La fabrica 2/2

Indice: 1. L’edificazione, 2. Il nuovo impiego, 3. Il circolo, 4. La fabbrica, 5. La pioggia. Domenica scorsa abbiamo pubblicato le prime due parti. Una buona lettura.

 

3. Il circolo

Iniziò a piovere. Scataroscio. Rincasò in autobus. Rideva sorrideva sogghignava, sghignazzava, da solo, tanto che una vecchina seduta di fronte non smise d’osservarlo, per timore d’una sua qualche reazione immediata scapestrata, quale è quella del folle represso/che dapprima bisbiglia cincischia dimesso/e poi sbotta d’un tratto furente/a palesare la sua natura insipiente. La zona ove abitava il Perigliani, sulla quale non ci si è soffermati ancora abbastanza, appariva piuttosto disastrata, fatta composta da catapecchie vecchie diroccate maldestramente rinzaffate, tutte aggrippate sull’ermo colle che un tempo costituiva il centro dell’oppido. Il lastricato era infranto tutt’intorno da avvallamenti affossamenti rogge régghie gore bótri bórri, buchi fossi bucati bucanti, dossi, sui quali stavano male embricati l’uno sull’altro sormontati ruvidi gradoni calcarei, lì giacenti da più di trecent’anni. L’acque in quel dì ceraunico piovorno scendevano così scroscianti a rivoli ramificati diramantisi spaglianti, incontrandosi abbracciandosi allargandosi in siffatte collúvie complúvie, come pozze lacuali lacustri donde d’uso s’abbeverano gli armenti, acquitrini lavacri infiltranti sui quali la pioggia disegna bizzarro un piano spianato gualivàto, ora mosso punteggiato ondeggiante di sinuose gallòzze equòrei tocchi, concerto tamburellante, concerto costante. Sconcertante scrosciare. Stroscio scataroscio. Scrosciare. Scrosciare scrosciante strosciante sciacquío sciacquante, potente sciaguattante profano diluvio, simile al divino ruinante profluvio. Motriglia. Fondiglio. Acque acquitrinose stagnose fangose, riflettenti dei notturni lucori, come barbagli sfuggenti luccicanti solo agli albori. Tamburellare tamburellante, ticchettare sugli ombrelli, scroscio scrosciante, scrosciare, cascate d’acque sgrondanti da gùrguli senza gròmma né orpelli/s’immettono come furie in que’ pietrosi budelli,/s’uniscono sotto l’arco romano ch’è là tra i più belli/ formando una cavína ritorta in mille rovelli/la quale si scaglia ferisce inghiotte/e subito dispare nell’urbane grotte.
Camminava velocemente. Scalpiccío, sciacquío scalpicciante d’un passo allegro, saltellante. Perigliani quella sera non c’era, non c’era quella sera Perigliani e l’ingegnere, quegli mancante vacante, approffittò nuovamente della situazione. Fràzio e bagnato e slavato e sgrondante, suonò a Gianna seduta stante. Quella lo fece attendere fuori dalla porta, mentre gli andava a prendere qualche ricambio da una sporta. Ma come iniziò a spogliarsi, fu colto da una forte eccitazione. Noncurante del luogo, spinse all’interno Gianna, baciandola con irruenza al collo, sulle orecchie, labbra, abbracciandola stringendola accaloratamente intensamente sensualmente, toccandole prima i seni, poi le natiche, infilandole le mani dentro la gonna, palpandola sfiorandola pigiando ora più debolmente ora più violentemente in una totale profusione della passione emozione sensazione sempre più forte, sempre più forte.
Dopo che essi ebbero effettivamente scopato, giacerono lassi prolassi in adamitica guisa l’uno accanto all’altra, più soddisfatto l’ingegnere per ciò che aveva alla Nihil fatto, che per quel perverso proibito misfatto, perpetrato alle spalle dell’amico che tanto gentilmente gli aveva prestato soccorso nel momento del riscatto. Eppure nessun rimorso attraversò quella mente estasiata, mentre lei mellifluamente sospirava trasognata. D’un tratto si voltò e principiò così a parlare: “sai, oggi è stato un giorno importante alla Nihil, ho lavorato molto ad un nuovo progetto”.
“Hai lavorato ad un nuovo progetto? Alla Nihil? Com’è possibile?”, cadde dalle nuvole Gianna, come d’improvviso risvegliata da quella bizzarra trovata.
“Perché ti pare così strano? Anch’io non ho trovato grande collaborazione nei colleghi. Tutti taciti taciti, omertosi omertosi, aposiopetici aposiopetici. Come se vi fosse dietro un segreto orsoio machiavellico ragnatelo. Ma mi sono subito chiesto: s’era un sì grande segreto ragnatelo, perché approntare quella struttura così enorme immane ciclopico bislacca, e non accontentarsi d’un rifugio in qualche riparo nascosto di là dalla montagna, che ce ne sono a bizzeffe di murarie schifezze similfatte artefatte?”.
“E allora?”, chiese lei, volutamente incuriosita, come se volesse davvero andare in fondo alla faccenda: sino a qual punto sapeva? E cha cacchio di lavoro aveva fatto, lì che davvero non s’aveva da far nulla?
“Non conosco bene le strategie, delle quali nemmeno tuo marito mi ha voluto informare, ma certamente questo so, che è possibile project plan pianificare una strategia di marketing anche senza un oggetto preciso, ovvero si può pubblicizzare vendere distribuire fabbricare un prodotto che non esiste e di cui non v’è manco il progetto”.
“Ancora non colgo il nesso, scusami sarò un po’ affaticata dall’appassionata scopata, ma veramente non colgo il plesso”, disse Gianna fingendosi insciente nesciente ignara, ma invero sempre più insinuante con quel finto far onagresco quasi da somara.
“Nella scienza del marketing, perché sai, è davvero una scienza con tutti i suoi crismi clismi, ormai s’è fatto di tutto, ma la gente appare sempre più assente indifferente stuporosa autistica egotistica, le fai vedere scene sadomaso, sodomie zoofilie parafilie coprofilie onicofagie tricotillomanie, stragi torture uccisioni rapine sbudellamenti eviramenti mutilazioni escissioni infibulazioni e quella non reagisce manco più, ne è come abituata corazzata vaccinata anestetizzata. Qualunque cosa le propini, questa non la sfiora punto, come se per la realtà, quella vera, non s’avesse più interesse sensibilità”.
“E così…”
“Così mi sono detto: e io non propongo niente, faccio finta di non voler vendere niente. Sono convinto che tutti abboccheranno, che cominceranno a interessarsi a tal covèlle e si chiederanno: non è possibile che non ci sia davvero niente in quelle scatolette, c’è qualcosa che si chiama niente, questo è vero, ma esso non è niente…e così per comprovare le loro ipotesi, gli si potrà vendere qualsiasi cosa…
Già me li vedo inebetiti e rincretiniti a guatar sottecchi quegli involucri disenfiti e dir ‘qualche misero brincello ci sarà pure stato a cagion di cui or mi sento de’ danari voto e purgato’.
Voglio leggerti un bel raccontino, una preview del mio business plan forse in apparenza cretino, in tono un po’ fictional favolistico, iniziando proprio dai primordi precordi, ovvero dall’imo del personaggio protagonista in terza persona, che sarei io e che s’è trovato in una condizione davvero strana. Non t’annoierai, te lo giuro”.
Gianna non capiva tale farnetichío, ma dallo sguardo dell’uomo comprese che si sarebbe dovuta sorbire tutta la cronistoria, ripetente in maniera più o meno pedissequa gli antefatti sin qui narrati. Inoltre quello era partito a razzo, e non lo si poteva più fermare senza ficcargli in capoccia l’idea che qualsiasi sosta imposta non poteva che celar un senso pretestuoso. Beh, diciamola tutta: delittuoso. (Ecco, ora “seleziono tutto”, clicco “copia” e poi “incolla”, copia-incolla e il gioco è fatto, sì da aumentare le pagine senza alcuno sforzo. Comodo, molto comodo, così mi potrò dedicare al problema del bagno, che mi perde da ieri. C’avrò un bel da fare, proprio bello).
Da un po’ di mesi la solatía carpofora valle divallante a fimbrie fratte, detta valle di Noghere, era tutto un trambustío routinario casino d’automezzi, un viavai vaivia updown inout incasinante brancichío d’automezzi rombanti assordanti inquinanti. Tutt’era un puzzo tanfo, fùmido fumoso miasmico benzenato aromatico puzzo tanfo, là, nella valle divallante a fimbrie fratte frante infrante frugifere feroci feraci, detta nomata, la valle, di Noghere, sì romita tranquilla un tempo andato, ora divenuta un cantiere intasato. Il cantiere, il cantiere intasato disastrato laddove un tempo andato la valle giaceva sì romita tranquilla, era stato inaugurato non molto tempo fa, ma già da Muggia si potevano scorgere le infrastrutture del nuovo edificio nella loro imponenza iattanza nei confronti d’una piana che s’allargava dal mare fino sui monti. Superato il colle fruscoloso boscoso increspato di serpilli vermène àsari tamerici salmastre (è ovvio) di santa Barbara, quasi prospiciente il mare, s’apriva una vasta area brulla e tormentata, aspra e agitata, come un prolungarsi delle acque in piagge piane poggi ardenti urenti, lungo i quali ormai da tempo immemore, a macchia nubècula chiazzante, diffusa in un formicolío brulichío formicolante fitto fitto, sorgeva infiorescente luminescente il nuovo comprensorio industriale. Mentre laggiù, nel bel mezzo della rena, tra lo sciaguattío del fiume scorrente ricorrente a malapena e il calpestío del selciato lotolènto sdrucciolevole affollato sempre più affollato frequente fremente, in una posizione dominante imponente, s’alzavano dei ciclopici pelasgici muri maestri, segni presaghi d’un oprare solenne, misterioso ascoso per gli animi prosaici pedestri.
L’investimento era stato cospicuo, erano intervenuti sia enti pubblici, sia la società finanziaria che gestiva e aveva in concessione per scopi industriali l’intera valle. Il progetto parve sino dal principio molto ardito, senz’agguaglio, complesso amplesso, coniugare il profitto con il mondo naturale sconfitto. Sbancamento, escavazione, demolizione. Scavare. Scavare. Distruzione, sbancante escavante distruzione che demolisce scavando, triturando, macinando, squassando, avellendo svellendo. Scérpere divellere evellere convellere divèrre. Per tale ragione il sopraffino oprare escavante sbancante era stato commissionato a un’azienda specializzata che disponeva di decine e decine e decine e ancora decine di camion gru benne bettoniere attrezzatissime escavatrici sbancanti escavanti trituranti, con un romorío gracidante crocidànte, regolare irregolare, roco arrochito fumoso, ruggito ferroso, frómbo squasso che nemmeno calava nel tempo notturno, né nel dì festivo diuturno. Regolarità snervante, snervante regolarità, irregolare, irregolare regolarità. Frastuono. Rimbombo frómbo, frómbo rimbombo, casino frastuonante regolare irregolare. Pure nei giorni festivi diuturni, pure nei dolci e soavi sonni notturni. Viavai, vaivia, viavai, vaivia workflow cluster broadcast d’automezzi, arrivavano, aspettavano, caricavano di terre sanguinolente e ferite, ripartivano, workflow cluster broadcast d’automezzi, arrivavano, aspettavano, caricavano di terre sanguinolente e ferite, ripartivano, workflow cluster broadcast d’automezzi, arrivavano, aspettavano, caricavano di terre sanguinolente e ferite, ripartivano.
Per chi abitava nei paraggi, era stato un periodo duro insicuro, ma il comune del luogo, d’accordo con la multinazionale, aveva elargito pingui compensi.”Il meccanismo funzionerà bene anche per tale immenso edifizio – diceva il sindaco – ma dev’essere oleato imbiettato lubrificato, il meccanismo, ovvero con perito sommo artifizio fatto lúbrico, come ai vecchi tempi, quando furono eretti quegli oleosi lúbrici depositi, perfetti! Se hanno permesso quell’oleoso scempio, tutto si può fare, nessuno ci può condannare”.
“Ma guardi che i tempi sono mutati. Bisogna pure stare attenti, dopo i recenti eventi”, osservava tremulo pavido l’assessore all’urbanistica.
“No, bisogna bisognava sempre stare attenti. È soltanto per colpa di qualche bamba baggèo sbruffoncello che ora ci si trova a misurare ogni parola atto verbo avverbio, anche quando si fa una pratica allo sportello. Ci sono talpe dappertutto e non aspettano altro che tu metta il piede in fallo, per tagliartelo, dico il fallo, non il piede”.
“È per tale cagione ragionevole cagionevole che oggi sono così tremulo pavido, mi sento come una insulsaccia merdaccia”.
“Stavolta, tale sua titubante titubanza non ha senso alcuno. Per quest’opera ostacolo non ne abbiamo nessuno. Per questa volta siamo bene coperti, in alto, molto in alto”, disse berciando questa volta soddisfatto del misfatto il sindaco ciprigno i denti digrignando.
Ciò cui alludeva del tempo andato, non era certo un bell’operato: tutt’intorno, assedianti soffocanti opprimenti, sorgevano svariati oleosi lúbrici depositi di olio combustibile, enormi, puzzolenti, che avevano trasformato la piana e parte delle pendici del monte prospiciente, in un continuo cantiere, spingendo piante e animali a rannicchiarsi inguattarsi sempre più in quota, come se da lì essi mirassero e rimirassero spauriti impauriti l’umana corte che viene avante/li tocca e sfiora con la mano dell’amante,/cordiale lentezza, amarezza d’una marea impietosa/che diviene repente ruina procellosa/e coll’onde avvolge la battigia/ d’ogni vita cancellando le vestigia.
Furono fatte opere di canalizzazione, nuove infrastrutture stradali per facilitare i collegamenti tra il porto e l’entroterra, l’entroterra e il porto, tra cui un’autostrada che arrivava direttamente a Lubiana. Si riteneva infatti che lo sbocco verso i paesi dell’Est rappresentasse una tappa decisiva per la rinascita economica della zona, soprattutto all’indomani dell’integrazione europea.
Poco era rimasto della laguna di Noghere, che si distendeva lì, a levante, e che scintillava ogni mattino, alla luce dell’aurora. Oh oh oh. Vi svernavano varie specie di anitre razze coturníci scutèrzole tenuirostri fínci querquèrdule curcuvéggie farchètole silvane silvatiche che, a stormi – novellano i nonni – sfioravano le ciminiere di Servola e, per nulla intimidite dai pennacchi solfurei della ferriera, già alla fine dell’ottocento, (però, ohibò), si gettavano a capofitto in quell’oasi protetta dal vento. Sullo sfondo, ancora maiestatico maestoso ma ormai sminuito dalle immani immense costruzioni, il ciglione carsico, non più boscoso intricato infrascato di fruscoli nardi dúmi come un tempo a causa dei frequenti ardenti incendi estivi. Pareva una sorta di muraglia castramento, un baluardo usbergo càssero eretto a difesa delle alte terre dell’altopiano altezzose alteggianti anch’esse immense lussureggianti, contro i forti venti del mare o le acque inesorabili a raffiche spiranti sferzanti, le quali, nelle mareggiate, s’allargavano fino sotto le rocce, mari spiranti, venti ondeggianti, fagocitando di volta in volta lembi di terra, guàldi spaldi, greppi irti acclivi, in una sorta di rito cannibalico.
Eppure permaneva ovunque, in quella valle, uno stridente contrasto tra la natura selvaggia, di cui si scopriva ancora qualche frammento inalterato, e la folle e fascinosa e intrigante e intollerante prepotenza delle opere murarie che ormai avevano occupato saturato quasi completamente l’imbocco sbocco della valle. Eppure…
“Ha visto che stridente stringente contrasto tra la natura selvaggia e la folle e fascinosa e intrigante e intollerante prepotenza delle opere murarie?”, disse l’assessore al sindaco, mirando un po’ discosto il cantiere che ormai aveva invaso quasi il centro abitato del comune.
“Non è poi tanto folle tale prepotenza. Ci porterà un bel po’ di quattrini e darà lustro a questo luogo obliato e inviso. Diventeremo oggetto di interesse per i giornali, la Tv. Vedrà, vedrà che ho ragione”. La voce suadente persuasa, ma soprattutto persuasiva, del sindaco tranquillizzò l’animo diffidente e insicuro dell’assessore.
Il silenzio regnava, un tempo, nonostante lo scrosciare costante del ruscello che serpeggiava lungo la Valrosandra, incuneandosi primieramente negli anfratti frastagli faraglioni lapídei rocciosi che formavano una sorta di latòmia turrita, slargandosi poi nella piana sottostante. Tutto ciò parve allora infranto. Il rumore assordante delle scavatrici magli subbie mazzapicchi mazzeranghe sgorbie menarole riàvoli ciàppole echeggiava lungo pareti picchi rocciosi, rendendo quei suoni metallici ancora più acuti chiassosi. Le mura perimetrali della fabbrica erano già state innalzate nella loro imponenza. Anche un occhio inesperto ne poteva scorgere l’omnia onnina enormità possenza onnipotenza. Al centro la palazzina direzionale, alta sette piani: da lì si sovrintendevano i lavori, si assumeva il personale e, soprattutto, si incominciava a pianificare il lancio slancio del prodotto.
L’ingegnere era stato convocato proprio in quel luogo, grazie all’interessamento dal suo vecchio amico disinteressato Perigliani. Tale fatto lo rallegrò molto, soprattutto perché stava uscendo da un periodo piuttosto negativo.
Si era separato da Marta dopo dieci anni di matrimonio. Come se ciò non bastasse era pure stato licenziato da una famosa azienda locale produttrice di cellulari. Vi aveva lavorato per parecchi anni, e con un certo successo. Ma quel prodotto ormai non tirava più, sia per la saturazione stagnazione del mercato, sia per la ricorrente concorrenza dei paesi asiatici.
Nonostante se l’aspettasse, volle rileggere la lettera ufficiale di convocazione che gli fu consegnata a mano personalmente dal Perigliani. La trepidazione fu comunque forte. Non sempre la consapevolezza o la coscienza riescono a mitigare l’emozione o il dolore, il dolore o l’emozione. Anzi, egli quasi tremò e sentì il cuore sussultargli in gola.
Poi iniziarono a sobbalzargli sussultargli pure in capo molti interrogativi, com’è tipico delle persone insicure introverse incerte: era solo merito del Perigliani quale importante garante? Oppure avevano visto i suoi lavori, riconoscendo finalmente i loro valori? L’ingegnere era convinto della fondamentalità del net.marketing relazionale. Relationship. Non era sufficiente produrre o inventare qualcosa di sensazionale. Bisognava capire quali prodotti erano richiesti dal net.mercato e come bisognava comunicare con la gente attraverso la rete. Nella sua vecchia azienda tutto ciò era stato sicuramente trascurato e la messa in liquidazione o il fallimento ne sarebbe stato il naturale consequenziale risultato.
Per quell’incontro aveva persino comperato un abito nuovo. Il suo aspetto fisico infatti non era granché. Un po’ grasso, con quella forma dell’addome e del busto che è caratteristica di chi da tempo ha abbandonato lo sport. L’ampia fronte stempiata spesso imperlata; rari capelli grigi tirati all’indietro, sempre lipidico lutulenti. Insomma, madre natura non fu certo benigna e lui, quasi per una sorta di ribellione verso una condizione di cui non aveva colpa, tendeva ad accentuare tali difetti. Sembrava godere a uscir di casa con le scarpe sporche e bucate, né si possono contare le volte in cui aveva messo i calzerotti e le maglie alla rovescia oppure esibiva con irriverente pompa delle giacche con ampie macchie e aloni di grasso.
“Perché devi uscire sempre così agghindato conciato? Non ti vergogni?”, gli ripeteva spesso Marta, quando usciva di casa, quasi tronfio orgoglioso. E lui, quasi recitando un monologo, ripeteva con aria di subornanza: “per il mio lavoro l’esteriorità serve a ben poco. Per fortuna contano ancora l’intraprendenza intelligenza perseveranza. Per fare del marketing non servono i bei vestiti di marca griffati altisonanti, le scarpe lustre lustrate risuolate, l’alito alla menta piperita peppermint spearmint. Ci vogliono neuroni, sinapsi, intuizione, estro, brainstorming: insomma, saper cogliere l’essenza di una cosa con una frase, un gesto, un colore, un bit. Non hai mai visto i geniacci americani dell’e.commerce, grassi e gonfi da far schifo, con delle bragasse a penzoloni e maglie che sembrano dei sacchi di iuta deformi informi, i quali, cotali geniacci, non li vedi mai in giro, a spasso in città, oppure in vacanza, perché se ne stanno chiusi in casa giorno e notte a digitare sul loro pc e a sgranocchiare patatine unte e bisunte nell’olio di vaselina. Ci vuole l’olio di vaselina…sennò irrancidiscono presto, lo sapevi? Le chips patatine”.
L’aspetto esteriore tuttavia non fu la causa del fallimento del suo matrimonio. Tutto iniziò pressapoco quando le cose alla Tentronic presero la china che sappiamo. Tornava a casa rabbuiato, deluso, incazzato con chiunque e con qualunque cosa. Svolgeva un lavoro senza prospettive, senza domani. E che senso ha? Che senso ha sopportare quell’imbecille del capufficio, o i colleghi indolenti insolenti che cercano continuamente di fregarti sulle ferie, i permessi, e, quando possono, di scaricarti addosso le loro colpe, facendoti pure fare la figura del fesso?
Un tempo era uno sportivo. Non nel senso di una pratica occasionale; e nemmeno nel senso di quella sua riduzione sedentaria che è il tifo, come se fare qualcosa o guardarla coincidessero nello stesso gesto. Il suo modo di essere sportivo poteva apparire anzi un po’ maniacale ossessivo. Apparteneva alla schiatta schiera di coloro che devono necessariamente impositivamente correre run jog walk step spin ogni giorno, per un’ora, due ore, con qualunque tempo, anche con il raffreddore l’influenza bronchite pneumonia flu polmonite borsite, e con qualsiasi infiammazione tendineo-muscolare, lesione metacarpiale tissulare meniscale. Nonostante ciò, dopo parecchi anni smise tale attività, tanto che Marta ne fu affatappiàta, come affatappia e intimorisce chi smette all’improvviso di fumare, non per una propria decisione ma perché non ne ha più la voglia propensione. Si trasformò in un pigrone: non usciva più alla domenica ma si rintanava in casa, a guardare la televisione disteso sul divano con un’aria svogliata e stanca, sgranocchiando le unte bisunte sovraddette chips patatine.
Ben presto il rapporto con Marta inevitabilmente si incrinò. Per quanto ella lo amasse ancora o gli volesse bene, come s’usa dire, l’ingegnere aveva preso un abbrivio autodistruttivo che rischiava di coinvolgere chiunque gli stesse intorno. Prima degli altri, egli odiava se stesso. Odiava quello che era, quello che faceva, quello che rappresentava, quello che diventava, un borghese deluso che non aveva mai compiuto un’azione eroica, non era mai stato capace di uno slancio, di un atto di coraggio. E il disprezzo, si sa, talvolta si diffonde a macchia coinvolgendo un po’ tutti, la moglie, i figli, il mondo intero. I contatti con Marta si diradarono così a tal punto da limitarsi alle necessità quotidiane. E quando lei tentava di portare il discorso in una direzione diversa, qualunque essa fosse, s’arrivava all’improperio, coprolalico aiscrologico rancoroso.
Sì, è proprio così. Quel vecchio amore s’era trasformato in odio. Ma è una storia vecchia, trita e ritrita…odi et amo.
Dopo qualche mese se ne andò di casa. La molla fu l’ormai nota stranota lettera di licenziamento dalla Tentronic. Una lettera in apparenza innocua, pervenuta insieme a tante altre, la bolletta della luce, una pubblicità per una scuola di specializzazione, un invito a una mostra di uno scultore che aveva conosciuto qualche anno prima, una richiesta d’offerta per pittori paraplegici, le ultime promozioni settimanali del megastore del quartiere, una brochure di un’agenzia immobiliare che ricercava appartamenti nella zona. Quella lettera scarna e allo stesso tempo incisiva, spietata, riportava siffatte parole: egregio ingegnere, la direzione dell’ufficio personale è spiacente di comunicarLe che a causa della necessaria ristrutturazione dell’azienda il suo nomitativo è stato segnalato tra quelli candidati alla messa in mobilità, secondo il dpr tal dei tali. Ogni rapporto lavorativo debbesi pertanto ritenere sospeso a partire dal 15 maggio del corrente anno. Egli fu sorpreso da quella balzana forma espressiva, tanto ridicola quanto cercava di essere ipocritamente sensibile e adeguata alla circostanza. Solitamente è una grande cosa essere segnalati. Significa in qualche modo primeggiare, vincere una competizione, uscire una buona volta dal backstage. Ma quale bel trofeo premium-gain stock-option era in palio in quell’occasione? Sulle prime quasi non se ne accorse, tutto incombenzato ad analizzare quel linguaggio assurdo. Poi il presentimento che portava dentro di sé ormai da mesi pretese un po’ d’attenzione e gli segnalò, questa volta in modo davvero prepotente, la situazione. Era stato messo in strada, cacciato come uno straccio vecchio, troppo liso e strucinato ormai per servire a qualcosa.
Tutto gli crash crollò addosso. Pensò dapprima di uccidersi gettandosi in un fosso. Ma era un codardo, non ne aveva la forza. Ci aveva pensato molte volte in passato, in forma d’ipotesi. E se mi ammalassi gravemente? Se rimanessi invalido sul groppone degli altri, che mi dovrebbero accudire volenti o nolenti? Certo m’ammazzerei. Certo, indubbiamente. Ma come? Il cianuro ahimè non lo vendono senza ricetta, in farmacia; e nemmeno il curaro. E al medico che potrei raccontare? Guardi, ho i coglioni un po’ pieni e avrei deciso d’ammazzarmi; che dice, mi fa questa ricettina? Allora un bel tuffo nel vuoto, dal quinto piano, che è in media quello più utilizzato dai suicidi. Spalmarsi come una marmellata sull’asfalto rovente di un giorno assolato d’agosto, vedere la superficie bituminosa che si avvicina rapida rapida e poi, sciàf, finita la trasmissione. No! Allora spararsi alle tempie…ma la pistola, dove trovarla, dove comprarla? Poi non è così facile adoperarla, è invece facile sbagliare, il proiettile ti trapana il cervello da parte a parte, ma senza ledere parti vitali, quel tanto che basta per lasciarti paralizzato, decerebrato, come un bel vegetale da annaffiare con regolarità, due…tre volte al dì. Insomma, pensò che era più conveniente e razionale un altro provvedimento: lasciare tutto, cambiare vita, ricominciare daccapo. Forse le cose sarebbero andate meglio, avendone già viste di tutti i colori e col popò d’esperienza che s’era fatto. Mollare tutto. Senza rimorsi dopo gli ultimi trascorsi.
Racattò in fretta e furia poche cose, quelle essenziali, calze, mutande, spazzolino, dentifricio, rasoio, crema da barba, deodorante, fazzoletti di carta, canottiera, camicia, maglietta, pigiama, calzoni corti, pantofole, cravatta, giacca, pantaloni uòsa bragoni bragasse, giacca e pantaloni uòsa bragoni bragasse nel senso di un completo di giacca e pantaloni, completo estivo o meglio germile primaverile, lana pettinata fresco-lana, pettine, spazzola, unguenti vari, giornali, riviste, tronchetto, asciugacapelli, massaggiatore cutaneo, elettrostimolatore, cd dvd pc usb pcmcia sms wap. Schiacciò le poche cose in due valigie scardinate. Erano ancora quelle del viaggio di nozze, ricoperte da una pelle scadente. A fatica trattenevano il contenuto e, anzi, tentavano di espellere quelle poche cose tanto che egli vi ci si dovette inginocchiare sopra per aumentare la pressione. Vicisi.
Si trascinò a fatica giù per le scale intrafinefatta, mentre Marta lo guardava esterrefatta. Ci fu un gioco di sguardi, di penetranti sguardi. Quanto significativa può essere una semplice occhiata: ti può rimproverare e crocifiggere alle tue responsabilità; ti può colpire come una freccia e infilzarti più violenta di un proiettile fendente a doppia carica o all’uranio impoverito; può essere freddamente distaccata, la semplice occhiata, e allora quella glaciale indifferenza ti fa ancora più male, perché vede e non vede, come se tu non esistessi.
Scese goffamente per le scale, sdrusciando le valigie sullo scorrimano e imprecando via via incespicava sugli scalini, non potendone vedere bene il disegno e il susseguirsi regolare, simile a una fila continua di spigoli e piane.
Il volto pallido di Marta recava i segni di un dubbio. Avrebbe potuto fare qualcosa? La sua ignavia nell’intervenire, la sua infingardaggine insulsaggine testardaggine nel cercare di fermarlo era forse una forma di egoismo? Lei, proprio lei si rimproverava d’essere egoista, quando suoleva rimbrocciàre dello stesso difetto quel poveraccio, quasi in ogni occasione…Alla fine pensò ch’era meglio così, lasciar fare al destino e abbandonare quel misero tapino. Avrebbe anche lei ricominciato una nuova vita.
Carco di bagagli, come un alienato, egli s’aggirò per le vie del centro storico testè ristrutturato, camminando maldestramente senza meta. A un tratto, mentre transitava sotto una serie di case semidiroccate del seicento, che cingevano a mo’ di corona il castello e la cattedrale, ecco balenargli in capo un’idea, anzi, un nome: Perigliani. Erano stati compagni all’università e si erano frequentati parecchio negli anni in cui infiammava divampava rutilante la contestazione studentesca. Poi il militare, durante il car; infine qualche incontro casuale, una o due cene di commemorazione, cioè quegli incontri di ex-commilitoni nei quali ci si cimenta perlopiù in quel sollazzo spesso malinconico costituito dalla valutazione, necessariamente soggettiva e malevola, di ciascuno, di che cosa ha fatto o non ha fatto, di come è riuscito a combattere l’aspro ed impari agone contro l’invecchiamento, Hai visto il Giorgieri com’è canuto? E il Fincheri, che grasso, sembra strippare scoppiare, quasi non lo riconoscevo…, Lo sai, ha divorziato…dopo vent’anni? Era cornuto, E adesso che fa il Merigi? Boh, dicono che vada a mignotte alle isole Figi, Beato Lui, Come beato lui, è una cosa che m’indigna, Ti indigna perché vorresti essere al suo posto e invece…vai col viagra…
Perigliani abitava provvidenzialmente nei palagi dei paraggi, paraggi dei palagi. Aveva avuto sempre una passione per le case dirute o, meglio, d’epoca, come si suol dire. Asseriva ch’esse nascondevano un fascino che nemmeno la villa più panoramica e lussuosa e sfarzosa riusciva a possedere: il vissuto, la storia sedimentata nei pavimenti marci e scricchiolanti, nelle pareti scabre, negli scheggiosi scheggiati pietroni di marmo, tutti smussati levigati arrotondati biscanti, nei cardini arrugginiti e cigolanti, nelle biette ormai polverizzate, nell’umido vièto e muffido che circonda ogni canto, insieme al fetore delle orine di gatti accalorati che marcano qua e là il loro territorio.
Ebbe una sorta di ritegno a suonare il campanello. Come poteva presentarsi così, di punto in bianco, dopo tanti anni dall’ultima volta che s’erano visti? Tanto più che ormai si faceva sera e lui, sommerso di borse, sembrava quasi imporre un’ospitalità che andava oltre il lecito, almeno in questi tempi. Eppure suonò. Due volte.
“Sono io, non ti ricordi?”, gridò appiccicato a un citofono dal funzionamento irregolare, crocidante biascicare.
“E come se non mi ricordo…che ci fai per queste stradine che hai sempre odiato?” Era certamente la voce del Perigliani, col suo tono caldo e misurato.
“Ho urgentemente bisogno del tuo aiuto”. Per un istante l’ingegnere s’impaurì, anche perché quell’abituro faceva realmente paura tant’era fatisciente fessurato impregnato dall’uligine, malsicuro. Poi prese coraggio e nonostante lo scricchiolío sinistro dei gradini salì al terzo piano appoggiandosi con le mani al muro e cercando di ponderare ogni passo, come il rocciatore quando cerca di aprire una via nuova attraverso una parete particolarmente ardita. In fondo a un corridoio stretto e scuro, una luce.
“Ma non potevi ficcarti in un posto più solare, magari donde si potesse vedere il mare?”
“Non ci sono problemi. Basta che tu mi dia qualche centinaio di milioni e ti accontento subito”.
“Non prendertela, scherzavo…”, cercò di smussare quella frase impertinente e soprattutto intempestiva, priva di qualsivoglia senso strategico.
Non sapeva che Perigliani si fosse sposato. Gli era sembrato sempre un tipo un po’ sfigato, uno al quale le donne non erano mai importate granché. Se ce n’erano tanto meglio, ma la solitudine non avrebbe costituito per lui un dramma.
“Guarda Gianna, chi ci è venuto a trovare, il buon vecchio ingegnere, indimenticabile compagno d’università e d’una miriade di ragazzate quand’ero artiere e…quando ancora credevamo in qualcosa…”
“Non esageriamo con la nostalgia che porta male”, intervenne per stoppare quel discorso nostalgico fuori luogo. Poi soggiunse, più cordiale mellifluo: “buonasera signora, mi spiace conoscerla in questa occasione che non è certo una delle migliori della mia vita, almeno sino ad ora”. Gianna era una donna particolarmente affascinante. Il passare degli anni pareva le avesse quasi portato giovamento, spiritualizzando dei tratti che in gioventù dovevano esser stati soltanto espressione d’una sensualità grezza, animale. Senza dubbio anche la carnalità e la sensualità hanno il loro peso, ma per lui erano più importanti l’eleganza della figura, il portamento, lo charme d’un’occhiata fugace ma profonda sagace. Lei tuttavia lo mirava un po’ discosta, percorrendolo da capo a piedi con uno sguardo puntiglioso quanto impietoso, mostrando in quel suo indagare un animo molto più severo e determinato di quanto non intendessero le morbide linee del suo corpo. Egli se ne accorse e, come se si trattasse d’un gioco delle parti – e forse lo era davvero – prese a rafforzare masochisticamente il pretesto, raccontando per filo e per segno ciò che gli era accaduto in quei mesi. Con dovizia di particolari per giunta a caratterizzare ben bene tutto il contesto.
La mossa tuttavia portò un buon frutto, perché indusse i due ad ospitarlo, provvisoriamente, almeno, per quella notte. Possedevano un appartamentino al piano di sopra, una specie di monolocale che talvolta affittavano agli studenti universitari. Nonostante fosse angusto, da lì si poteva mirare l’intera città, da una prospettiva inconsueta: tegole, tetti, sottotetti, abbaini, gli uni affastellati sugli altri, in un intrico che dal basso nessuno avrebbe potuto immaginare. Ne promanava un senso di straniamento e sbigottimento, poiché si scopriva la diversità abissale e sconcertante di case piazze strade che da anni ormai si credeva di conoscere e riconoscere per l’abituale frequentazione. E invece se ne scoprivano d’improvviso tratti nuovi, come se si fosse vissuti sino a quell’istante in una città fantasma, senza realtà, dal volto ignoto.
Passò una notte inquieta. Il letto d’altronde non era il suo. La rete metallica era ormai sfibrata e il vecchio materasso di crine si torceva a tal punto che era difficile perfino prender sonno. Ma se la notte pareva fonte di turbamento sgomentoso tormento, l’indomani sarebbe stato ben più duro da affrontare: senza lavoro, con i pochi quattrini della liquidazione già in parte spesa a suo tempo per l’acquisto della casa, senza neppure un luogo dove consolarsi dagli affanni malanni.
Per una sorta di autodifesa, nonostante le iniziali difficoltà, dormì quasi più a lungo del solito, tanto che sentì il Perigliani allontanarsi rapidamente scendendo la rampa delle scale. D’altra parte, più a lungo avrebbe prolungato il sonno, maggiormente avrebbe differito quelle domande che prima o poi doveva porre a se stesso: cosa fare? dove andare? che sperare?
Alla fine dovette alzarsi. Si rassettò alla bene e meglio. Scese le scale con attenzione poiché le giunture alle prime ore dell’alba gli risultavano sempre dolenti. Dietro alla porta sentì il tipico ticchettío di piatti, posate, tazze, bicchieri che s’urtavano l’uno contro l’altro. Probabilmente Gianna aveva appena finito di approntare la colazione e stava lavando le stoviglie della sera prima.
Con l’improntitudine della persona disperata, che non ha nulla da perdere e tenta la sparata, entrò senza nemmeno curarsi di bussare. “L’avrei chiamata io fra un po’…Ma non faccia caso al disordine, mi raccomando, né al mio stato. A una certa età le donne abbisognano di tempo per apparire appena presentabili”, fece lei per nulla indispettita.
Si rese conto d’esserne attratto. Non in senso spirituale, come si diceva. Proprio in senso carnale, sensuale, insomma: erotico. Gli era già accaduto in altre occasioni di lasciarsi irretire da personalità determinate e talora scorbutiche; ma ciò si trasferiva sempre sul piano della corporeità, del sesso, come se la forza dell’animo femminile non potesse trovare ricovero nel suo sentimento, ma rimanesse confinata nella morbosità leziosa e maligna delle carni. Iniziò allora, quasi con moto spontaneo, a fissare i suoi glutei rotondi e formosi, che appena s’intravvedevano dietro alla vestaglia oscillante, mentre lei, di schiena, stava finendo di risciacquare le posate. All’improvviso, come se ella avesse sentito sulla pelle il peso di quegli sguardi, gli si rivolse senza nemmeno chiudere il rubinetto: “conosce da molto mio marito?”
“Come ho detto ieri sera – ma non rammento nemmeno bene tant’ero agitato e sconsolato – eravamo compagni d’armi e d’università, alla facoltà d’ingegneria. Soltanto che, dopo il biennio, lui cambiò indirizzo, scegliendo quello navale”.
“Lei invece di cosa s’è occupato?”
“Lasciamo perdere, che non è il caso di parlarne…”
“Non si preoccupi, qui è in famiglia, non ha nulla da temere”, disse lei con tono rassicurante, un po’ sornione civettuolo.
“Sa bene convincere gli uomini, Gianna. Dunque, a quel tempo pensai che uno dei campi più fiorenti fosse quello del net.marketing. Me l’avevano inculcato durante un viaggio di studio negli Stati Uniti. Lì usano vendere programmare project customerizzare qualsiasi cosa, attraverso la rete, cioè l’aerea labilità inesistenza di bit fluttuanti inconsistenti. Per gli americani è tutta una questione di net.business”.
“E poi, mi dica mi dica, che sono un po’ curiosa. Dopo tale impronta americana, come si è trovato nell’asburgica analogica Trieste?”
“Male, malissimo. Fui assunto dopo qualche settimana alla Tentronic che in quegli anni offriva prospettive veramente allettanti ed era l’azienda che più assomigliava a un ideale internettizzato, dal momento che si occupava allora di communication wireless mobile. Sembrava un posto sicuro, ma vuoi per l’incapacità dei dirigenti, vuoi per il mercato spietato e senz’anima, hanno deciso di tagliare il personale e io, alla mia età, mi sono trovato ramingo a gironzolare senza dimora proprio sotto casa vostra”.
“È normale scoraggiarsi. Ma potrebbe anche prenderla in modo diverso…e pensare che spesso la sfortuna più nera porta con sé provvidi cambiamenti. Anche mio marito per anni non se l’è passata bene, con la crisi della cantieristica logistica. Ma ora, finalmente, ha trovato un lavoro che lo soddisfa davvero, anche dal punto di vista economico…no, ho capito cosa pensa, non tenga conto di questa dimora così dimessa, è solo una soluzione provvisoria”.
“Non pensavo affatto a questo. Comunque beati voi. Mi sembra di essere in un paradiso, in un mondo piano tranquillo equilibrato omeostatico che mi era ormai ignoto sconosciuto, accantonato ovvero messo in un canto oscuro ascoso obliato”.
“Non deve trascendere nell’invidia, perché forse c’è qualche possibilità anche per lei. Avrà senz’altro sentito parlare della Nihil SpA: stanno cercando ancora del personale qualificato. Parlerò al Perigliani quanto prima, non appena sarà rientrato”.
L’ingegnere sorrise, mentre lei gli si avvicinò e lo invitò a sedersi su un divano un po’ strubbiato. Iniziò a guardarlo fisso negli occhi, in modo strano, sì, proprio con concupiscenza veemenza. Egli ne fu dapprima sorpreso. In un istante gli scorsero innanzi agli occhi le immagini della colpa, in tutte le sue forme metaforiche. Aveva lasciato da un giorno Marta, e Gianna era la moglie d’un suo amico, che pure l’aveva accolto in casa nel momento della difficoltà. Tuttavia l’empito che gli insorse dall’addome fu ben più forte di siffatte forme retoriche e lasciò fare alla donna, rilassandosi sui cuscini e reclinando leggermente il capo, con maliziosa molle dolcezza. Ella gli sfiorò le ginocchia con la mano, dolcemente, quasi fosse un gesto casuale. Lui, quasi nello stesso istante, le toccò in modo lieve il seno inturgidito…insomma, per farla breve, scopacchiarono in faccia al Perigliani.
Quant’è ingiusta la vita! Proprio mentre i due amanti sicut animalia agivano proditoriamente alle sue spalle, il Perigliani, impietosito imbietolito per le condizioni dell’amico, si stava prodigando per trovargli un posto insignìto. Il fedifrago fu così convocato all’indomani per colloquiare con uno degli occulti amministratori, forse il più importante, italo-americano, il cavalier Carmignani.

 

4. La fabbrica

L’ingegnere attraversò il recinto che circondava il cantiere. Prima di proseguire si fermò per alcuni secondi, mirando e ammirando e rimirando l’ammirevole mirabile grandiosità della costruzione. C’erano operai un po’ dappertutto, in mezzo a uno stridío di strumenti metallici, grida, imprecazioni. Sulla destra giganteggiava una gru altissima, bianca e rossa, ritta su quattro pilastri metallici che rilucevano al sole. Le sue dimensioni sembravano presagire un’opera immensa, colossale, come mai se ne videro in quella valle.
In sottofondo ancora il brusío delle scavatrici che con le loro benne continuavano a sbancare il terreno circostante. Fino a quando avrebbero perpetuato quello schiaffo alla natura? Quale era il limite dell’umana presuntuosa tortura?
Rimase a bocca aperta, gongolandosi di come si sarebbe vantato con gli amici di lavorare in quel luogo. Pensò per un istante anche alla moglie Marta: sarebbe rimasta attonita a vederlo così cambiato, con un vigore e una volontà ormai perdute da tempo.
Chiese ad un operaio che pareva pratico del luogo: “ho un appuntamento con il cavalier Carmignani. Dove lo posso trovare?”
“Mi spiace. Io lavoro per la società costruttrice. Ma… guardi quel prefabbricato laggiù. A quell’altezza svolti a sinistra salendo la strada che s’inerpica sulle dune, poi ridiscenda fino a un grande piazzale che dovrà attraversare con una certa solerzia, essendo frequentato da strana gente, degli sbandati drogati che non si sa mai che c’hanno in testa. Riprenda, giusto di fronte, la strada che attraversa dei prati erbosi, qui e là punteggiati da qualche esile alberello tutto impolverato, e dopo qualche centinaio di metri – lo vedrà ben chiaro – arriverà all’edificio direzionale, dove, suppongo, dovrebbe lavorare questa sorta di generale, il cavalier Carmignani”.
Partì per quella strana avventura e si dolse d’aver lavato l’auto, perché se la ritrovò in quattro e quattr’otto tutta impillaccherata infangata. Quasi subito, inoltre, si perse. Quelle dune sabbiose parevano una uguale all’altra e dalla strada principale si dipartivano un’infinità di stradicciole che serpeggiavano asserpolandosi ovunque, come i filamenti d’una ragnatela. Percorse, vagando in tal modo, qualche chilometro. E in effetti girò su se stesso parecchie volte come una grilla. Chiese a più persone che incontrò lungo la strada se ne sapessero qualcosa, ma tutte apparivano un po’ confuse, chi non c’entrava nulla, chi lavorava per altre ditte, chi s’era perso allo stesso modo e cercava lumi.
Finalmente, per caso, vide in lontananza, ma davvero in lontananza, un edificio grandioso con un intornio di persone tutte brulicanti e affaccendate. Si avvicinò lasciando l’auto accesa un po’ discosta. Scese bordando un gruppetto di tre persone vestite di tutto punto, a puntino, giacca cravatta, un bel fazzoletto sgargiante che scendeva floscio dal taschino. “Trovo qui il cavalier Carmignani?”
“Si tratta di un nome che ho già sentito”, rispose quello che pareva il più intraprendente, “tuttavia questo edificio grandioso fa parte d’un altro progetto, sempre legato alla Nihil, sia in senso proprio che figurato, s’intende, ma pur sempre un altro progetto. Qui c’è tutta una rete illimitata di progetti collaterali peripheral collegati lincati interconnessi; così come c’è tutta una rete illimitata di strade stradine stradicciole salenti discendenti su e giù per le dune, tutte peripheral collegate lincate interconnesse. Insomma, ciò che importa è la connexio connessione, il vuoto vacuo vano inane girare passare rigirare”.
Iniziò a indispettirsi. A che pro tutto quel profluvio di vuote vane vacue inani parole, senza dire l’essenziale, cioè dove fosse allogato il Carmignani?
“Non lo sappiamo davvero, ci duole, ci spiace”, fecero insieme, simultaneamente, simili a coreuti tragici. Riprese allora l’auto, per salire sull’ennesima duna, in cima alla quale s’apriva un’altra ampia piana, anch’essa tutto un fermentío di camion, operai, subbie mazzapicchi mazzeranghe sgorbie menarole riàvoli ciàppole beccastrini magli rilucenti sbattenti risbattenti. Sul lato della stradina polverosa un giovane camminava con in mano un grosso badile tutto una bugnatura: “ehi, tu, sai forse se questa è la strada giusta per raggiungere il cavalier Carmignani. Bada che non è persona ininfluente, ma l’occulto misterioso trascendente reggitore di tutta questa faccenda”, dice lui.
“No, non lo conosco. E poi questa faccenda non viene retta eretta sorretta da nessuno. Non esistono gerenti gerarchi strateghi, ma è tutto un’infinita connexio connessione, vuoto vano vacuo inane girare passare rigirare, simile a questa strada intrecciata ad altre strade intrecciate ad altre e altre ancora, infinite”, dice serafico il giovane.
“Forse è quello che credi tu. Comunque io la penso differentemente. Per quanto riguarda queste strade invece…”, dice lui.
“Invece?”, chiede serafico il giovane.
“Sì, debbo darti ragione. Pare un’infinita connessione…”, dice lui.
La cosa si stava complicando. Non avrebbe mai pensato di trovarsi all’interno di quel babelico microcosmo, dove nessuno sapeva dell’altro, ma tutto era un intreccio di diramazioni gangliari rizomatiche, a loro volta infinitamente biforcantesi diramantesi. In cima all’ennesimo colle di gàbbro, proprio all’ombra incerta d’un gàttero, ormai tutto rinsecchito defogliato e ceciàto e sfrondato, se ne stava seduto un vecchietto alquanto emaciato, con un’aria strana o, meglio, distinta dalle persone incontrate sino a quel momento. Fumava una pipa, inspirando lentamente e profondamente, con gusto. Guardava l’orizzonte, in uno stato di imperturbabilità. Quasi ascetico.
L’ingegnere ebbe pudore nel disturbare quella ieratica postura. Poi le ragioni di stato presero il sopravvento.
“Conosce il cavalier Carmignani? Dovrebbe essere il boss di tutta questa babelica faccenda”.
L’uomo vetusto fece appena un movimento con il capo. Comunque, sembrò annuire.
“E dove lo posso di grazia trovare, perché sono quasi due ore che m’hanno rilanciato come una pallina da ping pong a destra e a manca, facendomi pure frenopatici discorsi sull’infinità della rete, delle connessioni, riprodotte figurativamente dall’infinito pelago intricantesi diramantesi di queste stradine traversanti innumeri maresi senza margo veruno”.
“Ma va’ a dar via il cül”, rispose il vecchio serafico, allungando nello stesso tempo il braccio, quasi a indicare un enorme edificio sullo sfondo, al quale s’accedeva attraverso un ipòstilo e una vasta esedra. L’ingegnere si stremì non poco per quell’aria algida e misteriosa, tantoché se ne andò di filato, senza nemmeno un cenno di gratitudine. Mentre si allontanava, guardò lo specchietto retrovisore. L’uomo s’era alzato e, dopo pochi passi sbilenchi, scomparve alla vista, come uno spettro.
Finalmente.
“Ha un appuntamento?”, gli chiese, sottintendendo la risposta, no no no, una signorina tutta compunta sostenuta contenuta, dietro un tavolo elissoidale posto al centro della reception alla quale si accedeva superando una doppia serie di porte vetrate controllate e ricontrollate da numerosi sensori infrarossi.
“Certamente, l’ha preso per me l’ingegner Perigliani”.
Quella rimase inizialmente sbigottita, senza proferire parola. Poi, dopo aver bisbigliato qualcosa al telefono, gli indicò un lungo corridoio. Per un momento egli aveva temuto di rincapellare nella storiella della connessione e di sentirsi rispondere le stronzate che gli avevano sino a quel momento propinato. Invece… attraversò quel corridoio con passo sicuro. Poi svoltò a destra dove c’erano in serie degli ascensori. Dietro gli si era accodato un ometto piccolino con una lunga barba. I due s’affrettarono perché un ascensore stava partendo. “Digitate il piano desiderato”, gracchiò una voce metallica proveniente diffusa da alcuni diffusori diffondenti, infissi sul soffitto specchiato della cabina.
“Lei è nuovo? – chiese l’ometto, quasi non sopportasse il silenzio, neppure per una manciata di secondi – Mio cugino lavorava alla Tentronic e pur non essendo per nulla qualificato è stato assunto senza problemi, quasi di filato. Quindi…non si preoccupi!”
“Anch’io ho lavorato alla Tentronic e invece sono molto qualificato”, soggiunse con brachilogia risentita.
Giunto al suo piano sgusciò fuori come un’anguilla. Iniziava a sentire un certo disagio, un senso di oppressione. Acuito dalla struttura reticolare dei corridoi che si trovò dinanzi. Non c’era anima viva. Bussò allora alla prima porta, numero 1276. Nessuna risposta. Aprì ugualmente. All’interno un altro mondo, quasi speculare a quello precedente: innumeri corridoi incrociantesi infinitamente con altrettante porte. Non c’era anima viva. Tentò nuovamente di bussare a un’altra porta, numero 3457. Nessuna risposta. Aprì ugualmente. All’interno un altro mondo, quasi speculare a quello precedente: innumeri corridoi incrociantesi infinitamente con altrettante porte. Non c’era anima viva. Tentò nuovamente di bussare a un’altra porta, numero 32456. Nessuna risposta. Aprì ugualmente. Questa volta, però, con sorpresa nostra vostra, trovò una donnina simpatica, minuta, dai cappelli rossicci.
“Perdoni l’intrusione in questa labirintica disenfita malebolge, ma davvero sono in grave difficoltà. Credo d’essermi perduto in questi infiniti upgradati random meandri”.
“Qui è impossibile perdersi, perché siamo tutti token ring interconnessi. Non abbia alcun timore. Chi che cosa cercava?” La cordialità della donna chetò un’ansia che stava trasalendo, fronte imperlata, mani sudaticce, crampi allo stomaco, gastrite, tachicardia mialgia, diffusa diffusissima: “cercavo, anzi lo sto cercando da ormai tre ore, il cavalier Carmignani, che dovrebbe essere il presidente di tutta questa babelica faccenda”.
“Anche se non sembra, è qui vicino. Sembra un reticolo infinito di corridoi sections intrecciantesi e di doors maindoors porte a loro volta conducenti ad altrettanti corridoi sections intrecciantesi, push push pull pull, ma invero siamo tutti interconnessi, basta saperci navigare entro dentro”.
“E allora?” Si stava scocciando.
“Prenda quella porta, faccia esattamente tre passi a destra e percorra uno stretto corridoio. La seconda porta a sinistra, labellata dal numero 313, lo condurrà al Carmignani. È l’unico ufficio che ha la vista sul mare”.
Seguì quelle indicazioni e si trovò ben presto all’entrata di un ufficio che all’apparenza era simile agli altri, almeno dall’esterno. Bussò ed entrò quasi con lo stesso gesto. La stanza era molto ampia e luminosa. Una grande vetrata dava sul cantiere e, più in alto, s’apriva l’azzurro del golfo di Muggia, che contrastava con il biancheggiare polveroso della costruzione. Dall’altro lato spiccava, sopra un divano tappezzato a fiori, un poster di Mirò, vivacemente colorato. Sopra una poltrona mastodontica di pelle nera, sedeva in modo pachidermico un omone altrettanto mastodontico, con dei baffoni folti e arricciati alle estremità, come s’usava nell’ottocento. Un sorriso illuminò poi, quasi senza motivo, il suo volto corrucciato, come se il Carmignani volesse togliere dall’impaccio quell’omino, tutto piccolo piccolo rannicchiato nell’angolo più lontano della stanza: “quando si lavora, non c’è niente da fare. Le carte si accumulano una sull’altra e io non riesco più a raccapezzarmi. Oggi per muovere anche un mattone ci vogliono decine e decine di permessi, autorizzazioni, domande, sopralluoghi, perizie, concessioni. E più passa il tempo più ce ne vogliono. Ma mi scusi, sono un po’ prolisso”.
Egli fece un cenno con la bocca, ma non gli uscì alcun suono, quasi fosse soggiogato dal baritoneggiare profondo di quella voce. Talvolta l’autorità si manifesta nei modi più inattesi, anche nel semplice tono con cui si parla oppure nello sguardo certo e deciso che ti infilza da parte a parte, come se volesse penetrarti nel cuore.
“Ho parlato a lungo ieri con il nostro Perigliani – continuò il cavalier Carmignani – e davvero m’ha fatto di lei un ritratto molto lusinghiero. M’ha accennato dei suoi studi di ingegneria portati a termine con profitto, del viaggio di studio negli Stati Uniti e pure dell’esperienza alla Tentronic. Non se ne abbia a male. Se è finita così non è certo per la sua incapacità. Gli incapaci sono i proprietari di quella società. Ebbero una grande fortuna con il boom della telefonia portatile ma non riuscirono a prevedere il mercato. Ed è importante prevedere e anticipare il mercato, perché se non lo fai, è il mercato stesso che ti fotte, proprio quando credi che le cose abbiano preso l’andazzo giusto”.
L’ingegnere si sentì all’improvviso edificato da quelle parole. Ne fu tanto incoraggiato da prendere persino la parola, e con un bel piglio, per giunta: “la ringrazio cavalier Carmignani, lei mi lusinga sin troppo. Certe ferite sono difficili da rimarginare. Comunque, al di là del fatto personale, sono convinto che solo gli Stati Uniti riescano a forgiare costruire il manager ideale, inculcandogli in capo come outsorsare, come fare gross margin capital gains, in quali innumeri modi capitalizzare, che è d’altronde la cosa più importante per gli azionisti”.
“Per ottenere buoni risultati infatti non basta la produzione. Ci vuole la ricerca, ma soprattutto il marketing. Oggi bisogna assolutamente webbare, in questa sorta d’erebo aereo aleggiante inconsistente che è la rete” chiosò quasi in un osanna Carmignani.
L’ingegnere, preso dall’entusiasmo della new economy, si fece scappare una giusta domanda, che tuttavia, per qualche strana ragione, parve importuna: “ma che si fa in questa festa? Voglio dire, la Nihil di cosa s’occupa, cosa produce, che goals si pone, perché ne ho visti d’impianti imponenti in vita mia, ma mai alcuno minimamente agguagliabile a questo. Solo per raggiungere questa palazzina ho fatto più di tre ore di sueggiù updown per queste colline, tutte inframezzate da altri insediamenti industriali satellitari, tutti più o meno join-ventured afferenti alla Nihil”.
Carmignani non si scompose affatto, ma mantenne il suo portamento cerimonioso glissante intatto: “è fantastico vero? Si tratta di un’opera ammirevole mirabile, che ti prende nel cuore, queste masse di cemento che s’impongono sulla natura, questo sbattere dei magli, le bettoniere costantemente ruotanti, lo sbancamento continuo che sottrae alla montagna tonnellate e tonnellate di terra per costruirvi supra ancora nuove palazzine, nuovi magazzini, nuovi insediamenti, ancora e ancora e ancora”.
Quegli ultimi “ancora” reiterati e reiterati lo spaventarono inverosimilmente. Inoltre, a fronte di quella pletorica tecnologica prosopopea, il Carmignani alla fine non aveva per nulla risposto alla sua pur naturale banale domanda; cosicché, divenuto d’un tratto audace a causa d’una invitta curiosità, non pensò minimamente d’arrendersi e continuò a impetrare senza alcuna schifiltà. Cercò anzi di mettere in atto una manovra più sottile, una sorta di aggiramento che non andasse direttamente al punto, ma piuttosto svisasse stornasse, elcubrando su argomenti astratti e tutt’altro che pertinenti al mistero presunto.
“È uno spettacolo eccezionale quando un meccanismo funziona e ogni sua minima parte non è inutile ma funzionale…Già: funzionale…ma funzionale a che cosa? Perché il meccanismo è bello appunto se funge, anzi è proprio la funzione, il funzionamento a rendere interessante questo insediamento”.
“Guardi, caro ingegnere, per ragioni di organizzazione interna, non m’è concesso dire di più. Capisco la sua curiosità…e che diamine, anch’io mi chiederei per prima cosa che cazzo debbo fare in questo dannato stabilimento, ma mi creda, non è una questione personale”.
“Non voglio insistere, è una faccenda vostra. Dunque, se ho bene compreso, posso considerarmi assunto?”
“Si figuri, alla Nihil non siamo mica così poco avveduti. Perché dovremmo farci sfuggire una risorsa umana come lei e, per di più, amico fidato dell’ingegner Perigliani. Venga pure domattina, che intanto le allestiamo un ufficio e approntiamo le pratiche dell’assunzione”.
Non chiuse occhio per tutta la notte. L’emozione era stata troppo forte. Dopo aver sfiorato il limite del baratro, le cose si erano sistemate in brevissimo tempo. È vero che la fortuna non è poi così madrigna; spesso ti soccorre quando non te l’aspetti, quando hai già perduto ogni speranza e ti trovi in mezzo ad una strada.
Verso l’alba il sonno si fece più rilassato. Sognò Gianna, nuda, mentre lo toccava, poi lo sfiorava con le labbra in ogni parte del corpo, seguendo un disegno ben preciso che dai piedi arrivava ai genitali….
S’alzò molto presto, cambiò vestito, scese ad aspettare il Perigliani. Sarebbero andati insieme, con la sua auto, poiché la Nihil si trovava dall’altra parte della città, a parecchi chilometri di distanza. Non vide nemmeno Gianna, sebbene cercasse di scorgerla con rapida scorta dal minuscolo microbico pertugio della porta. Intravvide la sua vestaglia svolazzante e gli sembrò di rivivere per un istante il sogno polluzionale pulsionale notturno.
Perigliani fu gentile. Iniziò a parlargli degli anni dell’università, sebbene orbene l’ingegnere neoassunto cercasse continuamente indefessamente di spostare traslare ogni volta il discorso sul suo nuovo lavoro. Senza tuttavia scoprire molto. All’ingresso del cantiere un funzionario li salutò ossequioso. E l’ingegnere incominciò a sospettare che il suo amico non fosse proprio l’ultima ruota del carro in quella ciclopica azienda. Il Carmignani lo aveva assunto su due piedi, senza seguire gli steps abituali in simili organizzazioni, la valutazione dell’ufficio personale, il consuelling del responsabile alle risorse umane, la disponibility reccomandation da parte di un department, le prove attitudinali, l’assessment, il q.i., la restitution, l’ultima valutazione collegiale, la firma del subsidiary president e del chief executive officer. Era bastata solo soltanto una parola del Perigliani…
Salirono e scesero updown più volte all’interno del cantiere com’era ormai consuetudine. Poi i due si recarono assieme dal Carmignani, con il quale definirono gli ultimi dettagli tecnici e logistici, dov’era la mensa, gli orari, le modalità di timbratura del cartellino, ferie, agevolazioni, livelli, remunerazioni e così via.
Alla fine, tutti insieme presero l’ascensore, ma non salirono, poiché quello strano edificio si sviluppava in eguale maniera sia verso l’alto che verso il basso, ovvero sottoterra. Pigiarono così il tasto –7, il che avrebbe potuto far pensare a una sorta di insediamento minerario. Quei meandri sotterranei, ai quali giunsero dopo alcuni minuti di discesa, peraltro non differivano molto dai piani superiori, tant’era ovunque ogni cosa artificiale, l’illuminazione, la climatizzazione, le vetrate brunite translucide che comunque avrebbero distorto qualsiasi panorama naturale. Dopo aver attraversato una serie di corridoi pullulanti di gente indaffarata entrarono in un ufficio al quale s’accedeva attraverso un’anticamera. Al centro una sobria scrivania. Poltroncina. Alcantara. Rosso cremisi. Una signora di mezz’età s’alzò prontamente, porgendogli la mano. Sarebbe stata la sua segretaria personale. La signora Carigliani. Ne fu quasi imbarazzato, e sorpreso, per il ricorrente omoteleuto nella faccenda.
“Guarda, qui hai tutto il fascicolo con le notizie che ti potrebbero essere utili”, disse con tono quasi ironico Perigliani.
“D’accordo, ti ringrazio per lo sforzo. Ma io non ho ancora capito su quali basi devo lavorare, quale target devo mirare, che tools utilizzare, quali account contattare. Insomma, Perigliani, che cazzo devo fare?”
Perigliani fece un cenno con il sopracciglio al Carmignani e alla Carigliani, un po’ discosta, come se volesse scusare quell’irruenza fuori luogo. Poi intervenne cercando di chetare le acque sedando gli animi, o viceversa: “non accalorarti, hai ragione, sono pure io d’accordo, ma esiste una regola aziendale che prescrive il segreto finché la struttura non sarà completata in tutte le sue infinite join-ventured ramificazioni articolazioni. Tuttavia, se apri quel dannato file, con i tools check next back forward refresh link avrai certamente notizie utili per il tuo lavoro”.
Si sedette sconsolato, mentre i due s’allontanavano pispigliando. Sfogliò quelle carte con disinteresse. C’erano le fotocopie di progetti, planimetrie, bozzetti, visure camerali che descrivevano un reticolo di società consociate associate off-shore, legate l’una all’altra un po’ a mo’ di scatole cinesi. È una cosa normale in tali situazioni, per proteggere i capitali degli investitori e avere pure un bel vantaggio fiscale. Quella però non era la questione. Sfogliava e risfogliava quasi ossessivamente quei fogli vuoti che non gli potevano dire nulla. Tutto sembrava costruito sul niente, come un castello di carta che mostra solo l’apparenza d’un castello vero, e invece basta un lieve spostamento d’aria e te lo ritrovi sparso a terra in mille e mille pezzi frammenti lacerti inconsistenti.
Dopo una decina di minuti, chiamò la signora Carigliani, con la speranza di circuirla in assenza dei Perigliani Carmignani: “senta, sto analizzando ‘ste carte, ma credo ne manchino alcune, e di sostanziale importanza per di più, ‘ste carte”.
“Strano, ci dovrebbe essere tutto, ‘ste carte”, rispose quella, aggranchita impuntita.
“Ma mancano le cose essenziali, l’oggetto della produzione, le previsioni di vendita…”
“Mi dispiace, gliel’hanno già detto Carmignani Perigliani, sono cose che per il momento non è concesso di sapere”.
Egli raggelò, sentendosi irretito in uno strano ordito, del quale non riusciva a scorgere le ragioni. Che cosa poteva giustificare quell’immane sbancamento, quella turpitudine cementizia perpetrata in faccia alla divina natura con siffatto inumano tormento?
Uscì allora nel corridoio dove una corrente mislèa umana si scorridoiava diramava correndo attraverso decine e decine e decine di cunicoli che s’aprivano sia a destra che a sinistra. Quasi fuori di senno incominciò a chiedere a chi gli passava innanzi che cosa si facesse in quel luogo, ma da nessuno ebbe nemmeno un cenno. Rimanevano tutti zitti ritti, rispondendogli a malapena con un segno di severa riprovazione, aggrottando la fronte, stringendo le labbra..
Provò e riprovò; chiese e richiese. Ma non c’era nulla da fare. L’omertà e l’aposiopesi erano assolute, come se quegli automi lavoranti correnti scorridoianti si trovassero in uno strano stato ipnotico, che rendeva tutto etereo, etereo e lieve, lieve ed etereo. D’un tratto impallidì, sbiancando scialbando, è ovvio. E iniziarono ad affollarglisi glisi nella capoccia, sua, strani bislacchi sospetti: forse il Perigliani aveva scoperto il tradimento e lo voleva punire segregandolo in quell’anfratto sotterraneo supervacàneo, dove non sapeva né per chi dovesse lavorare, né che cosa dovesse fare, divenendo un essere insensato frustràneo? Una sorta di punizione che rendeva parossistica l’alienazione lavorativa, facendone un’occupazione acefala, come quella d’un cavallo da soma che tira e sgroppa menando su e giù il carro, pe’ greppi erti e scoscesi, ma senza portare manco un po’ di farro?
S’aggirò per qualche ora in quei piani sotterranei, tanto che si sentì a poco a poco soffocare tanto gli apparivano anch’essi frustrànei. Forse quel nome – Nihil – aveva un senso, un senso tragicomico e irriverente. “Niente” nothing nada rien Nichts, cioè quello che si sarebbe fatto in quella fabbrica imponente. Tentò di non pensarci più. Era solo una folle congettura della sua mente bizantineggiante. L’idea del segreto aziendale poteva pure aver un significato ben congetturato. Evitare lo spionaggio industriale, mantenere un po’ di suspence tra la gente, onde accrescere l’attenzione sul prodotto, una nuova strategia pubblicitaria, già, una nuova strategia pubblicitaria.
Cazzeggiò remenandosi per parecchie ore. Il tempo passava molto lentamente. Giornata interminabile. Prima di congedarsi dette un’occhiata alla Carigliani, magra e smilza. Si muoveva misuratamente, le mani affusolate saltellavano ritmicamente sulla tastiera del pc, con un succedersi del tichettío irregolare, ora più intenso e frenetico, ora frammisto da lunghe pause di silenzio, cui seguiva talvolta un touch tocco più deciso. Ma che stava scrivendo? Una curiosità morbosa lo prese al ventre, tanto che vi si soffermò, in apparenza inosservato.
“Cosa sta guardando?”, chiese invece quella con tono di sospetto, chinando leggermente il capo verso di lui e smettendo immediatamente la battitura. “Non pensi nulla di male, non le guardavo le gambe come un maiale. Sono rimasto attratto dalla danza del suo digitare, una vera e propria digit-dance. Che armonia, che agilità”.
“La ringrazio, ma dopo dieci anni di battitura sulla tastiera s’iniziano a economizzare tutti i movimenti e si diviene via via più lievi ed elastici. Purtroppo non è una grande virtù la battitura sulla tastiera e significa, tra l’altro, che nella vita non s’è fatta molta carriera”.
“Non si sminuisca così. Nessuno deve farlo. Ma che cosa sta touch scrivendo tanto alacremente celermente? Dev’essere cosa importante visto che l’orario di chiusura è passato già da molto”.
La Carigliani si ritrasse subito, con un mezzo sorriso di circostanza, molto più eloquente di qualsiasi parola. Aveva capito dov’egli volesse andar a parare e, per non incappare in qualche bisticcio, preferì tacere, accennando appena un saluto posticcio.
Il giorno dopo l’ingegnere ritornò alla fabbrica con un’insolita energia. Non ebbe nemmeno il tempo di salutare Gianna, né d’aspettare il Perigliani. Prese l’autobus che partiva dalla piazza grande alle sei e mezzo. Giunto al suo ufficio, vi si gettò letteralmente a capofitto. Si mise a scrivere vorticosamente. I fogli roteavano nell’aria per l’azione del braccio che sussultava a stratta. Ma cos’era successo? Quali ragioni erano alla base di quel cambiamento che riportava alla vita un uomo ormai perduto e tristo e spento e perento?
In effetti aveva preso a scrivere un business plan mettendolo in storia, così per distinguersi dal linguaggio stile aglosassone imperante dominante nel manegement contemporaneo. Non s’era messo in testa di fare lo scrittore. Né era uno di quelli che scriveva per sfogo iracondo, per testimoniare agli altri, al mondo, delle proprie gioie e delle proprie sfighe e dei propri rancori e dei propri rimorsi. Credeva che le cose così fossero più immediate benché figurate e non avessero bisogno di ulteriori explain spiegazioni.
Dopo alcune ore di attività convulsa, consegnò alla Carigliani un fascicolo enorme, tanto che ella fece fatica a riporlo da sola sullo scaffale vicino alla porta. L’avrebbe dato da leggere al Perigliani, alla prima occasione.

 

5. La pioggia

Iniziò a piovere. Scoppiava dalla felicità. L’ingegnere. Rincasò con l’autobus, l’ingegnere, il numero 23, che dalla zona industriale conduceva proprio nei pressi del suo abituro. L’ingegnere. Pur trabalzato dagli scatti improvvisi del mezzo, continuava a ridere da solo, sussurrando qualcosa tra sé e sé. Una vecchina, seduta proprio di fronte, lo osservava incuriosita, con sguardo pietoso.
La zona dove abitava il Perigliani era molto caratteristica. Costituiva il centro storico della città, eretto in epoca medioevale sopra i resti dell’antico insediamento romano. Mostrava tutti i segni del tempo. Soprattutto quando pioveva a catinelle come in quel giorno. Le case erano aggrappate al colle e le stradine, perlopiù lastricate da blocchi di arenaria sconnessi, si trasformavano in rivoli d’acqua e motriglia fanghiglia. Questi si raccoglievano nei luoghi in cui la pendenza diminuiva o la strada formava delle vere e proprie cavità. I profili delle case, piuttosto piccole e rabberciate, si riflettevano così in quei bizzarri acquitrini, tremolando in modo inconsueto sia per il tamburellare costante e ordinato della pioggia, sia per i chiaroscuri provocati dall’illuminazione artificiale. Tale luiòla rendeva le piazze quasi ondeggianti e sfocate, per non parlare dei rumori attutiti e ovattati dalla pioggia scrosciante.
Dopo essere sceso in piazza della Borsa, camminò velocemente, con un passo che mostrava esso stesso una certa boria vanagloria. Perigliani non si trovava in casa, era impegnato in una cena di lavoro per un problema inatteso sorto in fabbrica. Nonostante fosse bagnato gualmo, bussò alla porta di Gianna. Questa gli portò degli indumenti di ricambio, ma nel momento stesso in cui ebbe iniziato a spogliarsi, fu colto da una forte eccitazione. Noncurante del luogo, la spinse all’interno, baciandola con irruenza al collo, alle orecchie, sulle labbra, abbracciandola, stringendola con passione irrefrenabile, toccandole prima i seni, poi le natiche, infilandole le mani dentro la gonna, palpandola sfiorandola pigiando ora più debolmente ora più violentemente in una totale profusione di emozioni e sensazioni. Sempre più forte, sempre più forte.
Fecero di nuovo l’amore, questa volta con maggiore intensità, come se oltre al piacere del corpo ci fosse di più, chiamiamolo sentimento emozione empatia amore eros attrazione pulsione affezione feeling libido libidinale consensuale, o qualcosa di simile similare. Rimasero per un po’ nudi ignudi a letto, stringendosi e accarezzandosi. Il suo pensiero, tuttavia, ritornò quasi subito al lavoro che aveva fatto il mattino. Ne parlò così a Gianna, interrompendo il romantico coniugio adulterino. “Un nuovo progetto? Alla Nihil? Che dici, sei diventato suddenly improvvisamente cretino?”, fece lei quasi con un sobbalzo, cambiando postura e sedendosi sul rialzo.
“Perché ti pare così strano? Anch’io non ho trovato grande collaborazione nei colleghi. Se ne stanno tutti per le loro. Sembra quasi che nascondano qualcosa. Ma non è possibile. Se la Nihil nascondesse qualcosa, che ne so, traffici illeciti, clandestini contrabbando droga tecnologie biotecnologie prostituzione pedofilia scoptofilia pornofilia, non autorizzate legalizzate liberalizzate, non avrebbe avuto senso edificare quella costruzione gigantesca, che la possono vedere tutti”.
“E allora?”, chiede lei, fingendosi incuriosita.
“Non conosco bene le strategie commerciali della Nihil, delle quali nemmeno tuo marito m’ha voluto informare, ma certamente questo so, che il marketing relazionale può esistere pure senza l’oggetto, ovvero si può fare pubblicità a un prodotto che non esiste. Anzi, ciò che conta è solo la rete, il labirinto, il vuoto vano vacuo inane girare passare rigirare”, dice lui.
“Ancora non colgo il nesso, cosa significa un prodotto che non esiste?”, chiede lei, fingendosi incuriosita.
“Nella scienza del marketing ormai s’è fatto di tutto e la gente è diventata refrattaria a qualsiasi novità”, dice lui.
“Così…”, dice lei, fingendosi incuriosita.
“Così io non gli mostro niente, non gli comunico niente, anzi gli mostro indico esprimo solamente di non vendere niente. Sono convinto che abboccheranno: alla gente interessa ormai solo il movimento, il passaggio, il fluire, la relazione, il vuoto vano vacuo inane girare passare rigirare. Non più cose, oggetti, beni d’uso. Solo reti, stradine, corridoi. Se ti interessa, ho scritto queste pagine – continuò tirando fuori dalla borsa un bel plico –, non preoccuparti, non è un vero e proprio dossier oneroso tedioso. Piuttosto ti dovrei raccontare la storia retrostante, anzi no, che scemo, te la sto raccontando seduta stante e questo è un inciso al suo interno insidioso. Talora è difficile riconoscere la finzione dalla realtà, poiché noi non facciamo che fingere continuamente alacremente, sia nel privato che nel sociale: il marketing brainstorming è in fondo un imbellettare, un coprire coi pizzi merletti, tutt’altro che qualcosa di solido concreto reale”.
Gianna strabuzzò gli occhi (dopo l’intiero digredire e non solo quest’ultimo colloquio parentetico, tutt’altro che esplicativo). Com’era possibile che quel boscimane ottomano in un solo giorno avesse scoperto l’arcano? Nel suo delirio creativo aveva toccato quel nervo discoperto che il Perigliani con tanta cura aveva evitato di tener aperto…come avvertirlo, chi avvertire? Densi complessi i pensieri che invasero in quel momento la mente di Gianna, mettendola innanzi al baratro della scelta/nella quale ogni via per tornar ebbe divelta./Quale il miglior consiglio?/Advertire indarno il tapino o allearsi col Periglio?
“Non è necessario che mi narri ancora ad infinitum la tua orbicolare storiellina, perché così non si va a parare in nessun luogo, se non al frenocomio. Hai fatto solo una scoperta peregrina: tutto un cerchio, un inutile cerchio, ben lo sappiamo…e non in virtù d’un divino divisamento, quanto a cagione d’uno stolto babbalèo umano intendimento. Per una cosiffatta ragione stai correndo un grande pericolo” disse allora Gianna quasi soffocata, come un borborigmo che le provenisse ventriloquante bruiante dal ventre.
“Pericolo? Stai scherzando, forse sono in pericolo qui tra le tue braccia, preda della magia ammaliatrice che infondi col flessuoso flettersi della tua vellicante presa? Oppure sta rincasando tuo marito, e Periglio è l’infausto epiteto a indicare appunto l’indole pugnace feroce che solo in rare occasioni egli mostra dimostra con scherano piglio?”
“Non si tratta della nostra sùcida storia, sciocco. Al Perigliani non frega niente di me, è sempre assorto nei suoi luschi affari, con la Nihil. È una faccenda che riguarda la fabbrica, perché devi sapere che dietro non c’è solo lui, ma c’è tutto un torbido ordito, un’organizzazione reticolare orbicolare anch’essa…”
“Sarà forse il Carmignani a tenere il liccio di tal infido ordito, l’ho conosciuto, mi pareva una brava persona”, soggiunse ancora sorridendo, imbelle quanto può esserlo un inconsapevole rubelle.
“Non è così innocuo come sembra, ha un curriculum da far rabbrividere. Ne va – te l’ho già detto – dell’infido ordito”.
“E come potrebbe risultare l’ascitizia espletiva insulsaggine del mio progetto di nocumento a siffatto ordito? Che cos’è più innocuo inesistente insipiente del niente?”
“La morte. Anche la morte è niente”. Quell’amaro apoftègma le uscì dalla bocca lapidario, non come il fiore in boccio d’una parola dolce eufonica, bensì simile ad un afflato raggelante, quale lo stridío dello strige, o lo strigío, che rotea funesto infesto nell’aere circostante. Il gelido ànsimo del nulla, da questo egli si sentì sfiorare in que’ trepidi istanti; e senza nemmeno aver la forza di chiedere qualche ulteriore spiegazione, se n’andò di filato. In effetti, a meno che Gianna non fosse stata vittima d’un rabbruscamento del cervello, egli si trovava veramente nei guai. A giudicare dalla sua forza finanziaria e politica, la Nihil non avrebbe avuto alcun affanno a eliminare un misero impiegatucolo di fresca nomina, e per giunta senza patir alcun danno.
Ciò nonostante, dentro di lui era scattata la molla della curiosità. C’era qualcosa di inquietante ma pure intrigante in quella faccenda, in cui suo malgrado si trovava impaniato da capo a piedi, o invescato, se volete, come dentro una melassa appiccicosa, tenace pertinace. Da capo a piedi.
Gianna gli aveva dato le chiavi del vecchio appartamento che non distava molto da lì. Il Perigliani non ne conosceva l’esistenza. Si trattava di un lascito segreto del suo primo marito, dopo che questi partì all’improvviso per il Brasile. Aveva incontrato infatti una ballerina che lo aveva sedotto, nonché indotto ad abbandonare tutto, pure una professione agiata che esercitava in città. Ma, lacerato da qualche sperso e sparuto e sporadico senso di colpa, costui decise di donare quel vecchio appartamento a Gianna, dando precise disposizioni al notaio Grifagni per la voltura.
Comunque sia, in quel luogo sarebbe stato al sicuro almeno per un po’, ma non troppo perché pare che l’organizzazione disponesse di sistemi di sorveglianza e spionaggio molto agguerriti e non ci avrebbero messo molto a scoprirlo que’ niquitosi e a scaricargli addosso una serqua di sorbe.
La sua nuova locazione non era in effetti dissimile dalla precedente. Si trattava di uno stabile certamente più grande, edificato in periodo neoclassico. Alcune finezze architettoniche come i glifi frontali, le istoriature del portale d’ingresso e l’atrio esàstilo frescato di tutto punto con arcaici idilli pitti da mano sopraffina e perita, palesavano una grandigia difficilmente riscontrabile nei caseggiati un po’ lugubri ch’attorniavano quell’esile e timida piazzetta. La pioggia comunque si stava diradando. S’udiva ancora il lamicàre dell’acqua, ma, non si sa per quale variazione dello sgrondare, si poteva intuirne il lento e inesorabile scemare. Entrò col cuore in gola nell’ingresso principale. Entrò ingredendo nell’ingresso. Paura, egresso. Non riusciva ancora a razionalizzarne la ragione, ma aveva paura. Fibrillazione. Aritmia tachicardia. Lo rese diffidente pure un furgoncino Ford, vecchio di parecchi anni, bianco e rosso, posteggiato sopra il marciapiede, quasi ad obstruire il portone. Diede un’occhiata rapidissima all’interno. Vide un mucchio avvincigliato di tabarri pastrani strapanati lucchi clamidi coperte difficilmente distinguibili nell’oscurità, era un uomo nascosto?, ma no, è l’illusione ottica che mossa dal terrore ti fa vedere il nemico ovunque, anche nelle ombre della notte, negli ammassi informi delle immondizie, tanto più allusivi suggestivi per questa loro informità sozza deformità. Provò un paio di chiavi nella toppa schiavacciando un bel po’ prima di trovare quella giusta, mentre con la coda degli occhi roteanti roteando continuava a guardarsi cinesteticamente sinesteticamente alle spalle, cercando d’armonizzare l’udito colla vista. Come se non bastasse, non funzionava la luce delle scale. Sabotaggio misfatto artefatto? Forse al prossimo piano avrebbe trovato il Periglio, con la daga in mano e il drappo vermiglio?
Anche per salire quell’erte scale, anch’esse sconnesse sconnesse anch’esse, dovette adagiare ambo le mani al muro biscanto, sdrusciandole ghermendo graffiando tastando di volta in volta la parete per seguirne l’andamento infranto, pianerottolo rampa pianerottolo rampa pianerottolo, finché per sbadataggine ma soprattutto per il buio, sebbene gli occhi suoi si stessero alla situazione adeguando, poggiò la mano dietro una lesena, proprio a pigiare un campanello. Tenebría illune. Ring ring ring, rimbombò nella notte quel suono funesto, risuonando echeggiando sin fuori nella strada. Assordante. Ridondante. Drin drin drin. Lui sussultò, quando dalla porta appena aperta scricchiolante sinistramente cigolante fluì emanante un lumignolo corruscante, che con il suo potere ignivomo ne inchiodò l’ombra sulla parete intrisa d’umidore. Quel luogo parve immediatamente bagnato dallo chiarore, come il fluttuare dell’onda invade la battigia e rivolge travolge arcigne granziéole dondolanti tra l’ombre e il lucore, sbattendole e risbattendole, risucchiandole e rigurgitandole, sulla spiaggia senza il minimo pudore.
“Chi è, chi è”, rimbombò ancora più decisa una voce nascosta, anch’essa inondante echeggiante, quasi quanto la gibigiana soprastante. Tuttavia ne fu sulle prime atterrito. Dov’ero finito? si chiese tremante, dove cavolo m’ha mandato quella troia di Gianna conturbante, forse m’ha teso un tranello che diviene vieppiù un intricato rovello, facendomi credere nella salvezza, e serbarmi invece una metallica tagliente carezza?
“Me ne duole infinitamente, sono io che ho sbagliato in questo buio píceo impeciato poggiandomi erroneamente bel bello sul pulsante del suo campanello”.
“Non ha da scusarsi. Ho già avvertito avant’ieri l’amministrazione Impellizzeri, ma non si sono fatti ancora vivi quei masnadieri. Debbono attendere che qualcuno ruzzoli proprio giù per le scale, oppure che schiacci il muso sul muro, il muro sul muso, spaccandosi il setto nasale, per precipitarsi qui tutti trafelati costernati meravigliati, l’Impellizzeri, l’elettricista, l’internista dottor Carugati”.
“Io sono nuovo, debbo andare al piano di sopra”, cercò di svincolarsi giustificarsi, a mezzo tra il sentirsi colpevole e la paura dannata delle responsabilità altrui. Tuttavia il tono di voce di quel misterioro personaggio, che permaneva nell’ombra a parlare come se il suono provenisse dallo spiraglio di luce, alfine lo tranquillizzò placò rendendolo meno truce.
“Ma che sta a fare colà, tutto infradiciato. Entri pure, così almeno un po’ s’asciuga e le offro un esculènto liquorino che faccio io, con le mie mani, in casa”.
Entrato in quello strano appartamento, fu subito sorpreso dal numero indefinito di mobili suppellettili quadri oggetti, sì d’averne un senso di saturazione. Credenze credenzine, scrivanie studioli cassettiere specchi lussuosamente incorniciati divani poltroncine tavoli tavolacci oggetti oggettini soldatini, statuette statuine scatole scatolette bicchieri tazzine, affollamento saturazione, timore d’oblivione, horror vacui o vacuitas horroris, quadri quadretti, paesaggi montani lacustri padulinghi palustri tristi assolati nebbiosi dal sole incendiati, ritratti di donne uomini bimbi del secolo scorso trascorso, accatastati accatervati. E quell’uomo dall’aspetto belligero, canuto sanguigno in certe gesta e dalla giornèa ch’emanava coll’eloquio sì duro arcigno, cadenzava commentando qui e là quella visita bizzarra dell’ospite benigno.
“Quanti libri!” esclamò l’ingegnere innanzi a una muraglia di volumi di tutti i generi, accatastata accatervata anch’essa, accozzaglia disordinata ma sicura nella scelta dotta edotta, propria d’uno studioso o di colui che dedica alla sapienza il proprio riposo ristoro ozioso.
“Sono un teacher insegnante in pensione. E la mia unica occupazione, solo come son rimasto, è l’assidua lettura della tradizione. Vede però come sono ristretto, mi cade addosso della roba ovunque io mi metto, è da anni che cerco un luogo più adatto di questo miserabile intricato anfratto, ma ci vogliono troppi soldi, e poi il trasloco, il riordino di tutte queste cose, oggetti, mobili… Prima o poi me ne andrò, all’altro mondo intendo, e allora chi se ne frega di tutto questo casino, finché posso tiro avanti, a meno che non mi diano lo sfratto”.
“Perché dovrebbero sfrattarla? Non paga regolarmente l’affitto?”
“Per chi m’ha preso. Mi crede lei capace d’appigionarmi senza versare la giusta pigione? Mi crede davvero capace di una tale meschineria degna d’un fellone?”
“No, no. Facevo così per dire. Dicevo dicendo. No, no”, l’ingegnere schivò a fatica gli effetti della sua importuna elucubrazione.
“Alludevo invece alla sicurezza. Qui prima o poi crolla tutto. È solo questione di tempo, hanno già fatto dei rilievi l’altro mese, ma la pratica è stata insabbiata. Sa, il proprietario di questo stabile così rabberciato, anche se non sembra, è un pezzo grosso, molto grosso…”. L’uomo sentì così il bisogno di giustificarsi e, mimando colle mani la grossezza di cotal pezzo, la sua pezzatura, fece nello stesso momento un rapido gesto col capo affinché egli si accomodasse.
Si sedette un po’ guardingo su una poltrona degli anni venti, appena liberata da una pila di giornali vecchi. Hoffman liberty Thonet, molto lineare, ma con le tappezzerie irrimediabilemente lise consunte perdute dall’umido e dalla polvere. Girò gli occhi incuriosito, non potendo fissare alcuna cosa in particolare, tant’erano tante tantissime bizzarre curiose. Poi ruppe quei pesanti pressanti istanti di silenzio nei quali il professore era quasi rimasto impietrito, incapace di iniziare un qualche discorso d’acchito: “mi scusi per l’impertinenza, ma che cosa un tempo insegnava?”
“Innanzitutto sono io a scusarmi, non mi sono nemmeno presentato. Mi chiamo Irniani e insegnavo greco al liceo”.
“Lingua onusta…”
“E pure vetusta”, fece il verso l’Irniani barbassoro. “Già quando andai in pensione era ormai quasi del tutto scomparsa dalla scuola, poche classi. La maggior parte degli alunni era invece impegnata nelle materie sperimentali, tedesco inglese francese spagnolo, come se apprendere una lingua morta fosse inutile perdita di tempo rompitura di coglioni senza senso”.
“Eppure è proprio in quella matrice linguistica che ritroviamo noi stessi, la nostra storia, la civiltà occidentale. Tante parole portano seco in grembo questa lontana origine scaturigine, basti pensare che oggidì è tutta una logía…una net.logía”, commentò con un certo entusiasmo l’ingegnere divenuto dicàce, che pure aveva frequentato il liceo e aveva studiato il greco ed un po’ di miceneo.
“Negli ultimi anni rinchiuso in quest’eremo viéto romitorio solingo e abbandonato ho riflettuto anche su tale questione…”
“Ed è giunto a quale conclusione?…”
“Che in fondo quel grecaccio coturnato di merda è la causa di come viviamo oggi…nella merda appunto. Ha ben detto lei, logía, logía, tutto è logico razionale sillogistico soritico inferenziale, tutto meno la vita che male s’adatta a ogni restrizione, e anzi è tutta una illogía, illogica atopía”.
“Crede davvero che il consumismo comunistico attuale dipenda dalla nostra Ellade mitizzata divinizzata e non da una deviazione dei meccanismi del desiderio insiti nella natura umana?”
“Se lei allude all’inconscio, si tratta ahimé anche di quello, certamente, è una scoperta greca, chi meglio dei tragici greci ha descritto evidenziato celebrato questa potenza oscura nefasta che intride le nostre membra e ci fare inconsultamente improvvidamente capestrerie e birbonate d’ogni sorta?”
“Ma chi più dei filosofi greci ha posto le basi per parlare davvero di coscienza e quindi, solo in secondo momento, come per derivazione, di inconscio, bacchico apollineo apollineo bacchico, menadi passàridi nereidi oreadi, l’izza funesta del pelide Achille/non è lo scarduffarsi d’un povero imbecille/ma è il segno d’una forza oscura/che la coscienza desta ancor più impaura?”
“Forse ha ragione, complimenti per l’ortoepica favella, e l’uso della ragione. È che in queste cose non si sa come raccapezzarsi, a dire se prima vi fosse il conscio dopodiché sopravvenne l’inconscio, o viceversa…”
“Forse questo nostro desiderio represso che ci fa tanto mangiare trangugiare da correre continuamente al cesso, forse tale desiderio è figlio cilàndro del progresso, e non di qualche misterioso recesso”.
Quell’argomento fu quasi introdotto a puntino, quale bislacco ordigno del destino. Sul tema del concupire si sentì alquanto preso e, incurante del pericolo annunciato da Gianna, non lasciò nulla in sospeso, iniziando a parlare del suo progetto per il quale ogni cosa cara ebbe negletto. Il greco andazzo sarebbe stato messo in iscacco, cagionando a tutti que’ presuntuosi un grande smacco. Il professor Irniani ascoltava attentamente, sorpreso, vuoi vedere che quest’ingegnere così innocuo e tranquillo ha trovato il modo di disimbastire quel disgustevole ordito, facendolo funzionare come un perfetto gingillo, ma nello stesso tempo svuotandolo, sfilacciandolo senza peraltro ricorrere ad alcun cavillo? Vuoi vedere che la struttura che ci fa comperare come assatanati, è proprio fatta di niente, peggio d’un sadico malebolgeo contrappasso dei dannati?
Dopo un po’ s’accomiatò, era stanco molto stanco, stanchissimo. A fatica trattenne uno sbadiglio, era stanco molto stanco stanchissimo, ma come fece per girare le spalle all’Irniani che lo seguiva da tergo fin quasi sul ciglio della porta, vide una strana scatoletta di color vermiglio, disposta sopra una tafferìa, in mezzo a un ammasso di cianfrusaglie sperse come grani di granturco orzo spelta miglio. Che curiosa l’attenzione, spesso si lascia sfuggire l’importante della quistione rapita in aeree profusioni illusioni sogni sognanti in mondi eterei dissolti, altre volte invece conduce l’occhio là dove non dovrebbe, cacciandoti nel bel mezzo d’un impiccio oppure risvegliandoti di botto da quelle tanto dolci e inebrianti e aeree profusioni illusioni. Sopra quella volgare scatolaccia metallica, monocroma monotona, stampigliata in caratteri aurei zecchini, la scritta sin troppo nota: “niente”. Che ci faceva lì quella piccola scatoletta tutta sola soletta, che non conteneva “niente”? Com’era la storiella che nessuno avrebbe dovuto conoscere la marachella?
Fece finta di non essersene accorto e s’avviò repentinamente alla porta. Eppure quell’indugio d’un millesimo di millesimo di millesimo di nanosecondo fu percepito dall’Irniani, così come questa percezione dell’Irniani durata a sua volta un millesimo di millesimo di millesimo di nanosecondo fu percepita dall’ingegnere, così come questa percezione della percezione dell’Irniani dell’indugio dell’ingegnere durata a sua volta un millesimo di millesimo di millesimo di nanosecondo fu a sua volta percepita dall’Irniani.
Devesi comunque concluder qui questo mutuo percepirsi, imperocché ogni indugio si percepisce e ogni percepire è pur sempre un indugio, e tutto va avanti così nei rapporti umani, una logoclonia del sisisi. In qualche maniera egli riuscì a raggiungere lo squallido appartamento che gli aveva imprestato la maliosa Gianna.
In effetti, sebbene a caval donato non si guardi in bocca, né tantomeno in saccoccia, quell’appartamento non era troppo confortevole, anzi parve subito molto disagevole malagevole, avendo il bagno esterno e la stanza da letto bollente come l’averno, dacché dava sulla canna fumaria cocente inverosimilmente rovente. Un somaio tarlato aggricciato incombeva proprio sopra la sua testa. Vi erano sparsi qua e là vecchi indumenti, come se qualcuno li avesse lasciati in fretteffuria. Sopra un comodino di legno, piuttosto vecchio, ma con maniglie di bronzo finemente lavorate, un foglio ingiallito. Due lettere, scritte a sussulti, probabilmente con grande sforzo, spasimo spasmo: NI. Le osservò a lungo. Ancora quelle lettere, come la N e la I di “Nihil”. Era solo una suggestione. Un’ingannevole suggestione. Non poteva esser diversamente. Altre erano le ambage che in quel momento lo assillavano e gli affollavano la mente, altre l’ubbie che lo rendevano quasi fremente. L’Irniani ne sapeva qualcosa? Era parte anche lui di quella organizzazione? E se fosse stato così, cosa avrebbe potuto fare? Come sapeva il professore del suo progetto, realizzandone già un prototipo quasi perfetto? Forse esso non era poi così nuovo bello novello come aveva creduto, e qualcun’altro gli aveva soffiato l’idea, non a mo’ d’infida proditoria ladreria, ma per uno strano bizzarro anticipo encefalico che fa pensare due medesimamente, ma uno un po’ prima e l’altro un po’ dopo?
La cosa che gli venne in mente di botto fu di telefonare a Gianna tant’era oppresso, così come i bimbi impauriti come impulsiva decisione dedicano a mammà la loro prima disperata invocazione. “Temo d’essere in pericolo. L’inquilino qui sotto, l’Irniani…possiede un ammenicolo…”
“E allora?”
“Temo sia pure lui implicato”.
“Implicato in che?”
“Nell’ordito, non l’hai detto tu che c’è tutta un’organizzazione tentacolare che t’afferra t’ammaglia e tutta ti stringe costringe nel suo malaffare?”
“Certo, che c’è un ordito, un ragnatelo tentacolare che t’afferra t’ammaglia e tutto ti stringe costringe nel suo malaffare. Ma l’Irniani non c’entra un tubo. Te lo vedi mentre ti s’avvinghia e ti uncina e ti artiglia? Tranquillizzati, che non c’è proprio nulla da temere, se non il tuo stesso timore tremore. Si sa, le paure, a forza d’insistere, talora si realizzano. Nel loro oggetto, intendo”, fece imbecherante Gianna.
“Come posso esser calmo? Al solito è più facile eccitare l’eccitato che mitigarlo, colle parole”.
“Non ho mai avuto sentore che l’Irniani c’entrasse. Sennò, almeno una volta l’avrei sentito nominare dal Perigliani, non credi?”
“Forse hai ragione, è che m’è venuta indosso un’agitazione…cercherò di dormirci sopra. Però, quale combinazione…”
“Che combinazione?”
“Niente, niente”.
“Prendi qualcosa per dormire, Lexotan Tavor EN Prozac Serenase Valium Levopraid Fernobarbital Gardenal, almeno per la lassare la tensione”.
“Hai ragione, prenderò una camomilla”.
“No, è troppo leggera, non ti serve a nulla, Lexotan Tavor EN Prozac Serenase Valium Levopraid Fernobarbital Gardenal”.
Salutò e si distese così come stava sul giaciglio dalle doghe slabbrate materasso sfondato che giaceva giacente, il giaciglio, lì appresso daccanto il telefono, con lo suardo fisso su quel foglietto, scritto da chissachì, chissà quando, chissà per qual ragione. Già. Perché quei monosillabi insignificanti, e perché graffiati iscritti così tremolanti? La tensione fu sì forte che prolassò, vestito di tutto punto, ancora bagnato dalla pioggia presa nel tragitto effettuato.
Fu un sonno profondo ma difficile, difficile ma profondo. Sognava quello stesso momento, sognava di dormire, dormiva sognando di dormire, con quel piccolo margine impercettibile che gli consentiva di riconoscere appunto la distanza, la differenza tra sonno e veglia. D’un tratto, in quello strano impasto di coscienza incosciente e di inconscio cosciente, sentì uno strano crepitante scricchiolío. Legno marcescente, legno scricchiolante. Cric cric. Ritmo regolare cadenzato, ritmato, ritmo ritmato cadenzato criccato. Era un passo quel ritmo ritmato cadenzato criccato? O era il naturale ligneo moto che si torce ritorce nel passare dal viégio múcido notturno piovorno all’asciutto del giorno. Lento costante, scricchiolío scricchiolante, lento costante calpestío terrificante. S’alzò quasi desto, veloce nel buio pesto, s’accostò alla porta d’ingresso, appoggiando l’orecchio accanto lo stipite di gesso. Cercava di sentir meglio, quel calpestío crepitío trapestío era troppo ritmato cadenzato per essere cagionato dal legno inumidito imporrato, quello scricchiolío era troppo calpestato trapestato, effetto d’un passo felpato che carica lento il peso sull’arto circospetto, in parte folcendosi colle mani sul parapetto. Perché chiunque tu sia non vuoi far rumore? Perché sali lento lento da fare solo quello strano tremore?
S’assorse e repente si ritrasse. Fu preso dal panico. Si rannicchiò presso il letto, ch’era il punto più disto dalla porta d’entrata, come a voler prolungar la vita frapponendo maggiore distanza possibile tra lui e il nemico. Cercò di stare in silenzio, il più in silenzio possibile, ma pure quel respiro affannoso sembrò far troppo rumore, respirante affanno che prelude a certo danno. Che poteva escogitare per sfuggire siffatto malanno? Il calpestío calpestante cadenzato si fece più fitto e forte e sordo, anzi gli parve addirittura assordante tant’era vicino al bordo, tant’era emotivamente vicino al bordo. Pianerottolo. Ora si trova sul pianerottolo. La mano poggia al muro. Pianerottolo. Si sta soffermando schiso nei pressi della porta, la sta tastando accarezzando palpando, quasi a pregustarne la violazione.

Inulto il nimico per la porta tastata
che saria ben presto violata
non auscultò il misero ossecrante
e senza neppure mirarlo davante
con un colpo proditorio inflitto
offrì a Cerbero l’iniusto vitto.

Quegli istanti parvero un’eternità, lunghi lunghissimi istanti, sì istanti d’apparire infiniti, ma che dico, fermi, immoti, eternamente inchiodati l’uno sull’altro come in un bislacco spartito dal quale il tempo se n’è dipartito. All’improvviso una scossa, una mossa.
Cambio di livello, cambio di scena. Si ritrovò in tutt’altro mondo. Non era prima desto e forte e sveglio. Sicché il suo destino si pose finalmente al meglio. Sognava sognavo, aveva avevo sognato, dormivo avendo sognato. Meno male, m’era venuta un’angoscia insopportabile. Forse sono troppo sospettoso, forse ha ragione Gianna di prendere un neurolettico ipnoinducente ben più sostanzioso. Ma poi, dopo anche aver riposato, che farò domani? Dovrei fuggire dalla città per chi sa dove, senza una lira, senza uno scopo? L’affare s’è troppo sin troppo ingigantito. Mi pare strano che per “niente”, niente in tutti i sensi, letteralmente, io debba tribolar così. Se il Perigliani aveva davvero in mente uno strano disegno, me lo poteva ben dire, mi sarei tenuto il segreto, non sarei mica andato a spifferarlo a tutti. Sono sempre stato una persona riservata, molto riservata.

O ninfe d’Eliconia assise sull’erte forre
sin dove l’umano s’è spinto
col suo luètico agognar?
Cangiar terre natíe e giacci assolati
ove recansi liete le giumente,
diradar boschi e prati,
al germile rezzo crespi di talli germenti,
introgolar l’acque silvane
e nettunii ponti, cari alle Nereidi.
Niuno puote cognoscere
qual destino la rete serberà,
tutti nel niente aleggianti
senza veruna speme
d’elicere l’antiquo senso e il gene.

Si riaddormentò di nuovo, questa volta più beatamente, a causa dell’effetto eterizzante del Lexotan, potente benzodiazepina ansiolitica diazepam a media emivita, che riduce l’ansie e le preoccupazioni, annulla dell’inconscio invitto tutte le sollecitazioni. Tale tranquillità riacquistata tuttavia si mostrò matrigna. Fu ritrovato morto e stecchito all’indomani, riverso sul letto in una pozza di sangue prima grondante gocciolante, poi rappreso addensato in grumi rubri rubescenti rosso cupo, via via digradanti in tonalità più lievi tenui scivolanti. Almeno quell’eritrocitico emoglobinico addensamento dimostrava che qualcosa di solido solidificato, denso addensato appunto, era rimasto là davante e che non tutt’era nel niente fluttuante.
“Che cos’è successo?” gridò la signora Carmelitani del piano di sotto, vestita d’una lacera gavardína, mentre gli infermieri erano appena entrati nell’appartamento.
“Lei cos’ha visto, sentito odorato subodorato?”, gli chiese un poliziotto in borghese con far deciso, sin troppo deciso, intimidatorio, tanto che la donna s’intirizzì rangrizzì più di quanto non lo fosse reclusa nel suo romitorio; la gargia cadente floscia cascante vibrò d’un sussulto, come un sasso nella gora d’un pozzo riporta l’onda sfumante al riflettere della lucerna da sopra il cielo oscillante.
“Non ho udito nulla. Soltanto un tonfo tonfante tonfare tonf tonf, un grido soffocato, credo. Ma sa, qui la casa è vecchia, le mura sono spesse ed è difficile sentire ciò ch’avviene negli appartamenti condomini limitrofi vicini. Poi io non sono curiosa, generalmente perlopiù mi faccio i cazzi miei”.
“Ma non ha visto proprio nessuno, sentito dei passi, qualche parola, qualcuno che se ne sgattaiolasse gagnolante quatto quatto…È già la seconda volta che viene trovato morto un uomo in quell’appartamento e lei non ha mai sentito alcunché”.
“Non è colpa mia se la decrepitezza romantica leopardiana trista afflitta di quest’edificio induce facilmente al suicidio e all’umana sconfitta. Ma non insista, non posso esserle d’help aiuto”.
Come la Carmelitani ebbe finito la frase, l’occhio del gendarme ammutolito e deluso cadde zoommando su una scatoletta, innocua scatoletta, sui quali lati c’era stampigliato d’oro zecchino il solito ridondante labellizzato nome biricchino: “niente”.

Ei ne fu sì nell’animo sorpreso
che prese colla mano tal oggetto inatteso,
e chiese: cos’è questo niellato niente
ch’io pure osservo guardingo nesciente?

“Ah, è uno scherzo, uno sciocco motteggevole faceto calèffo. Direi più o meno, non è niente, così com’è scritto, un niente innocuo deficiente che non serve a niente, appunto”.
“Bella trovata, una scatola vuota con quest’assurdo banner labellizzato d’oro zecchino stampigliato. Gran bella trovata, uno sciocco motteggevole faceto calèffo… “ Il poliziotto scosse il capo sorridendo, come se ogni cosa avesse lincato. Se ne andò più lieto con i suoi sottoposti. Anche quel file, lo sapeva, sarebbe rimasto in teoria disabilitato irrisolto, suicidio omicidio senza alcun risvolto.
Ah, finalmente l’idraulico, che proprio non ce la facevo più. Ho dovuto chiudere la valvola centrale, perché quella macchia sotto la tazza del cesso s’era veramente ingrandita allargata disorlata a vista d’occhio. Poi questa preoccupazione m’ha distolto. Non sono più riuscito a scrivere una riga, oltre ai vari copia-incolla, incolla-copia.
Venga, entri pure celermente che l’accompagno subito immediatamente. Come mai così tardi?
M’hanno bloccato in un altro luogo, a cambiare guarnizioni sifoni. C’era un gruppo che aveva più di vent’anni e solo per smontare i dadi e i controdadi m’è andata una buona mezz’ora. La signora Giuseppina di via dei Capitelli, casa rossa, secondo piano, poi è simpatica, non lo so se la conosce. M’ha raccontato una miriade di storielle di quand’era giovane e c’erano gli americani. Si era innamorata di un omone alto, biondo, piuttosto muscoloso, del Minnesota. Ma nel 54 quando dovette rientrare, questi la scaricò perché c’aveva famiglia, laggiù, a Minneapolis. Insomma se l’era ben che scopata, abbandonandola poi come una ciabatta lisa e bucata. Però, lo stesso che bei tempi, ah proprio bei tempi…
Torniamo al concreto, la prego, che non è il caso di continuare su questo piano, misto commisto d’idillico e triviale. Piuttosto vede questa macchia, è grande ampia tracimante, nevvero? Mi pare si sia messa proprio male, nevvero?
Non è nulla, non si preoccupi, è lo scarico del cesso. Però verrò domani perché oggi non ce la faccio.
Come però verrò domani perché oggi non ce la faccio? L’avverte lei l’Imbriani del piano di sotto, che poco ci manca che chiami la protezione civile, organizzi una task force contro le alluvioni tracimazioni esondazioni, richiami l’esercito…
Bisogna rompere il muro e comprare i giusti raccordi. Ma non s’allarmi, lei può fare tutto ciò che vuole, tanto la perdita avviene solo quando cala l’acqua dello sciacquone. Guardi, guardi, approssimi quel suo bel capoccino. Questo tubo è marcio come mio bisnonno, che l’hanno trovato morto in casa dopo tre mesi. Non era un bello spettacolo, una mummia saponificata puzzolente e molliccia, con attorno un fiorume di mosche, moschini, lendini d’ogni sorta. Dunque, non deve farmi fretta perché è colpa della trascuratezza trasandatezza noncuranza di lor signori che poi ogni situazione si trasforma in un’emergenza. Sarebbe bastato un controllino preventivo, ma quello costa, oh si costa. Quanto costa.
Ma io dovrò pure in qualche modo cagare!
Eh, rispose l’idraulico sospirando alzando le spalle come a dire chi se ne fotte. Pensi che un cesso di questo tipo non c’ha più di cent’anni di storia. E una volta che si faceva senza lo sciacquone…
Ma c’erano ubertosi boschi, prati, valli cullate da un vento diafano e sibilante per il melodioso spittinire di cutrettole ridenti roteanti svolazzanti.
L’idraulico osservava tale digredire con aria contrita. Non riusciva a comprendere se si trattasse d’una mattería follía, nemmeno troppo divertente, o d’una vera e propria presa pel culo. Alché le cose sarebbero state ben diverse. In effetti era un individuo poco raccomandabile, 1,90 d’altezza, un quintale di peso mal riposto, tutto intorno all’addome, una barba folta che gli nascondeva un volto dai tratti probabilmente un po’ più mansueti. Ma chi avrebbe avuto l’arditezza del controllo?, come avvicinarglisi glisi fino sotto il naso per scostare quella ritrosa nerastra e scorgervi, sotto la caluggine del collo, la pelle biancastra? Quell’omone così grosso incuteva davvero un certo timore, tanto che lui non volle più questionare e smise quel suo impetuoso poetare. Che tornasse pure il giorno seguente, comunque in qualche luogo avrebbe cagato, magari sarebbe andato proprio dall’Imbriani, invocando le cause di forza maggiore.
Devo andare, ho un altro appuntamento, molto urgente, urgentissimo, urgente, ci vediamo domani, verso le 08.30, va bene? È un appuntamento molto urgente, urgentissimo, urgente.
Va bene, va bene, ho capito.
L’idraulico scese velocemente le scale, in preda a una strana agitazione. Era quasi ora di cena. La moglie gli aveva preparato un bel minestrone di pasta e patate con un mucchio di cotiche ben affumicate e ammorbidite da ore di cottura. Era una di quelle sbobbe che ci puoi ficcare nel piatto il cucchiaio e questo vi ristà bello ritto, come un vessillo, una bandiera. Poi doveva giocare alla playstation, oh sì, la playstation II.

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