Le turbolenze italiane riporteranno l’Europa sull’orlo del baratro?

“Ma l’Europa dovrebbe tenere d’occhio la politica italiana. La formazione di un governo italiano di destra, guidato da un primo ministro nazionalista, populista ed euroscettico – una chiara possibilità dopo le elezioni generali di settembre – potrebbe rivelarsi altamente destabilizzante per l’eurozona”.

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Le dimissioni dell’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi da primo ministro italiano hanno acceso ancora una volta i riflettori sulla politica disfunzionale e sulla precaria posizione di debito del paese. Ma quali implicazioni hanno per la zona euro i problemi dell’Italia e la caduta del governo Draghi?

Con il 150% del Pil, il debito pubblico italiano è tra i più alti al mondo e il secondo tra i paesi del G20, dopo il Giappone (262% del Pil) e davanti agli Stati Uniti (125% del Pil). Il debito dell’Italia è quindi aumentato di circa il 50% dal 1990, quando ammontava a circa il 100% del Pil.

C’è un chiaro legame tra l’instabilità politica e l’accumulo di debiti in Italia. Tra il 1992 e il 1995, quando il sistema dei partiti del secondo dopoguerra è crollato, il debito pubblico è balzato al 119% del Pil. Il problema non è solo l’eccessivo indebitamento, ma anche la crescita economica cronicamente anemica, con un andamento medio annuo del Pil reale a meno dell’1% dal 1990.

La capacità dei governi brevi e instabili di attuare riforme strutturali che migliorerebbero la produttività e la crescita economica a lungo termine è gravemente limitata. Inoltre, l’instabilità politica tende ad essere positivamente correlata al rischio sovrano. Lo spread tra il decennale tedesco e quello italiano supera ormai i 230 punti base. L’Italia è solo leggermente più avanti della Grecia nella percezione del rischio dei mercati dei capitali.

Per uno straordinario scherzo del destino, le dimissioni di Draghi sono arrivate lo stesso giorno in cui la Bce ha annunciato un aumento del tasso di interesse di 50 punti base, il primo aumento di questo tipo dal 2011. Dopo anni in territorio negativo, il tasso di riferimento nell’eurozona è ora zero.

A dire il vero, con un’inflazione annua dell’eurozona all’8,6% (a giugno), l’impatto di questo cambiamento di politica monetaria è sostanzialmente neutro e difficilmente indica dove si dirigeranno i tassi a lungo termine. Infatti, avendo abbandonato la forward guidance a favore di un “meeting-by-meeting approach” per le decisioni sui tassi di interesse, è probabile che la Bce inasprisca la politica monetaria più lentamente di quanto richiederebbe il suo impegno per la stabilità dei prezzi. Ma anche una moderata normalizzazione dei tassi di interesse potrebbe rappresentare un serio problema per l’Italia, soprattutto senza che la credibilità di “super Mario” contribuisca a proteggere il Paese dai capricci dei mercati dei capitali.

La Bce ha chiarito che il suo impegno a fare “whatever it takes” per proteggere la moneta unica – originariamente preso da Draghi nel 2012 – rimane in vigore. A tal fine, ha presentato il Transmission Protection Instrument, progettato per “sostenere l’effettiva trasmissione della politica monetaria” limitando la divergenza degli oneri finanziari tra i paesi della zona euro. Attraverso il TPI, la Bce sarà in grado di acquistare i titoli di Stato degli Stati membri della zona euro che affrontano “un deterioramento delle condizioni di finanziamento non giustificato dai fondamentali specifici per paese”.

La presidente della Bce Christine Lagarde, successore di Draghi, è ben consapevole dei rischi della frammentazione dell’eurozona e ha proclamato che la Bce è “capace di andare alla grande” con il TPI. Ma lo strumento è nuovo e non è mai stato testato e l’Italia potrebbe finire per essere il primo paese a testarlo.

Per una zona euro alle prese con la guerra in Ucraina, la crisi del costo della vita e una recessione incombente, le conseguenze di un esperimento fallito potrebbero essere di vasta portata. Un deterioramento della posizione debitoria dell’Italia ostacolerebbe il rifinanziamento e potrebbe innescare una crisi del debito sovrano.

Ma questa non è certo una conclusione scontata. Tanto per cominciare, i fondamentali dell’Italia rimangono relativamente forti. La crescita del Pil dovrebbe rallentare al 2,5% quest’anno e decelerare ulteriormente nel 2023, dopo una crescita del 6,6% nel 2021. Il tasso di crescita dello scorso anno, tra i più alti degli ultimi tre decenni, ha consentito all’economia di riprendersi dalla pandemia, che aveva causato una contrazione del Pil del 9% nel 2020.

Al di là della crescita economica, i rendimenti obbligazionari reali e il saldo primario corretto per il ciclo (la differenza tra entrate e uscite, esclusi i pagamenti del debito) svolgeranno un ruolo cruciale nel determinare il benessere fiscale dell’Italia. L’esecuzione degli avanzi primari mantiene stabile il debito e i bassi costi di servizio del debito lo rendono sostenibile.

In definitiva, se le condizioni rimangono relativamente equilibrate, sarà possibile gestire l’attuale rapporto debito/Pil dell’Italia. Aiuta il fatto che il paese possa beneficiare di circa 160 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti del meccanismo per la ripresa e la resilienza dell’Unione europea. Se da un lato l’instabilità politica e il mancato raggiungimento degli obiettivi concordati con la Commissione europea potrebbero rallentare o addirittura impedire l’erogazione dei fondi concordati, dall’altro tali sviluppi potrebbero richiedere del tempo prima di concretizzarsi.

A dire il vero, anche uno shock minore (permanente) ai tassi di interesse reali, alla crescita economica o al saldo primario dell’Italia, potrebbe lasciare il Paese incapace di gestire i propri debiti. Tuttavia, sarebbe sbagliato presumere che l’attuale instabilità politica dell’Italia inneschi necessariamente una grave crisi in Europa.

Ma l’Europa dovrebbe tenere d’occhio la politica italiana. La formazione di un governo italiano di destra, guidato da un primo ministro nazionalista, populista ed euroscettico – una chiara possibilità dopo le elezioni generali di settembre – potrebbe rivelarsi altamente destabilizzante per l’eurozona.

A peggiorare le cose c’è la crisi del costo della vita che potrebbe intensificarsi durante i mesi invernali, spinta dall’inflazione elevata e dalla scarsità di energia. Ciò alimenterebbe il malcontento popolare e metterebbe sotto pressione la spesa pubblica, minando la posizione fiscale dell’Italia. Con l’allargamento dello spread tra obbligazioni tedesche e italiane, anche la gestione del debito diventerebbe più difficile.

Abbiamo già visto questo scenario. L’ultima volta Super Mario ha riconosciuto che spettava alla Bce salvare l’euro e si è assicurato che lo facesse. Speriamo che Lagarde faccia lo stesso.

Fonte: ProjectSyndicate, 26 Luglio 2022