Respiro. Il ritmo della porosità del vivente 2/2

Indice:  1. Il diritto universale di respirare • 2. Esistere è respirare • 3. L’ordine del respiro • 4. La pausa del respiro • 5. Bioenergetica del respiro • 6. Per una cultura del respiro • 7. Poetica del respiro • 8. La scrittura del respiro • 9. Aristotele: il respiro fra biologia e teoria del linguaggio • 10. Il respiro in questione • 11. Il respiro ama nascondersi • 12. Respirare nella luce.

Ieri abbiamo pubblicato i primi sei capitoli. Una buona lettura.

Respiro, tu invisibile poema! / Spazio puro del mondo, col nostro essere / scambiato senza sosta. Contrappeso / in cui s’attua il mio ritmo. // Onda unica di cui / io volta a volta sono il mare; / più esiguo di ogni possibile mare – / spazio che si conquista. // Quante parti di questi spazi furono / già entro di me. R. M. Rilke, Sonetti a Orfeo

7. Poetica del respiro

 

Come esempi di una poetica del respiro, sceglieremo l’opera di tre autori di lingua tedesca: i poeti Rainer Maria Rilke e Paul Celan e lo scrittore Thomas Bernhard. Partiamo dal primo e da quella che, per lui, è la figura-simbolo del poeta: Orfeo, tale perché dischiude lo spazio libero della pura interiorità, perché attinge la parola giusta e compiuta, convertendo in essa l’erompere, silenzioso e sorgivo, dell’onda ritmica del respiro.

 

Vero canto è un altro alito52.

 

Respiro, tu invisibile poema! / Spazio puro del mondo, col nostro essere / scambiato senza sosta. Contrappeso / in cui s’attua il mio ritmo. // Onda unica di cui / io volta a volta sono il mare; / più esiguo di ogni possibile mare – / spazio che si conquista. // Quante parti di questi spazi furono / già entro di me53.

 

Soffermiamoci sul verso iniziale. Ebbene, qui c’è chi ha notato che nel termine «alito (Hauch)» si sente risuonare l’analogo ebraico “rùach”, allusione «a un respiro (che è anche soffio […] che genera la vita) in cui la bellezza delle forme, infinitamente effimere, trova il suo inizio e la sua fine»54. Quanto poi a trarre delle conclusioni, stando, soprattutto, al secondo blocco di versi, possiamo dire che la verità del poema è, per Rilke, un compimento inteso in termini di rinuncia55. Lo conferma il fatto che, nel verso iniziale, proprio dopo la parola «alito», di esso si dice che «tende / a nulla», che è uno «spirare nel Dio», il soffiare di un vento: un respiro che, guidando il passaggio dal visibile all’invisibile, redime le cose, nell’atto stesso in cui le consegna a una visibilità intangibile e più rarefatta.

E la stessa rinuncia, di cui si è appena detto, sembra essere, per Rilke, un gesto cui fa ricorso anche Dio, il quale, abdicando alla sua onnipotenza, si lascia cogliere da noi proprio in quel respiro che Egli ci ha prodigalmente dispensato attraverso il Suo soffio creatore.

 

Non devi attendere che Dio venga e te / e ti dica: eccomi (Ich bin). / Un dio che professi la sua forza / non ha senso. / Devi sapere che dio soffia in te come il vento / sin dagli inizi, / e se il cuore ti brucia e non si svela, / c’è lui dentro, operante56.

 

Passando a Paul Celan, centrale nella sua poesia, nonché nella sua riflessione su di essa, è la nozione di «svolta del respiro (Atemwende57. Ebbene, per metterla bene a fuoco, si deve partire dal fatto che il respiro, nelle sue due fasi di inspirazione e di espirazione, funge, per lui, da vera e propria unità metrica, la quale, scandendo i tempi del dettato poetico, scava all’interno di sé quel “vuoto” entro cui si annuncia e prende forma il nuovo58.

 

Il qui e ora della poesia di Celan è prima di tutto interno al suo dettato poetico: è la sua forma vuota, il suo timbro. Celan stesso, non a caso, incoraggiava i suoi lettori non a prendere informazioni sulla sua vita o sulle sue convinzioni poetologiche, ma piuttosto ad una inesausta prassi di ritorno – e di respiro, caratterizzata dalla sequenza di inspirazione ed espirazione – al testo59.

 

Celan stesso si chiede se la proprietà della poesia non consista che in questa «svolta del respiro», aggiungendo che l’una, forse, si mette in cammino solo in vista dell’altra. Ma ecco che, proprio spingendosi in una tale «direzione», la poesia, aprendosi un varco, si protende verso il fuori di sé, «tende a un Altro, […] ne ha bisogno, […] [l]o va cercando». Detto altrimenti, «parla […] rigorosamente in prima persona» e si fa «colloquio»60:

 

Linguaggio della prossimità per la prossimità, […] il più antico dei linguaggi, risposta che precede la domanda, responsabilità per il prossimo, che rende possibile, attraverso il suo per laltro, tutta la meraviglia del donare61.

 

Lévinas poi prosegue affermando che, in questo andare della poesia verso l’Altro, è come se noi prendessimo dimora in una nuova terra natale, forse una terra promessa, alleggeriti, prima di tutto, dal peso della nostra identità62 e proiettati così verso una dimensione “leggera” e “impalpabile”, di cui solo il puro e semplice respiro può restituirci un’idea abbastanza fedele63.

Infine, arrivando a Thomas Bernhard, la nostra scelta è caduta su di lui, quale rappresentante emblematico di una poetica del respiro, perché egli non solo è l’autore del romanzo Il respiro64, terzo volume di un ciclo autobiografico che comprende altri quattro libri65, ma anche – e soprattutto – perché proprio il respiro, «il ritmo della respirazione guidato dalla sintassi, nella [sua] prosa […] è tutto»66. Ritmo della respirazione che, in lui, può assumere anche una cadenza reiterata e ossessiva, così che la frase che lo rispecchia sembra, ogni volta, l’ultima: l’ultima, come l’ultimo respiro, prima della morte67.

La trama del libro contiene particolari che ci riportano alla nostra più stretta attualità, come, ad esempio, quello per cui il protagonista – lo stesso scrittore non ancora diciottenne – si trova ricoverato in un ospedale, dove, affetto da una grave malattia polmonare, conduce una lotta silenziosa fra la vita e la morte, tant’è che gli viene impartita, addirittura, l’estrema unzione. Fra l’altro, proprio questa malattia accompagnerà Bernhard per tutta la vita, fino a condurlo, molti anni dopo, alla morte, per cui si può dire che il respiro è stata la cifra complessiva, oltre che della sua scrittura, anche della sua vita.

Il grande padiglione chirurgico in cui il protagonista è degente viene da lui definito come il «trapassatoio»68, perché qui, unico giovane in mezzo a tanti anziani, vede quotidianamente portar via i loro cadaveri, come si sgombra «un magazzino di marionette»69. Ma ecco qual è la prima reazione di Thomas al traffico giornaliero della morte che si sussegue ininterrottamente sotto ai suoi occhi:

 

Volevo vivere, tutto il resto non aveva importanza. Senza essere un giuramento, questo fu ciò che si propose il ragazzo quando ormai era dato per spacciato nell’attimo in cui l’altro, l’uomo davanti a lui, aveva smesso di respirare. Quella notte, nell’attimo decisivo, tra le due possibili strade io avevo deciso la strada della vita. […] Non avevo voluto smettere di respirare come l’altro davanti a me, avevo voluto continuare a respirare e continuare a vivere. […] Se la mia volontà avesse ceduto per un solo istante, non sarei vissuto un’ora di più. Stava a me la scelta se continuare a respirare oppure no. […] Ero io che decidevo quale delle due strade era meglio imboccare. La strada della morte sarebbe stata facile. E d’altra parte la strada della vita ha il vantaggio dell’autodeterminazione70.

 

Dal che si vede come sia proprio il respiro l’atto fermo e risoluto con cui il giovane prende distanza dalla morte: morte che con il suo fascino ambiguo lo tentava, visto che nel suo stesso ospedale era ricoverato pure l’amato nonno, anche lui in condizioni molto gravi, il decorso della cui malattia era, però, a differenza del nipote, irreversibile. Thomas racconta, infatti, come egli faticasse molto per guadagnare quello stato di salute in cui «lo spirito […] detta legge al corpo», perché quest’ultimo lo attirava ancora prepotentemente «verso il basso», tendenza cui egli si ribellava «con tutti i mezzi a [sua] disposizione»71. In tal senso, è il gesto della resistenza quello che, più di ogni altro, è inscritto nella decisione di respirare presa da Thomas: resistenza a quell’«ingranaggio […] di produzione della morte»72 in cui rischiava di rimanere stritolato anche lui73.

 

8. La scrittura del respiro

 

Nel 1974, lo scrittore William Burroughs, uno dei padri della Beat Generation, pubblica un racconto, di taglio saggistico e accompagnato da alcune sequenze di storie disegnate, intitolato Il libro della respirazione. Racconto cui va il nostro interesse non solo, ovviamente, perché il titolo rientra nell’argomento di cui qui ci stiamo occupando, ma anche – e soprattutto – perché al suo interno l’autore si pone una domanda, per i tempi che stiamo vivendo, attualissima: «cosa è un virus?». E risponde:

 

Forse soltanto una serie di immagini come i geroglifici egizi che si fa reale74.

 

Il tema del contagio virale non è occasionale, in Burroughs, ma è una sua vera e propria ossessione, tant’è che uno studioso della sua opera ha affermato che esso costituisce il fondamento della sua mitologia letteraria.

 

Secondo William Burroughs, l’universo è interamente governato da un’economia virale. Tutti i fenomeni esistenti sono sovradeterminati da un processo di contagio. Per definizione, l’essere umano è abitato da un virus […]. Tutta la sua opera è complessivamente percorsa dall’ossessione della contaminazione75.

 

Facendo leva sull’idea di un pianeta malato, popolato da contagiati, Burroughs provvede a prospettarla in un’ottica medica e, a tal fine, utilizza spesso il lavoro di specialisti di virologia. Questo perché suo obiettivo è di dimostrare che l’uomo non è libero, ma posseduto da un’energia virale che guida interamente il suo comportamento e i suoi pensieri e che talmente bene si è insediata in lui che egli non si accorge neppure della sua presenza.

Poiché la caratteristica di ogni virus è quella di ripetere all’infinito l’identico e, quindi, di «tendere a riprodursi e […] perpetuarsi secondo le regole della logica classica»76, Burroughs dichiara guerra a quest’ultima, arrivando a teorizzare la soppressione della relazione d’identità mediante l’abolizione del verbo essere. Cosa che spiega anche il perché del suo interesse nei confronti della scrittura geroglifica egizia:

 

l’è dell’identità ha portato a una confusione di fondo nel pensiero occidentale. L’è dell’identità è raramente usato nella scrittura a immagini egizia. […] [Al suo posto c’è] un’affermazione di relazione non di identità77.

 

E ancora:

 

Lo È di identità porta sempre l’implicazione di è questo e nessun’altra cosa, e porta anche l’assegnazione di una condizione permanente. Restare così. Ogni modo di dare nomi, di chiamare presuppone l’È dell’identità. Questo concetto non è necessario in un linguaggio geroglifico come l’antico egiziano e infatti è frequentemente omesso78.

Per di più, chiamando l’opera, che abbiamo prima menzionato, Il libro della respirazione, Burroughs intendeva riallacciarsi a un ciclo di antichi testi funerari egizi, tutti recanti il titolo in questione, nei quali l’uso del termine «respirazione» andava inteso come una metafora della vita che il defunto sperava di riottenere nell’aldilà. Ora, Burroughs espunge qualsiasi riferimento ultramondano, quanto a questa metafora, e intende la respirazione come il canale di trasmissione permanente di un contagio: come la via d’ingresso di quell’infezione virale che, dopo che si è replicata in noi, inizia un nuovo ciclo in un altro ospite. In tal senso, anche la parola agisce, per lui, come un virus: come quel virus “ontologico” che «ha acquistato uno status permanente con l’ospite», ossia che si è stabilizzato e ha imparato a convivere con noi.

 

Ad ogni modo, nessun virus conosciuto finora agisce in questo modo, così il problema di un virus benefico rimane aperto. Sembra consigliabile concentrarsi in una difesa generale contro tutti i virus79.

 

E proprio perché la parola agisce su di noi come un virus che è necessario debellare, Burroughs si dà come programma quello di sconnettere il circuito sintattico della frase, adottando uno stile di scrittura il cui referente è costituito dal gesto di «respirare in silenzio, come i pesci»80.

 

L’È di identità è in fondo il meccanismo virale. […] Il linguaggio proposto cancellerà questi meccanismi virali e ne renderà la formulazione impossibile. […] Questa lingua lascerà l’opzione del silenzio81.

 

9. Aristotele: il respiro fra biologia e teoria del linguaggio

 

Nel complesso dei cosiddetti Parva naturalia di Aristotele, in cui vengono studiate tutte le attività della vita animale nel segno del rapporto che corre fra anima e corpo, c’è un testo dedicato anche alla respirazione. Qui, lo Stagirita, muovendo – come è suo solito – dalla discussione delle opinioni tramandate sull’argomento, da lui, preso in esame, si confronta con le tesi di alcuni (Democrito) che sostengono che tutti gli animali respirano e di altri (Anassagora) che respirano anche i pesci, immettendo aria e, contemporaneamente, emettendo acqua. Ai primi ribatte che solo gli animali dotati di polmone respirano, mentre ai secondi che inspirare ed espirare, se avvengono simultaneamente, e non in fasi alternate, confliggono.

Sempre a proposito dell’inspirazione e dell’espirazione, Aristotele si chiede poi quale delle due funzioni sia anteriore rispetto all’altra. Ciò che dirime la questione e sposta l’ago della bilancia a favore della prima è dato dalla constatazione empirica secondo cui «quando si muore si espira», così che «è necessario che il principio (archè) sia l’inspirazione». Tutti i suoi predecessori avrebbero mancato di far chiarezza proprio intorno a questo punto.

 

Eppure vediamo che queste cose sono di importanza capitale quanto al vivere e al morire. Infatti, quando non sono in grado respirare (anapnein), è allora che si ha la corruzione degli <animali> che respirano82.

 

Fedele al principio secondo cui «la natura produce ogni cosa in vista di un fine»83, Aristotele pensa che individuare quest’ultimo, riguardo alla respirazione, conduca a risalire velocemente alla causa di essa. E tutto ciò sarebbe stato trascurato anche da Empedocle, il quale avrebbe considerato la respirazione attraverso le narici come prioritaria rispetto a quella attraverso la trachea, laddove, se privati della prima, gli animali «non subiscono nessuna affezione»84, mentre, se privati della seconda, muoiono. È dalla respirazione attraverso la trachea che dipendono, in definitiva, la vita e la morte degli animali.

Aristotele riporta poi un frammento di Empedocle (il fr. 100 DK) e procede a esaminarlo, dal momento che, in esso, il filosofo agrigentino espone la sua concezione del processo respiratorio. Ebbene, in un tale frammento siamo messi davanti al fatto che la trattazione del processo in questione viene «inserita in una prospettiva più ampia», nel senso che esso «non si configura come mero meccanismo naturale, ma rinvia al ciclo cosmico e da ultimo all’idea di catarsi»85. Ora, Aristotele sembra non prestare alcuna attenzione alla cornice cosmologica in cui le riflessioni fisiologiche di Empedocle sono inserite e muove la sua critica unicamente a queste ultime, in merito alle quali afferma che esse presentano «tante difficoltà»86.

Gli animali che respirano – ribadisce lo Stagirita – sono quelli forniti di polmone, i quali, proprio perciò, hanno «un’anima più ragguardevole»87. Ma chi in massimo grado la possiede è, ovviamente, l’uomo. Nel suo caso, infatti, il polmone è la causa della sua essenza, ossia ciò che lo vede unico animale vivente dotato di una posizione eretta, la quale si trova in corrispondenza perfetta al modo in cui sono disposti i luoghi naturali dell’universo.

In conclusione del trattato, Aristotele dà come definitivamente acquisito il principio secondo cui «il termine (télos) del vivere (zoē) e non vivere consiste nel respirare»88, così che, proprio sul filo di questo principio fondamentale, nonché di quello – precedentemente visto – in base a cui l’uomo sarebbe un animale dotato del contrassegno dell’unicità, possiamo passare a circoscrivere il nostro esame a un ambito specifico di incidenza del respiro: il linguaggio.

Il punto da cui muovere è che, per lo Stagirita, gli uomini non usano il linguaggio, ma lo vivono, da cui ne viene che il parlare altro non è che il respirare dell’anima. Proprio come l’uomo non sceglie mai di respirare, ma respira, così egli «non sceglie il linguaggio», ma parla. E dal momento in cui parla, «non è più libero di fare a meno del linguaggio». È così che quest’ultimo, per l’uomo, non è mai un mero strumento, ma è quell’«attività specie-specifica» che lo caratterizza: un’attività per lui vitale, esattamente come lo è il respirare.

 

Il parlare come il respirare dell’anima. È un’affermazione forse ardita ma rende molto bene la non-strumentalità del linguaggio e il suo avere a che fare con l’attività minimale che definisce il vivere: la respirazione. Come non è possibile vivere senza respirare, così non è nemmeno possibile un’anima umana senza il parlare. Il respirare del corpo e il respirare-parlare dell’anima sono fittamente intrecciati. […] A livello di descrizione fenomenologica il respirare appare effettivamente come l’attività biologica primaria su cui si innesta il parlare e il parlare appare come una rimodellizzazione specie-specifica del ritmo respiratorio. […] Se il parlare è il respirare dell’anima umana, il linguaggio è attività pervasiva: è silenziosamente presente anche là dove nessuna parola risuona così come, negli animali sanguigni, la continua alimentazione di ossigeno mediante inspirazione-espirazione dell’aria è presenza necessaria al funzionamento di ogni organo del corpo. È la tesi forte e originale di Aristotele89.

 

Laddove ci troviamo davanti a un animale che respira, ossia che è dotato di polmoni, lì, per lo Stagirita, si dà anche, necessariamente, la capacità di dar vita a voci articolate, le quali altro non sono che una «rimodellizzazione del movimento respiratorio»90: attività, questa, che segna la linea di demarcazione fra l’uomo e gli altri animali che respirano, fra la semplice emissione di suoni e la loro organizzazione in vista della produzione di un significato91.

 

10. Il respiro in questione

 

L’edizione di «Torino Spiritualità» 2020 (24-27 settembre) è stata dedicata al tema del respiro. Nell’ambito del ricco programma del Festival92, prenderemo qui in considerazione solo alcuni interventi: quelli che più di altri sono funzionali al percorso che, in questo nostro contributo, stiamo cercando di tratteggiare. Partiamo dall’attore comico Giacomo Poretti, il quale, nell’intervento Ridere è respirare, ci ricorda quanto fondamentale, per svolgere la sua professione, sia respirare – e respirare bene. Non a caso, proprio questo è il primo insegnamento che viene impartito all’inizio di ogni scuola di recitazione. Ciò che l’attore ci tiene a sottolineare è, inoltre, che il respiro non solo, ovviamente, ci tiene in vita, ma provvede anche a modulare tanto l’emissione del suono delle parole quanto l’espressione dei nostri sentimenti più importanti: il riso e il pianto altro non sono, infatti, che ripetuti gesti rapidi di respirazione.

Ha poi preso la parola il filosofo Silvano Petrosino (l’intervento in questione era a due voci), il quale, partendo dal fatto che il Covid-19 ha trasmesso a tutti la paura di essere affetti da un’insufficienza respiratoria, ha aggiunto che, se ci pensiamo bene, noi, in fondo, abbiamo paura di un qualcosa che, tutti i giorni, già ci contamina. Il vivere che conduciamo quotidianamente, fondato sull’idolatria del presente, nonché sul mito dell’eccellenza e dell’urgenza, non è forse un vivere come in apnea, ossia in un modo tale che la prima cosa che ci viene tolta è proprio il respiro?

Il teologo Vito Mancuso, nel suo intervento, intitolato Ispirazione: il respiro della mente e del cuore, prende le mosse da una definizione dell’ispirazione come quella sinergia di grazia e libertà, la quale, traducendosi in un respiro “ampio” e “largo”, accende e rigenera, in noi, la vita della mente e del cuore. Ispirazione: termine in cui risuona spirito, che è ciò in cui Mancuso ci invita a cogliere il tratto specifico dell’uomo. Tratto specifico che non è né intelligenza, né ragione, ma vuoto, caos, indeterminazione, in una parola: ambiguità della libertà. Ci viene poi ricordato come, in Occidente, l’ispirazione abbia un’origine letteraria, prima ancora che religiosa. Basti pensare al fatto che tutti i grandi poemi antichi, greci e latini, iniziano sempre con un’invocazione alle Muse. L’ispirazione può essere definita così nei termini di una libertà fecondata da un qualcosa che sentiamo venire non da noi, ma da un altrove. Ma l’ispirazione non si esplica solo in senso positivo. Proprio in ragione dell’ambiguità della nostra libertà, può esplicarsi anche in senso opposto. Essa è allora tentazione, intesa come ciò che, alla sua radice, può essere visto come una forma di espressione del male radicale.

Le riflessioni esposte da Mancuso ci porgono l’occasione per passare all’intervento di un altro teologo, Maciej Bielawski, dal titolo Respirare il nome di Dio. Il punto di partenza è dato dal riconoscimento secondo cui, nell’ambito di molte tradizioni religiose, esistono prassi che collegano il pensiero devoto, ossia la meditazione sul nome di Dio, a una disciplina del respiro. Ci vengono dati due esempi. Il primo è tratto dalla tradizione cristiana e riferito al monaco siriaco Giovanni Climaco, il quale, nella sua opera La Scala, afferma:

 

La memoria di Gesù faccia tutt’uno con il tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’esichia93.

 

Il secondo esempio ci viene dalla tradizione induista e si riferisce alla Dhyana bindu Upanishad, laddove si legge:

 

Brahma è l’inspirazione, Vishu è la fase in cui si trattiene il respiro, e Rudra è l’espirazione94.

 

Bielawski giunge a parlare così di una vera e propria «spiritualità respiratoria» e si occupa di enuclearne gli elementi essenziali. All’inizio, noi, più che respirare, siamo, in un certo senso, respirati, per cui il momento di accesso alla dimensione della spiritualità è segnato dal passaggio dalla modalità passiva a quella attiva della respirazione. Dopodiché, raggiunta la consapevolezza di essa, noi possiamo esercitarci a disciplinarla. E ciò per quietare il corpo, rasserenare le emozioni e generare la pace nella mente. Ora, se si acquista consapevolezza del proprio respiro e lo si pratica in modo disciplinato, si ha la percezione che c’è uno spirito che tutto pervade: il cosmo viene interiorizzato e il nostro corpo proiettato in una dimensione cosmica. Ma la meditazione che fa leva sul respiro ci porta a prendere coscienza anche di un’altra cosa: del fatto che, prima o poi, ci sarà un respiro, simile a tutti quelli che ci hanno accompagnato fin qui, che sarà l’ultimo. La nostra anima metterà allora le ali e sarà trasportata in alto, dalla forza del nome di Dio che abbiamo respirato.

La filosofa Francesca Rigotti, nel suo intervento intitolato Del principio vitale: respiro, vista, battito, ci ha tenuto a precisare che il respiro non va considerato come l’unico principio vitale. A pari titolo, lo sono anche la luce e il cuore. Quest’ultimo, fra le altre cose, ha un ritmo, quasi impercettibile, che non coincide con quello del respiro. Chi lo avverte è il medico, mettendo la mano sul polso, cosiddetto perché al suo interno pulsa il sangue, nonché il malato, sentendolo battere alle tempie, le quali sono quella regione del capo che ospita il sonno, l’insonnia e, in qualche modo, anche il tempo. L’idea secondo cui la vita coincide con l’attività del respiro fa il suo ingresso, nella nostra tradizione, con le Sacre Scritture: da un lato, c’è Dio che insuffla l’alito della vita in Adamo, dall’altro, morire è esalare l’ultimo respiro: spirare. Ebbene, questa idea avrebbe svolto un ruolo così predominante nella civiltà occidentale da farci dimenticare che esistono altri campi metaforici per designare la vita e la morte. E due, in particolare: uno – come abbiamo appena visto – legato al cuore, il cui battito è imparentato al tempo e alla cura, e l’altro legato all’occhio, con il quale veniamo così ricondotti alla cultura greca arcaica, dove nascere e morire sono, rispettivamente, venire alla luce e uscire fuori dal campo di essa95.

Il musicista Fabio Biondi, nell’intervento Pausa. Il respiro della musica, interrogandosi circa la relazione che corre fra respiro e atto musicale, ha notato come l’automatismo fisiologico del primo sembrerebbe agire, sul musicista durante un’esecuzione, solo a livello inconscio. Ma naturalmente non è così, perché il respiro non solo condiziona il gesto musicale, ma modella anche il timbro del suono emesso e il suo colore. Inoltre, si può dire che la prima cosa che fa un direttore d’orchestra è quella di dettare una respirazione comune a tutti i membri che la compongono, tanto all’inizio di un’esecuzione quanto in ogni cambiamento di tempo che un brano musicale richiede. Se ne può concludere così che, in musica, il gesto di respirare non è mai semplicemente fisiologico, ma sempre interamente interpretativo. Addirittura, il respiro può essere individuato come un vero e proprio segno grafico all’interno della scrittura musicale: quando coincide con una pausa, il cui referente, dal punto di vista rappresentativo, è il silenzio, o con un momento di riposo, all’interno dello svolgimento fraseologico di una sequenza. Venendo poi al ruolo rilevante che il respiro riveste nella musica lirica, qui ogni cantante deve saperlo amministrare attentamente, in rapporto allo svolgimento metrico della frase musicale, ridistribuendolo, secondo il posto preciso che esso occupa all’interno di quest’ultima.

Il monaco e biblista Ludwig Monti, nel suo intervento Qohelet, il soffio infinito, ha iniziato ricordando come nel libro biblico in questione la parola più ricorrente sia hebèl: quella tradizionalmente tradotta con “vanità”, ma che sarebbe meglio rendere con “soffio”, “respiro”, dal momento che indica, in senso proprio, un velo di fumo, un alito spirante, una nebbia che si dissolve e, in senso analogico, un venir meno, una fugacità, un’inconsistenza, una vacuità. Dove, nelle traduzioni correnti, leggiamo «tutto è vanità», dovremmo leggere allora «tutto è soffio», affermazione che va intesa come una sorta di protesta, fatta dal saggio biblico, contro un mondo che, spesso, ci appare il contrario di quello che dovrebbe essere. Il riconoscimento dell’inarrestabile declinare e venir meno di tutte le cose non esclude, infatti, la convinzione secondo cui Dio avrebbe fatto «bella ogni cosa al tempo opportuno» (Ecle 3:11).

Lo psicoanalista Massimo Recalcati, nel suo intervento Senza respiro. Il chiuso e l’aperto nell’esistenza, ha preso le mosse dal fatto che il doppio tempo del respiro corrisponderebbe a un qualcosa che concerne intimamente la realtà umana. Le due anime che la caratterizzano sarebbero date, infatti, da un lato, da una spinta verso l’ignoto, verso l’aperto, verso lo sconfinamento, dall’altro, da una spinta a rafforzare i confini identitari, a percepire l’ignoto, piuttosto che come l’occasione per un allargamento degli orizzonti della nostra conoscenza, come un pericolo e una minaccia. Al riguardo, ci viene ricordato il fatto che il confine non dovrebbe mai avere come sua finalità principale quella di delimitare l’interno dall’esterno, il mio dal non-mio, il conosciuto dallo sconosciuto, ma svolgere la funzione di mettere in contatto i due versanti che, nel caso precedente, erano stati contrapposti. In poche parole, il confine è tale solo se, pur delimitando, non lo fa mai per escludere, ma per darsi come un luogo inclusivo di incrocio e di scambio, come una figura che presenta un alto coefficiente di plasticità (Freud) e di porosità (Bion).

Il noto ebraista Giulio Busi, nel suo intervento Soffio divino e respiro umano nella mistica ebraica, ha esplorato il simbolismo del termine rùach, il quale significa tanto vento, in senso meteorologico, quanto spirito che si manifesta nell’uomo e nel cosmo, così che, in esso, il piano della fisicità e quello dell’emanazione divina nella creazione si danno come strettamente intrecciati. Lo spirito che emana da Dio è intesto, pertanto, nei termini di un grande vento cosmico, di un motore invisibile di tutto l’essere: come un principio energetico e dinamico che, articolandosi ciclicamente attraverso un’andata e un ritorno, si esplica anche attraverso il nostro respiro. Dopodiché, Busi richiama il noto passo biblico relativo alla creazione dell’uomo (Gn 2:7), dove ciò che fa sì che dalla polvere prenda vita un essere provvisto di un’anima è dato dal momento simbolico-fondante della trasmissione del respiro che Dio gli inala nelle narici. Se poi andiamo al capitolo XII dell’Ecclesiaste, vediamo che qui, proprio nel segno del soffio-anima (rùach), si compie il ciclo ritmico che va dalla vita alla morte: quando viene dispensato è vita, quando viene preso indietro è morte. Ma l’ebraico biblico usa il termine rùach anche in un altro senso: per esprimere quella pienezza e intensità di energia vitale, senza la quale l’uomo non potrebbe cercare Dio e desiderarlo. Il termine rùach ricorre, naturalmente, anche in uno dei testi più noti della mistica ebraica: Il Libro della formazione. Qui, esso si riferisce al primo vibrare della creazione, volendo indicare che l’elemento originario di essa è dato dal respiro di Dio. L’esposizione di Busi finisce segnalando (in Ez 36:26) un’occorrenza del termine rùach dotata di un significato ulteriore rispetto a quelli visti fin qui: nel senso di spirito “nuovo”, inteso come ciò grazie a cui noi esercitiamo la comprensione, per poi intervenire sulla realtà e trasformarla.

Veniamo ora ad alcuni interventi che si sono prodotti non in presenza, ma on-line. Il linguista Andrea Moro ha parlato di Respiro, linguaggio, volontà. Il punto di partenza è stato dato dalla constatazione secondo cui gli esseri umani dispongono della risorsa del fiato, innanzi tutto, per comunicare. In tal senso, il respiro è, insieme al cibo, il primo elemento che mette in contatto l’interno con l’esterno. Il bambino viene portato così non solo a modulare il respiro per comunicare, ma il respiro stesso si dà a noi anche come il primo dei vincoli biologici che sono imposti alla struttura del linguaggio. È il respiro che prescrive, infatti, la sua misura all’articolazione di una frase, tant’è che la punteggiatura può essere vista, in qualche modo, come l’elettrocardiogramma di esso. Passando poi a riflettere sul fatto che anima, in greco, significa appunto respiro, Moro ritiene che l’una sarebbe stata indentificata con l’altro, essenzialmente, perché il respiro è un qualcosa di cui noi non possiamo disporre, che non è soggetto al dominio della nostra volontà. Smettere di respirare non è, infatti, fra le cose che noi possiamo intenzionalmente fare.

E proprio quest’ultimo punto è stato toccato anche dal filosofo Felice Cimatti, nell’intervento intitolato Il respiro animale, tenuto insieme all’altro filosofo Leonardo Caffo. Egli ci ha detto che, per lui, il tratto filosofico del respiro risiede proprio nel fatto che l’aria non è di nessuno, è l’inappropriabile per eccellenza, ciò che non può essere rivendicato da alcuno, in quanto suo proprietario. È così che se un insegnamento ci è venuto dal periodo relativo alla quarantena e immediatamente successivo a essa è che respirare è un bisogno umano elementare: che noi non possiamo fare a meno dell’aria, esattamente come i pesci dell’acqua.

 

11. Il respiro ama nascondersi

 

Passiamo ora a svolgere alcune riflessioni circa il fatto che il respiro – proprio nella misura in cui «definisce il vivente come porosità, come continuo chiudersi-dischiudersi» – è un qualcosa che si mantiene estraneo al dominio della visione: «non lo vediamo, se non attraverso la modulazione degli organi».

 

Il respiro assume così lo stesso statuto della pista, della scia: è eccedenza, eppure è la condizione a partire dalla quale possiamo cogliere l’altro in quanto vivente, così come la scia, la traccia, sono nell’ordine di un esubero invisibile a partire dal quale veniamo a conoscenza dei processi di individuazione di altre forme viventi, dei loro prolungamenti, del loro stabilirsi e muoversi negli spazi. La condizione per poter accedere al minimo respiro, al minimo battito, è la creazione di “piste immaginarie”, quei segmenti non battuti, non segnati, o ancora da delineare, ma nella cui composizione e scomposizione avviene la stessa alternanza tra visibile e nascosto che è manifestazione della natura stessa96.

 

Ora, questa idea che mette in risalto nel respiro la sua estraneità al dominio della visione, in quanto essa vìola quel principio che vuole che “la natura ama nascondersi”, potrebbe essere intesa come una chiave alternativa, rispetto a quella dominante fin qui, di accesso all’intelligenza del vivente. Il richiamo obbligato è a Emmanuel Lévinas. Innanzi tutto, perché la cifra complessiva del suo pensiero è la respirazione97. Per il filosofo franco-lituano, nulla più dell’atto del respirare, infatti, «è in grado di testimoniare la prossimità degli esseri umani l’uno all’altro», nonché «di confermare la loro comunicazione come comunicazione reciproca che precede qualsiasi iniziativa».

 

Non soggetto a decisione bensì involontario, passivo, il respirare è un comunicarsi profondo, uno scambio, nel quale l’uno inspira l’aria espirata dall’altro. […] Questo fenomeno, garante di una prossimità assoluta che smentisce qualsiasi isolabilità dell’essere umano, […] conferma l’etica del per-l’altro [di Lévinas]98.

 

In secondo luogo, perché, a un’idea dello spazio come «distanza riempita di luce», come «vuoto della trasparenza», egli ne contrappone una che lo intende come un qualcosa che è «riempito d’aria invisibile», che è «nascosto alla percezione», che è «non-percepito, ma che mi penetra fino alle pieghe della mia interiorità». Esso non è altro, quindi, che lo spazio atmosferico, lo spazio della respirazione, appunto: della respirazione, da parte di un’interiorità che «si libera da se stessa», di un’aria che, venendo dal di fuori, laddove spirano «tutti i venti»99, costituisce così «lo psichismo stesso dell’anima»100.

Lévinas, definendo la respirazione nei termini di un’«iterazione pre-riflessiva»101, cosa che fa del soggetto un «polmone al fondo della sua sostanza», ossia «spirito», animato dal «soffio più lungo che ci sia»102, perviene così a concepire il soggetto stesso come quello scarto, intervallo o «tempo morto […] che separa l’inspirazione dall’espirazione»103, la diacronia dell’una dalla diacronia dell’altra104: soggetto il quale, in tal modo, «non si qualifica più come interiorità o come coscienza, bensì come istante evanescente», nonché come quell’essere che, fin quando è in vita, «non può chiudere definitivamente ogni porta e finestra all’esteriorità»105. Esteriorità la quale – ricordiamo – è una delle categorie fondamentali del pensiero di Lévinas106.

 

La ritmica della respirazione […] indica la dipendenza costitutiva dall’esteriorità dell’ambiente e, al tempo stesso, la necessità di restituire, con l’emissione del fiato (e della parola), quanto si è ricevuto: nutrimento e donazione, nascita e morte, sono gli estremi nel cui frammezzo si produce e si consuma il soggetto107.

 

Il soggetto cui pensa Lévinas è, infatti, tale che, proprio attraverso la respirazione, fa esperienza di «una denucleazione della [sua] sostanzialità», così che, liberandosi dalla tentazione di restare chiuso dentro di sé, si arrende all’imporsi, a lui, del semplice ambiente come atmosfera, si espone «ad altri, nella [sua] responsabilità per esso», nel segno non di un’iniziativa o di una decisione, ma di una «passività […] che non arriva a prendere forma», perché è spezzata dal «vento dell’alterità»108. L’inspirazione, in quanto genera la respirazione, ci offre cioè il modello per il costituirsi di un profilo del sé in cui lo spirito si configura come pneûma e «l’altro [è coimplicato] nel medesimo»109.

 

Apertura di sé all’altro, […] relazione del tutto diversa dall’occupazione di un luogo, da un costruire, da un installarsi, la respirazione è trascendenza a guisa di de-clausura; essa rivela tutto il suo senso solo nella relazione con altri, nella prossimità del prossimo, che è responsabilità per esso. […] Trascendersi, uscire da casa propria al punto di uscire da sé, è sostituirsi all’altro, […] espiare per l’altro110.

 

Ma la «relazione allaria» – aggiunge Lévinas – è anche la condizione a partire dalla quale «si fanno e si enunciano le esperienze»111, la condizione della significazione, insomma. Il punto è che, laddove il linguaggio si è fortemente formalizzato, come, ad esempio, nel lessico filosofico, è necessario mettere mano all’operazione di ricondurre il Detto al Dire, ossia al ritmo di quella respirazione che, nel suo aprirsi spontaneamente all’esteriorità, produce una «[s]ignificanza consegnata all’altro prima di ogni oggettivazione»112. Operazione la quale è, dunque, «un incessante disdetto del Detto», un movimento che, andando dal polo del Detto a quello del Dire, lascia così intravedere, sotto le rovine della lingua enunciata, l’orma e le tracce di un «senso [nascosto che] si mostra»113.

 

12. Respirare nella luce

 

Argomentiamo ora la prospettiva complementare a quella svolta nel precedente paragrafo, partendo da una riflessione – come sempre – folgorante di María Zambrano:

 

Quando lo spazio si dà felicemente all’essere vivo, secondo la sua condizione, esso insieme alla respirazione gli consente la visione. E quando infelicemente lo lascia sperso, abbandonato, incapace di visione, lo lascia nel deserto. Che il respiro e la visione si diano congiuntamente, e non come semplice possibilità bensì in atto, è già un alto, puro cielo114.

 

Scandendo i passaggi di una fenomenologia del «risveglio» – «risveglio» che sta per tutte quelle volte in cui noi facciamo esperienza di una nuova nascita –, la filosofa spagnola parte dal momento in cui si mette «pienamente in moto la respirazione», grazie a una «scintilla di fuoco che è insieme luce». Dopodiché, la respirazione stessa, una volta accesa, «regola il suo ritmo su questa luce», in modo che colui cui era destinata «grazie ad essa apre gli occhi».

 

Colui che si fa così incontro alla luce col suo respiro ne viene illuminato senza esserne abbagliato.

 

Ora, venendo al ritmo attraverso cui si articola la respirazione, esso consiste nel fatto che l’inspirazione alimenta l’espirazione, trasmettendole ogni volta un «sospiro», in cui rivive la presenza di quel «primo fiato», o «fuoco sottile», che l’aveva accesa.

 

E il sospiro si direbbe che vada a restituirlo, ormai lavato da quel fuoco stesso che ha alimentato, il fuoco invisibile della vita che sembra essere la sua sostanza. Una sostanza formata a partire dalla prima inspirazione del respiro iniziale, e che inafferrabile incatena l’individuo che nasce col respirare della vita tutta e del suo nascosto centro115.

 

Dicevamo della luce come di ciò su cui la respirazione, appena accesa, regola il suo proprio ritmo. Ebbene, essa, per Zambrano, molto più dello spazio e del tempo, «è sicuramente un “a priori” dell’essere umano o dell’essere di tutte le creature»116. In occasione di ogni «risveglio», noi siamo come chiamati dalla luce: invitati da essa a uscire nell’“aperto”, allargando così il giro del nostro respirare. La respirazione è, cioè, uno dei tanti movimenti essenziali dell’essere umano che si produce in funzione della luce: in funzione di un qualcosa che viene verso di noi, nella misura in cui noi andiamo verso di esso.

 

La luce ha la caratteristica di giungere sull’essere umano come se scendesse a fargli visita, o gli venisse inviata. Ed è impossibile vedere una luce, o vedere in una certa luce, senza mettersi a cercare la sua fonte117.

 

Cosa che si spiega col fatto che l’essere umano, aspirando ad apparire nella luce, a essere rivelato e sostenuto da essa, attraverso la respirazione, ne gode in piena libertà, sentendosi così interamente nel suo elemento.

 

La luce […] è il nostro ambito, l’ambito della vita umana. Vivere umanamente è vedere ed essere visto, è muoversi nella visibilità118.

 

E ancora, quanto al nesso che lega la respirazione alla luce:

 

senza che ce ne rendiamo conto, può capitare di respirare a fatica non per scarsità d’aria, ma per il cattivo condizionamento della luce119.

 

Ma, proprio come godiamo della luce, così, con pari intensità, noi soffriamo dell’oscurità, condizione in cui l’essere umano, quando inevitabilmente vi ci ricade, «torna a respirare in una vita recondita»120, nella speranza di attingere di nuovo a quella fonte alla quale, ogni volta che ne ha bisogno, non può bere.

Per Zambrano, l’intima congiunzione fra luce e respiro si ripropone, inoltre, anche a proposito della parola. Essa, in quanto «creatura vivente»121, viene da lei intesa, infatti, come un “essere-di-luce”, il quale si espone e viene allo scoperto procedendo da un’origine di oscurità122. Ora, una volta che anche la parola si è “risvegliata”, ciò che fa sì che essa assuma una presenza sempre più ben definita è una specie di respirazione che viene dall’interno dell’essere stesso: di quell’«essere nascosto nell’umano che ha bisogno di respirare a modo suo, che non può essere il modo della vita pura e semplice»123. È questo il momento in cui il pensiero – riguadagnando la sua intima comunanza con l’essere – torna a far leva su una parola “aurorale”, “nascente”: a bagnarsi nella luce124, per essere così di nuovo «brezza, respiro che si nutre del contatto sensoriale e sensuale con le cose»125.

 

Stare col pensiero presso le cose è mossa essenziale non solo per il pensare, ma anche per l’essere, dal momento che essere e pensare sono la stessa cosa. Stare fra le cose, tenere la mente in contatto con la materia vivente, là dove c’è la sorgente della vita, portare lo sguardo sull’esperienza che tiene fra gli altri nel mondo aiuta a trovare la strada per accedere a una verità che possa essere respiro vivo per l’anima126.

 

Ed eccoci ricondotti così al pensiero di Anassimandro da cui siamo partiti, per cui, volendo saldare, nel segno di una circolarità virtuosa, inizio e fine della nostra trattazione, non ci resta che citare la seguente considerazione di Nietzsche:

 

Il concetto dell’essere! Come se esso non rivelasse già nell’etimologia della parola la più misera origine empirica! Esse difatti significa in fondo unicamente «respirare»127.

 

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Note

52 R. M. Rilke, Sonetti a Orfeo (P. I, 3), a cura di G. Cacciapaglia, Studio Tesi, Pordenone 1990, pp. 8-9.

53 Ivi (P. II, 1), pp. 62-63.

54 S. Mori Carmignani, Soglia e metamorfosi. Orfeo ed Euridice nell’opera di Rainer Maria Rilke, Artemide, Roma 2008, p. 112.

55 «Non somiglia al respiro quest’assidua / vicenda di rinunzia […] ?», leggiamo, al riguardo, in una delle Poesie sparse, in R. M. Rilke, Poesie. 1907-1926, a cura di A. Lavagetto, tr. it. di G. Cacciapaglia, A. L. Giavotto Künkler e A. Lavagetto, Einaudi, Torino 2000, pp. 530-531.

56 R. M. Rilke, Poesie, I: 1895-1908, a cura di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, Einaudi-Gallimard, Torino 1994, pp. 100-101.

57 A. Mecacci, Orthotes onomaton. Celan, Hölderlin e i Greci, in Aa. Vv., Paul Celan. La poesia come frontiera filosofica, a cura di M. Baldi e F. Desideri, Firenze University Press, Firenze 2008, pp. 97-112, parla, infatti, di questa nozione come della «metafora che sorregge tutta la poetica celaniana» (p. 106). E, a conferma di ciò, Atemwende fa da anche titolo a una raccolta poetica di Celan, del 1967.

58 Cfr. C. Miglio, Paul Celan. Il respiro, il corpo, la negazione, in Aa. Vv., Poeti della malinconia, a cura di B. Frabotta, Donzelli, Roma 2001, pp. 17-41, la quale, stabilendo un nesso tra le due fasi del respiro e la parola poetica, scrive: «L’inspirazione la impedisce, l’espirazione l’accompagna» (p. 18). Analogamente, F. Desideri, I poli della poesia e il respiro del verso. Glosse a Platone, Dante, Celan, Zanzotto, in «Bollettino Filosofico», 2017, vol. XXXII, pp. 283-296, parla dell’«immisurabile unità di mètron e respiro», in Celan, come di una «[u]nità inspirata e restituita nel soffio del verso» (p. 293).

59 M. Baldi – F. Desideri, Introduzione a Aa. Vv., Paul Celan. La poesia come frontiera filosofica, cit., p. XI.

60 P. Celan, Il meridiano, in Id., La verità della poesia. Il «meridiano» e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 3-22: pp. 13-16. Sulla poesia, in quanto «manifestazione […] dialogica per natura», la cui destinazione è «un tu […] apert[o] al dialogo», cfr., nella raccolta appena citata, Allocuzione, pp. 34-36: pp. 35-36.

61 E. Lévinas, Paul Celan. Dall’essere all’altro, a cura di G. Pintus, InSchibboleth, Roma 2014, p. 22.

62 Cfr. ivi, p. 34.

63 «Quel che ci libera dal peso è il respiro. Nel respiro non abbiamo più peso, siamo spinti come in volo al di là della forza di gravità», scrive G. Agamben, Quando la casa brucia. Dal dialetto del pensiero, Giometti & Antonello, Macerata 2020, p. 15.

64 Cfr. Th. Bernhard, Il respiro. Una decisione (1978), tr. it. di A. Ruchat, Adelphi, Milano 1989.

65 Lorigine. Un accenno (1975), La cantina. Una via di scampo (1976), Il freddo. Una segregazione (1981), Un bambino (1982). Tutti e cinque i romanzi sono ricompresi in Th. Bernhard, Autobiografia, a cura di L. Reitani, Adelphi, Milano 2011.

66 L. Grazioli, Thomas Bernhard. Goethe muore, in «Doppiozero» (www.doppiozero.com), 19 marzo 2013.

67 Cfr. A. G. Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Laterza, Roma-Bari 1990. Qui, Bernhard viene incluso nel novero di quegli scrittori che «scrivono non per estendere l’area della cultura, ma per riuscire a respirare nuovamente» (p. X).

68 Th. Bernhard, Il respiro, cit., p. 21.

69 Ivi, p. 38.

70 Ivi, pp. 16-18.

71 Ivi, p. 65.

72 Ivi, p. 27.

73 La scrittura di Bernhard è vista nei termini di una «poetica della resistenza» da M. Latini, La pagina bianca. Thomas Bernhard e il paradosso della scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2010.

74 W. Burroughs, Il libro della respirazione, in Id., È arrivato Ah Pook / Il libro della respirazione / La rivoluzione elettronica, tr. it. di G. Saponaro, SugarCo, Milano 1980, pp. 77-139: p. 129.

75 G.-G. Lemaire, William Burroughs: una biografia. La mappa di una scrittura, tr. it. di V. La Via, SugarCo, Milano 1983, p. 160.

76 Ivi, p. 162.

77 W. Burroughs, Il libro della respirazione, cit., p. 79.

78 W. Burroughs, La rivoluzione elettronica, cit., pp. 141-186: p. 180.

79 Ivi, p. 166.

80 G.-G. Lemaire, «Operation rewrite», introduzione a W. Burroughs, La scrittura creativa, tr. it. di G. Saponaro, SugarCo, Milano 1981, pp. 4-9: p. 9.

81 W. Burroughs, La rivoluzione elettronica, cit., pp. 182-183.

82 Aristotele, La respirazione, in Id., Lanima e il corpo. Parva naturalia (472b 23-24 e 28-29), a cura di A. L. Carbone, Bompiani, Milano 2002, pp. 241-281: p. 253. Per un’altra ed. it. di questo testo, esso si trova in Aristotele, La fiamma nel cuore, a cura di L. Repici, Edizioni della Normale, Pisa 2017.

83 Aristotele, La respirazione (471b 25-26), cit., p. 247.

84 Ivi (473a 23-24), cit., p. 255.

85 G. Ambrosano, La respirazione empedoclea, in «Anais de Filosofia Clássica», 2012, n. 12, pp. 6-38: p. 30. Per un’altra ricognizione critica sull’argomento, cfr. L. Arata, Sul frammento 10 D.-K. di Empedocle, in «Studi Classici e Orientali», 1997, vol. 45, pp. 65-84.

86 Aristotele, La respirazione (274a 24), cit., p. 259.

87 Ivi (477a 17), p. 273.

88 Ivi (480b 19-20), p. 291.

89 F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 4-5.

90 Ivi, p. 154.

91 Sul tema della voce articolata, in Aristotele, cfr. anche P. Laspia, L’articolazione linguistica. Origini biologiche di una metafora, Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, pp. 59-69. Qui, si rimarca la «strettissima correlazione che sussiste, secondo Aristotele, fra lingua e vita», per cui ovunque presente è, in lui, «il nesso […] fra biologia e teoria del linguaggio» (p. 59). Punto di partenza del processo di articolazione è, per lo Stagirita, «la voce, prodotta solo mediante l’apparato respiratorio» (pp. 61-62).

92 La quasi totalità degli interventi si può ascoltare all’indirizzo: www.torinospiritualità.org.

93 Giovanni Climaco, La Scala, a cura di J. Cryssavgis, tr. it. e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2005, p. 113 (Discorso XXVII/2: «Sulle diverse forme di esichia e su come discernerle», 26). Quanto all’esichia, essa è quella pratica ascetica, volta al raggiungimento della quiete e della pace interiore, la quale è diffusa presso i monaci dell’Oriente cristiano, fin dai tempi dei Padri del deserto (IV secolo).

94 Le 108 Upanishad, a cura di Parama Karuna Devi, Jagannatha Vellabha Vedic Research Center, Puri 2012, pp. 197-203: p. 198.

95 Per una versione abbreviata dell’intervento integrale tenuto da Rigotti a «Torino Spiritualità» 2020, cfr., di lei, Il ritmo del respiro, in «Doppiozero», 26 settembre 2020.

96 M. Soldini, La questione animale, in «Doppiozero», 12 aprile 2016.

97 Al riguardo, J. Derrida, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Lévinas, in Id., La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, pp. 99-198, scrive che ciò cui ci invita il pensiero di Lévinas è alla «dislocazione del logos greco; alla dislocazione della nostra identità e forse dell’identità in generale; […] ad abbandonare il luogo greco, e forse il luogo in generale, verso ciò che non è più nemmeno una sorgente o un luogo […] [ma] una respirazione» (p. 104).

98 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dellespressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 40.

99 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1978), tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, pp. 222-223.

100 Ivi, p. 137. Per l’influsso su Lévinas del naturalismo presocratico e, in particolare, di quel pensiero di Anassimene da noi collocato in esergo, cfr. S. Benso, The Breathing of the Air: Presocratic Echoes in Lévinas, in Aa. Vv., Lévinas and the Ancients, a cura di B. Schroeder e S. Benso, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2008, pp. 9-23. Qui, in sede ci conclusione, l’autrice afferma che, alla luce della concezione di Lévinas dello psichismo come respiro, la filosofia occidentale è chiamata al compito di «rileggere la sua propria storia, la sua propria origine, le sue proprie concettualizzazioni» (p. 22). A. Cavarero, A più voci, cit., a proposito dello pneumatismo di Lévinas, richiama, invece, il concetto di rùach: «l’alito e il respiro che, nella traduzione greca dei Settanta, è appunto pneûma» (p. 40).

101 E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 179.

102 Ivi, p. 223.

103 Ivi, p. 136.

104 Cfr. ivi, p. 225. A differenza dell’animalità, il cui «soffio […] dell’anima» è «ancora troppo corto» (ibid.).

105 L. Pinzolo, La voce tra sonorità e respirazione in Emmanuel Lévinas. Abbozzo di una metafisica dell’atmosfera, in «Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia» (www.atquerivista.it), 2017, n. 20, pp. 81-105: p. 102.

106 Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1971), tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1986.

107 L. Pinzolo, La voce tra sonorità e respirazione in Emmanuel Lévinas, cit., p. 102.

108 E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 223.

109 Ivi, p. 145.

110 Ivi, pp. 224-225.

111 Ivi, p. 224.

112 Ivi, p. 61.

113 Ivi, p. 224. Sul Dire come approssimazione all’altro, «respirazione», movimento che, strappandoci «fuori da ogni luogo», fa sì che noi non lo abitiamo più, che non calpestiamo «più nessun suolo», cfr. anche ivi, p. 62.

114 M. Zambrano, Chiari del bosco, tr. it. di C. Ferrucci, B. Mondadori, Milano 2004, p. 148.

115 Ivi, p. 27.

116 Ivi, p. 32.

117 M. Zambrano, Mistero e distribuzione della luce, in Id., Dire luce. Scritti sulla pittura, a cura di C. Del Valle, tr. it. di C. Ferrucci, Rizzoli, Milano 2013, pp. 279-283: p. 280.

118 M. Zambrano, La Spagna e la sua pittura, in ivi, pp. 83-109: p. 85.

119 M. Zambrano, Mistero e distribuzione della luce, cit., p. 279.

120 M. Zambrano, Chiari del bosco, cit., pp. 32-33.

121 M. Zambrano, Dell’Aurora, tr. it. a cura di E. Laurenzi, Marietti, Genova 2000, p. 66.

122 Su questo punto, cfr. il nostro: María Zambrano: la parola prima del linguaggio, in «Il Pensare. Rivista di Filosofia» (www.ilpensare.net), 2018, n. 7, pp. 105-118.

123 M. Zambrano, Chiari del bosco, cit., p. 106.

124 Cfr. M. Zambrano, Mistero e distribuzione della luce, cit., p. 279.

125 L. Mortari, María Zambrano. Respirare la vita, Feltrinelli, Milano 2019, p. 91.

126 Ivi, p. 67.

127 F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in Id., La filosofia nell’epoca tragica e Scritti dal 1870 al 1873, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1973, pp. 263-351: p. 320.