La fabbrica 1/2

Una rara ed efficace immagine della contemporaneità.

Una fabbrica enorme, quasi infinita, come mai s’era veduta. Migliaia di operai, impiegati, dirigenti; corridoi labirintici attraversati da altrettanti corridoi, quasi in un circolo senza fine; centinaia di uffici che si dispiegano ovunque. E per accedere alla fabbrica un intrico illimitato di stradine che salgono e scendono in un paesaggio quasi desertico.
Ma che cosa vi si produce? Qual è lo scopo di tale dispiegamento di mezzi? Il protagonista, dopo svariate vicende, arriva inconsapevolmente ad una risposta. Ma è una risposta che gli costerà la vita.
Emerge nel romanzo un senso di spaesamento e stordimento. Così come quell’immensa fabbrica, tutto si avvita circolarmente in una sorta di danza ipnotica: la storia, le alterne vicende dei personaggi, la stessa scrittura.
Il vuoto, lo slittamento, la ripetizione, la ridondanza pervadono alla fine quasi ogni passo di quest’opera; instillano lo sconcerto di una “sensazione”, piuttosto che la consapevolezza di un pensiero o di un ragionamento ben definito. Ma soprattutto ci offrono una rara ed efficace immagine della contemporaneità.

Immagine di copertina: “Un fantasma percorre l’Europa”, 1950. Olio e tempera su tela, di Armando Pizzinato.

“Ancora è presto per dire quel che sarà domani, quel che farò domani ancora non posso dirlo, ma di certo posso dire che non rinnego nulla di quanto ho fatto finora e ancora, che la mia ambizione rimane sempre quella di significare, a mezzo della pittura, ciò che maggiormente mi preme in quanto uomo di oggi: quel che riguarda l’uomo, la sua sorte, il suo futuro e dunque le speranze dell’uomo, le sue lotte, le sue conquiste. Amerei, a conclusione della mia vicenda, di poter venir definito: un «costruttivo» pittore della realtà”.

A. Pizzinato

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Indice: 1. L’edificazione, 2. Il nuovo impiego, 3. Il circolo, 4. La fabbrica, 5. La pioggia.

Oggi pubblichiamo le prime 2 parti, Domenica prossima il resto. Una buona lettura.

L’edificazione

Da un po’ di mesi la valle di Noghere era tutto un viavai di automezzi, un vaivia d’automezzi rombanti assordanti. Tutto era un puzzo, fumoso puzzo, là, nella valle di Noghere, così tranquilla un tempo andato, ora divenuta un cantiere intasato. Il cantiere era stato inaugurato non molto tempo fa, ma già da Muggia si potevano scorgere nella loro imponente possanza, o malcreanza nei confronti d’una piana che s’allarga dal mare fin sui monti, le infrastrutture del nuovo edificio. Superato il colle boscoso di santa Barbara, quasi prospiciente il mare, s’apriva una vasta area brulla e tormentata, aspra e agitata, come un prolungarsi dell’acque in piagge terranee ardenti urenti, lungo la quale ormai da tempo, diffusa in un formicolío brulichío formicolante fitto fitto, s’indovava il nuovo comprensorio industriale simile al fiorume di messiticcio. Mentre là, nel bel mezzo del portaticcio, tra lo sciaguattío del fiume scorrente ricorrente e il calpestío del selciato lúbrico sdrucciolevole affollato via via più frequentemente, in una posizione dominante ergente, s’alzavano dei ciclopici pelasgici muri maestri, segni presaghi d’un oprare solenne pletorico colossale, il quale faceva tosto pensare al tempo antico/quando col divino misuravansi l’umane genti,/vane gesta dell’eroico furore e perdenti,/ sì da farsi perenne il destino inimico.
L’investimento era stato cospicuo, erano intervenuti sia enti pubblici, sia la società finanziaria che gestiva e aveva in concessione per scopi industriali l’intera valle. Il progetto parve sin dapprincipio molto ardito e complesso, coniugare il profitto con il mondo naturale sconfitto. Sbancamento, escavazione, demolizione. Scavare. Scavare. Distruzione, sbancante escavante distruzione che demolisce scavando, triturando, macinando, squassando, avellendo svellendo. Per tale ragione il sopraffino oprare escavante era stato commissionato a un’azienda specializzata che disponeva di decine e decine di camion attrezzatissime benne escavatrici sbancanti escavanti trituranti, con un romorío gracidante crocidànte, regolare e irregolare, roco fumoso, ruggito ferroso, frómbo squasso scasso che nemmeno cedeva nel tempo notturno, né nel dì festivo e diuturno. Regolarità snervante, snervante regolarità, irregolare, irregolare regolarità. Frastuono. Rimbombo frómbo, frómbo rimbombo, frastuonante regolare irregolare. Pure nei giorni festivi diuturni, pure ne’ dolci e soavi sonni notturni. Viavai, vaivia, viavai, vaivia d’automezzi, arrivavano, aspettavano, caricavano di terre sanguinolente e ferite, ripartivano, arrivavano, aspettavano, caricavano di terre sanguinolente e ferite, ripartivano, arrivavano, aspettavano, caricavano di terre sanguinolente e ferite, ripartivano.
Per chi abitava nei paraggi, era stato un periodo duro, ma il comune del luogo, d’accordo con la multinazionale, aveva elargito pingui compensi: “il meccanismo funziona bene – diceva il sindaco – ma dev’essere oleato lubricato, come ai vecchi tempi, quando furono costruiti i depositi. Se han permesso quell’oleoso lúbrico bituminoso scempio, tutto si può fare, tutto si può osare”.
“Ma guardi che i tempi sono mutati. Bisogna pure stare attenti, dopo i recenti eventi”, osservava tremulo pavido l’assessore all’urbanistica.
“No, bisognava sempre immer wieder stare attenti. È soltanto per colpa di qualche inesperto tarpano che ora ci si trova a centellinare millesimare ogni parola, ogni atto, anche quando si fa un piccolo miserrimo appaltino da un miliardino”.
“È per tale ragione che oggi sono così tremulo e pavido, mi sento come una merdaccia”.
“Per questa volta taccia. Tale sua titubanza lagnanza non ha senso alcuno, per quest’opera ostacolo non ne abbiamo nessuno. Per questa volta siamo bene coperti, in alto, molto in alto”, s’inciprignò questa volta soddisfatto del misfatto il sindaco buontempone con tenebrosa ghígna.
Ciò cui alludeva del tempo andato, non era certo un bell’operato: tutt’intorno, assedianti soffocanti opprimenti, sorgevano svariati depositi di olio combustibile, enormi olenti puzzolenti, che avevano trasformato le prische opíme lestre, la piana e parte delle pendici del monte prospiciente divallante digradante sino sul mare, in un continuo contiguo cantiere, spingendo piante e animali a rannicchiarsi inguattandosi sempre più in quota, come se da lì veggiessero l’umana corte che vien avante/li tocca e sfiora colla mano dell’amante,/cordiale lentezza d’una marea impietosa/che diviene repente ruina procellosa/e coll’onde avvolge la battigia/d’ogni vita cancellando le vestigia.
Furono fatte opere di canalizzazione, nuove infrastrutture stradali per facilitare i collegamenti tra il porto e l’entroterra, tra cui un’autostrada che arrivava direttamente a Lubiana. Si riteneva infatti che lo sbocco imbocco verso i paesi balcanici rappresentasse una tappa decisiva per la rinascita economica della zona soprattutto all’indomani dell’integrazione europea.
Poco era rimasto della laguna di Noghere, che si distendeva lì, a levante e che scintillava ogni mattino, alla luce dell’aurora. Oh oh oh. Vi svernavano varie specie di anitre razze codiróssi coturníci bibbi cèceri crovèlli oche selvatiche erranti silvane che, a stormi – novellano i nonni – sfioravano piando starnazzando il campanile di Servola e, per nulla intimidite dai pennacchi solfurei della ferriera che già alla fine dell’ottocento fuoriuscivano vaporosi fumiganti da cupe ciminiere estollentesi mastodontiche inquietanti, si gettavano di là, a capofitto in quell’oasi protetta dal vento. Sullo sfondo, ancora maiestatico e maestoso e fastigiato ma ormai sminuito dalle immani e immense e giganteggianti costruzioni, il ciglione carsico, non più boscoso e fruscoloso e infrascato da fitte perìploche come un tempo, a causa de’ frequenti, sempre più frequenti, incendi estivi. Pareva una sorta di muraglia castramento, un baluardo usbergo càssero eretto a difesa delle alte terre dell’altopiano altezzose alteggianti anch’esse immense giganteggianti, contro i forti venti del mare o le acque inesorabili de’ venti soffianti spiranti sferzanti che nelle procelle s’allargavano fino sotto rocce bórri forcelle, fagocitando ingoiando introiettando, sborrando erodendo di volta in volta lembi di terra, guàldi greppi bòrni spaldi, irti acclivi, erti declivi.
Eppure permaneva ovunque, in quella valle, uno stridente contrasto tra la natura selvaggia, di cui si scopriva ancora qualche frammento tassello brindello, e la folle fascinosa prepotenza delle opere murarie che ormai avevano occupato quasi completamente l’imbocco della valle. Eppure…
“Ha visto che stridente contrasto tra la natura selvaggia e la folle prepotenza delle opere murarie”, disse l’assessore al sindaco, mirando un po’ discosto il cantiere che ormai aveva invaso il centro abitato del comune.
“Non è poi tanto folle tale prepotenza. Ci porterà un bel po’ di quattrini e darà lustro a questo luogo obliato e inviso e irriso. Diventeremo oggetto di interesse per i giornali, la Tv. Vedrà, vedrà che ho ragione”. La voce suadente e persuasa del sindaco, ovvero forte d’innumeri peritanze suasive persuasive, tranquillizzò per un po’ l’animo diffidente dell’assessore insipiente.
Il silenzio che accompagnava il paradossale ciangottío del rivo circondato dai canneti che scendeva giuso dall’ubertosa Valrosandra screziata da miriadi di calcarei feldispatici intagli, ricchi scultorei picchi scoscesi, galestri ortoclasi aspri asprigni, affollati da coraggiosi impavidi vitigni, ritti i colli che sovrastanti ne signoreggiavano ombreggianti il diramarsi pur variegato, come liberato evacuato dalla lapídea costrizione, si mischiava (il silenzio credo…non senz’altro il diramarsi sebbene variegato di ricchi scultorei picchi scoscesi, a loro volta signoreggiati dagli irti ispidi crespi colli sovrastanti), senza tema di contrasto, con il clangore fastidioso e insistente delle gru, de’ magli che battevano e ribattevano sulle strutture metalliche. Battere Ribattere Sbattere. Battere Ribattere Sbattere. Subbie, mazzapicchi, mazzeranghe, sgorbie, menarole, riàvoli, ciàppole, beccastrini, tutto un brancichío buggerío d’una bordaglia vociante bucinante. E mentre le escavatrici lavoravano inesauste, scavavano scavando sbancando, escavando, lassù, proprio sul cacúme che ricorda lo scalatore Emilio Comici, poteva capitare ancora di intravvedere il roteare solenne e soave e silente d’un abuzzagardo, d’un bozzàgro o d’una guèia, che roteava appunto sinuosa roteante, quasi a simulare in quel bizzarro frullío il circolo dell’umano destino.
Le mura perimetrali della fabbrica erano già state innalzate nella loro possente imponenza, imponente possenza: anche etiam a occhio inesperto, apparivano l’espressione d’un’opera abnorme abnormale anormale, anomala, che non avrebbe avuto eguali nella zona prossimale. Accanto indovata, sulla sinistra, sorgeva una palazzina di sette piani, prefabbricata: era una struttura provvisoria di vasta portata, che fungeva da centro direzionale. In essa si sovrintendevano i lavori, si assumeva il personale e, soprattutto, si incominciava a pianificare il lancio del prodotto.

Orsù mira quel loco venusto
che’l destino avea traviato onusto,
lassù sorgeran le mura
de la piana l’industriale iattura.

L’ingegnere era stato convocato proprio in quel luogo, convocato proprio era in quel luogo l’ingegnere stato, per il primo colloquio eloquio di lavoro. La lettera che gli annunciava l’interesse della direzione in fondo era solo una formalità, il rendere ufficiale un abboccamento informale ch’egli aveva avuto con tal Perigliani, suo amico o pseudo-amico, come meglio vedremo. Orbene, questa lettera uffiziale gli fu recapitata dopo quello che suolesi dire un periodo alquanto negativo. Cadde, insomma, a fagiuolo.
In effetti s’era da poco separato dalla moglie Marta, dopo dieci anni di matrimonio. Come se ciò non bastasse era pure stato messo in mobilità, ovvero licenziato espulso deietto escreato come una cacca secca, senza rispetto alcuno per anzianità, professionalità, fedeltà, da una famosa azienda produttrice di cellulari, la Tentronic SpA. Ah ah ah. Il prodotto infatti non tirava più, il mercato era saturo, tutti s’aveva ormai orecchie da elefante, bollenti edematiche turgide, piene di gavìne bugnature flogosi algiche otorroiche alle paròtidi etmòidi sfenoidi, a cagione del ripetuto reiterato ossessivo irraggiamento elettromagnetico e, si diceva, cioè la generalità dei cosiddetti benpensanti diceva, che la gente fosse alla ricerca di fòmiti alternativi esaustivi, capaci d’appagare l’infinito desío d’altri gadgets waps tools netpocketservers (detti acronimicamente n.p.s., n.d.a.), altri modi di demarcazione sociale, differenziazione segmentazione appartenenza identificazione. Dopo essere arrivati al punto di telefonare ad ogni istante e in qualsiasi occasione, al cesso toilettes viccì, all’ospedale incannulati intubati flebati, al camposanto impettiti contriti costernati, ci si era un po’ stuccati dell’assoluta raggiungibilità, come se fosse iniziata una nuova epoca della riservatezza e dell’intimità, tattarattataratatà.
Rilesse ripetutamente quella lettera, come se essa concretizzasse una promessa che era rimasta sospesa nel limbo insicuro ed inaffidabile della semplice parola. No, non è possibile, proprio l’azienda più rinomata della città m’ha ritenuto degno d’un assessment, forse mi conoscevano già, o… oppure, forse, è solo merito del Perigliani? O… oppure hanno apprezzato i miei lavori, era ora che qualcuno riconoscesse la mia fantasia, fino a oggi ho avuto a che fare soltanto con degli incapaci, per i quali il marketing è solo l’ultimo tassello infudibolo pisside biribissi. Stitignano in tutto, errano cazzeggiano, errare humanum est, ma perseverare…ahimé, è per questo che l’economia della città è così depressa repressa.
Il suo aspetto fisico non era davvero granché. Madre natura non fu generosa con lui, anzi, si mostrò oltremodo matrigna ed astiosa: infatti, dopo averlo messo al mondo, gli affibbiò pure questo cruccio, d’essere tutt’altro che bello, un po’ grassotello, anzi, pingue e deforme, sempre a mangiare e ingollare e tracannare come un lurco. Anzi, l’ampia fronte stempiata madida di sudore madóre che sdilinquiva giù per le gote e i rari capelli grigi lotulenti untuosi offrivano di lui un aspetto sgradevole, lezzume illuvie, sòrde quasi scostante, come quello dicchiè ammorbato da un’infezione deturpante e, nonostante le sue qualità morali intellettuali, non riesce a distaccare dassé l’effetto di quella stigmate nefasta disturbante. La bruttezza appare, per uno strano paradosso, contagiosa, e chi se n’accosta troppo porta seco sempre l’indomabile timore d’attaccarsela issofatto addosso, come un bubbone luètico pestilenziale, tabe che passa di corpo in corpo attraverso l’aria esiziale vicinale, per mano d’un untore o dentro un fondiglio raggrumato in un fosso, il quale bubbone si trasmette, fluisce fluidamente e ti s’appiccica appresso, a mo’ di sanguisuga affamata d’un appetito regresso.
Tale ripugnante lezzo aspetto, egli non tentava manco di celarlo occultarlo, ma lo marcava sottolineava financo perfino con un vestire ancora peggiore, come se temesse di non essere riconosciuto e di sfuggire in qualche maniera all’attenzione altrui. Per poi trincerarsi paranoicamente colle parole dietro alla sfortuna ineluttabile che l’avrebbe colto sin dalla nascita, stornando ogni colpa responsabilità diretta indiretta, almeno questo, sono sfigato sfigatissimo di mio, vuoi pure caricarmi d’altre colpe responsabilità dirette indirette? è questo il vero vantaggio dello sfigato, te sei sfigato ebbasta e nessuno ti può rompere le scatole, far affidamento suddetè, dirti questo o quello. Amava quindi uscire di casa con le scarpe sporche e bucate ed un paio di uòsa fruste, né si possono contare le volte in cui aveva messo i calzerotti e le maglie alla rovescia, le giacche con ampie macchie di sporco come un bernècche, pillàcchere di cibarie rassegate, chiazze che pendevano dal tessuto floscio oscillante al vento e al trepidare del passo, anch’esso malfermo, anch’esso lento macilento.
“Perché devi uscire sempre impavesato in siffatte condizioni, con quello sghembo giamberlucco?”, ripeteva Marta quasi ogni mattino. Lui, dal canto suo, manteneva una certa smagatezza fierezza e replicava, quasi ogni mattino, impedantendo le sovraddette ripetizioni pressoché con la medesima replica tiritera tatanfèra, anch’essa ordunque medesimamente ripetentesi, quantunque fosse appunto carica di fierezza smagatezza: “per il mio lavoro coglieggiàre serve a ben poco, per fortuna contano ancor oggi la fantasia bramosia idee inventiva euristica, inveceché soltanto esclusivamente la cupidigia ingordigia alterigia. Per queste qualità non servono i vestiti trend belli e leggiadri e griffati, le scarpe clean pulite, l’alito alla menta piperita, ci vogliono neuroni, intuizione, estro, uno stomaco ben abituato a sguazzare negli affari luschi, certo, una buona dose di genialità malvagità astuzia arguzia spregiudicatezza, certo, il saper cogliere l’essenza d’una cosa, con una frase, un gesto, un colore, così ingannando fottendo prendendo pei fondelli la gente insciente insipiente. Certo”.
L’aspetto non fu tuttavia la causa del fallimento del suo matrimonio. Certo. Fu, se proprio si vuole insistere su questo piano, ovvero sul “fu” e del “certo”, una concomitante concausa, qualcosa che causa insieme ad altre comiziali concomitanti concause. Decisive furono le difficoltà economiche o, meglio ancora, fu la sfiducia in se stesso allorché si vide, e fu, di conseguenza, instradato, fufufu, ovvero messo in strada, non nel senso di indirizzato direzionato avviato. Le difficoltà dell’azienda in cui lavorava lo portarono infatti, senza che se ne accorgesse, a mutare radicalmente il suo comportamento. Tornava a casa incroiato incazzato con chiunque e con qualunque cosa, svolgeva un lavoro senza prospettive, senza domani. E che senso ha? Chessenso ha sopportare quello stronzo del capufficio, o i colleghi invidi indolenti che cercano continuamente di fregarti sulle ferie permessi promozioni gratifiche emolumenti, per non dire, quando possono, di scaricarti addosso le loro colpe, facendoti pure fare la figura del fesso? Perché acché acciocché?
Un tempo, molto tempo fa, era persino un uomo sportivo, non che la prendesse sportivamente, tutt’altro, s’incazzava frequentemente, anche per inezie, piccolezze scamúzzoli quisquilie che gli capitavano durante il giorno. Era davvero sportivo nel senso che praticava assiduamente lo sport, correva correva correva, run jog walk step spin, all’inizio perché glielo aveva suggerito il medico per controllare il peso eccessivo che si portava seco in guisa di fardello ipodermico lipidico massivo, ma dopo un po’ gli scattò nella capoccia una strana molla mattía mattería e lo jogging walking divenne ben presto una cinetica sindromica bulimía, una dromomania, ossia un correre nel quale correvano concorrevano anche altri fattori. Si mise a joggare così come un dispossente, insanamente, giorno dopo giorno, day by day, pioggia vento neve, pioggia vento neve, sera notte mattino, sera notte mattino, giorno dopo giorno, day by day.
Orbene, d’un tratto smise anche questa sua attività, improvvisamente improvvidamente come l’aveva iniziata, tanto che Marta se ne preoccupò non poco, come incute un certo timore chi smette repentinamente di fumare, ma non per ragioni di volontà voluttà, proprio perché non n’ha più voglia, di quel gusto, di quegli odori che penetrano nelle narici, espandendosi nei polmoni, avvincigliandosi in tra ogni più recondito ormai píceo alveolo, soffocandolo bitumandolo a tal punto che nemmeno la scossa cattarosa della tosse riuscirebbe a discrostarne qualche brano, di quella densa melmosa pellicola catramosa. Si metamorfò in un pigrone atimormico. Non usciva più alla domenica ma si rintanava in casa, a guardare depresso e represso e neghittoso la televisione in santa pace, disteso sul letto, rimpinzandosi di salatini, mangiando e sgranocchiando, sgranocchiando e mangiando.
Oltre alla chiusura o claustrazione all’interno delle tiepide rassicuranti mura domestiche, egli si chiuse serrò pure in se stesso, come s’usa dire. Uno strano torpore gli intrise le membra. Divenne insopportabile, contrito e superbo nello stesso tempo, quasi tronfio per la sua inettitudine, talché – ma questo è ovvio, non si poteva sperar diversamente – i due presero a bisticciare continuamente, litichío per questioni futili inutili come menadi abasiche buscheranti al cospetto dell’ebbro Lièo in circolo folleggianti. Ogni volta la metteva come se fosse solo lui la vittima sacrificale agnello pasquale del mercato inverecondo, lamentandosi d’esser l’uomo più sfortunato incompreso del mondo. Per lunghi mesi sembrò facessero a gara per rendere reciprocamente colpevole l’altro de’ propri malanni, quasi a metter giù le prime assi, le prime biette cardini carrocci pilastrini tondini d’una bella separazione, io ho fatto di tutto da parte mia, ogni sforzo per ricucire il rapporto, c’ho pure rimesso in salute, credo non m’ami più, il mio corpo, il mio aspetto, la mia faccia un po’ da pokémon baggèo, le sono divenuti insopportabili, probabilmente mi odia già, o mi odierà, odio odioso che ci pervade a ogni istante, odi et amo odi et amo (da leggersi in metrica, lapalissianamente ohibò), odio accidioso che c’impedisce d’andar avante.
Gradualmente divennero invisi all’altro anche quegli atteggiamenti che un tempo s’erano amati et odiati, mentre affioravano alla superficie cumuli enormi di difetti imperfezioni dismorfismi manierismi, fastidiose abitudini, fastidi abituali, abiti sì invisi divisi ossessivi da risultare davvero urtanti, litigi s’intercalavano altercando a lunghe ore silenti, lunghe ore silenti frammentavano ore leticanti altercanti. Persino il respiro dell’altro urtava e iniziarono a incunearsi nella mente pensieri terribili abominevoli naturali, che quel respiro appunto cessasse d’incanto.
Così egli se n’andò bentosto di casa. Non si sa bene che cosa significasse il “così” e nemmeno il “bentosto”, perché nessuno dei vicini lo potè vedere né sentire in quello sciagurato giorno, ma ciò che mosse all’eroico passo, fu una lettera gittata tra le altre d’un ammasso. Non era certo una lettera qualsiasi. Proveniva dalla sua azienda elettronica, la Tentronic SpA, che gli dette da vivere – ben s’intenda – per parecchi anni. Era la nota sovraddetta lettera di licenziamento, egregio ingegnere, la direzione dell’ufficio personale è spiacente di comunicarLe che a causa della necessaria ristrutturazione dell’azienda il suo nomitativo è stato signato tra quelli candidati alla messa in mobilità, secondo il dpr tal dei tali. Ogni rapporto lavorativo debbesi pertanto ritenere sospeso a partire dal 15 maggio del corrente anno, una bella lettera davvero che proprio ci voleva ad allietare il suo animo rancoroso sin troppo iroso. Essere segnato quale candidato per la messa in mobilità: suonava pure bene quella frase, tutta piena d’eufemistiche parole, segnalazioni signature, immacolate liliali candidature. E poi la “messa in mobilità”, che bello, mettersi in moto, avanti, march, undduettre, undduettre, undduettre.
Quasi nello stesso giorno in cui lesse quella lettera, scattò nella sua testa, schizzando imprevedibile, una molla alquanto strana. Dopo aver perduto anche il lavoro, perché allora non far inosculare davvero tutto? Certo, fu una bella trovata quella di sommare combaciare inosculare tutti i mali in uno, sì da soffrirne meno, sì da non centellinarne l’intercalarsi, lenta inesorabile autotortura infernale degna della colonia penale. Racattò allora in fretta e furia poche cose, quelle essenziali, calze, mutande, spazzolino, dentifricio, rasoio, crema da barba, deodorante, fazzoletti di carta, canottiera, camicia, maglietta, pigiama, calzoni corti, calzerotti, pantofole, cravatta, giacca, straccali, pantaloni, giacca e pantaloni nel senso di un completo di giacca e pantaloni, estivo o meglio primaverile, lana pettinata fresco-lana, pettine, spazzola, unguenti vari anti-eczema che usava regolarmente tant’era seborroico, psoriaceo, acneico, (che brutte parole, ma esistono?, non lo so, ma suonano bene, dico bene se vuoi mandare a quel paese qualcuno, t’immagini: sugliàrdo seborroico psoriaceo acneico fignoloso fistoloso petecchioso fradicio d’icòre, taci, non rompere le scatole!, e chi ti risponde, e come se l’avessi accoppato con le parole, più che se gli avessi detto “testa di cazzo”, che ormai s’usa quasi come complimento, interiezione). Schiacciò quei pochi indumenti in due valigie bisunte. Erano ancora quelle del viaggio di nozze, tanto che a fatica trattenevano il loro contenuto e, anzi, tentavano di espellerlo e respingerlo e vomitarlo ad ogni istante sussulto.
Iniziò poi a collect raccogliere qua e là alla rinfusa oggetti d’ogni tipo, anticaglie, cianfrusaglie, libri, libretti, riviste, statuette statuine di plasticaccia pet pvc insulsa repellente, qualche quadro, quadretto rappresentante un paesaggio marino romantico consueto mansueto. Marta lo osservava imbuzzita mentre accatastava pimpante quegli oggetti d’ogni tipo, anticaglie, cianfrusaglie, libri, libretti, riviste, statuette statuine di plasticaccia pet pvc insulsa repellente, qualche quadro, quadretto rappresentante un paesaggio marino romantico consueto mansueto.
Silenzio. Glaciale. Eppure egli schiacciava premendo compellendo entro sé un’indomita rabbia rabida rabbiosa, gettava addosso alla moglie uno sguardo pungente, che voleva trafiggere spernere intimidire, come a scagliare con gli occhi un insulto improperio offensivo difensivo. Non tutti gli sguardi invero sono uguali, non tutte le occhiate invero sono le medesime occhiate, non ogni visione è la stessa visione, alcuni sguardi sono pudichi e non osano traversare gli oggetti, soffermandosi ne’ dintorni, molcendo la lèpida belluria delle cose, altri sono più intriganti maliziosi infiltranti, vogliono addentrarsi nell’imo delle persone, cercando di svelare i pericordi asconditi reconditi che ciascheduno tiene gelosamente dentro, ascosa arcana natura che nel segreto perdura, come in preda a una curiosità ossessiva che vede ovunque ubicumque maschere ubique volti, volti ubique maschere, cose che celano altre cose, altre cose che celano cose. Altri infine, parliamo sempre degli sguardi, come quello che lanciava a Marta, vogliono ferire, fendere, incidere, scarnificare, scorticare, dissecare, strappare, recidere, far male, come armi da taglio che sfiorano la pelle e la lacerano dilacerano velocemente, lasciando un rivolo di blood sangue e un profondo bruciore.
Iniziò con quell’oneroso bagaglio a trascinarsi giuso per le scale, sdrusciando le valigie sullo scorrimano e imprecando via via incespicava sugli scalini, non potendone vedere bene il disegno e il susseguirsi consecutivo regolare, simile a una fila continua contigua di spigoli e piane. Il volto pallido cerèo di Marta recava i segni d’un dubbio, pallore sbiàncido sbiancato, che in nessun modo poteva esser rinfrancato. Forse ella avrebbe potuto fare qualcosa, dissuaderlo persuaderlo, colle muliebri tattiche seduttrici induttrici. O forse s’era dimostrata poco comprensiva, semmai elusiva illusiva, dal momento ch’egli, senza menoma colpa, era stato vittima d’una malasorte invisa.
D’un tratto, mentre s’allontanava, ciampicando cempennando barullàndo, con quell’ignobile ciarpume che sarebbe stato più che sufficiente a giustificare un abbandono e anzi, a tenerlo comunque disto solo ad incontrarlo casualmente per strada, tanta vergogna portava addosso e coinvolgeva chi assieme a lui fosse stato appena veggiuto; insomma Marta, d’un tratto, mentre appunto quello s’allontanava, ciampicando cempennando barullàndo con quell’ignobile ciarpume, pensò ch’era meglio così, non che fosse meglio perderlo che trovarlo, ma che in fondo la situazione sarebbe in qualche modo degenerata, giungendo chissà dove.
Iniziò un brutto periodo. Egli se n’andò imprecando, ma dove invero se ne sarebbe gíto in quelle condizioni cosiffatte e triste errando? Nulla sovvenne nella sua mente traviata dal dolore, se non il nome dell’amico del cuore, Perigliani, vecchio compagno d’università e di naja. Stava in un’abitazione dirúta decrepita, nella cittavecchia, a malapena statuminata da alcuni àsseri tarlati imporrati. L’aspetto era davvero sinistro di quella moríccia, talché ebbe una sorta di ritegno nel suonare il campanello senza alcuna protezione, qua crolla tutto, pensò, basta una lieve onda sonora, una vibrazione fibrillazione oscillazione e quell’intonaco lassù, tenuto assieme da chissà quale collante allappante improvvisato, me lo ritrovo bell’e in capo, una montagnola di calcinosi calcinacci, malte disseccate smembrate sopra le quali potranno scrivere una fulgente tabella, a mo’ d’epitaffio su marmo marezzato, “qui giace un uomo sfigato”, come ce ne sono molti, anzi moltissimi, ma il mal comune non giova affatto in certe situazioni, né può essere cagion di gaudio.
Il pudore durò poco. La condizione estrema spesso è più forte d’ogni ambascia. Così tinnò un campanello appiccicaticcio ingiallito sbiadito, tantoché solo a malapena vi si leggeva il nome. “Sono io, non ti ricordi?”, gridò al gracchiare d’uno stertore citofonante malfermo. “E come se non mi ricordo…che ci fai in queste lande?”
“Avrei urgentemente bisogno del tuo aiuto”.
Il Perigliani lo fece salire e lui per un istante s’impaurì, anche perché quella stamberga faceva realmente schifo, tutta scura, fessurata ferita e riferita dall’incedere inesorabile del tempo, rivoli d’umido mùcido ammuffito scorrenti sgocciolanti, stillicidio cavernoso, spelonca, tubature arrugginite che falciformi tutte un’incurvatura ricurvatura flessione riflessione s’abbassavano da un soffitto panciuto e scricchiolante già di per sé basso, non si respira, mi manca l’aria, come si fa a vivere in tale stamberga imbrecciata fessurata ferita e riferita dall’incedere inesorabile del tempo che scorre, corre scorrendo inesorabilmente inesorabile, senza sosta, senza curarsi di queste quattro mura calcinose gracili irregolari, piccolo bastione contro ogni inimica intrusione? I gradini scricchiolavano sinistramente, strano concerto di travi marcescenti che si torcevano al passo pesante fatigato dell’ingegnere spaventato, chiodi intrisi di ruggine, ridotti a polvere ferrosa rugginosa eruginosa che d’un tratto sobbalzava spandendosi attorno in nugoli, scotío unísono sincrono asincrono all’elastico tendersi del legno, scricchiolío ligneo ferroso eruginoso ondeggiamento, maceréto, quasi sgomento. Si appoggiava malsicuro con le mani al muro, ma ciò non rese meno duro quel cammino macilento che all’agognata meta lo portò a stento, ecco una luce, calore umano, che riverbera corrusca, s’apre allargandosi al piano superiore, un’ombra, una foggia nota conosciuta, il Perigliani scotomico sòspite.
“Ma non potevi ficcarti in un posto più eliaco solare, magari donde si potesse vedere il mare, com’è profondo il mare, com’è profondo il mare”, dice lui facendo il birro.
“Me li cacci te gli schéi sì ch’io possa ficcarmi in una magione più eliaca solare, donde si puote vedere il mare, com’è profondo il mare, com’è profondo il mare?”, dice il Perigliani.
“Non incazzarti, scherzavo”, dice lui cercando di spetrare quell’impertinenza malavezza e soprattutto sconvenienza, impertinente sconvenienza, dacché era lui che s’era introdotto di soppiatto ed aveva in pratica rotto le scatole, poscia permettendosi financo di giudicare chiosare commentare, “anzi, non sai quanto ti sia debitore. Vedi in quali condizioni son ridotto, e senza alcun qualificato mallevadore?”
Non sapeva che Perigliani si fosse sposato, anzi ai tempi dell’università lo aveva visto così schivo e pinzòchero che se n’era fatta l’idea d’uno sfigato, scapolo impenitente perseverante. E invece eccotelo qua, tutto bello all’interno d’un bel quadretto famigliare, bello bellissimo, bello bellissimo…
“Guarda Gianna, chi ci è venuto a trovare, il mio buon vecchio indimenticabile compagno d’università e d’una miriade di ragazzate che si facevano a quell’età…che bei tempi, eravamo giovani e forti…”, dice il Perigliani.
“E adesso siamo morti? Non esageriamo con la struggente epica nostalgia che porta male. Buonasera signora, mi spiace conoscerla in simile epopeica occasione, presentarmi qui di soppiatto come se fossi un mentecatto, ma la vita talora pare davvero dura, che solo a pensarci incute somma paura. Dopo anni di vita insieme, speranze sogni illusioni dolori affanni gioie soddisfazioni delusioni oblii ricordi memorie storie follie letargie, tutto svanisce d’incanto, e che ti ritrovi in mano?, questi fagotti persino ridicoli, carichi solo di nostalgie, tutto quello che s’è raccolto in questo lungo periodo, certo se uno chiedesse: che hai fatto in questi anni, come te la sei passata?, ecco, tu gli mostri questi fardelli: ho raccolto questo, mutande calze pigiama spazzolino giacca camicia calzoni calzerotti pantaloni tiracche bretelle straccali, che vuoi di più, è l’essenziale, senza un lavoro, senza una casa, senza una donna”, dice lui camminando sueggiù.
La signora Perigliani, il cui nome era Gianna, lo guardava con aria di commiserazione ed egli si sentì ancora più mentecatto, appigionarsi con l’amicizia facendo baratto. Raccontò per filo e per segno tutta la sua storiella, tanto che i due s’intenerirono e gli proposero d’allogarsi presso di loro, in una stanza che certo non era più bella.
Possedevano un appartamentino al pianino di sopra, un hole buchino quasi indecente, ma tant’è, in difficultatibus nessuno place ispazio per la beltà. Tuttavia da quell’anfratto cui s’accedeva per scale ancora più ripide, salire salire arrampicare arrampicare, da un angusto vetusto pertugio si sarebbe potuta vedere l’intera città, nel suo infinito dipanarsi srotolante esplicarsi di tetti e sottotetti, tegole incastonate incassate in un percorso perfetto inesausto come a trattenere l’acque piovorne in gùrguli suspese per strade infinite, in rigoli biforcantesi diramantesi in rocambole non orpellate d’inutili manufatti, ma da precisi disegni regolate, tracce d’una ragione potente, che in ogni luogo pare essere assoluta e presente.
La notte passò inquieta. Il letto d’altronde non era il suo, cosa non indifferente per chi aveva vissuto sempre regolarmente costantemente, stesso letto, stessa camera, stesse abitudini, per anni anni anni, tutto lo stesso, ed ora il fatto che fosse colà tutto rappreso in quel lettuccio ristretto in un cantuccio donde filtrava un diluculo tremolante ma assillante, divenne causa d’un vero cruccio.

(Ma della moglie non gli fregava niente? L’unico cruccio era il lettuccio nel cantuccio?, dice un lettore sussurrando, Non credo, anzi penso che quello fosse un modo per dissimulare, come quando ci s’incazza con chi non c’entra niente, non so…, potrebbe essere una sorta di formazione difensiva, dice un altro lettore sussurrando).
Ordunque, era tutto corrucciato incazzato per il sonno mancato, ma ciò che gli premeva nel cervello era il matrimonio saltato. E poi? Che fare all’indomani, senza lavoro, con i pochi quattrini della liquidazione già in parte spesa a suo tempo per l’acquisto della magione, e senza neppure un rifugio ove consolarsi dagli affanni, dagli infiniti e smisurati malanni, una donna, nemmeno una donna con lui, sì da consolarlo rianimarlo estraniarlo da quella caduta discesa abissale nel baratro pozzo sozzo senza fondo?
All’alba, finalmente, prese sonno. Dormì più a lungo, nonostante le iniziali difficoltà, tanto che udì il Perigliani allontanarsi rapidamente mentre discendeva, agile levriero, la rampa delle scale in velocità, come il cavalier che lascia in fretta il proprio maniero. Stette ancora un po’ a letto, dacché l’aurora concedeva finalmente quel sonno interdetto dall’oscurità. Ma poi dovette alzarsi, per un indomito impulso a lottare contro l’infingardaggine che tiene trattiene per natura ogni uomo. Si rassettò alla ben’e meglio, poi discese lentamente, con gran attenzione, poiché le giunture alle prime ore dell’alba gli risultavano sempre dolenti. Dietro alla porta sentì un rovistío trambustío armeggío, non d’armenti né d’arme, ma di piatti, posate, tazze, bicchieri che s’urtavano gli uni con gli altri. Probabilmente Gianna aveva appena preparato la colazione, spicinava cosava qualche cosa oppure stava lavando le stoviglie della sera prima, come conviene alla brava massaia.
Incurante d’importunare la gente seduta stante, nemmeno si curò incurante di bussare, ma entrò repente incurante come fa l’infante, ch’ignote le regole ti si para innocuo davante. “Non faccia caso al disordine, mi raccomando, né al mio stato. A una certa età le donne abbisognano di tempo per apparire appena presentabili”, disse quella per nulla sorpresa né infastidita dall’improvvida incurante entrata.
“Si figuri. Lei mi pare bella comunque. La bellezza è dote naturale, e poco conviene coprirla coi belletti frinzelli merletti”. Egli fu come attratto da siffatta esile creatura, attratto a tal punto che si mise a mirarle il pòdile tafanario, ovvero il cül, ma sì fissandolo da apparire imbarazzante oltreché incurante. Che bella donna s’è sposato il Perigliani, altro che sfigato, come s’andava dicendo da noi imbecilli della facoltà. Pensò. Lei, volgendogli la schiena, stava finendo di risciacquare una leccarda ancora tepènte. Poi iniziò a favellare con aria maliósa daddolósa quasi briffalda beffarda: “conosce da molto mio marito?”
“Come ho detto ieri sera, ma non rammento affatto bene tant’ero agitato eccitato sovreccitato, eravamo compagni d’arme e poi d’università, alla facoltà d’ingegneria. Soltanto che dopo il biennio lui ha cambiato indirizzo, scegliendo quello navale”, dice lui.
“Lei invece di cosa s’è occupato?”, chiede Gianna.
L’ingegnere cercò di schencíre con un cenno del capo, ma lei continuò a incalzarlo con fare suadente: “non si preoccupi, qui è in famiglia, non ha nulla da temere”, aggiunge ancora Gianna. Strabuzzare degli occhi, lèzio lezioso. Civettío.
“Lei sa bene convincere gli uomini, potrebbe indurli a qualsiasi cosa. A quel tempo pensai che uno dei campi più fiorenti fosse quello del marketing. Me l’avevano inculcato durante un viaggio di lavoro negli Stati Uniti, dove usano vendere e programmare tutto. Per gli americani è tutta questione di azioni opa futures reselling project manager business plan briefing strategic account manager communication brand manager chief executive officer e.technology e.commerce internet intranet asset allocation equity portfolio manager supply chain management customer relationship enterprise enabler venture capitalism consuelling corporate governance, e molto e.trading e.banking, molto molto”, dice lui.
“Dopodiché? Cioè dopo tutto questo, cioè opa futures reselling project manager business plan briefing strategic account manager communication brand manager chief executive officer e.technology e.commerce internet intranet asset allocation equity portfolio manager supply chain management customer relationship enterprise enabler venture capitalism consuelling corporate governance, e molto e.trading e.banking, molto molto, ebbene dopo tutto ciò, che ha fatto, che fa?”, chiede ancora Gianna.
“Per ora non faccio proprio alcunché, – dice lui laconico bernesco berneggiante – m’hanno testè licenziato da quell’azienda nella quale ero stato assunto non appena laureato. Non so perché, ma avevo pensato che là ci sarei in pensione andato”.
“È normale. Anche il Perigliani è stato più volte mobilitato. Ma ora ha finalmente trovato un lavoro che ha tutta l’aria d’essere definitivo equilibrato”, dice ancora Gianna.
“Beato lui. Io, oggi come oggi, dopo vent’anni di lavoro, mi trovo in istrada, senza ‘na lira, senza ‘na casa, senza ‘na moϊe…”, dice lui.
“Non si preoccupi, forse c’è qualche possibilità. Quel lavoro di cui le ho detto non è un lavoro qualunque, si tratta della Nihil SpA, ne avrà sentito certamente parlare. Ah ah ah. Stanno cercando ancora del personale qualificato, di qualità. Parlerò questa sera con il Perigliani”, dice ancora Gianna.
Lui sorrise, mentr’ella gli si avvicinò e lo invitò a sedersi sul divano accanto a lei con cacheròso lenocinio. Poi prese a fissarlo negli occhi, in modo che potremmo dire – ci si scusi il doppiosenso – penetrante, penetrativo. Rimase dapprima sbigottito, poscia s’inuzzolì imperciocché non si lasciò invescare irretire dai sensi di colpa e dall’ubbie. Era la moglie d’un suo amico, che pure l’aveva accolto in casa nel momento della difficoltà, ma chi se ne frega, un po’ di sesso non sarà nulla di grave, amor ch’a nullo amato amar perdona. Ella gli appoggiò la tenera mano sulle tenere ginocchia. Lui le appoggiò la dura mano sulle dure turgide tette, e via di questo passo. I due, come ben si comprende, scoparono, e liberi d’ogni affanno per l’inganno, perpetrarono impetrarono, alla sera sopraggiunta quasi in un istante, la richiesta d’aiuto al Perigliani ignorante, il quale davvero s’impegnò organizzando all’indomani l’inatteso colloquio di lavoro alla Nihil. Egli non si scompose affatto d’esser mèco e si preparò al giorno venturo, ché da quello si sarebbe invero deciso il suo futuro.

 

Il nuovo impiego

Traversò un ampio e pesante càtro. Prima di proseguire si fermò alcuni istanti, mirando la grandiosità della costruzione. C’erano operai un po’ dappertutto, capomastri manovali capo-cantieri geometri periti geologi saldatori pittori muratori ponteggiatori imbianchini impiantisti piastrellisti idraulici elettricisti caldaisti ingegneri carpentieri falegnami intagliatori meccanici facchini scalpellini tubisti gruisti autisti cementisti, battere, sbattere, gridare, imprecare, battere sbattere, gridare, imprecare. Sul fianco destro giganteggiava stagliantesi estollentesi una gru altissima giganteggiante ergentesi quale babele metallica bianca e rossa artefatta manufatta, priva d’umana contenzione, ancorché invisa agli dei eccelsi che la giudicavano mefistofelica presunzione. Eppure mai se ne videro di sì grandi nella valle, tanto ch’essa presagiva edifizi ancora più immani stagliantesi innalzantesi, torrioni maestosi impietosi che a mo’ di ipòstili propilei nunziavano un circuito periplo orbicolare anulare, ancora più ampio empio, scavare escavare sbancare triturare dissodare, battere sbattere, cementificare, erigere innalzare, indurire consolidare rinforzare controbilanciare bilanciare, bilanciamento controbilanciante teso a rafforzare l’erezione cementizia circolante anulante.
Rimase a bocca aperta, gongolandosi di come si sarebbe vantato con gli amici di lavorare in quel luogo. Quale cementizio sapore, di scorie immondizia sporcizia nequizia, umana umanissima imperizia. Pensò per un istante alla moglie di già in un sol giorno tradita di come sarebbe stata dall’invidia rapita se l’avesse visto dirigere siffatta partita. Pensavi ch’io fossi un fallito?, e invece eccomi qua, a giocare di sponda, ancora imperterrito sulla cresta dell’onda, nell’azienda più dinamica della città, non ancora operante ma già di sicuro la più brillante nella pubblicità.
Chiese a un operaio pianigiano che se ne giva bel bello a spasso: “mi scusi, ho un appuntamento col cavalier Carmignani, che dev’essere il boss di tutta questa faccenda. Dove lo posso trovare?”
“Mi spiace. Io lavoro per la società costruttrice e me ne givo bel bello a spasso. Ma… guardi quel prefabbricato laggiù. A quell’altezza svolti a sinistra salendo la strada che s’inerpica sulle dune, poi ridiscende e ridiscendendo stia pure attento alle sabbie melmose motóse che lì sono piuttosto vischiose, dopo un dosso, quasi a ridosso d’una catapecchia abbandonata, prenda l’erta che sale appresso a destra e ancora su per le dune. Innanzi troverà un grande piazzale, che non gliene cale perché si tratta d’un altro fùmido stabilimento, lo attraversi di filato dacché vi albergano ceffi berci gualerci e non si sa mai con lei così agghindato infardàto che le potrebbero fare, e riprenda la strada che troverà proprio di fronte, attraverso balze erbose, appena sterpate brulicanti dal tallire di freschi innumeri germoglianti germogli, costeggiate qua e là da qualche esile alberello, poveretto poverello, cosa deve sopportare per tirare innanzi, queste polveri, calcinosi calcinacci, fumei fumiferi mofitici miasmi d’ogni sorta. A un tratto finalmente innante s’apre l’edificio del Carmignante. Lì potrà chiedere irenicamente tranquillamente alla reception”.
Egli partì per quella strana avventura e si dolse d’aver lavato l’auto, dovendo traversare una serie sterminata di pozzanghere padulinghi grebicci renelle golene fangose sterrate. Quasi subito si perse. Intorno àlide dune polverose di sabbia, con un buscherío composto scomposto dall’usuale inesausto infausto battere ribattere sbattere, battere ribattere sbattere. Subbie, mazzapicchi, mazzeranghe, sgorbie, menarole, riàvoli, ciàppole, beccastrini. Percorse qualche chilometro, con l’impressione di girare in tondo. Tutto lì era tondeggiante, come pure il ciglione circostante pareva essere dominato nella forma da quell’anello orbicolare anulare cementizio cementoso, come se questi attirasse ciascuna cosa in quel suo vortice vorticoso, vortice estuoso dunoso duneggiante. “L’è tutta cunettata ‘sta strada”, rispose un cítto lavorante babbaléo, catriòsso, invero molto catriòsso, cui chiese qualche lume. “Vada tranquillo per questa rèdola che l’è giusta”.
Continuò allora per tale rèdola, saliva scendeva, saliva scendeva, risaliva e riscendeva. “Sto cercando il cavalier Carmignani, mi hanno indicato questa strada”, dice lui.
“Se gliel’hanno indicata sarà pure quella giusta”, risponde un altro gignóre forastico che pareva trovarsi lì per caso, ignaro di tutto, spaesato disorientato.
“Abiti qui?”, chiede lui passando al “tu” data la sua apparente giovane età.
“Sì, lassù, su quei monti boscosi rigogliosi lussureggianti verdeggianti”, risponde il gignóre.
“Non vai a scuola?”, chiede lui.
“Mesi fa”, dice il gignóre.
“E ora, che fai, non ci vai più?”, chiede lui.
“No, sono qui per lavorare, tutti sono qui per lavorare”, replica il gignóre.
Rimase a un tempo sconfortato e allietato, lì si lavorava sul serio seriamente serialmente, finalmente, un posto dove si lavora sul serio seriamente serialmente, non c’è disoccupazione delinquenza nullatenenza alienazione. La strada non sembrava menare in quella largura da brutti ceffi frequentato, ma altresì pareva inabissarsi in una lotósa zacchera lordura, lòto palustre padulésco infrascato da schiancia canne sozzura. Vide in lontananza una figura smilza che camminava con una certa baldanza, un altro pastorello?, un altro íncola bardòtto forese?, accostò il mezzo e chiese novellamente: “scusi sto cercando il cavalier Carmignani, mi hanno indicato questa strada”.
“Se gliel’hanno indicata, sarà pure quella giusta”, dice l’íncola.
“Lei abita qui?”, chiede lui.
“Sì, lassù, su quei monti boscosi rigogliosi lussureggianti verdeggianti”, risponde l’íncola.
“Dove sta andando adesso?”, chiede ancora lui.
“Vado a occare erpicare, non vede?”, risponde l’íncola.
“Non lavora anche lei per la Nihil?”, chiede ancora lui.
“No, sono un mero mezzadro”, dice l’íncola.
“Allora Carmignani non lo conosce, non sa dov’è?”, insiste ancora lui.
L’íncola fece appena un cenno e continuò impassibile la retta via, per nulla di nonnulla diviando.
Finalmente, giunto sulla cima dell’ennesima duna sabbiosa, questa volta maculata a chiazze da qualche ridente ciuffo di glàstro, erbale schizzante maculato sorriso, ombreggiato di tanto in tanto dal corpo contorto e inscheletrito d’un olmo sofferente rinsecchito, erba olmeggiata frammentata, vide in lontananza, ma davvero in lontananza la foggia descritta dello stabile ghézzo agognato. Era senz’altro un edificio provvisorio, faceva ribrezzo, permodoché la sua possanza invadenza atterriva l’ignaro pellegrino, colà pervenuto dopo un tortuoso cammino.
“Buongiorno, sto cercando in lungo e largo, che mi sono quasi già rotto le scatole, il cavalier Carmignani. Forse la fortuna m’arride e lo trovo in questi luoghi balzani?”
“La fortuna provvida ventura invero lo conforta, Carmignani sta proprio dietro quella porta”, rispose una signorina che sedeva tutta grinzuta ritorta dietro un tavolo elissoidale di portòro, posto al centro d’un’ampia stanza, a mo’ di ricetto per quegli sventurati che vagavano divagavano stolti stravolti per ore e ore sueggiù giuessù per le dune infami.
“Ho un appuntamento, l’ha preso per me l’ingegner Perigliani”. La pronuncia di quel nome sortì uno strano effetto sulla donna. Poi, dopo aver pispigliato qualcosa al telefono, indicò un lungo corridoio lungo il quale il suo passo s’allungò, con un passo sicuro, passo passante allungantesi lungo lungo rassicurante. L’andatura è importante, è il primo modo in cui ci si porge alla gente e bisogna dar l’idea dell’onestà spontaneità probità, è importante. Che dire invece di quegli storti che si muovono rasenti il muro che paiono morti ingobbiti ingrigiti, il passo passante allungantesi lungo lungo rassicurante. Il marketing è lotta all’ultimo sangue. Sù col petto. Si basa su strategie, tattiche, manovre aggiranti ingannanti percettive decettive, senza rispetto. Sù col petto. Svoltò a destra, poi a sinistra destra, risinistra ridestra, destra sinistra, in una strana oscillazione nutazione, dove, più in là, quasi al di qua dello svoltolare destra sinistra, si squadernavano in fila rettilinea gli ascensori. Accelerò il passo perché ne vide uno in partenza, dentro c’era un ometto piccolino con una lunga barba, portava una camicia glauca con un gilet grigio topo.
“Lei è nuovo?”, chiese questi, come se volesse rompere le scatole, e le ruppe davvero a lui che ben ad altro cogitava, “mio cugino lavorava alla Tentronic, ma dopo decenni di rigoglioso orgoglioso sviluppo ecco che di punto in bianco hanno ridotto il personale e lui s’è trovato in strada. Ora però lavora qui pure lui: qui suonano altre note musiche melodie sinfonie”.
“Anch’io lavoravo alla Tentronic”, rispose sorpreso, era solo una qualche coincidenza o qualche arcano in qualche canto sotteso, quaquaqua?
“Ce ne sono molti come lei, arrivati alla rinfusa, ma non ha d’affliggersi. Prevedono l’assunzione di quasi duemila addetti, con notevoli possibilità di ampliamento. Per di più”. Già. Per di più. Forse c’era un più che iniziava a sconcertare in quella faccenda. La rete reticolare delle strade stradine scoscese che lo avevano menato sino a lì, traverso infinite deviazioni diviate sviamenti, parevano specularmente, ovvero in guisa di speglio, riproporsi pure in quell’interno di corridoi corridoietti loggioni postièrle crocicchi laberintici intermittenti insistenti.
Lasciato l’ometto impertinente, attraverso una porta di vetro s’immise nell’ennesimo lungo uguale usuale corridoio, dove si dipanavano squadernavano anch’esse in serie seriali le porte degli uffici dirigenziali, ciascuna porta labellizzata con il nome del dirigente e con un numero corrispondente. Camminò lentamente, cercando di intravvedere il numero 313, finché, dopo almeno dieci minuti, trovò l’ufficio del Carmignani, finalmente.
Bussò ed entrò quasi con lo stesso gesto, bussentrò. La stanza era molto ampia e luminosa. Una grande vetrata dava sul cantiere e, più in alto, s’apriva l’azzurro cilestro del golfo di Muggia, che contrastava con lo scialbare pulverulento della costruzione e del galestro. Dall’altro lato spiccava, sopra un divano frappato tappezzato a fiori floreali sgargianti fiammeggianti, un poster di Mirò, vivacemente colorato, sgargiantemente fiammeggiantemente, rosso cadmio tiziano, blu di Prussia, giallo di Napoli, nero di vite, pervinca; al centro centralmente quasi a irradiare uno strano senso di soggezione sostava su un mastodontico bergère, con un ampio tergale ligneo intagliato a orpelli flabelli, un omone anch’esso mastodontico nel sedère, non di similpelle, il bergère né il sedère, ma con un paio di similbaffi a frinzelli che assomigliavano alle acconciature d’inizio secolo, favoriti baffoni asburgici arricciati, pizzo folto nero, sguardo línceo. Un sorriso illuminò il volto corrucciato scostante che tanto inizialmente l’aveva soggiogato, e dall’irraggiarsi solare rubbio rossore, tutta quella grossolana fisionomia parve trarne un nuovo tenore.
“Quando si lavora, non c’è niente da fare. Le carte si accumulano una sull’altra e io non riesco più a raccapezzarmi. Oggi per muovere anche un mattone ci vogliono decine e decine di permessi autorizzazioni domande sopralluoghi perizie concessioni. E più passa il tempo più ce ne vogliono. Ma mi scusi, sono un po’ prolisso”.
Fece un cenno con la bocca, come per minimizzare sminuire tranquillizzare, ma prima ancora che potesse dir qualcosa Carmignani lo incalzò con lo sguardo, come lo saggittare saettante d’un dardo, orbene, diciamo pure, dardeggiò.
“Ho parlato a lungo ieri con il nostro Perigliani e davvero m’ha fatto di lei un ritratto alquanto ricco, affascinante. M’ha accennato dei suoi studi di ingegneria portati a termine con profitto, del viaggio negli Stati Uniti, madre patria d’ogni serio seriale manager manageriale, e pure dell’esperienza alla Tentronic dond’è uscito sconfitto. Non se ne abbia a male. Se è finita così non è certo per la sua incapacità. Gli incapaci sono stati i proprietari di quella baracca. Hanno avuto una grande fortuna con il boom della telefonia portatile ma non hanno capito il mercato ed ora si trovano nella cacca. È importante capire e anticipare il mercato, perché se non capisci e anticipi il mercato, è il mercato che anticipa te, e allora sei bell’e fregato”.
Si sentì all’improvviso rincuorato da quel risuonare sintonico sinfonico di violini viole violoncelli mandolini campanelli che soave gli attraversava le orecchie, talmente risuonato rincuorato da prendere la parola con uno sbracio ardito, inconsueto per lui che in tali situazioni iniziava a balbutire biasciare comicamente come un barbogio, bh bh bh, spiaccicando le frasi con tanta fatica da apparir rincoglionito.
“La ringrazio cavalier Carmignani, lei è sin troppo lusinghiero e sincero. È vero che solo gli States sono fucina del manager austero, che utilizza l’umane risorse con diligenza parsimonia, senza alcuna querimonia, e anzi investe laddove può, dacché investire significa l’azienda capitalizzare rinvigorire. Se la lasci a se stessa, quand’anche il fatturato continuamente accresca, l’azienda nei pantani malsani ben presto si ritroverà, come il prossimo crac della Tentronic insegnerà”.
“Per ottenere buoni risultati infatti non basta la produzzione. Ci vuole la ricerca, ma soprattutto net.marketing outsourcing circospezzione”, chiosò con un mezzo sorriso, una sorta di furbesco ghigno, quell’abile mettimale del Carmigno.
Entusiasmato dall’economicistica impedantita melodia, l’ingegnere ebbe ad osare un’ulteriore richiesta: “ma che si fa in questa festa? Voglio dire, questa Nihil di cosa s’occupa, chepproduce, che finalità si pone, perché ne ho visti d’impianti startup giganteschi immani imponenti in vita mia, ma mai veruno così gigantesco immane imponente. Pensi che solo per raggiungere questo luogo, ho fatto più di tre ore di su e giù per dune duneggianti fumiganti, e quei torrioni s’innalzavano così maestosi e fieri che parevano distare da me sempre la medesima misura, come esempigrazia accade alla formica che trotterella traversando l’erbetta rorida e fresca nella speranza d’allontanarsi dal sole. S’allontana, questo è certo, o almeno pare, ma ben di poco”.
Carmignani non si scompose affatto, ma mantenne il suo portamento impettito compunto, scevro da emozioni affezioni: “è fantastico vero? È un’opera mirabolante, che ti prende nel cuore, queste masse cementizie fortilizie che invadono la natura, sbancare scavare escavare, questo battere sbattere di acciai ferri magli rilucenti, subbie mazzapicchi mazzeranghe sgorbie menarole riàvoli ciàppole beccastrini, battere sbattere ribattere risbattere, bettoniere immense che riversano tonnellate e tonnellate di nuovo cemento, là dove s’era appena sbancato scavato escavato con grande tormento, cigolío montante della bettoniera ruotante, cigolío assordante montante che dà il ritmo all’oprare degli operai, tremotío scotío buscherío d’operai operanti, fulgidi martiri alle masse cementizie fortilizie sacrificanti”.
Con tutto quello sproloquio, però, il Carmignani di fatto non rispondeva, né adiva alla resa di fronte a quella curiosità sottesa, null’affatto vinto da tal manovrío obtrettante a mo’ di macedone presa. Continuò così in un lirico debordare della fantasia, debordante pindarico svolazzante fantasticare che saltella saltabecca d’immagine in immagine, come una lodola della Lunigiana che pilucca pispolando chicco dopo chicco la provvida offerta della vecchina intenerita nella desolata piazzetta ferragostana dal sole rinsecchita.
“È uno spettacolo eccezionale, anormale, funzionale…ma funzionale a che cosa? perché il meccanismo è bello se funge, anzi è proprio il fungere, la funzione fungente a farne qualcosa di bello, conturbante interessante e non perfuntòrio. A che cavolo servirà tutto questo sbancare scavare escavare, battere sbattere ribattere sbattere? Non può essere solo qualcosa di interlocutorio”, insistette ciò nonostante quegli.
“Guardi, caro ingegnere, per ragioni di organizzazione interna, non m’è concesso dirlo. Capisco la sua curiosità sottesa, è naturale…e capisco pure il suo manovrío obtrettante a mo’ di macedone o falangica presa. E che diamine, anch’io mi chiederei per prima cosa che cazzo debbo fare in questo dannato spazio dunoso sabbioso, inzaccherato inzafardato fino alle ginocchia, tutto questo fragoroso melmoso lavorío buscherío tremotío, insomma tutto stoccasino… ma mi creda, non è una questione personale o mera spocchia”.
“Ho capito la sua epichèia. Non voglio insistere. Dunque, se mi pare d’aver ben compreso, sarei idoneo all’assunzione o abbisognate di qualche altra mallevería?”
Il Carmignani fu sin troppo eloquente. Egli non abbisognava d’altra guarentigia, né guàdio. Annuì con tale profusione da ciondolare col capo più volte, cosicché un cirúglio assai pronunziato gli andò a coprire, nella veemente oscillazione, il mento e financo le labbra tumide rubizze, quasi a suffocarlo. Poi pattuirono un lauto lonigíldo.
L’ingegnere, un po’ a disagio per la situazione, accennò un sorriso stentato forzato, a causa della strana commistione d’ubbie e di raggiante soddisfazione che traversava il suo corpo tutto in fibrillazione. D’altra parte, perché poi dubitare se l’indomani ogni curiosità assetata sarebbe stata appagata?
Non chiuse occhio per tutta la notte, rimuginava rimuginava, si girava rigirava avvincigliandosi insaccandosi nelle lenzuola. Rimase appena assopito ma gli pareva di trovarsi già nel luogo predetto, come s’esso fosse divenuto l’unico suo ricetto. E alle immagini di delirio egotistico narcisistico in cui egli si vedeva severo dirigente di un’infinità di povera gente, s’intrudeva allignante intrigante la flessuosa figura di Gianna ignuda, in faccia al Perigliani così amico del Carmignani. Il suo corpo l’avvolgeva teneramente, fremevano le carni in un sussulto, talora irrigidendosi con moto inconsulto: sogno o sono desto? perché il destino sarebbe sì mesto, se nello spazio di qualche giorno mi ritrovo riaccasato e occupato, come un tranquillo impiegato?
Al mattino s’alzò molto presto, cambiò vestito, perché l’altro era tutto incincignato allucignolato. Scese discese ad aspettare il Perigliani. Sarebbero andati insieme con la sua auto, poiché la Nihil si trovava dall’altra parte della città, a parecchi chilometri di distanza. Non scorse nemmeno Gianna, benché cercasse di sbirciarla continuamente dal pertugio della porta. Intravvide la sua vestaglia in guarnèllo agitantesi e ciò bastò a placargli il notturno ardore.
Perigliani fu gentile con lui. Iniziò a parlargli degli anni dell’università, ma l’ingegnere cercava di spostare ogni volta il discorso su quel nuovo misterioso lavoro occorso, cui s’apprestava senza aver vinto alcun concorso. Tuttavia non riuscì ad estorcergli su quella condizione alcun verbo. Perigliani era davvero un tipo rubèsto e mantenne così il più gran riserbo. All’ingresso del cantiere un funzionario lo salutò ossequioso sardanapalesco: dev’essere un pezzo grosso chief executive top officer, penso pensai pensò, m’ha fatto lo fece mi fa assumere in quattro e quattr’otto senza verun assessment e il Carmignani ha mostrato davvero di soppesare la sua pleggería, sebbene tutto appaia un po’ grottesco, una industry manageriale follía. Salirono scesero salirono scesero salirono scesero per le dune sabbiose dunose. Poi Perigliani lo fece entrare e lo condusse al Carmignani, con il quale avrebbero definito gli ulteriori dettagli o meglio… Chissà, forse mi avrebbero detto finalmente che cosa avrebbe avrei fatto in quel fortilizio cementizio dominante la valle fin quasi suso il ciglione carsico circostante.
Ricongiuntisi, presero l’ascensore, ma non salirono, con sua sorpresa, bensì, com’è ovvio, lapalissianamente argutamente illativo consequenziale, discesero. Salire scendere. Scendere salire. Pigiarono il tasto -7, il che significava sprofondare per più di trenta metri, interrarsi come alme defunte al cospetto di Caronte natanti dell’infesto díte il flegetónte.

Allorch’ei udirà ad hora incerta
l’Egíoco cum sòno grave lungi tonar
adunque ogni doglia rimane tosto diserta
e l’elisio beato iniziasi a guatar.

Quell’edificio immenso si sviluppava nelle viscere ipogèe della terra per la medesima misura del suo ergersi nell’etra e tale emergere affiorare sulle dune pareva una capocchia di spillo tutt’altro che veritiera rispetto alla costruzione rodia intiera, babelico iceberg terrestre pedestre. Al settimo piano inferiore o settimo piano negativo, sottesso, c’era tutto un turbinío di persone indaffarate esagitate. “Qui si lavora sul serio”, sussurrò tra sé il nostro che in fondo pensava al lavoro in guisa borghese, come se fosse necessario tribolare per tutta la vita lavorando sudando penando ogni mese, sorta di lavacro purificatore mondante ogni peccato in vista del giudizio universale.
Lo fecero entrare in un ufficio al quale s’accedeva attraverso un oscuro stambugio. Una sobria scrivania. Poltroncina. Alcantara dermoide, color cremisi. Una signora di mezz’età s’alzò prontamente, porgendogli la mano. Sarebbe stata la sua segretaria personale, la signora Carigliani. Ne rimase imbarazzato. Quanti gliani, in questa storia!
“Guarda, qui hai tutto il fascicolo con le notizie che ti potrebbero esser utili”, disse con tono suadente Perigliani.
“D’accordo, sei proprio molto suadente, ma io non ho ancora capito su quali basi devo lavorare, quale target devo mirare, che business plan tools toolbars utilizzare, quali venture capitalists major accounts contattare. E poi l’outsorcing, debbo pure terzializzare outsorsare? Insomma, Perigliani, che cazzo debbo fare?”
Perigliani fece un cenno con l’occhio al Carmignani, come se volesse scusare quell’irruenza violenza fuori luogo. Poi intervenne con un piglio che vuol dire: anch’io ti somiglio: “non accalorarti, hai ragione, son d’accordo, ma c’è una regola aziendale in base alla quale, sintantoché l’edificio non sarà del tutto terminato concluso inaugurato, ufficialmente inaugurato concluso, sindaco assessore assessori et coetera et coetera, insomma fino ad allora nessuno potrà dire ciò che gli cala, ma soltanto accennare sussurrare e non a brutto muso. Però, se apri quel fascicolo troverai certamente notizie utili per il tuo lavoro di net.marketing management… e abbandona ogni hope speranza di trovarvi troppi dettagli, precisazioni, conclusioni, obbligazioni”.
Si sedette allora dimesso e sommesso e sconsolato e scorato, mentre i due s’allontanarono difilato. Sfogliò quelle carte che ben poco dicevano sulle ragioni che motivarono la costruzione di quel comprensorio. C’erano le fotocopie dei progetti di variante urbanistica e di fattibilità idrogeologica e d’impatto ambientale e di conformità alle normative CEE ISO UE e d’abitabilità, altre planimetrie stratigrafie altimetrie, bozzetti, visure camerali che descrivevano un nugolo di società consociate laterali tra le quali era quasi impossibile risalire all’organigramma delle quote aziendali. Incassamenti enclaves embeddings scatole cinesi matrioske infinitamente incluse includenti. Sfogliava e risfogliava quasi ossessivamente, continuamente ossessivamente, sfogliava e risfogliava, soffermandosi repentinamente su qualche particolare ininfluente.
Dopo una decina di minuti, chiamò la signora Carigliani, con la speranza di ammansirla circuirla: “senta, sto analizzando queste carte, ma credo ne manchino alcune, e di sostanziale importanza per di più, molto molto opportune”.
“Strano, ci dovrebbe essere tutto”, rispose infastidita per quel maldestro tentativo di agguindolamento.
“Mancano le cose essenziali, l’oggetto della produzione, il business plan, le linee essenziali del project management, la startup preview…”
“Mi dispiace, gliel’hanno già detto Carmignani Perigliani, dico spell ripeto P-e-r-i-g-l-i-a-n-i: non si può sapere, non si può dire”.
Raggelò diaccio agghiacciò, si sentì tosto irretito in un bizzarro ragnatelo, il quale tuttavia inquietava per quell’immane stúmmia d’uomini mossa, per lo sbancamento escavante scavato di quell’abissale fossa, per l’ossessivo sbattere ribattere che gli penetrava inculcava nel cervello, scotío rodente triturante. Tutt’era troppo, too much, troppo stroppiante, sospetto interdetto.
Uscì dal suo ufficio e s’immise nel cunicolo in cui sciami viventi erranti e lavoranti si muovevano febbrilmente nervosamente. Chiedeva sperso confuso, quasi in schizofasico soliloquio profuso, a destra e a manca: “che si fa qui, che si produce?”
“Non si può sapere, non si può dire”, rispondono gli sciami viventi erranti e lavoranti.
“Che si fa qui, che si produce?”, chiede ancora lui.
“Non si può sapere, non si può dire”, rispondono ancora gli sciami viventi erranti e lavoranti.
“Che si fa qui, che si produce?”, chiede ancora lui.
“Non si può sapere, non si può dire”, rispondono ancora gli sciami viventi erranti e lavoranti.
A cagione di tal ecolalico psittacismo l’ingegnere d’un tratto sbiancò. Si sentì sprofondare in uno strano stato di atarassia catatonica atimormia, gli parve d’essere una sorta di marionetta banderuola bandana statuina statuetta, girata mischiata rimischiata da una mente malsana, occulta ascosa perigliosa. Che c’entrasse qualcosa il Perigliani o la sua conturbante sposa?

Che quella gentilezza sua sproporzionata
fosse solo vendetta da lungi concertata
posciaché ei avea la sua fiducia tradito
e nella magione dell’amico soggiornando
la forza della passione non avea impedito
invece la muliere calida ben che scopando?

Rabbrividì. Che fare? Che non fare? S’aggirò per qualche ora in quei piani ipogèi sotterranei, tanto che si sentì all’improvviso soffocare, macinío interiore ed esteriore, soffocamento tanto più truce poiché non si sa ove ti conduce. Incontrò decine di persone della Nihil. Questi gli sfilavano innanzi spulezzando abasici ascetici asettici senza batter ciglio, mentre lui cercava con gli occhi di sottrarre qualche informazione. Ma pur scrutando perlustrando analizzando ogni palmo di quell’edificio, tavoli pareti schedari scrivanie workplaces workstations clients pc, ebbe la bislacca sensazione di trovarsi all’interno d’un involucro vuoto, dove si produceva tanta carta, tanta burocrazia, ma quasi per nulla, un vuoto inane svuotante girare d’un meccanismo fungente in se stesso, macchina celibe che va su e giù, su e giù, infinitamente, come sulle dune duneggianti fùmide circostanti, così vaste sperdute inquietanti. Forse il nome dell’azienda non era stato trovato a caso. Nihil significa “niente, nothing, rien, nada, Nichts”. Che stranezza, bizzarria della vita, mi ritrovo nel bel mezzo d’una fabbrica di niente, che fai tu? Ah, non faccio niente. Come non fai niente: non fai e basta, perché aggiungerci il niente? Hai ragione, perché invero qualcosa faccio, qualcosa che è niente, una non-cosa: te lo dico spell scandendolo, f-a-c-c-i-o n-i-e-n-t-e. Ma come si può fare niente, niente? Si dice fare niente per sottolineare qualcosa che non influisce, ferisce, infierisce, danneggia, offende, pretende, stimola, eccita, accende. Se sei spinto o risospinto per disattenzione distrazione senza circospezione da una persona dentro un bus affollato dove la gente s’addossa una sull’altra come schiera salata di sardine alici acciughe decapitate lessate d’ogni budello buzzo entragno escisse evulse, ecco allora puoi ben dirlo: “fa niente”. Però il tipo t’ha davvero spinto risospinto, e quindi almeno il dar spintoni o lo spintonà a stratta c’è esiste persiste e non se puoddì ch’ènniente…
Il tempo passò, lemme lemme e lentamente e inesorabilmente quel giorno, lentamente vanamente. Prima di congedarsi dette un’occhiata alla signora Carigliani, tutta magra rinsecchita raggrinzita, si muoveva rigidamente misuratamente, le mani affusolate nòccole nodose macchiate da papule cheratogene letiginose di melanina cheratina saltellavano ritmicamente sulla tastiera del pc, con un succedersi del ticchettío irregolare, ora più intenso e frenetico, ora frammisto da lunghe pause di silenzio, cui seguiva un tocco più forte profondo deciso coinciso. Ma che cosa tastierava ticchettando noccolando dinoccolando la Carigliani? Che cosa aveva da scrivere se niente v’era da fare, operare e tantopiù scrivere iscrivere ticchettare cliccare sul touchpad trackpoint push pigiando? Una curiosità morbosa lo prese, tanto da sospendere per un istante quella specie di fuga. “Quale ciclopica impresa, scavare questa montagna sì scoscesa…”, le disse da tergo.
“Cosa sta sogguardando sbirciando?”, chiese lei interrompendo il tastieramento battimento dei tasti. Si sentì infatti per un tratto osservata, fissata, inchiodata da uno sguardo indagatore. Ah quanto si percepisce solo dall’essere guardati, che tipo di sguardo, chi ti guarda, che cosa desidera intende pretende…

Nell’etra lieve tutt’intorno spira
un occhio angelico che ognor ti mira,
alme vaghe silenti et osservanti
che conducono noi, miseri ossecranti
traverso le picee brumose contade
dell’umana e breve vita tutte l’etade.

“Mi scusi, non pensi nulla di male, l’anima sua immacolata rimane senza labe, non le guardavo le coscie scosciate che sarebbe stato pure un bel guardare. Sono rimasto attratto da quella danza sfígmica tastierante che poi con il mio osservare indefesso le ho fatto interrompere dappresso”.
“La ringrazio, ma dopo dieci anni di battitura sulla tastiera s’iniziano ad economizzare tutti i movimenti e si diviene via via più soffici, lievi, leggeri come un soffio d’aria che scompiglia appena la crinita chioma e la fa oscillare sinuosamente nell’aria di una primavera annunciata dallo schiattire soave ed acuto di pettirossi avèlie frullanti svolazzanti anch’esse nell’aria di una primavera annunciata”.
“Ma che cosa sta scrivendo con siffata alacrità sedulità, che ormai è concluso l’orario d’ufficio? Tra l’altro, non ci sono più le mezze stagioni”.
“Qui purtroppo non si guarda mai l’ora, in ispecie se sono cose importanti…sto scrivendo per alcuni finanziamenti piuttosto cospicui ingenti erogati da alcuni enti pubblici interessanti, a dire il vero fetenti inquietanti. E per quanto attiene le mezze stagioni è tutta colpa dell’effetto serra e della nostra ingordigia cupidigia, che quanto più siam impippiati, tanto più ancora ci pare d’essere inappagati. Il clima si sta tropicalizzando, questa è la verità, e ben presto monsonico diverrà, pioggia vento siccità, pioggia vento siccità”.
“No comment su quest’ultima digressione di cui l’apparato in questione non sembra esser certo la guarigione. Diceva de’ finanziamenti…ma finanziamenti a che pro?”, insistette, invitato dall’inusitata facondia della Carigliani.
Questa tuttavia si schermì immediatamente, con un mezzo, elegante scostante sorriso. Le sue parole rimasero inchiodate nell’aria. Ci ritornò più volte nel pensiero, rincasando, lungo quelle dune ancora più scure e ombrose al silente labile lucore vespertino ch’illuminava con l’estremo furore divino anche l’erbosa ignita balza che più d’ogni altra al cielo s’innalzava a ristorare da quell’ore afose.
Il giorno dopo tuttavia ritornò alla fabbrica con un’insolita inusitata energia. Non ebbe nemmeno il tempo di salutare Gianna, né d’aspettare il pur inclito Perigliani. Ma se davvero era tanto inclito, perché viveva in una tale stamberga? Forse per non dare nell’occhio e fare col fisco un grande papocchio, oppure per celare ciò che invero v’alberga? S’era alzato presto, pigliando l’autobus delle sei e mezzo. Nella sua mente era baluginato un aurorale risolutivo griccio, s’era innescata una vena musagetica creativa, tanto che egli s’infilò di filato come un riccio infilandosi sfilando nel suo ufficio. Si mise a scribacchiare infinite cartacce, fogli roteavano nell’aria per l’azione del braccio convulsivo. Compulsione, comiziale compulsione. Forse era un impazzito frenopatico ebefrenico ossessivo, che dopo avere per anni incubato il morbo emette d’un tratto il suo stile lascivo? Oppure aveva scoperto il bandolo della matassa, e suonava così giustamente la gran cassa? Iniziò a scrivere trascrivere un nuovo nuovissimo progetto, nel quale sarebbe dovuta emergere una nuova nuovissima rivoluzionaria idea. Pigiava digitava i tasti della tastiera del suo pc. Tastierava tastierando la tastiera con straordinaria veemenza, costante veemente caparbia violenza, foga sfogante energie regresse represse che allora scaturivano da una scaturigine infinita, divina cornucopia che offriva illimitati frutti idee pensieri emozioni. Talvolta sussurrava qualcosa soddisfatto, altre volte imprecava per qualche error Kernel commesso. Ma cosa aveva da fare così sollecito contrito, lui che la sera precedente parve tanto rattristito ammencito? Si chiese dentro di sé la Carigliani, ripetutamente entrando nell’ufficio importuna, ripetutamente uscendone senza aver ottenuto risposta veruna.
Dopo alcune ore di attività inputativa convulsa massiva, consegnò giòlito alla Carigliani un fascicolo enorme ink-jettato insòlito, tanto ch’ella fece fatica a riporlo da sola sul tavolo. “Gradirei che prima lo leggesse Perigliani. Ci terrei tanto a un suo primo primizio giudizio, dacché ritengo sia sul serio un valido integerrimo progetto, che narra un po’ affabulando narrando d’un tool invero concreto, applicabile a qualsiasi prodotto, calze calzerotti straccali dentrifici computers microchips hubbes gateways net internet intranet servers browsers host houses routers waps networking enterprises biotechnologies biomedicali medicinali carpenteria siderurgia metallurgia servizi bio-engineering ogm adsl isdn letame ciarpame strame liquame riciclaggio dei rifiuti solidi liquidi non solidi dissolidi insolidi dissolti, riciclaggio dei rifiuti mal riciclati malciclati riciclaggio stoccaggio di prodotti dannosi dangerosi non riciclabili riciclaggio stoccaggio storage di prodotti dannosi dangerosi riciclabili pollution radiation polimeri protesi ipostasi metastasi”.
Si sentì all’improvviso sedato, rilassato. La soddisfazione era tale ch’ebbe lo spregiudicato importuno brave coraggio di chiamare Gianna proprio da un ufficio vicino a quello del marito, noncurante della sottigliezza delle pareti, della lunghezza delle orecchie che trotterellavano virtualmente ruotandosi direzionandosi sintonizzandosi nei corridoi o dietro ciascuna porta, alla spasmodica ricerca di notizie succulente truculente, dovizie malizie nequizie d’ogni sorta. E chi se ne frega, pensò entro di sé, tronfio del successo ottenuto, così forte da sfidare Crono venturo, sempre per l’uomo massimamente infido ed insicuro.