Respiro. Il ritmo della porosità del vivente 1/2

Indice:  1. Il diritto universale di respirare • 2. Esistere è respirare • 3. L’ordine del respiro • 4. La pausa del respiro • 5. Bioenergetica del respiro • 6. Per una cultura del respiro • 7. Poetica del respiro • 8. La scrittura del respiro • 9. Aristotele: il respiro fra biologia e teoria del linguaggio • 10. Il respiro in questione • 11. Il respiro ama nascondersi • 12. Respirare nella luce.

Oggi pubblichiamo i primi sei capitoli. Domani si potrà leggere gli altri sei. Una buona lettura.

respiro e aria abbracciano il mondo intero, Anassimene, DK 13B2

 

 

1. Il diritto universale di respirare

 

Uno dei primi sintomi dell’infezione da Covid-19 è quello di sentirsi il respiro mancare. Ciò significa che così noi siamo colpiti nella prestazione più naturale e spontanea del nostro organismo: nell’azione che, in ogni momento, viene da noi compiuta automaticamente e senza neanche pensarci. Ma proprio questo è il punto: ciò che avveniva nello spazio della più vitale libertà, deve essere ora protetto, tenuto sotto controllo, messo a distanza dagli altri, esercitato in modo da interrompere quel flusso interattivo di energia che, esplicandosi senza sosta, ci tiene permanentemente connessi agli altri e all’ambiente che ci circonda. È così che il respiro, da fenomeno di cui, fin qui, sapevamo solo lo stretto indispensabile, è diventato un oggetto che necessita di una riflessione più approfondita, tale che, enucleandone criticamente i diversi aspetti, ci porti a prendere coscienza del fatto che, in esso, giunge a espressione uno dei diritti umani universali e più elementari.

Ora, chi ha fatto oggetto di un’acuta riflessione soprattutto quest’ultimo punto è stato il filosofo camerunense, nonché teorico fra i più importanti del post-colonialismo, Achille Mbembe. Egli nota come lo stato di precarietà ecologica in cui ci troviamo rappresenta già un vero e proprio attentato ai danni della vita: un attentato il cui principale risultato è, appunto, quello di “toglierci il respiro”. Il fenomeno del Covid-19 non ha fatto altro, quindi, che prolungare – e rendere più acuto – uno stato di fatto già esistente. Ne viene che, se la respirazione consiste in un assorbimento di ossigeno e in un rilascio di anidride carbonica, noi non siamo molto lontani dal momento in cui ci sarà più anidride carbonica da inalare che ossigeno da respirare.

 

Prima di questo virus, l’umanità era già minacciata di soffocamento. Se deve esserci una guerra, questa non deve essere tanto contro un virus specifico, ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità alla cessazione prematura della respirazione, tutto ciò che attacca fondamentalmente le vie respiratorie, tutto ciò che sulla lunga durata del capitalismo avrà confinato dei segmenti interi di popolazioni e intere razze a una respirazione difficile, senza fiato, a una vita pesante. Ma per uscirne, è ancora necessario capire la respirazione al di là degli aspetti puramente biologici, come quello che ci è comune e che, per definizione, sfugge a tutti i calcoli. In questo modo possiamo parlare di un diritto universale di respirare.

 

E così prosegue:

 

Il diritto universale di respirare non può essere qualificato, poiché esso è il nostro terreno comune ma a differenza del suolo non è possibile appropriarsene. È un diritto che concerne l’universalità e non solamente ciascun membro della specie umana, ma il vivente nel suo insieme. Deve quindi essere inteso come un diritto fondamentale all’esistenza. Come tale, non potrebbe essere oggetto di confisca e quindi sfugge a qualsiasi tipo di sovranità perché condensa, in sé, il principio sovrano. Questo perché costituisce un diritto primordiale di abitare la Terra, un diritto specifico della comunità universale degli abitanti della Terra, umani e non1.

 

In un altro suo contributo sullo stesso argomento, Mbembe ci presenta la «domanda giusta» con cui, in questo preciso momento storico, tutti noi, senza alcuna eccezione, dobbiamo commisurarci e fare i conti.

 

Se il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasse planetaria nella quale si trova l’umanità allora ci toccherà ricostituire una Terra abitabile perché offra a tutti la possibilità di una vita respirabile, né più né meno. Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza a una medesima specie e il nostro indivisibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, la domanda che va posta, l’ultima, prima che la porta si chiuda una volta per tutte2.

 

Mbembe non esclude, inoltre, che, dato lo stato in cui si trova attualmente la Terra, eventi paragonabili al Covid-19, ossia nuove forme di pandemia, possano ripetersi anche in un futuro relativamente prossimo. Poiché molti segnali indicano in direzione della possibilità di una nostra distruzione, tutto ciò scatenerà, non solo, sempre più «grandi paure accompagnate da esplosioni irrazionali», ma contribuirà anche a sollevare, in modo ogni volta più acuto, «la questione del diritto di esistere, del diritto di respirare»3.

Il principio per cui la libertà è – prima di ogni altra cosa – il diritto umano di respirare ha attirato su di sé una grande attenzione, nella cronaca dei tempi della pandemia, con l’ondata sterminata di pubbliche manifestazioni che hanno fatto seguito all’uccisione, negli Stati Uniti, di un uomo afroamericano, George Floyd, da parte di un poliziotto bianco, il quale lo ha soffocato, premendogli un ginocchio sul collo. Ebbene, in questa occasione, molti dei manifestanti gridavano e agitavano, scritte su un cartello, le ultime parole pronunciate dall’uomo prima di soccombere: «I cant breathe», «non riesco a respirare». Parole divenute così l’icona di protesta di tutti coloro i quali hanno reclamato giustizia per l’omicidio.

Un particolare ha dato molto da riflettere: il fatto che i manifestanti indossassero, ovviamente, delle mascherine, rimarcando che non fosse mai dimenticata la morte per soffocamento dell’uomo, ha permesso che il grido da lui lanciato con l’ultimo fiato rimastogli fosse da loro evocato nel modo quasi altrettanto smorzato e cupo in cui è stato emesso4.

Tornando ad «I cant breathe», va detto che queste parole sono divenute, in brevissimo tempo, un vero e proprio slogan, portatore di un valore di contestazione ancora più generale, rispetto al loro riferimento puntuale al fatto di cronaca precedentemente ricordato: contestazione contro il “soffocamento” che il potere economico, politico e ideologico esercita su di noi nella società globale. In tal senso, riflettendo sul significato non solo «esistenziale», ma anche – e soprattutto – «politico» del respiro, la filosofa Donatella Di Cesare, nel suo libro Il tempo della rivolta, scrive che «I cant breathe è assurto a inno delle rivolte, insieme atto d’accusa contro la prevaricazione del potere e denuncia di quel sistema d’asfissia che ruba il fiato».

 

Nel vortice compulsivo del capitale, quella spirale catastrofica ha reso il respiro un privilegio per pochi, è l’affanno degli sfruttati che viene in primo piano, di quanti devono piegarsi al ritmo accellerato senza pausa, dei più vulnerabili confinati all’angustia opprimente. I can’t breathe è divenuto così lo slogan che rivendica il diritto di respirare, cioè il diritto politico di esistere5.

 

2. Esistere è respirare

 

«Esistere è respirare»: così leggiamo in un altro libro di Donatella Di Cesare, Virus sovrano? Lasfissia capitalistica, dove la filosofa rileva che, se un insegnamento ci è venuto mai dalla pandemia, esso consiste nel fatto che, sì, salvarsi è possibile, ma solo a una condizione: quella di attivare il principio dell’aiuto reciproco. E così prosegue:

 

Ecco perché questo evento dovrebbe spingere a ripensare l’abitare, che non è sinonimo di avere, possedere, bensì di essere, esistere. Non significa essere radicati nella terra, bensì respirare nell’aria. Lo avevamo dimenticato. Esistere è respirare. È l’esistenza che viene fuori, che si decentra, migra, inspira l’alito del mondo e lo espira. Lo proietta fuori di sé, s’immerge e riemerge, partecipando così alla migrazione e alla trasformazione della vita. Questo non vuol dire andare alla deriva nel cosmo. Il respiro che torna, quel movimento ritmico che scandisce il nostro essere nel mondo, suggerisce che siamo tutti estranei, ospiti provvisori, migranti rinviati l’uno all’altro, stranieri residenti6.

 

Lo stesso pensiero, che abbiamo appena visto esposto, per cui proprio a partire dal respiro dovremmo spingerci a «ripensare l’abitare», lo troviamo espresso anche in uno scritto del filosofo Paolo Missiroli, il quale, per questa via, arriva a parlare di una vera e propria «politica del respiro».

 

Una politica del respiro è però sempre, appunto, una politica dell’abitare. Abitare è l’atto con cui i viventi si rapportano ad un mondo non vissuto come indefinitamente modificabile, ma come fondato sulla non-appropriabilità. Tale spazio in cui si vive (e che viene, certamente, trasformato) non è dato per essere integralmente distrutto e ricostruito, non è riducibile ad una piantagione. Esso ha dei margini che non sono costruibili. Risulterà chiaro come sia sempre inevitabile, trattando di questi temi da questo punto di vista, l’idea di intersezionalità. Si può respirare solo dove si può abitare […]. “Abitare” significa precisamente […] permanere in quel relativo, mobile, non essenziale, spazio di limite. […] Una politica del respiro è sempre una politica che costruisce un abitare in cui sia possibile respirare7.

 

E di una «politica del respiro» parla anche il filosofo Federico Della Sala, il quale nota come l’evento pandemico abbia circoscritto «una soglia, un territorio ambiguo tra […] respiro e asfissia, guarigione e malattia, solidarietà e immunità», nel senso che è proprio «nell’orrore dell’asfissia che occorre ritrovare una tensione messianica che faccia del respiro un gesto solidale e ritmico, comune e salvifico; un gesto in grado di non mancare l’appuntamento con le generazioni passate e venture, con gli ambienti che dimoriamo e che ci ospitano, con i mondi che popoliamo e ci abitano». Ma che cosa dobbiamo intendere esattamente per «tensione messianica»? Ecco le parole che ce lo spiegano:

 

L’asfissia capitalistica è […] il momento in cui il divenire accelerato ed agitato implode – o si piega – nella quiete mortifera del sempre uguale. Se apocalittico è questo eccezionale movimento di eterno ritorno che definisce tanto la sistematicità del processo produttivo, quanto la normalità dell’atmosfera panica ed immunitaria – e che dunque sottrae il respiro, disperde le voci, riduce al silenzio e all’asfissia –, messianico è quel movimento che, nell’estremo limite della catastrofe, interviene per spezzare la ciclicità restituendo fiato, parola, giustizia. […] [O]ccorre cioè sviluppare un’idea politica che sappia cogliere nell’irrespirabile aria del capitalismo e nel catastrofico rallentamento imposto dal virus la chance per una nuova maniera dell’abitare e del respirare8.

 

Ma, ancora più radicalmente che di una «politica del respiro», possiamo arrivare a parlare anche di una «biopolitica del respiro». Lo spunto ci viene ancora da Achille Mbembe, il quale, in un’intervista, afferma che il coronavirus ha modificato sostanzialmente il nostro modo di concepire il corpo umano. Esso si è trasformato, infatti, in un arma, in una minaccia per gli altri, dal momento che, attraverso il contagio, noi possiamo uccidere qualcuno.

 

La pandemia cambierà il modo di occuparci del nostro corpo. Il nostro corpo è diventato una minaccia per noi stessi. […] Ora abbiamo il potere di uccidere. Il potere di uccidere è stato così assolutamente democratizzato. L’isolamento è, per l’esattezza, un modo di regolamentare questo potere.

    

Ribadendo che il coronavirus «colpisce e compromette la nostra possibilità di respirare», Mbembe afferma che ora spetta agli ospedali e ai governi nazionali il compito di decidere chi potrà continuare a respirare e chi no.

 

La questione è quella di trovare come garantire a ogni individuo di avere la possibilità di continuare a respirare. Dovrebbe essere questa la nostra priorità politica.

 

«Dovrebbe essere», perché ciò che Mbembe vede come tratto dominante in materia di decisioni politiche è, invece, ancora una volta, quella «logica del sacrificio che è stata sempre l’anima del neoliberismo».

 

Questo sistema ha sempre funzionato come se fosse un apparato di calcolo, in base all’idea secondo cui qualcuno vale più degli altri. E chi non ha alcun valore può essere scartato. La questione è che cosa fare con quelli che decidiamo che non valgono nulla. Questa domanda, ovviamente, riguarda sempre le stesse “razze”, le stesse classi sociali e gli stessi generi.

 

L’intervista termina toccando un tema che ci ricorda, ancora una volta, quanto prioritario, da parte nostra, sia acquisire un modo “non-garantito” di abitare la Terra.

 

Ciò che rivela questa pandemia, se la prendiamo sul serio, è che la nostra storia, qui sulla Terra, non è garantita. Non c’è garanzia che resteremo qui per sempre. Il fatto che sia plausibile che la vita continuerà senza di noi è la questione chiave di questo secolo9.

 

3. L’ordine del respiro

 

Accostiamoci ora alla riflessione condotta sul respiro dal poeta e filosofo francese Jean-Christophe Bailly, secondo il quale, nel semplice fatto di respirare, di sentirsi respirare, si annida «una sorta di infra-cogito più umile», nel cui segno noi prendiamo coscienza di come, attraverso l’inspirazione e l’espirazione, «il fuori e il dentro non solo comunicano, ma si compenetrano reciprocamente», sull’onda di un «va e vieni» intricato e ininterrotto.

 

[È] come se nella respirazione si condensasse ritmicamente la tensione drammatica dell’esistenza dei viventi – venuta in vita (inspirazione) e partenza dalla vita (espirazione), nascita e morte, ma in una solidarietà che solo la morte (la morte a quel punto da sola) interrompe10.

 

Bailly definisce, inoltre, la respirazione come la «forma evidente» dell’«estimità del vivente verso se stesso»11, come una di quelle tante «porosità», o «protocolli di scambio», che istituiscono e rendono possibile la «diversità dispiegata» del vivente stesso, «nelle sue differenti forme e occorrenze»12.

 

La respirazione la vediamo fuori di noi nel corpo degli altri e nel corpo delle bestie […]: è la forma animale di essere in vita, lo spazio della nostra emozione più propria, il ritmo fondamentale con cui identifichiamo la vita e i viventi; è anche e ancora il sintomo della vita che permane e resiste. […] Ma quello che permane ha […] la sottigliezza di un filo, e questo filo di esistenza non dura che il tempo di un accordo con l’immensità di un fuori di cui l’aria, passando per le narici, è l’ultimo messaggero. Vale a dire che il vivente – […] ogni vivente – non risulta da un semplice dischiudersi […] ma si costituisce e si produce da subito e fino alla fine come porosità13.

 

E a questo punto, viene presa di mira, polemicamente, la nota affermazione di Heidegger, secondo cui la pietra si differenzia sostanzialmente dall’uomo, per il fatto che essa è «senza mondo, priva di mondo, non ha mondo»14. Certamente, noi non siamo soliti inserire le pietre nella cerchia dei viventi. Eppure, anch’esse, in qualche modo, vi ci sono comprese, se per “vivente” intendiamo «ciò che accade in quanto non accade mai da solo»: quell’intreccio di «sistemi di scambio e porosità» cui una pietra partecipa e dal quale non può essere mai esclusa.

 

Quel che conta non è tanto se la pietra abbia o meno un mondo, ciò che conta è cosa sia venuta a fare al mondo, è che cosa vi faccia nel momento in cui un essere vivente (respirante) la incrocia […]. Non si tratta in alcun modo di attribuire, a questa pietra, l’ombra o i presagi di una qualche coscienza di sé […]. Semplicemente accade che, dal vivente, la pietra non possa essere esclusa senza che il vivente, invece di essere la sua stessa venuta […], la sua stessa immensità, non diventi una semplice categoria dell’essere, una semplice sottrazione15.

 

Il punto è che Heidegger non arriva mai a concepire il semplice depositarsi della pietra sul suolo come un’azione: l’«azione specifica di una forza esercitata in un punto preciso dell’estensione»16. Ecco, infatti, che cosa egli scrive al riguardo:

 

la pietra giace sul sentiero. Diciamo: la pietra esercita sul suolo una pressione. Nel farlo “tocca” la terra. Ma […] [l]a terra per la pietra non è data come sostegno, come ciò che [la] sorregge […]. La pietra giace sul sentiero. Se la gettiamo sul prato vi rimane ferma. […] La pietra si trova, a seconda delle circostanze, ora qua ora là tra e in mezzo ad altre cose, in un modo tale che ciò tra cui sussiste non le è, per essenza, accessibile. Poiché la pietra, nel suo essere-pietra, non ha alcun accesso alle altre cose, tra le quali si trova17.

 

Ma, anche se ferma e immobile, la pietra lascia pur sempre un’impronta nel posto in cui giace: impronta la quale è, indubbiamente, un che di “vivente”, nella misura in cui è indice di «un rapporto (una pressione, una dolcezza, un’insistenza)» fra la pietra stessa e il suolo che l’ha ricevuta.

 

La distanza che separa il respiro […] da questa semplice azione, da questo semplice depositarsi della pietra, è senza dubbio grande. Ma quello che si dovrebbe poter immaginare è esattamente di percorrere questa distanza e ricollocare la pietra, che di certo non respira, nell’ordine del respiro, proprio perché è posata e perché, così posata in un punto preciso del mondo, presuppone che ci sia intorno a lei un’infinità di altri punti e di altri contatti18.

 

Ciò a cui ci invita Bailly è così a ripensare radicalmente il concetto di “inerte”: a scorgere in esso una riserva “segreta” di senso19, a coglierlo – in linea con l’esempio della pietra depositata sul suolo – come l’altro lato – “dormiente” e non-attivo – della sfera del vivente20, nonché a ricollocarlo entro l’«ordine del respiro», inteso come quel principio che, nella porosità della logica che lo governa, fa sì che questa stessa sfera si faccia “mondo”, ossia principio di un accesso relazionale all’ente, proprio nel senso in cui lo intende Heidegger.

In merito a tutto ciò, il pensiero corre subito a quel frammento (DK 13B2) di Anassimene – già richiamato in esergo – in cui, a proposito di «respiro (pneûma) e aria», si afferma che essi «abbracciano (periéchei) il mondo (kósmos) intero»21. Qui, l’identificazione dell’archè con l’aria discende dal fatto che è proprio a quest’ultima – in quanto divina e, quindi, animata – che si deve la vita, nel senso che, se «ciò che vive respira, allora l’intero universo che vive, e che è immerso nel pneûma, e quindi nell’aria, respira»22.

 

Anassimene […] sta dicendo che l’aria è un principio vitale, in quanto grazie ad essa tanto l’uomo quanto l’universo respirano, e dunque vivono23.

 

In più, stando a quel che si evince dal frammento in questione, è possibile vedervi compiutamente espresso un pensiero di «stampo indiano»24, riguardo, ad esempio, alla dottrina dell’identità fra il Brahman (l’anima vitale del mondo) e il prāna, ossia il respiro, di cui la tradizione vedica ci dice che è ciò da cui tutto deriva e ciò a cui tutto obbedisce25.

In merito al prāna, inteso come un principio di portata universale, nonché come ciò che costituisce il «nostro vero nutrimento», sentiamo quel che afferma André von Lysebeth, cui va il merito di essere stato uno dei pionieri quanto alla diffusione dello yoga in Occidente.

 

Grazie al prāna, il vento soffia, la terra trema, l’ascia si abbatte, l’aereo decolla, la stella esplode e il filosofo pensa. Il prāna è universale. Noi esistiamo in un universo di prāna del quale ogni essere vivente è un vortice. […] Il prāna esiste nel cibo, nell’acqua, nella luce del sole […]. L’aria, l’acqua, gli alimenti, la luce solare veicolano il prāna da cui dipende qualsiasi vita animale e persino vegetale. Il prāna penetra il corpo persino là dove l’aria non può arrivare. Il prāna è il nostro vero nutrimento, poiché senza di esso, non è possibile alcuna vita. […] Tutti questi fenomeni diversi sono manifestazione del prāna universale. Ovunque c’è movimento nell’universo, là si manifesta il prāna26.

 

E ciò che vale per lo yoga e per tutte le pratiche a esso affini vale poi anche per le forme di meditazione Zen, se è vero che qui la posizione del corpo e «il modo di respirare richiesti […] sono la prima cosa che ogni allievo […] deve imparare»27. Ma da ricordare, in questo contesto, è anche uno degli insegnamenti trasmessi dal Buddha ai suoi discepoli: l’Anapanasati sutta, il quale è un discorso (sutta) che tratta della «consapevolezza (sati) del respiro (anapana)», ossia di quello stato di attenzione concentrata che viene raggiunto disciplinando l’inspirazione e l’espirazione: uno stato che non si consegue, alla maniera occidentale, attivando le facoltà razionali dell’uomo, ma, appunto, attraverso una facoltà corporea quale è il respiro, vista come la via privilegiata di connessione fra corpo, mente e spirito.

Nel buddismo, questa pratica segna l’inizio di ogni seduta di meditazione, la quale, a partire dalla consapevolezza di respirare, si evolve poi attraverso i gradi della presenza mentale, del risveglio e della conoscenza liberante. Le istruzioni fornite dal Maestro, relative agli esercizi respiratori da svolgere, sono sedici e devono farci raggiungere, nell’ordine, la quiete corporea che rigenera, la chiarezza mentale che libera e la compassione spirituale che guarisce28.

 

4. La pausa del respiro

 

Prima, abbiamo detto che il ritmo del respiro è contrassegnato dai due momenti che lo scandiscono: l’inspirazione e l’espirazione. Ma da non dimenticare è che fra l’uno e l’altro cade un terzo momento, non meno essenziale: la pausa. E proprio sul controllo del respiro e sull’impostazione corretta di esso, nelle tre fasi che lo compongono, si basano molte tecniche di meditazione, intese come esercizi volti ad acquisire – lo abbiamo appena visto – un regime spirituale di autoconsapevolezza e di presenza a se stessi29. Qui, pensiamo, in particolare, all’insegnamento di Georges Ivanovič Gurdjieff, uno dei maestri più influenti dell’esoterismo contemporaneo, secondo il quale, nel lavoro di osservazione condotto su se stessi, molto importante è imparare a seguire e ad assecondare la piega naturale del respiro, perché solo così è possibile consolidare e rinsaldare l’abito della nostra attenzione interiore. Di conseguenza, egli sostiene che l’aria che respiriamo costituisce, a tutti gli effetti, un nutrimento, di cui è impossibile fare a meno, proprio quanto gli altri due: la luce e il cibo.

Tornando alle tre fasi in cui si articola un atto respiratorio, l’inspirazione e l’espirazione costituiscono, rispettivamente, la fase attiva e la fase passiva di esso, sul modello dello yin e yang del noto simbolo taoista. E la pausa fra l’una e l’altra? Ebbene, richiamandoci alla riflessione di James H. Austin, un neurologo clinico americano, nonché praticante zen, contenuta in un libro che stabilisce delle interessanti corrispondenze fra i meccanismi neurologici e la meditazione, egli si chiede quale delle nostre emozioni fondamentali vada incontro a un potenziamento durante questa fase. E risponde: «Solo la tenerezza (tenderness30, nel senso che, in essa, è come smorzata quella tensione che, tra le altre due fasi, caratterizza, invece, soprattutto l’inspirazione. Ora, visto che Austin vede la pausa respiratoria come la fase finale – e non intermedia – del ciclo perfetto che coordina, fra loro, inspirazione ed espirazione31, ne viene il monito che ci chiama a estendere a tutta la nostra vita quella tenerezza che si accende, in noi, ogni attimo prima che la macchina del respiro – sempre nuovamente – si rimette in moto.

 

5. Bioenergetica del respiro

 

Riprendiamo il motivo relativo al diritto universale di respirare e aggiungiamo che ciò che esso presuppone è un soggetto inteso in termini di “persona”. Abbiamo così la tesi di Alexander Lowen, psicoterapeuta statunitense e fondatore della cosiddetta «analisi bioenergetica», secondo il quale, premesso che ogni paziente è “persona”, ebbene, il diritto di essere “persona” «nasce con il primo respiro».

 

L’intensità con cui avvertiamo questo diritto si riflette nel nostro modo di respirare. Se respirassimo tutti come fanno con naturalezza gli animali, il nostro livello energetico sarebbe alto e soffriremmo raramente di stanchezza e depressione cronica32.

 

Ora, il punto è proprio questo: noi non respiriamo in modo naturale, come fanno, appunto, gli animali e, perché no, anche i bambini.

 

Di norma, non dovremmo neanche accorgerci che stiamo respirando. Un animale o un bambino piccolo respirano correttamente e, per farlo, non hanno bisogno né di istruzioni né di aiuto33.

 

La respirazione naturale è tale, infatti, che coinvolge, non soltanto i polmoni, ma l’intero nostro corpo, nel senso che, se anche non tutte le parti di esso vi sono attivamente impegnate, tutte sono, però, influenzate, in misura maggiore o minore, dalle onde respiratorie che lo attraversano. Tali onde “pulsanti” partono dal profondo della cavità addominale e salgono verso la testa, nel caso dell’inspirazione, mentre scendono dalla testa ai piedi, nel caso dell’espirazione. Ne viene che un disturbo comune non è altro che un intoppo che si produce lungo la via di questo deflusso, nel suo decorso naturale vero l’alto o verso il basso.

Se, invece, prestiamo attenzione al modo di respirare di noi adulti, ebbene, esso, essendo superficiale o poco profondo, si caratterizza per movimenti limitati alla sola zona del diaframma, con scarso impegno dell’addome o del torace. Il corpo, sottoposto a un sovraccarico di tensione, produce così, per respirare, più lavoro, con la conseguenza che, a causa dello sforzo, finiamo per assumere un quantitativo minore di ossigeno. Un esempio di questo respiro “corto” è dato da chi vive esclusivamente nel giro della propria testa, senza avere alcuna coscienza di ciò che gli accade intorno, da chi, occludendo la via naturale del percepire sensorialmente, si esclude così dalla partecipazione a quella corrente di vitalità la cui prima caratteristica è di farci sentire-in-contatto.

 

In contatto con tutto ciò che si trova nel raggio e alla portata delle percezioni sensoriali. Essere in contatto significa essere consapevoli di ciò che accade dentro di voi e intorno a voi. È qualcosa di completamente differente dal conoscere, che è un’attività più intellettuale che percettiva. […] La percezione non è una funzione meccanica. […] La percezione è una funzione del sentire34.

 

Alla luce di tutto ciò, il punto da cui, per Lowen, bisogna partire riguarda la valorizzazione del nesso che corre fra respirazione e sentimento, consapevoli del fatto che respirare profondamente vuol dire sentire profondamente.

 

Essere completamente vivi significa respirare profondamente, muoversi liberamente e provare appieno le sensazioni35.

 

Al riguardo, molto indicativa è l’affermazione secondo cui il pianto «può fare per la […] respirazione più di qualunque altro esercizio»36, perché, nel caso in cui venga soffocato, producendosi nella gola una grave costrizione, a essere limitata seriamente è proprio la nostra respirazione.

Circa quest’ultimo motivo, in particolare, Lowen si richiama a una scoperta fatta dal suo maestro, lo psicoanalista, allievo di Freud, Wilhelm Reich, il quale, stabilendo una stretta correlazione fra emozione e respirazione, riconosce che l’inibizione della prima comporta inevitabilmente una contrazione della seconda. Egli nota come, nel corso del setting analitico, le resistenze manifestate dal paziente abbiano sempre, quale loro matrice, un blocco inconscio della respirazione: resistenze che si dissolvono solo quando il paziente stesso viene invitato a respirare profondamente. Reich ne trae così la conclusione secondo cui la reattività emozionale è direttamente dipendente dalla funzione respiratoria, nel senso che, ogni volta che noi riduciamo la nostra assunzione di ossigeno, ebbene, tutto ciò, incidendo negativamente sui processi metabolici, ha come effetto immediato quello di abbassare il tasso della nostra energia vitale.

Ma ecco il punto: per Reich, come anche per Lowen, noi, respirando, piuttosto che assorbire semplicemente aria nell’organismo, assimiliamo, attraverso di essa, propriamente energia vitale, dal primo anche detta «orgonica», tale che, permeando di sé tutto lo spazio, presenta così profonde analogie con le nozioni – da noi in precedenza già incontrate – di pneûma e di prāna.

 

L’importanza della respirazione non sarà mai sottolineata abbastanza. Il respiro è così strettamente connesso con la vita che è stato identificato con lo spirito vitale. Secondo la Bibbia, Dio, creando Adamo, ha preso un pezzo di creta e vi ha soffiato dentro la vita. I Greci usano la stessa parola, pneûma, per significare il respiro e lo spirito. Negli insegnamenti di Yoga la forza vitale che anima ogni forma di vita è chiamata prāna. La principale fonte di prāna per gli esseri umani è l’aria. Respirando assorbiamo prāna nei nostri corpi37.

 

6. Per una cultura del respiro

 

A proposito del respiro, afferma in un’intervista la filosofa e psicoanalista Luce Irigaray:

 

Il respiro è ciò che permette di passare da una vitalità soltanto naturale a una vitalità e perfino a una possibile condivisione spirituali, che restano radicate nel corpo e lo trasformano in un corpo spirituale che può fare da mediatore tra di noi38.

 

Lo sostiene anche in altri suoi testi, dove afferma che è proprio la «cultura del respiro» quel che ci consente di accedere alla sfera dello spirituale, precisando che tutto ciò è possibile in quanto il respiro stesso, dopo aver attivato un movimento in direzione del mondo e degli altri, ne attiva uno opposto e complementare di ritorno al Sé, nella solitudine e nel silenzio che a esso è propria39. Nel respiro è custodita, cioè, un’energia «ancora naturale ma già spirituale», di cui noi possiamo «disporre liberamente», sfruttando il suo grande «potere di guarigione». Anzi, il momento stesso in cui scopriamo che noi ci troviamo a portata di mano questa possibilità “naturale” costituisce già, di per sé, «un cammino di guarigione».

 

La responsabilità nei confronti della propria energia rappresenta […] un problema nuovo per l’umanità, costretta a una maggiore maturità e a farsi carico della propria evoluzione. […] [I]l compito che incombe su di noi è di creare un futuro più umano grazie alla scoperta di un’energia libera di cui noi stessi siamo i custodi40.

 

E, sempre a proposito della «cultura del respiro», in un’altra sua intervista, Irigaray precisa che, poiché l’educazione, sin dalla prima infanzia, non tiene mai conto del fatto che «venire al mondo significa respirare da soli», ecco come la coltivazione del respiro ci può aiutare a «non sottometterci a modelli culturali estranei alla vita».

 

Coltivare il respiro, cioè essere consci di respirare e praticare ogni giorno un tempo di respiro in un luogo adatto, è un modo per mantenere distanza dall’educazione e dalla cultura e risparmiare un margine di libertà che ci consente di costruire noi stessi e il nostro divenire41.

 

Se pensiamo, infatti, che il neonato si guadagna la sua prima indipendenza dalla madre proprio nel momento in cui, uscendo dalla placenta, comincia a respirare da solo, ne discende che, solo nel segno di questa consapevolezza, noi possiamo assicurare un valore aggiunto di libertà, di autonomia e di responsabilità al nostro divenire individuale.

 

Prendere coscienza del fatto che la vita esiste grazie al nostro respiro è indispensabile per fare di noi degli esseri viventi autonomi42.

 

Il respiro si configura così come un autentico principio di soggettivazione: nell’atto in cui noi ce ne appropriamo e lo sviluppiamo consapevolmente, comprendiamo, infatti, anche la necessità di mantenere «una riserva di soffio disponibile», cui poter attingere al di là delle necessità immediate che ci impone la vita. E, in fondo, è proprio questo «il primo significato della parola anima»43.

Inoltre, un’altra grande virtù della «cultura del respiro» è che può fungere da ottimo medium per promuovere un abito di pensiero multiculturale, dal momento che essa, come ci dà libertà, autonomia e responsabilità, così ci dà anche «la possibilità di passare da una cultura all’altra», in modo che possiamo «condividere il respiro con gli altri», piuttosto che «sfruttare il respiro degli altri»44. Un pensiero, questo, relativo alla possibilità di una “condivisione universale del respiro”, che la filosofa ha ben sviscerato in una conferenza da lei tenuta nel contesto di un’edizione del «Festival della Mente» di Sarzana. Ecco come qui si è espressa:

 

Oggi molti discorsi politici ed economici alludono all’esaurimento delle risorse naturali, ma non si parla quasi mai delle riserve naturali dell’essere umano stesso. Sarebbe auspicabile preoccuparsi prima di queste – soprattutto per quanto riguarda l’ambiente, l’alimentazione e la differenza tra i sessi – per costruire un futuro più pacifico e più felice. Coniugare la cultura del respiro a quella dell’amore significa creare un ponte tra Oriente e Occidente, senza alcuna sudditanza culturale45.

 

In un’altra occasione, Irigaray precisa che questo «ponte» è un qualcosa non semplicemente da costruire, ma che «noi stessi dobbiamo essere». Ciò che è richiesto ad ognuno di noi è, infatti, di convertire il respiro e gli istinti vitali nella «coltivazione di un’energia spirituale e relazionale», tale che ci dischiuda l’accesso a «un’altra epoca dell’evoluzione umana»46.

Chiaramente, la costruzione di questo «ponte», il nostro sforzo di fare tutt’uno con esso, non è un’impresa facile. Da superare ci sono molte difficoltà e resistenze da parte di noi occidentali, soprattutto quanto al modo di concepire il rapporto fra anima e corpo, da noi inteso, per lo più, dualisticamente, laddove, per gli orientali, il corpo può accedere senza problemi alla dimensione spirituale, proprio attraverso una «cultura del respiro».

 

Certo all’inizio della nostra tradizione – nell’opera di Aristotele, per esempio, e altrimenti in quella di Empedocle – l’anima sembra ancora apparentata al soffio, all’aria; ma il legame fra i due si è in seguito dimenticato, particolarmente in filosofia. L’anima, o ciò che la costituisce, sono diventati l’effetto del concettualizzare e non il risultato di una pratica del respiro47.

 

Ora, per far sì che l’anima possa tornare a essere «il risultato di una pratica del respiro», è necessario che si attui una condizione, diciamo così, “trascendentale”: quella per cui lo spazio che separa gli uni dagli altri sia concepito nel segno della «materialità dell’aria», piuttosto che come un «vuoto», perché in quest’ultimo «la distanza difficilmente si mantiene nell’attrazione», con la conseguenza che «la vita, il respiro sono in pericolo».

 

L’aria è l’ambiente dove l’umano viene al mondo, dove cresce, vive e opera. Può essere abitato da più o meno correnti o vibrazioni, ma tentare di tornare alla calma del suo espandersi è meglio che sforzarsi di farvi il vuoto per allestirvi uno spazio ancora vergine. […] L’aria ammette di situarsi nel presente, di entrare nella presenza del presente, ciò che il vuoto non autorizza agli umani. […] L’aria è ciò che resta comune fra soggetti che abitano mondi differenti. È l’elementare dell’universo, della vita […]. L’aria è ciò che abitiamo e ci abita, in maniera diversa indubbiamente ma allestendo possibili passaggi tra: in noi, tra noi. L’aria è il medium della nostra vita naturale e spirituale, della nostra relazione a noi stessi […] [e] all’altro. Un medium che trasgredisce impercettibilmente i limiti di mondi o universi differenti, procurando talvolta l’illusione di un’intimità conquistata mentre si tratta soltanto di condivisione di un elemento comune. L’aria può consentirci di comunicare se ci mettiamo in cammino l’uno verso l’altro48.

 

E proprio l’aria è il tema che ha occupato il confronto della filosofa con Heidegger, il quale, nel suo pensiero, non vi presta alcuna attenzione, riservando solo all’elemento della terra quella proprietà che, per lui, costituisce il fondamento della vita49.

Ma non dobbiamo dimenticare che, per Irigaray, nel respiro è anche in gioco un qualcosa che tocca il cuore stesso della sua proposta filosofica: il principio della differenza sessuale. Ella nota, infatti, come la respirazione «non è neutra», perché uomo e donna, respirando, «impiegano il loro soffio in modo specifico»:

 

la donna lo trattiene maggiormente in sé, fra l’altro per condividerlo, e l’uomo lo utilizza in modo quasi esclusivo per fare, costruire all’esterno di sé50.

 

Ne discende che, percorrendo la via del respiro, è possibile mettere mano all’impresa epocale di rifondare l’umano, nel rispetto assoluto delle differenze di genere, nonché di ripensare la distinzione fra singolarità e comunità, visto che ciò di cui noi così veniamo a riappropriarci è di un gesto in cui si decide la costituzione tanto della nostra soggettività – lo abbiamo visto prima – quanto di ogni possibile prossimità umana. Al riguardo, il monito che la filosofa ci rivolge è che ciascuno di noi «deve anche incarnare il proprio respiro», ossia far sì che, nel segno di esso, lo spirito stesso arrivi a farsi carne: «carne condivisibile»51.

 

1 A. Mbembe, Il diritto universale di respirare, in «il lavoro culturale» (www.lavoroculturale.org), 22 aprile 2020. L’autore, all’altezza della fine del passo appena citato, richiama in nota i due seguenti testi: S. Vanuxem, La propriété de la Terre, Wildproject, Marseille 2018 e M. Schaffner, Un sol commun. Lutter, habiter, penser, Wildproject, Marseille 2019.

2 A. Mbembe, Il diritto universale al respiro, in «Clinica della Crisi. Per un lessico della Crisi e del Possibile» (clinicadellacrisi.home.blog), 7 aprile 2020.

3 A. Mbembe, Pesare le vite. Riflessioni sull’economia e sul vivente, in «il lavoro culturale», 31 luglio 2020. D’accordo con Mbembe, F. R. Recchia Luciani, Per una critica della ragione tattile: dal corpo politico all’ontologia aptica. Note filosofiche a margine di una pandemia con e oltre Jean-Luc Nancy, in «Post-filosofie. Rivista di pratiche filosofiche e scienze umane» (postfilosofie.rivista@uniba.it), 2019, n. 12, pp. 11-39, si chiede se non sia solo un caso che tutte le ultime epidemie (Sars, Covid-19, ecc.) abbiano sempre «colpito l’apparato respiratorio aggredendone i polmoni, proprio come noi stiamo distruggendo ovunque sul globo terracqueo delicatissimi ecosistemi vegetali, giungendo perfino a minacciare i “polmoni del pianeta” con le politiche scellerate di deforestazione […] contro le foreste amazzoniche» (p. 32).

4 Cfr. M. Moïse, Il diritto di respirare. Nel nome di George Floyd, in «Jacobin Italia» (www.jacobinitalia.it), 27 maggio 2020.

5 D. Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 10. Su questa stessa linea, si muove pure F. Berardi, Respirare. Caos e poesia, Sossella, Bologna 2019, il quale, indicando anch’egli in «I cant breathe» un inno alla rivolta, si riferisce, però, a un episodio di sei anni precedente a quello sopra riportato, dove un altro uomo afroamericano, Eric Garner, aveva lanciato lo stesso grido contro un poliziotto bianco, il quale, stringendogli con le mani la gola, finirà poi per strozzarlo.

6 D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 24-25.

7 P. Missiroli, Politica del respiro, in «Effimera. Critica e sovversione del presente» (effimera.org), 21 giugno 2020.

8 F. Della Sala, La puntura dello scorpione. Governo dell’asfissia e politica del respiro, in «Laboratorio Archeologia filosofica» (www.archeologiafilosofica.it), 15 giugno 2020. Un’«idea politica» analoga a quella che abbiamo appena visto affermata la troviamo anche nello scritto di M. Villani, Dont forget to breathe, in «Orthotes Editrice. Editoriali» (orthotes.com/dont-forget-to-breathe/), il quale afferma che non c’è democrazia «senza un rapporto produttivo con l’aria, col respiro, col vento, con una forza espansiva che scardina i confini. Ben più che istituzione politica, la democrazia è spirito, soffio, slancio», fuori del quale «c’è solo una gestione tecnico-amministrativa che inchioda le esistenze a un determinato status, le separa gerarchicamente, le appesantisce». Ne discende che, ben al di là dell’attuale emergenza sanitaria, nostro compito prioritario è quello di «recuperare un rapporto con l’aria, con l’atmosfera, con la leggerezza».

9 La pandemia ha democratizzato il potere di uccidere, intervista di D. Becito ad A. Mbembe, in «GauchaZH» (@GauchaZH), 31 marzo 2020.

10 J.-Ch. Bailly, Il partito preso degli animali, tr. it. di A. Trocchi, Nottetempo, Roma 2015, pp. 46-47.

11 Ivi, p. 48. Extimité è un termine coniato dallo psichiatra francese Serge Tisseron, nel suo testo L’intimité surexposée, Ramsay, Paris 2001, in contrapposizione a “intimità”.

12 J.-Ch. Bailly, Il partito preso degli animali, cit., p. 48.

13 Ivi, pp. 47-48.

14 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di F.-W. von Hermann, ed. it. a cura di C. Angelino, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1992, p. 255.

15 J.-Ch. Bailly, Il partito preso degli animali, cit., pp. 48-49.

16 Ivi, p. 49.

17 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 255-256.

18 J.-Ch. Bailly, Il partito preso degli animali, cit., pp. 50-51.

19 Un «senso incorporato» direbbe Merleau-Ponty, il quale, in La natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, testo stabilito e annotato da D. Séglard, ed. it. a cura di M. Carbone, Cortina, Milano 1996, si esprime in tal modo a proposito dell’animalità, definita, da lui, come «il Logos del mondo sensibile» (p. 244).

20 “Dormiente” come la proprietà di quelle onde che, scalfendo il silenzio, «interdicono l’inerzia», così che lo stato di ciò che dorme non è mai pari alla morte, la quale «non parla e non risponde», ma «è nella sua interezza ascolto». Lo leggiamo in J.-Ch. Bailly, Il partito preso degli animali, cit., pp. 51-52, il quale si richiama, in proposito, a Plotino e, più esattamente, a quel passo delle Enneadi (III, 8, 4) in cui alla natura vengono accordate intelligenza e sensazione proporzionate al grado di coscienza di cui noi disponiamo nel sonno.

21 R. Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, Laterza, Roma-Bari 1971, scrive che, in questo frammento, come pneûma e aria sono usati «nello stesso senso» (p. 198), così kósmos, nella sua accezione originaria, «dice “ordine” e non mondo» (p. 199). Poi prosegue affermando che, in Anassimene, l’aria, da intendere, appunto, in quanto «mezzo di respiro», è considerata come «l’elemento fondamentale dell’uomo e delle cose» (pp. 199-200).

22 P. Togni, L’anima e il mondo. Note sul frammento DK 13B2 attribuito ad Anassimene, in Aa. Vv., I Milesii. Filosofia tra Oriente e Occidente, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2008, pp. 43-81: p. 67.

23 Ivi, p. 68.

24 G. Colli, La sapienza greca, vol. II: EpimenideFerecideTaleteAnassimandro AnassimeneOnomacrito, Adelphi, Milano 1992, p. 317.

25 Cfr. M. L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente, tr. it. di G. Giorgini, il Mulino, Bologna 1993, pp. 150-151. Qui, il richiamo è ad Atharva-Veda, XI, 4 («Il respiro della vita»), in Hindu Scriptures, a cura di R. C. Zaehner, Everyman’s Library, London 1966, p. 27, laddove, a proposito del prāna, si dice che esso domina tutto: è ciò su cui ogni cosa si basa, nonché ciò a cui l’intero universo obbedisce.

26 A. van Lysebeth, Pranayama. La dinamica del respiro, tr. it. di P. Valli, Astrolabio Ubaldini, Roma 1973, p. 12. Circa il fatto che, grazie allo yoga, noi possiamo imparare a “osservare” il respiro e, di conseguenza, «a osservare noi stessi», dal momento che, attraverso di esso, noi «siamo in grado di percepire la profondità del nostro essere, di sentirci “dentro”», cfr. G. Cella, Fai un bel respiro, Rizzoli, Milano 2016, p. 9.

27 F. Capra, Il Tao della fisica, tr. it. di G. Salio, Adelphi, Milano 1989, p. 143.

28 Una tr. it. di questo discorso, con annesso un commento, è contenuta in Thich Nhat Hanh, Respira! Sei vivo, tr. it. di D. Malagò, Astrolabio Ubaldini, Roma 1994, rispettivamente, pp. 11-16 e 20-48.

29 Cfr. L. Rosenberg, Respiro per respiro. La pratica liberatoria della consapevolezza, a cura di D. Guy, tr. it. di G. Giustarini, Astrolabio Ubaldini, Roma 1999. Qui, uno dei suggerimenti che ci viene dato è quello di adeguare il respiro alla camminata, così da far assumere ad esso un ritmo, il più possibile, naturale. Sulla meditazione che fa leva sul dominio del respiro, come una pratica di presenza amorevole nei confronti di noi stessi, degli altri e del mondo, cfr. anche F. Lenoir, Rallenta, ascolta, respira. La meditazione che apre il cuore al mondo, tr. it. di A. M. Foli, Piemme, Milano 2020.

30 J. H. Austin, Zen and the Brain. Toward an Understanding of Meditation and Consciousness, MIT, Cambridge (Mass.) 1998, p. 95.

31 Al riguardo, Austin scrive: «Durante ogni singolo ciclo respiratorio, l’inspirazione e l’espirazione sono coordinate così bene che ogni componente della coppia si immette nel ciclo o ne esce esattamente al momento giusto» (ivi, p. 98).

32 A. Lowen, La spiritualità del corpo. L’armonia del corpo e della mente con la bioenergetica, tr. it. di A. Menzio, Astrolabio Ubaldini, Roma 1991, p. 37. Circa il nesso fra bioenergetica, persona e respiro, cfr. anche A. Lowen – L. Lowen, Espansione e integrazione del corpo in bioenergetica. Manuale di esercizi pratici, tr. it. di O. Rosati, Astrolabio Ubaldini, Roma 1979, laddove leggiamo che, se la bioenergetica è un modo di comprendere la persona a partire dai suoi processi energetici, ebbene, uno di questi processi è, appunto, «la produzione di energia attraverso la respirazione» (p. 13). Per un contributo di letteratura secondaria sull’argomento, cfr. A. Capecchi, Che cos’è l’analisi bioenergetica, Carocci, Roma 2007.

33 A. Lowen – L. Lowen, Espansione e integrazione del corpo in bioenergetica, cit., p. 31.

34 Ivi, p. 53.

35 A. Lowen, Il piacere. Un approccio creativo alla vita, tr. it. di S. Trippodo, Astrolabio Ubaldini, Roma 1984, p. 28.

36 A. Lowen – L. Lowen, Espansione e integrazione del corpo in bioenergetica, cit., p. 36.

37 Ivi, p. 38.

38 Lelogio del toccare: intervista a Luce Irigaray, a cura di E. Santolini, in «Filosofie del corpo» (filosofiedelcorpo.wordpress.com), 19 luglio 2015.

39 Al riguardo, ricordiamo come S. Weil, Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, in Id., Attesa di Dio, a cura di M. C. Sala, Adelphi, Milano 2008, pp. 191-201, articoli un paragone fra il respiro e la facoltà spirituale dell’attenzione. Scrive: «L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in se stessi, così come si inspira e si espira» (p. 196).

40 L. Irigaray, Una nuova cultura dell’energia. Al di là di Oriente e Occidente, tr. it. di P. Carmagnani, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 23-24.

41 Il segreto del respiro è un potere femminista, intervista di M. Grosso a L. Irigaray, in «L’Espresso» (espresso.repubblica.it), 10 gennaio 2020.

42 L. Irigaray, Una nuova cultura dell’energia, cit., p. 29.

43 Ibid.

44 Dobbiamo condividere il respiro con gli altri?, intervista di M. V. Vittori a L. Irigaray, in «Liberazione» (www.liberazione.it), 7 settembre 2006.

45 L. Irigaray, Salvare l’energia umana. Il respiro: fonte per una condivisione universale, conferenza tenuta nel contesto del «Festival della Mente» di Sarzana (www.festivaldellamente.it), 2-4 settembre 2011.

46 L. Irigaray, Una nuova cultura dell’energia, cit., p. 120.

47 L. Irigaray, Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità, manifesto libri, Roma 1997, p. 11.

48 L. Irigaray, La via dell’amore, tr. it. di R. Salvadori, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 49-50.

49 Cfr. L. Irigaray, L’oblio dell’aria in Martin Heidegger, tr. it. di C. Resta, Bollati Boringhieri, Torino 1996.

50 L. Irigaray, Tra Oriente e Occidente, cit., p. 14.

51 L. Irigaray, Una nuova cultura dell’energia, cit., p. 39.