Non c’è mai un buon momento per morire, naturalmente. Ma la morte di Bruno Latour è una delle più inopportune, la più prematura, una di quelle che si ritrova con il suo tempo nel rapporto più sconvolto che si possa immaginare, una morte decisamente fuori dal tempo. Intempestiva.
Innanzitutto dal modo in cui è entrata nella sua vita, nelle nostre vite. Potrebbe averlo anticipato per molti anni, preparato per esso le molte, molte persone (me compreso) a cui teneva personalmente — e non ho mai visto nessuno mettere così tanta cura e attenzione nell’addolcire la propria morte a coloro che ha lasciato — lui aveva mostrato negli ultimi anni una capacità così stupefacente di ingannarla, questa morte, portato come sembrava essere da una gioia così viva nel pensare, da un desiderio così intenso di influenzare il più possibile il corso del mondo, che anche la morte sembrava indietreggiare per lo stupore (molti ricorderanno queste conversazioni, queste conferenze, questi discorsi, dove la gioia di lavorare su un problema comune lo animava al punto che sembrava dimenticare la malattia e il dolore, il desiderio di pensare fondendosi sotto i nostri occhi turbati con la stessa vitalità), era già riuscito così tante volte a smentire le più oscure prognosi mediche che abbiamo finito per crederci solo a metà, così che questa morte finalmente è stata un po’ una sorpresa. Poiché, senza dubbio, la morte deve venire: nonostante tutto.
Ma questa morte sembra soprattutto fuori dal tempo per il modo in cui è iscritta nella storia in quanto tale, nella storia collettiva. Perché arriva proprio nel momento in cui Latour ha finalmente saputo della consacrazione che si era meritato e che il suo paese in particolare, la Francia, gli aveva rifiutato da tempo. Viene soprattutto quando avevamo più bisogno di lui, e quando ne avevamo preso coscienza. Ho potuto scrivere che eravamo ormai entrati in un “momento latouriano”, che questo aggettivo, “latouriano”, permetteva di dire qualcosa sulla trama specifica del nostro presente, sulla figura specifica del presente che è il nostro oggi. [1]
Crudele ironia della storia: è quando è probabile che sia più efficace, perché è sia attuale che ascoltata, che scompare. Si assenta proprio da questo tempo di cui ci rende contemporanei migliori di chiunque altro. Situazione curiosa, lo stesso! Non è così facile essere contemporanei di se stessi: al contrario, si sfugge facilmente ciò che è più preciso, più specifico nei nostri problemi (e i decenni di inazione climatica lo illustrano perfettamente). Latour, al contrario, ci ha aiutato meglio di chiunque altro a ridiventare nostri contemporanei. E così, proprio nel momento in cui ci rivolgevamo sempre più a lui per non perdere questo contatto che cominciavamo a stabilire con noi stessi, lo stavamo perdendo. Come se potessimo definitivamente abitare solo un presente deserto.
Questo forse dice qualcosa di profondo ed essenziale del nostro tempo: che potremmo avere solo una relazione falsa, insolita, traballante con noi stessi. E a dire il vero, Latour non ha mai smesso di sostenere questo punto: la modernità si caratterizza per questa straordinaria capacità di darsi un’immagine mistificata. I bianchi hanno la lingua biforcuta, ripeteva in modo divertente [2] . E il compito più costante della sua opera si può ben riassumere nel sottotitolo della sua ultima grande opera teorica, del suo magnum opus: un’antropologia della modernità.
Credo che non potrebbe esserci modo migliore per rendere omaggio a Bruno Latour che essere fedeli al suo spirito, che non consisteva nel lamentare il nostro destino o nel criticare il mondo così com’è, ma una buona mobilitazione collettiva nella cura dei problemi reali, che si tratta di determinare meglio per affrontarli meglio, non perché abbiamo un dovere astratto nei confronti di questi problemi, ma perché l’unica vera gioia viene dal fatto che agiamo sui nostri problemi invece di subirli. Latour non voleva che nessuno cantasse lodi a lui o al suo lavoro. Voleva che contribuissimo, parlando di lui, ad affrontare il problema che lo faceva letteralmente vivere. Se oggi siamo collettivamente in lutto, se dobbiamo sentire la singolare crudeltà di questa morte prematura, è perché ci priva di uno dei più preziosi alleati che abbiamo avuto in questi ultimi tempi di fronte alla grande sfida di civiltà che è nostro oggi, e al quale aveva dato un nome preciso: far atterrare la Modernità.
È una delle grandi lezioni di ciò che storici e storici del pensiero chiameranno senza dubbio il “negazionista Latour” di aver lavorato instancabilmente per aiutarci a comprendere l’evento che costituisce il nostro presente, e il cui sconvolgimento climatico è una delle manifestazioni più spettacolari, ma non l’unico, dal momento che ne fanno parte anche il crollo della biodiversità, la riduzione della superficie terrestre non artificiale, l’inquinamento microplastico, ecc. Ma il problema è, come sempre, capire a fondo il problema. L’urgenza del presente è capire quale problema particolare, specifico, singolare pone questo presente. E Latour ha finito per avere una chiara affermazione su questo punto: si tratta di saper riportare entro i limiti planetari un certo modo di abitare terrestre che è stato chiamato Modernità.
In fondo, tutto il suo lavoro sarà consistito in questo: relativizzare i Moderni. Possiamo dubitare della rilevanza di questa parola: Modernità. Si ricorderà senza dubbio che molte grandissime menti hanno cercato di dire qualcosa di chiaro su questo punto (da Baudelaire a Foucault, passando per Weber, Durkheim, Heidegger, Arendt, Blumemberg, Habermas, Lyotard, Koselleck, Beck, ecc. – per citare solo i più espliciti) e che non si può dire che abbiano escogitato qualcosa di molto convincente. Possiamo quindi essere tentati di abbandonare il termine per parlare d’altro: capitalismo, mondo industriale, colonizzazione, o anche tale e tale processo o evento storico ben identificato… Latour si distingue in questo concerto per la paradossale fermezza con la quale alla fine si aggrappò all’enigma del moderno.
Non siamo mai stati moderni significava due cose contemporaneamente: primo, noi (i “moderni”) non siamo eccezionali, radicalmente diversi da tutto ciò che è accaduto, ma siamo comunque diversi; in secondo luogo , “modernità” è una parola che impedisce di descrivere correttamente questa differenza, questa specificità, le specificità di questo evento accaduto prima di diffondersi in alcune società e attraverso la colonizzazione — poi la decolonizzazione! –, a tutte le terre abitate, per poi portare finalmente via lo stesso pianeta Terra nelle sue stesse precipitose esplosioni.
Perché è un dato di fatto: si può dubitare quanto si vuole dell’esistenza di un grande evento che viene a tagliare in due la storia, con da una parte i “moderni”, dall’altra tutte le altre forme dell’esistenza umana ( l’Occidente e il resto , come generalmente si dice ironicamente in inglese), saremo costretti a riconoscere che un grande evento, di natura planetaria, è proprio accaduto di recente. Basta guardare le curve di quella che viene chiamata la Grande Accelerazione, o interessarsi alle discussioni dei geologi intorno alla datazione esatta della nozione di Antropocene, per vedere che qualcosa è accaduto di recente (tra la fine del 18° secolo e la metà del 20° secolo) che ha determinato una discontinuità radicale nell’esistenza non solo di alcune società umane, ma di tutti gli esseri terrestri, umani e non.
Anche in questo caso, il cambiamento climatico ne è ora il simbolo più chiaro per la coscienza collettiva. Ma la stessa espressione “sesta estinzione” per caratterizzare ciò che sta accadendo oggi alla biodiversità globale dice qualcosa sullo spazio di comparabilità di questo evento di cui siamo contemporanei: il nostro presente si distingue dagli altri in modo paragonabile a soli cinque eventi in 5 miliardi di anni di storia della Terra. Certo, si discute della rilevanza della parola “sesta estinzione”, ma il fatto stesso che se ne parli dà già un’idea del quadro della discussione: si misura in miliardi di anni.
L’originalità di Latour nel campo intellettuale contemporaneo deriva dal fatto che non ha mai ceduto alla profonda convinzione che qualcosa fosse effettivamente accaduto, ma che non sapevamo come descriverlo. La parola “modernità” è per lui in fondo più il nome di una domanda che di una risposta. Se è preferibile ad altri termini (capitalismo, antropocene, industrialismo, tecnoscienza, ecc.), è perché è più oscuro, più discutibile, più controverso, e quindi ci obbliga a non crederci troppo appena abbiamo capito la questione. È anche, come dicevo, che questo termine tende a bloccare dall’interno le corrette descrizioni che se ne potrebbero dare. Per un semplice motivo: “modernità” significa “che si impone, se si vuole essere contemporanei, della propria storia”.
È questa prova del moderno che Latour non ha mai smesso di mettere in discussione. Che ci sia modernizzazione è indubbiamente un dato di fatto, ancora enigmatico. Ma se sia necessaria, se sia una semplice risposta ai bisogni intrinseci del cuore umano o alle inevitabili necessità di “sviluppo”, cioè propaganda, discutibile dal punto di vista normativo, ma soprattutto inaccettabile dal punto di vista descrittivo, perché ci impedisce di descrivere correttamente questo evento mettendolo in relazione con la sua contingenza. Non siamo mai stati mezzi moderni: non è mai stato necessario che lo diventassimo.
Questo è il senso dell’espressione che ho usato (anche se forse non si trova come tale nel testo di Latour): relativizzare i moderni . Vale a dire: descrivere quale precisa scelta caratterizza la modernità, contrapponendola ad altre, anche possibili, coerenti nel loro ordine, capaci, forse, di coesistere con questa. È così che dobbiamo intendere il suo lavoro inaugurale sulle scienze. La grande leggenda sull’invenzione della scienza moderna sta semplicemente nel dire che persone molto intelligenti e intellettualmente molto libere (come Galileo o Newton) avrebbero trovato i mezzi per descrivere la realtà così com’è senza lasciarci parassitare dai nostri pregiudizi o dalle nostre superstizioni.
Fare un’antropologia della scienza, come propone Latour nel suo primo libro, con Steve Woolgar, La vie de laboratory, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1979 [4] , significa mettere da parte questa leggenda per descrivere cosa fanno gli scienziati a lavoro [5]. E, sorpresa, non vediamo tante persone che cercano di liberarsi dei propri pregiudizi per affrontare la nuda realtà, ma al contrario persone che spendono tanto ingegno ed energia per produrre realtà di un genere molto specifico, molto particolare: gli oggetti e fatti scientifici. La formula molecolare dell’ormone che il professor Guillemin stava cercando di identificare nel laboratorio in cui Latour fece la sua prima etnografia dei moderni è un’entità di un tipo del tutto diverso dagli spiriti delle api che è “stabilita” dalle pratiche dello sciamano amazzonico Davi Copenaghen [6]. Non è più reale, ma diversamente reale. Questa differenza gli dà certamente una presa sul mondo che nessun altro può dare, gli permette eventualmente di allearsi con più interessi di ogni genere e quindi di acquisire potere e autorità, ma non con tutti gli interessi però, e quindi a costo di una scelta, una selezione, a volte, spesso anche, una distruzione: l’intera questione di Latour sarà stata, fino alla fine della sua vita credo, sapere se avremmo potuto far coesistere queste realtà diverse.
E al di là di questa domanda se questa pluralità di realtà non consentisse un rapporto più equo con la realtà in generale, rinunciando a credere che potesse essere tutt’altro che la matrice di questa pluralità. Questo è l’orizzonte propriamente metafisico della sua opera, nel senso che risponde ad una antichissima domanda filosofica: in che cosa consiste l’essere?
Il grande equivoco dell’espressione “relativizzare” consiste nel ritenere che relativizzando qualcosa si cerchi di togliere parte della sua dignità, mentre si cerchi semplicemente di descriverla in modo più preciso, di precisare con più rigore proprio questa stessa dignità, caratterizzandola in contrasto ad altri modi alternativi di fare le cose. Fu per amore delle scienze e in un certo modo per amore dei moderni che Latour cercò di metterle in prospettiva: mostrare ciò che in esse c’era di così singolare, così originale, così insostituibile, senza che fosse necessario che pensare che tutta la conoscenza dovrebbe diventare scientifica o che tutte le forme di vita dovrebbero diventare “moderne”.
Non dobbiamo dimenticare che Latour ha forgiato questo progetto intellettuale di un’antropologia della modernità in Africa, e più precisamente in Costa d’Avorio nel pieno della decolonizzazione permanente, poiché lo ha fatto durante la sua collaborazione, quando doveva scrivere un rapporto per ORSTOM sulle difficoltà incontrate dalle aziende nell’“ivorianizzare” il proprio personale [8] .
Questo testo è una formidabile indagine sul razzismo e sulle aporie della “modernizzazione”, che mostra fino a che punto questo sia inseparabile dalla questione coloniale. Mettere in prospettiva i moderni significa anche rendersi conto a quale costo la modernizzazione si attua nei capillari di una forma di esistenza collettiva, con quali operazioni di traduzione, di violenza, di incomprensioni, essa si impone come l’unico futuro possibile di una società. Egli stesso ha più volte affermato di aver forgiato il suo progetto di un’antropologia dei moderni rendendosi conto che si potevano capovolgere gli strumenti che gli antropologi usavano per descrivere le società “non moderne”, i loro “rituali”, le loro “credenze”, i loro “costumi”, sulle grandi istituzioni della stessa modernità: scienza, tecnologia, diritto, religione, politica, ecc. Possiamo dire che il presupposto fondamentale di tutta l’opera di Latour (come peraltro di quella di Lévi-Strauss, con la quale condivide molti tratti), è la decolonizzazione: come andare fino in fondo alla decolonizzazione dei nostri schemi di pensiero[9] .
Questo è dunque il primo contesto del progetto di relativizzazione della modernità: la questione coloniale. Ma il lavoro di Latour non sarebbe stato quello che è per noi oggi se non avesse preso atto molto presto che un secondo contesto giustificava l’urgenza di tale impresa (un’antropologia del moderno): la questione “ecologica”, e più precisamente la Domanda “ecoplanetaria”. Va ricordato qui che è in We Have Never Been Modern, pubblicato subito dopo la caduta del muro di Berlino, proprio all’inizio degli anni ’90, che Latour spiega che la consapevolezza del riscaldamento globale (con l’avvio del ciclo di negoziati internazionali sul clima che culminerà nel Vertice di Rio) costituisce ora il quadro inevitabile del problema di ogni riflessione sulla Modernità: «Lo svolgimento a Parigi, Londra e Amsterdam, in questo stesso glorioso anno 1989, delle prime conferenze sullo stato globale del pianeta simboleggia, per alcuni osservatori, la fine del capitalismo e di quelle vane speranze di conquista illimitata e dominio totale della natura [10]. Proprio nel momento in cui il mondo cessa di essere diviso in due blocchi e quando il “modello” euroamericano sembra non avere più alcun ostacolo interno, appare un confine esterno: quello di quelli che non erano ancora chiamati i “confini planetari”. La promessa moderna si scontra con un muro, che non divide due porzioni terrestri, ma la Terra stessa con la propria fragilità: si dirà in seguito che ci vorrebbero 5,2 pianeti perché lo stile di vita americano si estendesse a tutti gli esseri umani – non c’è spazio per il progetto “moderno”.
D’ora in poi, l’espressione relativizzare i moderni cambia significato: non si tratta più di sapere quali tipi di realtà particolari o disposizioni di umani e non umani fabbricano i moderni in contrasto con gli altri, e come definirli in modo più realisticamente attraverso questo, ma che tipo di terreno lo sono, come si inseriscono nelle catene terrene per costruire il loro modo di vivere e cosa questo fa a questa stessa Terra che è sia la condizione che l’effetto di tutte le abitazioni terrene. Ci vorranno ancora molti decenni prima che Latour pervenga a una chiara formulazione di questo problema, e non si può dire che l’ultimo stato della sua riflessione sull’argomento sia quello a cui si sarebbe fermato se gli fosse stata data l’opportunità di continuare il suo lavoro, le sue indagini, la sua riflessione. Ma non c’è dubbio che avrà dedicato la sua intensa energia intellettuale negli ultimi 15 anni ad elaborare questo problema nel modo più rigoroso possibile, in alleanza con un numero considerevole di altre persone intorno a lui, come ha sempre saputo fare. Ha finito per sviluppare una formula come questa: la sfida del presente è reinserire modi di vita moderni entro i limiti terrestri. Per usare una mia espressione, i Moderni sono i terrestri deterrestrializzati, che abitano la Terra senza pensare, trascurando costantemente la propria condizione terrestre, e la sfida del presente è quella di riterrestrializzare.
Ma bisogna stare attenti a non interpretare questa formula come se implicasse che la Terra fosse una realtà finita, con confini fissi come i muri di una casa, che non poteva essere spostata. La Terra, quella che lui chiamava Gaia, è un’entità attiva, dinamica, storica, che reagisce alle azioni dei terrestri che la abitano e ne vivono [11]. La questione, quindi, non è rassegnarsi all’esistenza di limiti esterni, ma diventare più intensamente e precisamente sensibili alla propria condizione terrena, cioè al modo in cui infendiamo le dinamiche planetarie proprio per il modo in cui occupiamo la Terra, nella quale ci facciamo soggiorno terreno. Perché la situazione attuale è certamente angosciante e piena di lutti presenti e futuri: le specie muoiono, i paesaggi cambiano più velocemente di quanto possano sopportare i vivi, le foreste bruciano, la guerra torna a bussare alle nostre porte… Ma ha anche qualcosa per caso – e questa ambivalenza è tipicamente moderna.
Per la prima volta forse nella storia dell’umanità abbiamo la possibilità di vivere in un rapporto più stretto, più intimo con questa condizione planetaria che infatti è nostra, che è sempre stata, che esiste da quando c’è stata la vita sulla Terra (perché Latour non ha mai perso occasione per ricordare che sono stati i viventi a condizionare la Terra, che sono stati i batteri a modificare l’atmosfera terrestre in modo che altri esseri viventi possano proliferare lì, e questa è la lezione che ha imparato da James Lovelock e Lynn Margulis, da cui prese il vocabolo “Gaïa”, per designare proprio questa interazione circolare tra il tutto e le sue parti, la Terra e i terrestri). Ora sappiamo che scegliendo per noi un soggiorno terreno, scegliamo una Terra. Quale Terra? Questa è la domanda.
Ci sono stati molti malintesi quando Latour ha recentemente iniziato a parlare di una pluralità di Terre, dicendo ad esempio che la Terra di Trump era diversa dalla nostra [12]. “Come ?“, eravamo indignati, “non c’è un solo pianeta? Non è un fatto astronomico e persino una lezione proprio dalle scienze del Sistema-Terra di cui affermi di fare molto? Ecco dove ci conduce il tuo relativismo! Avevamo pensato che ti fossi calmato con queste sciocchezze ed ecco che ci fai di nuovo osservazioni aberranti. Così come non ci sono molte realtà, non ci sono molte Terre. C’è una sola realtà: la realtà scientifica. E una sola Terra: quella studiata dalle scienze della Terra. Tuttavia, Latour era molto più vicino all’insegnamento stesso di queste scienze dicendo che quello che la Terra non era uno stato fisso definito da un certo numero di parametri biogeochimici, ma anzi un sistema lontano dal proprio equilibrio e che alla fine non esiste solo attraverso una storia, quindi ogni stato dovrebbe piuttosto essere descritto come un insieme di possibili futuri alternativi che coesistono tra loro.
Naturalmente esiste una sola Terra, ma questa unicità della Terra è proprio quella della coesistenza sul posto di più divenire alternativi, quindi alcuni sono incompatibili con gli altri. Essere terrestre è dover scegliere la propria terra. Stiamo ancora terraformando la Terra. Il problema è che oggi stiamo terraformando a testa in giù, o meglio il problema è che un modo di abitare la Terra oggi distrugge le possibilità per altri terrestri di proiettare altre prospettive future per la Terra, altre linee di terraformazione. Perché una Terra riscaldata di 3 o 4 gradi non solo distruggerà un grandissimo numero di terrestri, umani e non umani, ma inoltre imporrà una determinata condizione di esistenza a moltissime generazioni di terrestri, per centinaia, anche migliaia o decine di migliaia di anni. I gas serra immessi nell’atmosfera impiegheranno molto tempo a scomparire, i rifiuti radioattivi a volte rimarranno tali per centinaia di migliaia di anni, le molecole sintetiche modificheranno forse in modo sostanziale le strutture chimiche terrestri in modo indelebile e con conseguenze imprevedibili, ecc. I Moderni hanno anticipato il futuro della Terra.
Approdare i Moderni significa quindi riaprire la pluralità delle proiezioni terrestri. È anche riflettere sulle condizioni in cui la modernità potrebbe coesistere sulla stessa Terra con altre forme di abitazione terrestre, senza sradicarle o soggiogarle: l’unicità della Terra è un’unicità diplomatica. La Terra è proprio ciò che una pluralità di proiezioni terrestri deve necessariamente condividere. Riportare i Moderni sulla Terra significa sapere cosa deve essere cambiato nelle loro istituzioni in modo che smettano di anticipare tutto lo spazio e il futuro del pianeta. Anche questo è un modo per relativizzarli: i moderni impareranno che tipo di terrestri sono quando sapranno in quali condizioni possono coesistere, con la loro differenza o particolarità, con altri modi di essere terreni. Si conosceranno quando sapranno dove si trovano sulla Terra, cioè che tipo di terrestri possono essere una volta che smetteranno di credere di potersi de-terrare…
Ripeto: questo atterraggio non è triste, non è frustrante. È difficile, certo, ma offre anche un’opportunità unica: l’opportunità di diventare più sensibili a una certa verità della nostra condizione, la condizione terrena. Parliamo in inglese di una “opportunità che capita una volta nella vita” (un’occasione che capita solo una volta nella vita). Penso che si possa dire che la catastrofe eco-planetaria in cui stiamo vivendo oggi è una specie di “opportunità unica nel tempo”: l’occasione unica che ci è stata data di avvicinarci alla nostra stessa condizione terrena, sia in senso generale (poiché nessuno è più connesso alle dinamiche della terra di questo modo di vivere moderno che “risvegliò Gaia”, ogni particella di gas serra che ora emettiamo nell’atmosfera contribuendo ad accelerare il riscaldamento globale) e in un senso particolare (dal momento che capiremo meglio i terrestri che siamo confrontandoci con gli altri con cui conviviamo).
Reinserirsi nei limiti planetari, quindi, non consiste affatto nel limitarsi, nel privarsi, ma nel guadagnare, guadagnare in verità, guadagnare in intensità, guadagnare in precisione: riappropriandoci della propria condizione terrena, aggiungiamo nel mondo… Certo, tutto questo può finire male, e le probabilità tendono piuttosto a moderare l’ottimismo, ma credo che sarebbe contrario allo spirito di Latour, almeno a quanto ho percepito dai suoi testi e di sua frequentazione, che accontentarsi delle legittime ansie e tristezze che questa situazione suscita per incoraggiarne la lettura. Bisogna leggere Latour perché ci dà gli strumenti per vivere meglio. Nessuno meglio di Latour ha realizzato per me la grande lezione di Spinoza: non c’è verità senza gioia. Latour è un pensatore gioioso.
Un unico progetto, quindi, un’antropologia dei moderni in vista di relativizzarli, un progetto che si è svolto in numerose indagini (su scienza, tecnologia, diritto, religione, economia, politica, ecc.), ha attraversato molte comunità ( semiologia delle scienze, Scienze e Tecnologie o STS, “Actor-Network Theory” o ANT, sociologia pragmatica, la svolta ontologica in antropologia, teorie di Gaia… l’elenco completo sarebbe lunghissimo), che tra l’altro ne fondò alcune, forse per poi andare altrove, rinnovando i modi di pensare un po’ ovunque andasse, ma tuttavia con un filo coerente, che seppe evidenziare nella sua grande opera (Indagine sui modi di esistere, nel 2012). Eppure due condizioni storiche che si sono succedute e sommate l’una all’altra per definire la natura del problema a cui questo progetto risponde e che in breve scandisce questa traiettoria: prima la decolonizzazione , poi l’ inverdimento [13] , due condizioni che richiedono lo sviluppo di strumenti diversi per descrivere la relatività dei moderni e quindi formano le due fasi di questo lavoro…
Così, in breve, mi proporrei di descrivere schematicamente l’impressionante traiettoria intellettuale di Latour, per dare una piccola mappa portatile a chi vorrebbe intraprenderla: una immensa impresa di relativizzazione interna della Modernità che è andata da da un lato da un’antropologia decoloniale dei modi di esistere e dall’altro da una diplomazia dei modi di essere terreni.
Ma a questo schizzo va aggiunto un aspetto importante: la filosofia. Mi sembra che Latour abbia sempre avuto un rapporto estremamente sottile con la filosofia. Gli capitava di rifiutarsi di definirsi un filosofo, o di presentarsi come un filosofo dilettante, quando ovviamente si era formato come filosofo di professione (aggregazione e tesi, cattedra) e il suo vero amore intellettuale era senza dubbio da qualche parte laggiù. Sembra che ultimamente abbia fatto uno sforzo per rivendicare più chiaramente uno status filosofico per il suo lavoro, e questa è una delle sfide dell’Indagine sui modi di esistenza. Ma la profonda originalità del suo approccio filosofico è che ha sempre voluto essere empirico (esistente solo attraverso indagini sul campo) e pluralista (rifiutando di ridurre ciò che ha studiato a qualcosa di diverso da ciò che questo oggetto di studio offriva come suo orizzonte di realtà). La conseguenza di ciò è che la filosofia non ha più una sorta di terreno a parte: esiste attraverso indagini antropologiche, sociologiche, storiche, artistiche… Eppure è ovunque in questo lavoro. E lui stesso finirà per riconoscere che il suo progetto è pienamente in linea con esso.
Ho la profonda convinzione che non abbiamo ancora preso la misura di ciò che il suo lavoro apporta alla filosofia, non solo dal punto di vista dei contenuti, delle tesi che probabilmente ne trarremo, ma anche dal punto di vista di comprendere lo stato di questa disciplina. È così vero che Latour è un filosofo che non si può filosofare allo stesso modo dopo Latour.
In ogni caso, non posso concludere questo testo scritto in pieno lutto senza dire semplicemente che questo lavoro è interrotto, ovviamente, ma che non è affatto completo. Accade così che questa singolare forza di agire, il cui nome era Bruno Latour, sia ora dispersa nei suoi libri, nelle sue osservazioni, nelle sue immagini, nei ricordi che abbiamo del suo esempio, nell’ispirazione che lascia a coloro che ha messo al lavoro, e che sarà sempre in numero crescente. Ma nonostante Bruno Latour in qualche modo continui ad esistere tra noi, a causa della sua morte si perde qualcosa, che è insostituibile, perso non solo per chi lo ha amato e ha vissuto con lui e a cui ovviamente non posso fare a meno di pensare ad ogni riga di questo testo, ma perduta per tutti, perduta per tutti i contemporanei, che in questa stessa perdita diventano sempre più contemporanei gli uni degli altri. Il lutto collettivo è strano e difficile da capire. Vorrei quindi dire perché oggi dobbiamo essere in lutto, anche quando non conoscevamo Latour.
Un aspetto che colpisce della frequentazione di Bruno Latour e del suo lavoro è la sua imprevedibilità: è bastato non vederlo per un mese per scoprire nuove idee, campi di ricerca sconosciuti il cui carattere cruciale per il proprio lavoro è balzato improvvisamente negli occhi, lasciando con tanti libri da leggere e cose da scoprire. Ci sono pensieri che, con l’età, sembrano aver dato tutto quello che potevano. Questo non era il caso di quello di Latour. Se c’è un lutto da fare, se c’è motivo di essere tristi, è perché perdiamo molte cose che non sappiamo proprio perché solo Latour ci avrebbe senza dubbio permesso di scoprirle. Aveva una capacità estremamente rara di entrare nei punti ciechi del nostro pensiero e della nostra esistenza, per farci vedere all’improvviso che c’era un altro punto di vista da cui cambiavano gli orizzonti, da cui le domande si semplificavano, anche moltiplicandosi, dove si risvegliava anche il desiderio, il coraggio di pensare e di agire. La gioia caratteristica del pensiero di Latour nasce proprio da questo: si esce sempre accresciuti dalla propria frequentazione.
Con Latour, perdiamo un po’ della nostra vista, insieme perdiamo un formidabile dispositivo ottico. Di recente ha affermato che il grande evento dell’anno per lui è stato il lancio del telescopio James-Webb. C’era in Latour qualcosa di un telescopio James Webb rivolto verso di noi. La morte di quest’uomo è come il fragore di questo formidabile strumento.
Non possiamo fare di meglio per onorare la sua memoria che continuare a lavorare con gioia, ardore, entusiasmo, passione, rigore, umorismo, inventiva, solidarietà, sorellanza, per compensare al meglio questa perdita, traendo ispirazione da ciò che ci ha lasciato meglio indovinare cosa avrebbe potuto ancora darci. Questo disagio, tra lutto e gratitudine, tra solitudine e sopravvivenza, tra consapevolezza dei nostri punti ciechi e determinazione ad aprire i nostri orizzonti, mi sembra, in fondo, un modo abbastanza giusto per caratterizzare il nostro presente. Siamo e rimaniamo in un momento latouriano.
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Note
[1] Patrice Maniglier, Il filosofo, la Terra e il virus, Bruno Latour spiega al tg, Parigi, I legami che liberano, 2021
[2] Cfr. in particolare Non siamo mai stati moderni, Parigi, La Découverte, 1991.
[3] Bruno Latour, Survey of Modes of Existence, An Anthropology of the Moderns, Parigi, La Découverte, 2012.
[4] Bruno Latour e Steve Woolgar, Laboratory Life, The Production of Scientific Facts, Parigi, La Découverte, 1988.
[5] Darà una sintesi del suo lavoro su scienze e tecniche viste come pratiche in La Science en action, Parigi, La Découverte, 1989.
[6] Per una descrizione di Davi Kopenawa di queste pratiche, si veda il libro scritto insieme a Bruce Albert, La Chute du ciel, Parigi, Plon, 2011.
[7] Questa è la sfida del libro già citato Enquête sur les modes d’existence, e del testo scritto con Isabelle Stengers come prefazione al libro di Étienne Souriau, Lesdifferent modes d’existence, Paris, PUF, 2009.
[8] “Le ideologie della competenza in un ambiente industriale ad Abidjan” (1974), scaricabile qui http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/02-IDEOLOGIES-DE-COMPETENCE-FR.pdf
[9] Su questa nozione di “decolonizzazione permanente del pensiero” come modo di caratterizzare l’antropologia, si veda l’opera di Eduardo Viveiros de Castro, sorella per molti versi di quella di Latour, e in particolare il suo libro, Cannibal metaphysics (Parigi, PUF, 2009).
[10] Non siamo mai stati moderni, op. cit., pp. 17-18.
[11] Su questo punto si veda il suo libro Face à Gaïa, Eight conferences on the new climatic regime, Parigi, La Découverte, 2015, dove offre la sua interpretazione del termine introdotto da James Lovelock e Lynn Margulis.
[12] Sviluppa questa idea in particolare in Where to land? Come orientarsi in politica, Parigi, La Découverte, 2017.
[13] Si veda il libro recentemente pubblicato di Dipesh Chakrabarty, The Climate of History in a Planetary Age (Chicago University Press, 2021). Per un’introduzione in francese, vedere Jeanne Etelain e Patrice Maniglier, “Bringing Critics Down to Earth: Dispeh Chakrabarty’s Planetary Turn”, Critique, n°903-904, 2022.
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Patrice Maniglier, filosofo, membro della redazione di Les Temps Modernes. Fonte: aoc.media, 11-10-2022
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