Quella fu davvero all’altezza della descrizione che ne avevano fatto: dinamica e servizievole. Le riassunsi in breve la mia situazione; mi fornì un elenco impressionante di ostelli dove avrei potuto trascorrere la notte: “Le Carrefour”, “l’Arcade”, “la Virgule”, “Cartouche”, “le Carré”, il vagone della Croce Rossa, l’Esercito della Salvezza, Emmaus, il tempio di Plain palais… Mi fece promettere di restare in contatto con lei e, per esser sicura che mantenessi la parola, si incaricò di parlare del mio caso a un amico di Ginevra “molto al corrente di queste faccende”.
Caritas! La parola mi piaceva; telefonai. Nessuna risposta.
“Le Carré”!(10), figura magica; non c’era da esitare. Una segreteria telefonica mi ringraziò d’aver chiamato e mi raccomandò di lasciar detto il motivo della telefonata o di chiamare… la Caritas!
“Cartouche”! il nome sapeva un po’ di droga, ma come fare il raffinato una domenica sera a Ginevra quando non si sa dove andare a dormire? Mi arresi. Era un vecchio autobus londinese posteggiato in un parcheggio incustodito dietro la stazione.
Perché dormire in un autobus in mezzo alla strada quando si può trovare un vero letto?
Stava a due passi dall’ostello dell’Esercito della Salvezza; telefonai. Rispose una signora che mi chiarì subito come avessi sbagliato indirizzo perché “la residenza dell’amicizia” non accoglieva che persone anziane in attesa di ricovero ospedaliero. Chiaramente non era il mio caso. Mi indirizzò comunque a un altro ostello dell’Esercito della Salvezza: il centro di accoglienza notturno. Non era neanche lontano dalla stazione, mi precisò, verso rue Voltaire.
Tutti conoscevano rue Voltaire, ma nessuno mi sapeva dire dove si trovasse il mio nuovo rifugio. Camminavo e chiedevo ai pochi passanti. Alla fine, un portoghese evidentemente brillo, visto che stava andando là pure lui, mi ci accompagnò.
Ci allontanammo dalla ferrovia, ci perdemmo in un dedalo di vie povere e scure per finire davanti a dei baraccamenti a due piani. Scuri e tristi. Non somigliavano proprio a delle dimore, né a degli chalet. Avevano piuttosto l’aria di essere quelle costruzioni provvisorie erette davanti ai cantieri. In pieno centro di Ginevra (a dieci minuti dalla stazione) il luogo stesso non era né una strada, né una piazza, e neanche una via di passaggio. A meno di non essersi persi, non ci si poteva arrivare per caso, perché era un vero vicolo cieco. I treni passavano di sopra; gli esseri umani a lato. Ma era davvero un luogo? O uno di quei non-luoghi di cui la crisi riempie ormai le città europee? In quello scorcio, la Ginevra delle cartoline, dei marciapiedi animati e delle banche ammiccanti era ben lontana. Troppo lontana da questo vicolo cieco che sembrava occultare nello stesso modo in cui una donna cerca disperatamente di nascondere sotto uno strato di crema il foruncolo che le deturpa il viso.
Come superai la soglia, una zaffata soffocante di cavoli e burro rancido mi assalì le nari. Un esiguo locale affollato di ospiti fungeva tutt’insieme da portineria, refettorio e sala della televisione. C’erano alcuni africani taciturni, dei latino-americani con indosso i poncho, alcuni giovani svizzeri, qualche portoghese e parecchie facce gonfie per l’alcol e i calmanti. Il gestore correva dall’ufficio al piano di sopra, dallo sportello al registro, dal telefono alla mensa. Paziente e gentile, cercava di darsi da fare.
Senza declinargli le mie generalità, mi presentai con una litote (“mi sono perduto a Ginevra”) e con una sola parola gli dissi qual era il mio immediato bisogno (un letto). Alzò le braccia al cielo giurando che il luogo era stracarico e che non poteva darmi una risposta prima di un’ora o due perché aveva un’enorme lista di richieste. Attesi con pazienza. Dopo un’ora venne a tranquillizzarmi. Avrebbe potuto ospitarmi tre notti (non una di più) per un’esigua somma di denaro (quaranta franchi al giorno), compreso il pasto serale. Era davvero un colpo di fortuna!
L’ostello si componeva di una ventina di camere a due letti, molto piccole ma pulite e tenute in ordine. Le pareti erano di legno, i letti in ferro e le coperte decenti. C’erano armadi e docce. Insomma, né peggio né meglio di altri ostelli. Almeno era vivibile, specie se vi si aggiungeva la benevola umanità del responsabile.
Mi accompagnò al posto assegnatomi e vi depositai la mia sacca. Premuroso ritenne utile precisare che la casa non poteva rispondere dei furti…
Un piccolo gruppo di frequentatori abituali cominciò a prender posto al refettorio. Una decina di uomini, qualche donna, dei musicisti di strada, alcuni uomini della Costa d’Avorio. L’età media oscillava dai trentacinque ai cinquant’anni. La conversazione era scarsa. Anche il brusio era ridotto. Sussurri. Qualche brontolio. Sguardi persi. Il frastuono insopportabile della televisione. Un’umanità ginevrina impacciata nei suoi sogni infranti. Là trovava ospitalità e pure del cibo, ma era chiaro come queste due funzioni primarie non le fossero sufficienti. Pulito e organizzato com’era, questo centro non era comunque una casa, e ancor meno una casa propria. E, dopotutto, non aveva né la pretesa né lo scopo di esserlo. Era un semplice luogo di riparo. Riparo? Ha ancora senso questo termine? Certo che sì, questi luoghi funzionavano davvero come dei laboratori per riparazioni urgenti: rimettevano in forze degli uomini affaticati per poi lasciarli affrontare di nuovo la loro strada. E quelli che ormai una strada non ce l’avevano più? Niente più riparo: un posteggio!
Tentai di ricostruire dei brandelli di itinerario chiacchierando con qualche compagno. Eccetto i peruviani (musicisti di strada), che avevano deciso di vagabondare a quel modo per le città europee, e un africano che stava vivendo dolorosamente un divorzio, nessuno mi seppe dare un motivo plausibile che giustificasse la sua presenza in quel parcheggio. Nessuno di quelli con cui avevo parlato si trovava lì solo per un paio di giorni. Sembrava piuttosto che fosse loro abitudine spostarsi così da un centro d’accoglienza a un rifugio, da un servizio sociale a un’organizzazione di carità. Ed era così che questo genere di luoghi non era più neanche un posteggio, ma un vero e proprio contenitore.
Ma dov’erano le famiglie di questi disgraziati? Avevano ancora dei figli, genitori, cugini, nipoti? Che fine avevano fatto i loro vecchi legami? Li riconoscerebbero, oggi, lungo la strada? Dove e come vivevano prima di perdersi così nel pieno centro di Ginevra?
Non lo sapevo.
E loro, lo sapevano?
In fondo, mi dissi, prima ancora che si delocalizzassero le aziende erano stati delocalizzati degli esseri umani: quella gente stava a Ginevra senza più viverci veramente.
Ancora una volta, degli incontri fatti, quelli che mi diedero più tristezza non erano legati tanto alla miseria di carattere materiale, quanto all’esclusione di una fetta dell’umanità fuori dal tempo.
Sono ancora degli esseri umani quelli che hanno perduto l’interesse per il domani?
Il custode mi comunicò che l’ostello era aperto dalle 18 alle 11, che vi servivano la cena e la colazione del mattino e che bisognava lasciarlo durante il giorno. Poi, incassato il denaro, mi invitò a dividere la cena con i miei nuovi compagni.
Dovevo dargli le mie generalità? Mostrargli un passaporto? Un visto?
Sì.
Gli mostrai la patente e ribadii per sovrappiù che mi ero “smarrito a Ginevra”. In grazia della carità e dell’abitudine mi credette sulla parola.
“Essere smarriti” poteva dunque sostituire l’identità.
In verità, il custode sapeva quel che diceva.
Si poteva pretendere di ricondurre a un’identità tutti quegli uomini e donne che avevo visto arenarsi in quel centro?
Avevano ancora la forza di preoccuparsi del loro passaporto, carta di identità e numero di assicurazione? Avevano ancora un contatto con la pubblica amministrazione, con i suoi labirinti, i suoi funzionari e i suoi incartamenti? A parte il gestore, i loro stessi compagni di naufragio e forse gli infermieri in caso di ricovero ospedaliero, avevano ancora qualche legame con la società? Immaginavano, almeno, che fuori la gente respirava, rideva, viveva? Eppure c’erano degli uomini e delle donne nel fiore degli anni, in grado di lavorare, creare, dare. Chi li aveva dunque buttati là, come si getta nella pattumiera un fazzoletto usato? Chi li aveva dimenticati? Per quale disattenzione? Che ne sarebbe stato un domani di questa fetta di umanità perduta che va lentamente alla deriva verso non si sa che insana e inesauribile solitudine?

 

5. Trasudare la razza…

L’algerina mi diede appuntamento nel quartiere in cui abitava, quello dell’ospedale.
Mentre mi recavo sul posto, cominciai a temere quell’incontro. A dire il vero, avevo paura di cadere tra le grinfie di un’animatrice sociale fissata con il suo bagaglio di consigli psicologici e di sussidi economici. A torto, forse, avevo imparato a diffidare delle dame di carità, di quelli che lavoravano nell’ambito del sociale e di tutti quelli che, della misericordia, fanno una professione. D’altra parte, una quindicina d’anni trascorsi negli ambienti occidentali dove si faceva gran parlare di sviluppo e di cooperazione mi avevano fatto acquisire un sacro orrore del mercato della carità(11). In tutti coloro che trasformano la “disgrazia degli altri” in un’azienda commerciale, non vedevo ormai che delle carogne incapaci di vivere alla luce del sole. Pseudofilosofi dello sviluppo, specialisti della cooperazione e dell’intervento umanitario… ne avevo incontrati talmente tanti che si erano lanciati a capofitto in queste false professioni per puro interesse personale anziché per reale altruismo, che avevo temuto davvero, andando a quell’incontro, di incappare in una persona di quello stampo…
Santo Cielo! Quanto mi ero sbagliato! Quella donna era completamente diversa da quegli “operatori sociali” autoritari e indiscreti che pretendono di fare il tuo bene, tuo malgrado!
Mi aspettavo di trovarmi davanti a una giovane donna agitata (mezza dama di carità, mezza operatrice sociale), cosicché fui sorpreso a constatare come la sua voce (dal timbro forte e sicuro) contrastasse del tutto con la sua figura (minuta e delicata). Di fronte a me, infatti, avevo una piccola signora un po’ curva per l’età, segnata da una vita di continui spostamenti e dolce come un profumo primaverile.
Sorseggiando il suo tè, un po’ alla volta mi raccontò il percorso della sua vita. Riassumeva in sé tutte le pene che l’esilio comporta sempre per un emigrante: l’incomprensione, il razzismo latente (più doloroso di quello manifesto!), gli sguardi sempre sospettosi, le ingiustizie (grandi e piccole) patite sul posto di lavoro a causa della sua origine, i veri soprusi travestiti di falsi complimenti, ecc.
A Ginevra ormai da “moltissimo tempo”, aveva condotto “all’inizio la vita della casalinga”, poi, in seguito al divorzio, si era trovata ad affrontare le difficoltà di una famiglia da mandare avanti da sola. Poi, una volta che i figli erano diventati indipendenti, aveva trovato il tempo di “mettere il naso fuori” e di constatare, con terrore, come a Ginevra ci fossero decine di giovani donne arabe che stavano per scivolare nel mondo della prostituzione. Non potendo accettare una simile decadenza, aveva incominciato a percorrere i marciapiedi per “far rinsavire quelle giovani che uno stupido sogno e, peggio ancora, degli sfruttatori” stavano trascinando verso una caduta irreversibile… mentre al loro paese le famiglie le credevano impegnate nello studio o in un lavoro onesto…
Fu così che nacque la vocazione sociale della mia nuova referente. Non c’erano stati né una vaga concezione idealistica, né un qualsiasi interesse a spingerla in quella sua missione, ma unicamente la volontà di far sì che delle consorelle evitassero di vendere l’anima pensando di offrire solo il loro corpo.
“Vedendola da lontano” le dissi, “di Ginevra non si immaginerebbe mai neanche la metà di quanto mi ha raccontato. Certo che, non essendo un ingenuo, sapevo come d’estate i marciapiedi del lago Lemano si affollassero più del solito di giovani donne dall’aspetto esotico, ma non avrei mai creduto che le cose fossero a questo punto”.
“E non è tutto!” esclamò di rimando. “La prostituzione non è che un aspetto della tragedia. Quello che oggi mi preoccupa, è l’aumento dei matrimoni bianchi che finiscono subito male (in tribunale o in ospedale, quando non tutti e due insieme!). Purtroppo, nel nostro paese d’origine l’incremento del turismo ha indotto anche quello del matrimonio di comodo. Così, al ritorno, molti turisti (uomini o donne poco importa) assieme ai souvenir e alle altre sciocchezze, hanno nel loro bagaglio anche i consorti… Con la complicità delle vacanze, raccontano una storia qualsiasi alla persona che hanno preso di mira, prospettandole mari e monti e la inducono a partire… e molto spesso incomincia l’incubo… così, quella che si vedeva già segretaria o studentessa si ritrova donna delle pulizie o disoccupata… quella che sognava una vita un po’ più agiata si ritrova sovente senza alcuna risorsa… Insomma, non so più dove sbattere la testa per cercare di far capire ai nostri conterranei che è mille volte meglio condurre una vita difficile a casa propria che venir qua in cerca di disgrazie senza fine”.
Dopo questo sfogo parlammo della mia avventura. Senza mezzi termini le raccontai del reportage che stavo compiendo e le chiesi precise informazioni sui sans-papiers presenti a Ginevra.
“Qui, come del resto in tutta Europa” mi disse con voce pacata “quello dei sans-papiers non è più un problema da risolvere: ormai è una vera ossessione! È molto semplice d’altronde: meno se ne sa, più se ne parla! Non sono necessari dati e verifiche. Qualche frase convenzionale, due o tre cifre inventate, e il discorso è chiuso. Le parole stesse, non esprimendo che concetti approssimativi, si fanno complici della confusione generale. Provi a parlare un po’ in giro di clandestini; vedrà! La gente si accalorerà, le assicurerà, griderà… ma lei non riuscirà affatto a comprendere di che cosa stiano veramente parlando… Si riferiscono alle entrate illegali (come i naufraghi sulle coste italiane)? Parlano dei casi debitamente registrati ma in corso di risoluzione (le richieste di asilo in attesa di una risposta)? Intendono i lavoratori in nero (ad esempio le loro donne di servizio, i cui documenti sono perfettamente in regola ma che non si curano di dichiarare il proprio reddito)? Non lo saprà mai! Poco importa, del resto, che con lo stesso vocabolo, “clandestino”, i suoi interlocutori confondano allegramente categorie diverse sia in fatto di persone che di situazioni! E altrettanto poco interessa che sia del tutto inverosimile la quantificazione numerica attribuita a questa accozzaglia di gente. La cosa fondamentale non è portare dei dati reali, bensì creare un’immagine. Triste e inquietante. Indefinita e congestionata.
“Sans-papiers–clandestini–lavoratori–in-nero–delinquenti: tutte queste parole si confondono in una sola equazione tanto superficiale quanto deleteria!
“Così, a Ginevra, ci si scandalizza davanti alle entrate illegali (quando se ne contano a centinaia), ma si omette di dire che la grande massa dei clandestini (ce ne sono migliaia) è creata proprio dall’amministrazione. Mi riferisco ai casi di rifiuto del diritto d’asilo. Ecco allora che quella gente, a causa della lentezza burocratica, è condannata ad attendere mesi (talvolta anche uno o due anni!) prima di sapere quale sarà il suo destino. Nel frattempo, alla meno peggio, i più si sono installati, hanno mandato i figli a scuola, hanno trovato un piccolo alloggio… Poi, un giorno, arriva il verdetto… Negativo… Per loro significa l’espulsione… Viene loro concessa qualche settimana per lasciare il paese. Il bambino deve abbandonare la scuola, il padre il lavoro, la madre la casa. Cosa devono fare? Ciò che chiunque altro al loro posto farebbe! Trattare… Fare resistenza… Tentare di prorogare… Rifiutarsi di ottemperare… Finire nella clandestinità… Ebbene, la stragrande maggioranza di quelli che chiamiamo illegali è di questa fatta! E all’origine di tutto ciò vi è l’incapacità dell’amministrazione di risolvere le contraddizioni che essa stessa ha creato. Le autorità, dopo tutto, lo sanno molto bene! In questa città si sono visti dei casi umani tanto tragici che si è assistito più di una volta a dei veri e propri psicodrammi ai vertici dello stato: il ministro dell’Educazione di Ginevra ha accompagnato personalmente a scuola un bambino che il suo collega della Giustizia aveva deciso di espellere, l’amministrazione locale si è rifiutata di applicare una decisione federale, la chiesa ha protetto una famiglia ricercata dalla polizia… Insomma, un vero rompicapo! In fondo, gli svizzeri comprendono bene come la questione sia avvelenata e metta in discussione gran parte dei loro valori!
“Quanto al lavoro nero, lei sa bene che questo problema oltrepassa di gran lunga (per numero e natura) quello degli arrivi illegali. A Ginevra il fenomeno coinvolge una decina di migliaia di persone (una quantità enorme già per una regione così piccola!), ma il grosso della schiera non proviene dai ranghi dei sans-papiers; altro che! La maggior parte dei lavoratori in nero è costituita da bravi svizzeri o da immigrati regolari che fanno due mestieri (uno dichiarato e uno no) per arrotondare il misero bilancio di fine mese. È evidente che tutti gli illegali appartengono alla categoria dei lavoratori in nero… Ma ciò che risulta difficile è far capire alla gente (sindacalisti compresi) come sia falso il rapporto inverso: cioè che non tutti i lavoratori in nero (circa diecimila individui) sono dei sans-papiers (mille tutt’al più…)”.
Non era niente male come quadro d’insieme, ma avevo fretta di passare a una questione più pragmatica.
“Io sono un sans-papiers arrivato a Ginevra” le dissi “cosa mi consiglia di fare?”
“Come inizio può tentare di cavarsela con quello che passa il convento” mi rispose sorridendo. “Non glielo consiglio proprio! Al giorno d’oggi la crisi è tale che sprecherebbe inutilmente energia. Non vedo nemmeno in che modo potrebbe risolvere in un lasso di tempo tollerabile i molteplici problemi che le si porrebbero davanti: lavoro, alloggio, regolarizzazione. Potrebbe cercare di imbastire un matrimonio bianco. Ma sono convinta, comunque, che per questo tipo di affare non ha né tempo, né denaro, né il carattere. Alla fin fine potrebbe provare a rivolgersi al Servizio di aiuto per i rifugiati. Depositando ufficialmente là una domanda d’asilo, beneficerebbe forse delle disposizioni legali in materia di rifugiati politici”.
“Ma io sono entrato in Svizzera in modo illegale…”.
“Non è certo un ostacolo!” mi disse. “Qualche mese fa, con un referendum popolare, i cittadini svizzeri hanno ammesso il fatto che chi domanda asilo può entrare nel paese per le verdi frontiere. Ne consegue che qui è normale accettare la domanda d’asilo politico da parte di un individuo entrato illegalmente. L’amministrazione non potrà negare l’accoglimento della sua domanda per il solo motivo che lei è entrato illegalmente in Svizzera”.
“A sentire quanto mi dice, io non ho alcun motivo di chiedere asilo politico” volli precisare, “il governo del mio paese non è né migliore né peggiore degli altri”.
“Sta a lei decidere” concluse.
Ginevra non offriva dunque alcuna soluzione ragionevole e immediata.
A meno di avere nervi d’acciaio e un preciso obiettivo davanti a sé, sembrava inutile bussare a quella porta.
Volendo esaurire tutte le risorse (e, lo confesso, verificare anche le indicazioni della mia consigliera), le chiesi di usarmi la cortesia di fornirmi qualche nome di personalità svizzere che mi potessero aiutare nel caso volessi fare quei passi.
Ella compilò un elenco di indirizzi e numeri telefonici. Poi, per distendere un po’ l’atmosfera, mi lasciò parlare diffusamente di Domodossola, di Trapani, di Jeff, dei passeur, ecc. Il mio racconto fu per lei occasione di grandi risate e buon umore. Era evidente come ai suoi occhi le mie avventure assomigliassero più a un brutto scherzo di un ragazzino burlone perpetrato a danno di adulti un po’ troppo severi, che a un vero e proprio reato. Tale giudizio, a essere onesti, mi si adattava alla perfezione.

A ogni modo, si rifiutò di lasciarmi passare un’altra notte presso l’Esercito della Salvezza e decise di condurmi la sera stessa in un appartamento; poi, si offrì di accompagnarmi, non appena l’avessi voluto, fino al confine francese:
“Ne approfitterò per fare delle spese in Francia” aggiunse “è decisamente meno caro di qua”.
Presi contatto con le tre persone che mi aveva raccomandato di incontrare.
La prima lavorava presso un organismo di assistenza sociale. Era una giovane donna capace, di un’eleganza discreta e dallo sguardo tranquillo e diretto. Senza esitare, le dissi che ero a Ginevra senza documenti regolari e quindi la pregai di essere tanto gentile da aiutarmi. Mi porse un foglio verdastro che recava la dicitura “accoglienza e ospitalità d’urgenza diurne e notturne”. Il foglio conteneva un elenco di nomi e indirizzi di venticinque istituzioni ginevrine che avrebbero potuto prestarmi soccorso. E in più, un numero verde: 155 5432.
“Accetteranno di aiutare un clandestino?” chiesi ancora una volta.
“È necessario che lei sappia” mi rispose “che capita di rado che i clandestini si rivolgano a noi. In fondo, non vengono quasi mai… A meno che non abbiano dei grossi problemi familiari o una pesante diatriba con il loro datore di lavoro… Altrimenti se la sbrigano bene fra di loro. Hanno le proprie reti di collegamento sia per trovare lavoro, che per l’alloggio, e così via”.
Quando me ne andai, non avevo tanta fretta di trovare un rifugio (Ginevra, chiaramente, ne era zeppa), quanto piuttosto di sciogliere la perplessità che quel foglio verdastro aveva fatto nascere dentro di me. Anziché tranquillizzarmi, infatti, la lunga lista di centri d’accoglienza mi aveva lasciato stupefatto e mi aveva gettato in un vortice di domande irrisolte. Non sapevo più cosa pensare perché il tutto poteva avere due significati opposti.
1) Ipotesi positiva: ero capitato in una città che si preoccupava dei suoi poveri e faceva del suo meglio per metterli al riparo dalle calamità. In questo caso, che Dio benedicesse questo paese, chi lo governava e i suoi abitanti!
2) Ipotesi negativa: ero sbarcato decisamente troppo tardi in un paese che aveva già mangiato il suo pane bianco e ora non sapeva più che farsene dei suoi esclusi.
Era chiaro, né a Roma, né a Palermo mi ero posto questo tipo di interrogativi, laggiù però, oltre alla povertà locale, ero preparato a vedere il nuovo disagio che si abbatte sulle città industriali. A Ginevra, invece, quel fatto aveva un che di sorprendente. È vero, conoscevo bene il luogo e mi ero abituato all’irritante divario che gli svizzeri non finivano di acuire fra la loro realtà e la loro apparenza. E sia! Ma non mi aspettavo un numero così eccessivo di luoghi di accoglienza. A dire il vero, prima di intraprendere la mia avventura di clandestino avevo sottostimato parecchio il peso della povertà che affliggeva questo paese. Una ventina di coprimiserie in una città di duecentomila abitanti! Un luogo d’accoglienza per diecimila persone! Quei numeri mi sembravano enormi. A Varsavia, Napoli o a Lisbona, passi! Quelle città non si sono mai spacciate per ricche e hanno accettato l’umiltà del loro destino. Ma Ginevra, questa città che da più di trent’anni non smette di diffondere la sua morale calvinista nell’ebbrezza del denaro facile! Guarda un po’! La Svizzera si è guastata a tal punto? La muraglia di denaro dietro alla quale si era barricata cominciava a scricchiolare? L’aver letto più volte quegli stessi numeri e le informazioni che mi erano state fornite dagli assistenti sociali mi confermavano la legittimità del problema. È un fatto che a Ginevra la miseria sia molto più diffusa di quanto non lo ammettano gli stessi svizzeri. Infinitamente più greve di quanto i turisti possano supporre. In quella città di segreti e di misteri bancari, un abitante su tre dipende, in verità, dall’assistenza pubblica e da molti aiuti privati. Certo, ci sono le statistiche ufficiali, ma la realtà è certamente più desolante. Come si può spiegare, allora, che questa indigenza non abbia mai dato luogo a grandi rivolte sociali? Come spiegare che gli svizzeri, a dispetto della loro incapacità a risolvere i loro stessi problemi, continuano a impartire lezioni di sviluppo ai paesi del Sud? Come possono essere in grado di aiutare gli altri nello sviluppo, se proprio loro, per primi, non sono riusciti a risolvere i problemi a casa loro?
Lasciata comunque Ginevra alle sue contraddizioni, pensai di utilizzare il foglio verdastro.
Chiamai il numero verde e sciorinai chiaro e tondo la mia condizione di clandestino e le mie necessità. L’uomo che rispose, dall’accento chiaramente tedesco, mi consigliò di rivolgermi a “La Colou”, un luogo d’accoglienza per i senzatetto.
“Anche se non ho documenti regolari?”
“Venga con quello che ha!”
Scorsi l’ordine degli indirizzi scritti nella lista e mi recai al caré(12), un centro ricavato nel sotterraneo di una chiesa. Un grande manifesto accoglieva il visitatore annunciando: “Ginevra dal grande cuore!”. Scesi i gradini, e mi infilai nella sala. Sorpresa! Lo slogan contrastava abbastanza con l’atmosfera che regnava in quel luogo. Ma, a dire il vero, bisognava leggerlo alla rovescia: ci sono sì, pure, dei grandi e buoni cuori che vi ricevono… Là dentro, nessuno dava l’impressione di essere ripiegato sulla propria miseria. Al contrario, si affrettavano premurosi, davano volentieri dei ragguagli, volevano prestare aiuto. Senza segno di astio o seccatura. Solidarietà a fior di pelle. Un grande senso del pudore e pure, perché non dirlo, una certa gioia di vivere. Quel rifugio, a ogni modo, mi sembrò molto più gaio e vivace di un ristorante alla moda. Anche più lussuoso… se si ammette che il lusso oggi significa semplicemente mostrare il proprio cuore e stare insieme. Insieme. Gruppi di uomini e di donne bevevano tranquillamente i loro caffè, dipingevano, chiacchieravano.
In attesa di essere ricevuto, diedi una rapida occhiata alla documentazione messa a disposizione dei visitatori: luogo di ritrovo, d’accoglienza, di scambio e di reinserimento sociale per persone in difficoltà. Vi erano proposte diverse attività. La capacità di ricezione era centotrenta, centocinquanta persone al giorno. Venivano preparati pasti comuni gratuiti durante la settimana e, d’inverno, anche il sabato. Era aperto dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 18.
Mi servirono un ottimo caffè; il responsabile mi ricevette.
“Sono un sans-papiers” gli dissi bruscamente “non ho un alloggio, né denaro, né amici che mi possano dare aiuto a Ginevra. O voi o la strada…”.
Jean Marie Viénat, sacerdote educatore, originario del Giura e residente a Ginevra, conosceva bene il problema. Era ovvio che non ero stato certo il primo sans-papiers che gli aveva posto in quel modo una tale richiesta.
“Ho un buon carattere e sono discreto” mi disse “ma non posso ingannare la gente. Qui potremo sfamarla e ospitarla durante il giorno, darle modo di fare la doccia e ascoltarla, ma non potremo fare di più”.
“Ascoltarmi? E cosa c’è da ascoltare riguardo al mio caso?”
“Prima di tutto bisogna cercare di capire cos’è che l’ha condotta da noi, e quindi spiegarle quali sono i meccanismi propri alla nostra società, i casi eclatanti, orientarla verso i servizi competenti. Ma francamente, senza alcuna illusione. Le sue possibilità di regolare i suoi problemi sono molto vicine allo zero”.
“Anche se sono pronto a fare un qualsiasi lavoro?”
“Amico mio, glielo assicuro, a Ginevra rischia di diventare un barbone. È per questo che ci tengo a essere onesto rispondendo alla domanda che mi ha rivolto”.
Mi fece visitare il centro, mi offrì ancora da bere e mi raccontò in lungo e in largo del degrado delle condizioni di vita in Svizzera.
“Si può stimare che soltanto il 12% della gente che vive qui abbia un tenore di vita al di sopra della soglia della povertà” mi disse. “Tenga, legga le cifre, le parleranno da sole; nel 1985 abbiamo distribuito 7816 pasti, nel 1996 non meno di 35 mila! Una volta, la media dell’età delle persone che accoglievamo si aggirava sui cinquant’anni, oggi si aggira attorno ai venticinque. Allora la durata media del soggiorno era di qualche settimana, oggi arriviamo a parecchi mesi. Non so proprio dove andremo a finire. Grazie a Dio, con l’aiuto del Comune (che si è dotato di una piattaforma di coordinamento contro l’esclusione) e di privati (la Chiesa e i movimenti associativi) siamo stati in grado di anticipare la deriva e salvare la nave dall’ondata… Sì, proprio dall’ondata… E allora, che dire, amico mio? La mia porta è aperta, la mia buona volontà ce la metto tutta; ma nessuno può fare l’impossibile!”
Non aveva torto: i giovani che avevo incontrato là cercavano probabilmente un modo per reinserirsi nella società, il clandestino che ero io cercava una maniera per entrarci.
Imbarcarsi su una nave che comincia a far acqua?
Neanche a pensarci. Era senz’altro meglio seguire le indicazioni di quell’educatore ed evitare di sprecare tempo ed energia per cercare di risolvere l’irrisolvibile.

Poiché si era rivolto a me con la pazienza che in genere si dedica ai credenti, gli augurai buona Pasqua e nel farlo gli posi una domanda indiscreta:
“Lei è un sacerdote?”
“Sacerdote-educatore” mi rispose. “Insisto, educatore altrettanto quanto sacerdote, perché ci tengo a conciliare la mia fede con il mio impegno sociale”.
Quel giorno, per un istante, la chiesa di Sainte-Claire e Jean-Marie Viénat mi riconciliarono con Ginevra.

Conclusi il mio giro presso un altro centro: l’Arcade aux Grottes. Proprio dietro la stazione. Un quartiere popolare e snob allo stesso tempo. Salvato non si sa come mai, dalla voracità immobiliare delle banche e delle compagnie di assicurazione.
Non ebbi neanche bisogno di bussare alla porta, era già aperta.
Un’anziana signora stava lavorando a maglia. Un uomo di mezza età leggeva il giornale. Un barbone stava smaltendo Dio solo sa che razza di sbornia in un sonno rumoroso. Miserabile quel luogo? No. Pulito e accogliente.
Gentile, l’uomo che mi ricevette sembrava essere di per sé una vera e propria organizzazione di carità. L’amicizia che testimoniava e i segni di affetto che distribuiva gli conferivano un’aura particolare. Per dare un’immagine precisa, basta notare che sul suo volto si sovrapponevano la forza dello sguardo dell’Abbé Pierre e la tenerezza di Leo Ferré. In poche parole, Noël Constant (che bel nome per un animatore di strada che impegna tutti i suoi giorni a rallegrare quelli altrui!) assomigliava molto di più a un frate che a un funzionario. D’altra parte, viveva fra i suoi protetti e sembrava condividere con loro tutto quello che c’era.
Quasi intimidito da tanta onestà, gli rinnovai la mia perfida richiesta e lui mi rispose con l’esatta verità: ragguagliandomi esattamente su com’era la situazione dei sans-papiers a Ginevra. Li conosceva? Lui poteva accoglierli? Quali problemi gli ponevano?
“Lo sa” mi disse, “in Africa sono stato spesso affascinato da quella frase che gli africani affiggono sul frontone dei loro dispensari; è di Pasteur: “non dirmi il tuo nome, né da dove vieni; dimmi solo qual è il tuo male”. Ne ho fatto il mio principio. Quando un disperato bussa alla mia porta, non gli chiedo né il passaporto né la carta d’identità. Cerco di non affliggerlo con costrizioni e interrogatori. Se è arrivato qui da me, è solo perché ha bisogno di me. E ciò è sufficiente”.
“Ma la povertà a Ginevra non rende essa stessa illusorio qualunque sogno di inserimento?”
“Certamente” mi rispose. “Da trent’anni non faccio altro che assistere alla terribile deriva delle cose. Negli anni Sessanta avevamo a che fare con certe bande di teppisti che dovevamo assistere e ospitare dopo i loro scontri. Poi, negli anni Settanta fu la volta degli hippy cui demmo alloggio sul loro cammino per Katmandu. Poi è dilagata la droga. Oggi, arrivano tutti. Non hanno più una sola connotazione, la miseria ha ormai tutti i volti. Non si tratta più di un graffietto che si può curare con l’usuale medicina; è un male ben più profondo”.
“Chi vi aiuta?”
“Su questo terreno, si sa, c’è sfaldamento politico. A Ginevra sì, bisogna dirlo, è la destra la più attenta a prestare l’orecchio. La sinistra, no, non sembra proprio aver preso coscienza dell’entità del naufragio”.
“Com’è che le è venuta questa vocazione di animatore di strada?”
“Durante la guerra d’Algeria. Come moltissimi francesi fui chiamato a combattere laggiù. È la che ho scoperto non solo tutto il male che l’uomo è capace di fare, ma anche e soprattutto la solidarietà che, in definitiva, è sempre importante”.
“E i sans-papiers?”
“Quelli ci scombussolano un bel po’! Quelli danno una pedata ben assestata al nostro formichiere! E noi abbiamo veramente bisogno di darci una bella smossa!”
Qual era il lavoro che avrebbe voluto fare lui, francese di Mâcon, prima di venire ad aiutare i ginevrini ad affrontare i naufraghi della strada?
“Il carrozziere!”
(Permaneva sempre l’immagine dell’incidente e della riparazione).
Parlammo ancora della miseria che si stava rapidamente diffondendo in Svizzera: concentrazione di imprese, delocalizzazione, licenziamenti, incapacità dei politici di controllare il potere economico… mi dipinse un quadro talmente preoccupante che finii per domandarmi se, in fin dei conti, non stessimo tutti per scivolare in una forma inedita di clandestinità. I suoi protetti, lui, io stesso, i lavoratori in procinto di essere licenziati, i disoccupati, i barboni, quelli che erano là provvisoriamente, i governanti, i cittadini… Ognuno ha i suoi timori… Tutto il mondo attende… un po’ di crescita, la ripresa, l’euro, il risveglio dei cinesi, l’addormentamento dei giapponesi, la pace in Palestina, la ricostruzione della Russia… Godot… La paura del domani è diventata la sola certezza. Può essere che proprio quella incominci a fare dei clandestini di tutti noi.

Trascorsi la serata in compagnia della mia consulente algerina a casa di alcuni libanesi che ci accolsero con una profusione di musica e aperitivi orientali. Sciiti di Tiro, erano arrivati a Ginevra dopo l’invasione del loro paese da parte dell’esercito israeliano nel 1982. All’inizio, le autorità svizzere avevano tollerato la loro presenza (vale a dire che avevano chiuso gli occhi sulla loro presenza senza tuttavia accordare loro un regolare permesso di residenza). E così, di centro di accoglienza in ostello, di sovvenzione in sussidio, questa coppia era riuscita infine a convincere l’amministrazione svizzera che sarebbero costati molto meno alla collettività se avessero potuto lavorare legalmente invece di sperperare passivamente i proventi degli aiuti sociali. Per fortuna, a Ginevra e a Berna si trovava un funzionario intelligente che pure la pensava così. Concesse alla coppia un permesso di soggiorno e di lavoro. Al momento attuale (fra tasse e altre imposte sociali), i due rendevano alla Svizzera una somma equivalente a quanto il paese aveva loro accordato sotto forma di sussidi.
Chiesi loro se conoscevano o avessero conosciuto dei clandestini. Mi confermarono quello che già sapevo: un piccolo numero di persone entrate illegalmente e molti invece che, vistosi rifiutato il diritto d’asilo, erano divenuti clandestini loro malgrado.
E loro? Come facevano a vivere in Svizzera? Come consideravano i loro ospiti?
Con cortese indifferenza. In questa città internazionale c’era ben poca commistione di culture e razze. Gli svizzeri se ne stavano lontani e distaccati. I funzionari dell’onu a casa loro. Gli altri stranieri, per conto loro anch’essi. Per il resto, lo stesso che dappertutto: l’inesauribile solidarietà del povero verso il povero.
“Insomma, così così, le cose stanno cambiando” mi disse il nostro ospite. “D’altra parte, Ginevra non è più un cantone protestante. L’incremento demografico e l’apporto di europei del Sud l’hanno fatta diventare una regione a predominanza cattolica(13). Quindi, i rifugiati degli anni Settanta e Ottanta (cileni, brasiliani, africani, ecc.) hanno finito per introdurvi una specie di cultura sui generis. Oh! Non una vera ibridazione, ma un nuovo ritmo di vita. Ad esempio, sebbene protestante, questo cantone ora festeggia il carnevale. Alcuni quartieri stanno acquisendo un profumo d’esotismo (Pâquis, Jonction, Grottes). E persino la municipalità non esita più a organizzare feste terzomondiste e colloqui multiculturali”.
Trascorremmo la notte a discutere ancora di Ginevra, del Libano, degli arabi, dei clandestini e degli altri. Ancora una volta non dormii che qualche ora.

L’indomani lasciai la Svizzera ai suoi dubbi e ai suoi tentativi interculturali e partii in compagnia dell’algerina per quella che doveva essere la tappa più rapida, la più facile e la meno costosa del mio viaggio: Ginevra-Annemasse.
Preso un tram in centro (linea 12, otto franchi il biglietto), ci fermammo una quindicina di minuti davanti alla garitta dei doganieri francesi: Moillesulaz. Al capolinea un edificio blu, moderno, tagliava in due la strada. A destra, la Svizzera. A sinistra la Francia. C’era molto viavai. Svariate autovetture nei due sensi. Gruppi di pedoni. Due o tre uomini in uniforme grigia controllavano il passaggio dal lato della Svizzera. Cinque o sei doganieri in blu si occupavano di quello del lato francese. Il piano “vedetta-pirata” era ancora in vigore e c’erano anche dei militari. Fucile a bandoliera, due soldati osservavano con attenzione il traffico. Senza malanimo né arroganza.
Ci mischiammo alla folla. Senza nemmeno pensare a darmi un contegno, oltrepassai la decina di metri che separavano i due paesi.
A un passo dal confine, una stazione di autobus. Il numero uno (sei franchi) portava direttamente ad Annemasse, e lo prendemmo. Un cartello avvertiva che se l’utente non obliterava il biglietto si sarebbe trovato in una situazione irregolare, io vidimai il mio biglietto. Su quell’autobus, almeno, sarei stato in regola…
Non eravamo che a una decina di chilometri da Ginevra, ma a me sembrava di esserne molto più lontano e mi sentivo infinitamente più a mio agio. Era come se, a dispetto di brontolii e scenate, mi fossi ritrovato accanto a qualcuno che conoscevo e amavo. Perché qui, qualsiasi cosa dicano i nostri rispettivi nazionalisti, uno del Maghreb si può sentire a casa. Che si voglia o meno, la Francia è comunque il paese europeo più prossimo a noi. Quello con il quale è maggiore lo scambio. Quello con il quale discutiamo di più. Ritrovai poco a poco riferimenti e sensazioni vicini al mio bioritmo. Insomma, un po’ più vitalità e un po’ meno silenzio nelle strade. E ancora, più fantasia e odori nei negozi e sulle bancarelle. E poi ancora macellerie “halal” e drogherie come giù da noi! Infine, le donne hanno gli occhi vispi e gli operai apprezzano la baguette, le corse dei cavalli e il bicchierino di rosso! Tutte quelle cose, insomma che mi erano familiari!
In un suo bel saggio, Jean-Claude Guillebaud definisce tutte queste sensazioni, quali le provai arrivando in Francia, “la voce del paese”(14). Da parte mia, direi piuttosto “le voci di questo paese”, tanto la Francia si coniuga al plurale! Che ne sarebbe stato di questo paese se a farlo non vi fossero stati che Normanni e Alverniati? Cosa sarebbe divenuta la Francia senza i suoi italiani, spagnoli, polacchi, algerini, tunisini, marocchini? Non è forse questa singolare alchimia – questa capacità innata che ha la Francia di fondere, mescolare e ricreare – che ha donato a questo paese tanta grazia e intelligenza?
Ad Annemasse, a ogni modo, si apprezzava l’aria di qui e d’altrove, il radicamento e il viaggio, il terreno e il vagabondaggio… Avendo orrore della purezza – ha riempito tanti di quei cimiteri! – volevo vedere in quel profumo un segno beneaugurante… Allo stesso modo in cui vedevo un simbolo forte e rinvigorente ornare la piazza del municipio. In effetti, lasciando perdere deliziose fontane colorate e boccioli di geranio, i costruttori di Annemasse avevano scelto per decorare la piazza del Municipio la statua di un uomo genuflesso e dall’aspetto tormentato. Si tratta di Michele Serveto. Uno degli uomini che contribuirono a far rinascere l’Europa dal suo Medioevo. Sobria e inquietante, l’opera attira l’attenzione. Non si può fare a meno di avvicinarsi. L’incisione sullo zoccolo insegna che Michele Serveto, un adepto della libertà prima del tempo, fu bruciato (in effigie) dall’Inquisizione cattolica e (in realtà) dal riformatore Calvino. Ricordando la vita esemplare di quell’uomo, Annemasse rendeva dunque omaggio al suo martire e onorava in un solo momento, tutti gli uomini liberi…
Che bel messaggio!
Va da sé che un paese che vi accoglie in questo modo non può essere malvagio…

Aiutai la mia compagna a fare le sue spese nei negozi della città; ci fermammo in un labirinto di pasticcerie e di caffè; lei ne approfittò per avere notizie di una miriade di amici. Più tardi, mentre il giorno declinava, le nostre strade cominciarono a dividersi…
Prima di separarci, mi diede un biglietto che recava scritto il nome e l’indirizzo di una signora.
“È una mia amica” mi disse. “L’ho conosciuta a Ginevra dove insegnava il francese ad alcuni immigrati e ad alcuni richiedenti asilo. Ora è in pensione, ma è sempre molto attiva. Vada a trovarla da parte mia! Poiché conosce tutto e tutti tra l’Ain e l’Alta Savoia, la potrà aiutare molto a ottenere il massimo dagli incontri e dalle interviste”.
Mi augurò buona fortuna; le promisi che ci saremmo rivisti; ci abbracciammo come due vecchi complici. Lei prese il suo autobus per Ginevra, io la via della stazione.

La Francia usciva allora dalla doppia questione dei visti e dei sans-papiers. Nel giro di alcune settimane, se si ricorda, un dibattito burrascoso e appassionato aveva contrapposto quelli che proponevano una politica generosa ai difensori della fermezza(15). Chiudere le frontiere oppure aprirle? Rispedire i clandestini a casa loro o accordar loro dei documenti di soggiorno? Regolarizzare tutti i sans-papiers o stabilire dei criteri per farlo? Dopo le sommosse del maggio 1968, non c’era stato più un altro dibattito che avesse tanto scosso la Repubblica. A torto o a ragione, ciascuna parte considerava che in quell’affare si giocava il tutto per tutto! Cosa avrebbe potuto chetare tanta passione? Quale governo avrebbe potuto rispondere a tante domande contraddittorie? Il Parlamento si lacerò, le chiese vennero occupate; manifestazioni invasero le strade; un movimento di disobbedienza civile minacciò lo stato; la Francia rischiò di spaccarsi in milioni di Antigone opposti ad altrettanti Creonte…
Diamine! Sul nostro piccolo battello in preda alle onde verso la Sicilia, eravamo certamente lontani mille miglia dal considerare le cose sotto questa visuale tragica dove si stavano ingarbugliando senza che alcuno potesse sbrogliarle morale e legge, solidarietà e interesse, compassione e realismo. Cullati in un sogno, noi stessi eravamo troppo lontani per indovinare la reazione degli uomini nella cui casa andavamo a sbarcare. Incoscienza? Ingenuità? Disinformazione? No! Molto più banale! Noi eravamo portati a considerare tutto alla luce di certe convinzioni nostre, familiari e ingenue, che giammai ci avrebbero fatto pensare che dei casi personali sarebbero stati parte di una statistica. Di fatto, al momento dell’imbarco eravamo sì ognuno un caso personale, ma non appena sbarcati, ecco che diventavamo tutti dei dati di statistica… Si sa, questo genere di metamorfosi non è mai semplice da comprendere, e ancor meno da ammettere…
A mano a mano che la questione si faceva più complicata rispetto a quanto ci era apparso di primo acchito sulla tranquilla spiaggia di Pantelleria, a questo punto io mi sentivo molto più perplesso che all’inizio del viaggio! La testa rintronava ancora delle dispute italiane sullo stesso argomento, quando mi misi a sfogliare una pila di giornali francesi cercando in qualche modo di fare un po’ di chiarezza almeno dentro me stesso. Più leggevo, più ero sommerso da dubbi e domande. Più tendevo l’orecchio alla bella evidenza degli imperativi morali, più gli argomenti politici mi sembravano legittimi. In una parola, fra i sogni dei miei compagni e le pressioni dei nostri ospiti, mi sentivo sempre meno adatto a fare una scelta ragionevole e definitiva. Regolarizzare quelli che si trovano già sul luogo? Sì! Ma che fare dei prossimi venuti? Impedir loro di arrivare mettendo una vedetta guardacoste davanti a ogni porto? Ridicolo! Attendere i risultati finali di un ipotetico processo di sviluppo che dovrebbe far rimanere quella gente a casa sua? Chiacchiere! Sperare che le curve della crescita demografica comincino immediatamente a invertirsi e a prosciugare i flussi migratori? Insensato! Lasciare che sia quel che sia, lasciar passare? Irrealistico! Bene: né la lettura dei giornali, né la ventina di giorni passati in compagnia dei sans-papiers mi avevano aiutato a schiarirmi le idee. In questo magma, una sola certezza: il disagio patito dagli uni era così grande e il rimedio proposto dagli altri così ridicolo, che in breve la contraddizione sarebbe divenuta insostenibile. In questa nebbia, una sola luce: l’attenzione di cui sembrava dar prova l’opinione pubblica francese offriva, se non una soluzione, almeno un riferimento. Malgrado la sua violenza, in Francia la battaglia dei sans-papiers mostrava a quale punto questo paese fosse rimasto fedele a se stesso, mettendo in luce dei valori, laddove i suoi vicini si limitavano a fare politica. I francesi, elevandosi ben al di sopra delle camarille italiane, delle vanità svizzere o del pragmatismo germanico e cercando di stanare i veri giochi del dibattito sui flussi migratori, capivano almeno come la presenza degli stranieri tra di loro ponesse dei problemi ben più seri a fronte delle semplici misure repressive immaginate a Schengen. Senza dare risposte, offrivano almeno un piano di riflessione.
La Francia era più grande di quanto essa stessa non pensasse?
Di fronte alla mia nuova consigliera, la domanda si poneva senza discussione!
Modesta e timida, il portamento e lo sguardo sottolineati da quella eleganza austera che faceva tanto “Vecchia Francia”, mi accolse nel suo villino di Loisin, una frazione della Savoia situata tra Ginevra e Thonon. A parte la televisione che troneggiava in mezzo al salotto, tutta la sua casa ricordava la casa del signor Bienvenu; ella stessa rassomigliava alla signorina Baptistine, la sorella del buon vescovo de I miserabili…
“Anch’io, come moltissime persone” mi disse, “sono scesa in piazza contro il progetto di legge Debré. Era il minimo. Non si poteva lasciar passare un simile testo senza reagire. Non che facesse presupporre la volontà di Debré di instaurare uno stato di polizia, ma il suo progetto trasudava disprezzo. Sappiamo bene, oggi, in Europa più che altrove, come il disprezzo di un solo uomo causi spesso il disprezzo di tutti gli uomini…”.
“Può essere” le risposi, “ma il governo francese si è trovato di fronte a un problema reale! Più di centomila sans-papiers…!”
“Questo problema viene drammatizzato a torto” ribatté, “senza conoscere le cifre esatte e le precise realtà, la gente si spaventa e perde il senso della misura. Guardi come la televisione è maestra in questo esercizio di sceverare e spaventare. Ogni giorno, all’alba o al crepuscolo (ma in ogni caso in una luce poco chiara), fa vedere questi mali. Sempre in massa, però! La telecamera disdegna i primi piani perché vuole imporre l’immagine della moltitudine. Il giornalista non lascia, se non molto di rado, la parola a uno di quegli uomini poiché bisogna far vedere la quantità della folla, non i singoli esseri umani. E così riescono a inoculare la paura! Ma non fanno certo una buona azione…”.
“Sì! Ma le cifre son da far impressione!” le dissi. “Quasi duecentomila sans-papiers in Italia! Più di centoventimila in Francia! Non è poco… per i tempi che corrono… E poi anche la gente da alloggiare, sfamare, di cui prendersi cura e a cui dare un lavoro…”.
“Certo!” sospirò “ma non è sicuramente giocando sulla paura che risolveremo il problema. Finora la paura non ha fatto altro che invischiare la questione dei sans-papiers in un’ondata di considerazioni fantasmagoriche (immigrazione zero, rinforzo dei controlli di polizia, rinvio dei clandestini a casa loro, ecc.). Però poi non è stata offerta alcuna risoluzione al problema. I battelli continuano a portare gente. Uomini e donne continuano a sprofondare. Le mafie dei passeur continuano ad arricchirsi. In questo tempo il Parlamento francese è arrivato alla ventiseiesima revisione della sua legge sugli stranieri… L’Unione Europea non ha ancora finito di redarguire l’Italia… La dogana spagnola sogna ancora di chiudere Gibilterra… La Svizzera sogna di mettere l’esercito ai suoi confini… Che razza di spreco di energie! Quanto tempo e quanto denaro buttati! Per che cosa? Per dei risultati insignificanti!”
“Ha delle soluzioni?”
“Riflettere da soli nel proprio angolo non serve a nulla!” disse. “Bisognerebbe riuscire a convincere un partito politico a farlo! Adesso, in Francia, a parte il Movimento dei cittadini di Chevènement(16), non so quale altro partito potrebbe intraprendere una seria riflessione su questo problema…”.
“Ma per quanto riguarda le sue riflessioni…”.
“Le soluzioni reali sono a monte”.
“Ah! Non mi tirerà di nuovo in ballo il discorso dello sviluppo!” gridai. “Sono molti a farlo! È la questione del lungo termine. Ma come ben sa, il grande Keynes stesso aveva detto che sul lungo termine saremmo stati tutti morti!”
“Calma, amico mio. Lasci che le esponga le mie idee. Le soluzioni di cui le parlo esigono un po’ di curiosità e di immaginazione. Uno dei tentativi, ad esempio, consisterebbe nel cercare di conoscere i candidati alla partenza come clandestini sul loro stesso territorio, le realtà precise che essi vorrebbero fuggire e i progetti personali che li spingono all’esilio…”.
“Lo si sa già”.
“Vediamo! Ripetere a Parigi o a Ginevra che sono miseria e sottosviluppo a spingere quella gente ad andarsene non è che una di quelle sparate di cui si nutrono ancora i terzomondisti. In realtà non sanno nulla dei clandestini. A parte quelli che sono gli illegali dell’urgenza (fughe in massa davanti a un massacro, ricerca collettiva di un rifugio davanti a un pericolo imminente, ecc.), si dovrebbe andare a esaminare più da vicino i profili degli altri candidati al viaggio clandestino. Se ci sarà modo di ascoltarli e osservarli sul posto, ci si sorprenderà di constatare che non sono per forza i più poveri né i meno scolarizzati che si lasciano tentare dall’avventura. Al contrario, quelli che osano lanciarsi nell’impresa sono di solito i più lucidi e i meglio informati. È il caso di tutti i sans-papiers che ho avuto occasione di incontrare ad Annemasse, Grenoble o Lione… Oltre a essere ben informate, tutte queste persone affermano di non aver scelto la clandestinità che per ritornare al proprio paese dotate di quel poco di più, finanziario e tecnico, che permette una vita decorosa a casa propria. La maggior parte aggiunge di non cercare un inserimento definitivo in Europa, bensì a termine, per creare nel paese d’origine una piccola impresa (un garage, una panetteria, un ristorante, una pensione, ecc.)
“Ora, muovendo una parte delle risorse attualmente stanziate per l’aiuto allo sviluppo, si potrebbero prendere in parola questi giovani, dar loro fiducia e incoraggiarli a sviluppare il loro spirito d’impresa sul posto, anziché andare incontro a una lotta incerta contro il mare, i passeur, i doganieri e le varie polizie…”.
“L’aiuto diretto alle microimprese come alternativa all’immigrazione illegale!”
“Perché non provare questa pista?
“Lo scacco subito dai piani macroscopici di sviluppo è ben palese e la cooperazione internazionale è ingolfata nei suoi propri insuccessi. Perché dunque non utilizzare una parte di questi capitali inghiottiti da pozzi senza fondo per identificare, sostenere e finanziare queste piccole imprese? Direttamente, senza passare attraverso i dispositivi pesanti e spesso inefficaci delle amministrazioni locali, ma utilizzando ad ampio raggio i contatti delle associazioni, le scuole tecniche, i sindacati…”.
“E per quelli che sono già qui?”
“Invece di mettere polizia e dogana sulle loro tracce (cosa che costa un sacco di denaro a fronte di risultati estremamente discutibili), si potrebbe peraltro utilizzare una parte dei mezzi impiegati in misure repressive per individuare quelli che hanno delle idee realistiche, considerarne i progetti e sostenerli negli sforzi per creare microimprese nei loro paesi d’origine…”.
“Ma non è un po’ rischioso?”
“Direi che si va pari! Non è né più costoso né più rischioso della situazione attuale. Una volta messo in atto, potrebbe pure rivelarsi più efficace di tutte le dogane di Schengen e più realistico di quelle centinaia di progetti di sviluppo nei quali milioni di franchi vengono inghiottiti senza riuscire a produrre una briciola di sviluppo… Inoltre, ciò potrebbe contribuire a stabilizzare i movimenti della popolazione creando delle fonti di ritorno sul luogo; questo, pari all’aiuto diretto alla microimpresa, non sarà in fondo che una forma di giustizia resa a quella giovane gente. Dopo tutto, sono naufraghi degli aiuti allo sviluppo… Aiuti di cui loro hanno atteso invano i risultati… Non vedendo arrivare nulla, si son gettati in acqua, con la testa piena di progetti…”.

Stava scendendo la sera, dovevo andarmene. Prima di lasciarmi riprendere il cammino, la signora mi propose un incontro con dei militanti per la regolarizzazione dei sans-papiers e con un consigliere generale che si opponeva a queste misure. Declinai l’offerta. A quale scopo aggiungere argomento su argomento?
Bisognava avventurarsi più lontano?
Ci riflettei su un istante, la stanchezza cominciava a farsi sentire, finii per dirmi che l’Europa si stava uniformando e io non avevo da attendermi più altre sorprese da questo mio viaggio. Da Londra a Berlino, da Barcellona ad Amsterdam, gli stessi sans-papiers stavano certamente per accarezzare gli stessi sogni; gli stessi governi stavano senza dubbio per dare le stesse risposte. Poteva darsi, qui o là, secondo il colore del governo locale o la vivacità della memoria collettiva, che si sarebbe riusciti a mercanteggiare qualche numero oppure ad attenuare qualche disposizione, ma restava comunque lo stesso dilemma dappertutto: tra la speranza dei sans-papiers e l’angoscia degli indigeni, il margine di manovra era sempre più ridotto…

Il viaggio volgeva al termine, ritrovai la piccola stazione di Annemasse e, attendendo il treno, cercai di combattere contro il sonno e la solitudine. Avevo avuto appena il tempo di sedermi e di maledire la fredda Europa di Schengen che si offrì ai miei occhi un’Europa disinvolta e spensierata. Alcuni giovani (certo francesi d’origine magrebina) invasero la sala d’attesa. Con la musica ad alto volume si accaparrarono il luogo, fecero piazza pulita e diedero una sorta di show improvvisato. Rapper. Rasta. Graffitari. A proprio agio nelle loro scarpe da ginnastica, nei loro maglioni troppo larghi e nei loro pantaloni che scendevano sulle anche. Belli. Vitali. Frizzanti. Si dimenavano. Canticchiavano. Danzavano. Ripresi fiato. Ritrovando istantaneamente la leggerezza delle cose, realizzai di aver vissuto, con l’anima offuscata dalla spelonca della clandestinità, dei lunghi giorni senza musica. Come un cercatore d’oro piegato sulla riva di un fiume, mi ero dunque ripiegato dentro una grande assenza! Non avevo più occhi che per lo scintillio improbabile di quelle pepite; non sentivo più se non i pianti disperati dei miei compagni. Silenzio e tumulto interiore. Era dunque quella la clandestinità! Un’immersione in un mondo dissonante! Veloce! Riemergere! Rivedere il giorno! Riprendersi il frammischiamento delle feste e delle melodie della vita! Al diavolo Schengen! Al diavolo la paura! Il cuore era a nozze, mi cullai; mi rilassai… Avevo riso stupidamente? Forse per quel motivo uno dei danzatori venne verso di me con un’aria falsamente minacciosa:
“Tutto bene fratello?”
“Sì, sì, tutto bene!”
“E che c’è da ridere?”
Potevo forse dirgli che ridevo all’idea che avremmo potuto essere in procinto di festeggiare in quella stazione rossastra il matrimonio dell’arcigna fiamminga con l’uno o l’altro dei sognatori del consolato?
“Niente di speciale!” gli risposi sorridendo.
Si allontanò e, mugugnando, tornò alle baruffe con i suoi compagni che incominciarono a distrarlo con colpi di ginocchia e frasi enigmatiche. Tesi l’orecchio. Tentai di captare qualche parola. Impossibile! Il senso delle frasi mi sfuggiva del tutto. Non che quei giovani fossero confusi o le loro parole sbagliate oh, no! – parlavano bene il francese e masticavano pure un po’ di verlan. No. Ero io che non riuscivo più a seguire il discorso. Ma che bello sentirli! Che lingua meravigliosa! Fatta di nuvole e d’argilla, magica e terra terra, dolce e graffiante. Un glossario che contemplava una mistura di alghe e stelle alpine. Una miscellanea di espressioni nel contempo fresche e amare. Come delle caramelle alla menta che si ha voglia di mettere in bocca e succhiare lentamente. Si divertivano a cinguettare; non ce la facevo più. Dovevo assolutamente sapere che cosa significava quell’espressione che non finivano di rimandarsi ridendo come una palla da tennis.
“Porca puttana, trasudi la tua razza da ogni poro!”
“Smettila di trasudare la tua razza!”
“Trasudare la razza?” mi disse il capo banda “vuol dire soltanto aver paura”.
Chiusi gli occhi e, come si fa quando si è presi da un attimo di raccoglimento sulla tomba di un milite ignoto, mi misi a pregare per l’anima di quell’anonimo poeta che aveva saputo in un’immagine folgorante esprimere tutte le pene di questa fine secolo…

 

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Note:

(5) Che vi si giunga dalla Francia, dall’Italia, dalla Germania o dall’Austria, in Svizzera si arriva soltanto scendendo.
(6) Era proprio quello che pensavo su quella strada del Sempione. Appena oggi, ritornato alla serenità della lettura e alla tranquillità del mio ufficio, mi sono reso conto che non era quello il colle che Annibale aveva preso, ma quello del San Bernardo, situato qualche chilometro più in là… Chiedo scusa! Ma non mi rimprovero quell’errore. In fondo mi ha tenuto compagnia per almeno una buona mezz’ora…
(7) La famosissima astrologa di “Télé 7 jours”, guru di François Mitterrand e scrittrice affermata [N.d.T.].
(8) La maggior parte di coloro che chiedono asilo politico in Svizzera si lamentano invariabilmente dell’atteggiamento dei funzionari: questi sembrano più preoccupati di scovare eventuali menzogne nelle dichiarazioni del candidato (ovviamente per ritorcergliele contro e rifiutare la sua domanda) che d’istruire una pratica veritiera e senza pregiudizi.
(9) A più riprese, la Commissione dei diritti dell’uomo dell’onu e la Corte europea di Strasburgo hanno denunciato queste misure di costrizione. La Svizzera continua ad applicarle…
(10) Il quadrato [N.d.T.].
(11) A mio avviso, una delle migliori descrizioni di questi ambienti si trova nel libro di Graham Hancock, Lords of Poverty, Mandarin, Londra 1989.
(12) Caré: Caritas, Accueil, Rencontres, Échanges (Caritas, Accoglienza, Incontri, Scambi).
(13) Un pregiudizio ricorrente in Svizzera vuole che i cattolici siano più aperti e più liberi dei protestanti…
(14) J.-C. Guillebaud, L’accent du Pays, Seuil, Parigi 1990.
(15) Marzo 1997: L’Assemblea Nazionale si apprestava a votare gli emendamenti Debré alla legge Pasqua… Le nuove disposizioni andavano tutte verso un senso di indurimento delle condizioni di entrata e di soggiorno degli stranieri in Francia…
(16) Jean-Pierre Chevènement, oppostosi al trattato di Maastricht, abbandonato il Partito socialista nel 1992, ha fondato il Mouvement des Citoyens (mdc), il Movimento dei cittadini del quale è presidente. Sono sue la contestatissima circolare sulla regolarizzazione dei sans-papiers e una legge sull’entrata e il soggiorno degli stranieri, in favore dei clandestini [N.d.T.].

 

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