Tre novelle esemplari e un prologo. Niente meno che un vero uomo

Indice: 1. Prologo, 2. Due madri, 3. Il Marchese di Lumbría, 4. Niente meno che un vero uomo.

Domenica 20 novembre abbiamo pubblicato il Prologo. Leggi cliccando sul link: https://www.acro-polis.it/2022/11/20/tre-novelle-esemplari-e-un-prologo/

Domenica 27 novembre Due madri. Leggi cliccando sul link: https://www.acro-polis.it/2022/11/27/tre-novelle-esemplari-e-un-prologo-2/

Domenica 4 dicembre Il Marchese di Lumbria. Leggi cliccando sul link: https://www.acro-polis.it/2022/12/04/tre-novelle-esemplari-e-un-prologo-il-marchese-di-lumbria/

Niente meno che un vero uomo

La fama della bellezza di Julia era diffusa in tutta la regione che circondava la vecchia città di Renada[1]. Di questa Julia era un po’ la bellezza ufficiale, come un altro monumento. Ma un monumento vivente e fresco tra i tesori architettonici più in vista della capitale. «Vado a Renada» dicevano alcuni, «a vedere la Cattedrale e Julia Yañez».

Negli occhi della bella c’era come un presagio di tragedia.

Il suo portamento tormentava quanti la guardavano. I vecchi si rattristavano al vederla passare trascinandosi dietro lo sguardo di tutti, e quella sera i giovani si addormentavano con difficoltà. E lei, cosciente del suo potere, sentiva tuttavia su di sé il peso di un avvenire fatale. Una voce recondita, dal più profondo della sua coscienza, sembrava dirle: «La tua bellezza ti perderà!». E lei cercava di distrarsi per non sentirla.

Il padre della bellezza della regione, don Vittorio Yañez, un soggetto dai dubbi precedenti morali, aveva posto nella bellezza della figlia tutte le sue ultime e definitive speranze di redenzione economica. Era agente d’affari, e questi gli andavano di male in peggio. Il suo ultimo e supremo affare, l’ultima carta che gli restava da giocare, era la figlia. Aveva anche un figlio, ma lo considerava una cosa persa ed era tempo che ignorava dove fosse andato a finire.

– Non ci rimane che Julia – diceva spesso a sua moglie – tutto dipende da come si sposerà, o piuttosto da come la sposeremo. Se fa una sciocchezza, e temo che la faccia, siamo perduti

– E che vuoi dire con «fare una sciocchezza»?

– Alle solite! Quando dico che quasi non hai senso comune, Anacleta…

– E cosa le posso fare, Victorino! Illuminami tu, che sei l’unico qui che ha qualche talento…

– Quello che ci vuole, te l’ho detto già cento volte, è che sorvegli Julia e le impedisca tutti quei fidanzamenti stupidi, in cui sono solite perdere il tempo, la misura e persino la salute tutte le renatesi. Non voglio gente al cancello, passeggiate sotto le finestre, nessun fidanzato studentello!

– E che cosa le devo fare?

– Cosa le puoi fare? Falle capire che l’avvenire e il benessere di tutti noi, di te e di me, e l’onore… lo capisci?

– Sì, lo capisco.

– No, non lo capisci! L’onore, mi senti?, l’onore della famiglia dipende dal suo matrimonio. È necessario che si faccia valere.

– Poverina!

– Poverina? Bisogna che non cominci a trovarsi fidanzati assurdi, e che non legga quei romanzi assurdi che la fanno solo illudere e le riempiono la testa di fumo.

– Ma che vuoi che faccia io?

– Falla pensare con giudizio e rendersi conto di quel che possiede con la sua bellezza, e che ne sappia approfittare.

– Ma io alla sua età…

– Andiamo, Anacleta, non dire altre bestialità! Tu apri la bocca solo per dire balordaggini. Tu alla sua età… Tu, alla sua età… Ti conobbi allora…

– Sì, per disgrazia…

E i genitori della bellezza si separavano, per ricominciare il giorno dopo una conversazione simile.

E la povera Julia soffriva, comprendendo tutta l’orrenda profondità dei calcoli di suo padre. «Mi vuole vendere – si diceva – per salvare i suoi affari compromessi; forse per salvarsi dalla prigione». Ed era così.

Per istinto di ribellione, Julia accettò il primo fidanzato.

– Per carità figlia mia! – le disse sua madre. – Guarda che so quel che sta succedendo, l’ho visto girare attorno a casa e farti dei segni, e so che hai ricevuto una sua lettera e che gli hai risposto…

– E che devo fare, mamma? Vivere come una schiava, prigioniera, finché non arrivi il sultano a cui papà mi venderà?

– Non dire queste cose, figlia mia …

– Non posso dunque avere un fidanzato, come ce l’hanno le altre?

– Sì, ma un fidanzato serio.

– E come si può sapere se è serio o no? Per prima cosa si deve iniziare. Per arrivare ad amarsi, bisogna prima frequentarsi.

– Amarsi … Amarsi…

– Ah, è vero, devo aspettare il compratore.

– Né con te, né con tuo padre si può parlare. Siete così voi Yañez. Ahimè, il giorno che mi son sposata!

– Questo è quello che io non voglio arrivare a dire mai!

E la madre, quindi, la lasciava sola. E lei, Julia, osò, affrontando tutto, scendere a una finestra del pian terreno, in una specie di corridoio, per parlare con il primo fidanzato. «Se mio padre ci sorprende così – pensava – è capace di fare qualunque sciocchezza! Meglio così, comunque. Così si saprà che sono una vittima, che vuole speculare sulla mia bellezza». Scese, e dalla finestra, in quel primo incontro, raccontò a Enrique, un incipiente tenore renatese, tutte le lugubri miserie morali della sua casa. Veniva a salvarla, a redimerla. Ed Enrique sentì, nonostante il suo stordimento per la sua bellezza, che gli si spegneva l’entusiasmo. «A questa ragazzina – si disse – piacciono le tragedie; legge romanzi sentimentali». E quando ottenne che si sapesse in tutta Renada che la consacrata bellezza della regione lo aveva ammesso alla propria finestra, cercò il mezzo per liberarsi dalle promesse. Presto lo trovò. Perché una mattina Julia scese tutta sottosopra, con gli splendidi occhi arrossati, e gli disse:

– Ah, Enrique; questo non si può più sopportare; questa non è una casa né una famiglia: questo è un inferno. Mio padre ha scoperto la nostra relazione ed è furioso. Figurati che ieri sera, perché osavo difendermi, mi ha persino picchiata!

– Che barbaro!

– Non sai tutto. Ha detto che dovrai vedertela con lui…

– Che venga! Mancava solo questa!

Ma dentro di sé si disse: «Bisogna finirla, perché quell’orco è capace di qualsiasi atrocità, se vede che tentano di togliergli il suo tesoro. E siccome io non posso toglierlo dai debiti…»

– Dimmi, Enrique, tu mi vuoi bene?

– Che domanda!

– Rispondi: mi ami?

– Con tutta l’anima e con tutto il corpo, piccola.

– Davvero?

– Davvero!

– E sei disposto a tutto per me?

– A tutto, sì!

– Allora, rapiscimi, portami via. Dobbiamo scappare; ma lontano, molto lontano, dove non possa arrivare mio padre.

– Calmati, bambina!

– No, no, rapiscimi; se mi vuoi bene, rubami! Ruba a mio padre il suo tesoro, e che non possa venderlo! Non voglio essere venduta: voglio essere rubata! Rubami!

E cominciarono a organizzare la fuga.

Ma il giorno dopo, fissato per la fuga, quando Julia aveva già preparato la sua roba e persino avvisato segretamente una vettura, Enrique non si fece vedere. «Codardo, più che codardo. Vile, più che vile! – si diceva la povera Julia gettata sul letto e mordendo con rabbia il cuscino. – E diceva di amarmi! No, non amava me; amava la mia bellezza. E nemmeno questa! Quel che voleva era vantarsi davanti a tutta Renada che io, Julia Yañez, niente meno che io, l’avevo accettato come fidanzato. E ora andrà raccontando che gli ho proposto di fuggire! Vile, vile, vile! Vile come mio padre, vile come uomo!» E cadde nella più grande disperazione.

– Già vedo, figlia mia, – le disse sua madre – che tutto è finito, e ringrazio Dio di questo. Ma ascolta, ha ragione tuo padre: se continui così non farai altro che screditarti.

– Se continuo come?

– Così, accettando il primo venuto. Acquisterai la fama di civetta e …

– Meglio, madre, meglio. Così ne accorreranno di più. Soprattutto finché non perdo quel che Dio mi ha dato.

– Ah, sei proprio della razza di tuo padre, figlia!

E, in effetti, poco dopo Julia ammise un altro pretendente. Al quale fece le stesse confidenze, allarmandolo allo stesso modo di Enrique. Solo che Pedro aveva il cuore più duro. E con le stesse parole giunse a proporgli la fuga.

– Guarda, Julia – le disse Pedro – io non mi oppongo alla nostra fuga; meglio ancora, ne sono felicissimo, immaginati! Ma, dopo esser fuggiti, dove andiamo? cosa facciamo?

– Questo si vedrà!

– No, non «questo si vedrà”. Bisogna considerarlo adesso. Io, oggi come oggi, e per qualche tempo ancora, non ho di che mantenerti; in casa mia so che non ci accoglieranno; e in quanto a tuo padre… Dunque, dimmi, cosa faremo dopo la fuga?

– Cosa? Ti tiri indietro?

– Cosa faremo?

– Non ti spaventerai?

– Cosa faremo? Dimmi.

– Ci suicideremo!

– Tu sei pazza, Julia!

– Pazza, sì. Pazza di disperazione, pazza di schifo, pazza di orrore per questo padre che mi vuole vendere… E se tu fossi pazzo, pazzo d’amore per me, ti suicideresti con me.

– Ma renditi conto, Julia, che tu vuoi che io sia pazzo d’amore per te per uccidermi con te, ma non dici che ti suiciderai con me perché pazza d’amore per me, bensì pazza per lo schifo per tuo padre e per la tua casa. Non è la stessa cosa!

– Ah, come parli bene! L’amore non discute!

E ruppero la loro relazione. E Julia si diceva: «Nemmeno questo mi amava, nemmeno questo. S’innamorano della mia bellezza, non di me. Io sono famosa». E piangeva amaramente.

– Vedi figlia mia? – le disse sua madre – non te lo dicevo? Già se ne va un altro!

– E se ne andranno cento, mamma; cento, sì, finché non avrò incontrato il mio, quello che mi liberi da tutti voi. Voler vendermi!

– Questo dillo a tuo padre.

E donna Anacleta andò a piangere nella sua stanza, sola.

– Senti, figlia mia – disse alla fine suo padre a Julia – ho lasciato perdere questi tuoi fidanzati, e non ho preso le misure che avrei dovuto; ma ti avverto che non tollererò più queste stupidaggini. Adesso lo sai…

– Ma ce ne sono altre – esclamò la figlia con un amaro sorriso e guardando negli occhi di suo padre con aria di sfida.

– E che c’è? – chiese questi minaccioso.

– C’è… che ho un altro fidanzato!

– Un altro? Chi?

– Chi è? Non indovini chi è?

– Andiamo, non prendermi in giro e finiscila, che mi stai facendo perdere la pazienza.

– Niente meno che don Alberto Menéndez de Cabuérniga.

– Che barbarie! – esclamò la madre. Don Victorino impallidì, senza dir nulla.

Don Alberto Menéndez de Cabuérniga era un ricchissimo latifondista, dissoluto, capriccioso con le donne, con cui si diceva non badasse a spese pur di ottenerle: sposato e separato da sua moglie. Aveva fatto sposare già due donne, dotandole splendidamente.

– Cosa ne dici, papà? Stai zitto?

– Sei pazza!

– No, non sono pazza, né ho le visioni. Egli passeggia per la strada, fa la ronda attorno alla casa. Gli dico che si metta d’accordo con te?

– Me ne vado, perché altrimenti questo finisce male.

E il padre così dicendo uscì di casa

– Ma figlia mia! Figlia mia!

– Ti dico, mamma, che questo non gli sembra male; ti dico che è capace di vendermi a don Alberto.

La volontà della povera ragazza si stava spezzando. Capiva che persino una vendita sarebbe stata una redenzione. L’essenziale era uscire da quella casa, fuggire da suo padre, fosse come fosse.

 

In quel tempo comprò un pascolo nelle vicinanze di Renada – uno dei pascoli più ricchi e grandi – un indiano[2], Alejandro Gómez. Nessuno conosceva bene le sue origini, nessuno sapeva cosa avesse fatto nel passato; nessuno lo udì mai parlare né dei suoi genitori, né dei suoi parenti, né del suo paese, né della sua infanzia. Si sapeva solo che, quand’era molto piccolo, i suoi genitori lo avevano portato prima a Cuba, e poi in Messico, e che lì, si ignorava come, aveva fatto un’enorme fortuna, una fortuna favolosa – si parlava di milioni di pesete – prima di compiere trentaquattro anni, quando tornò in Spagna, deciso a stabilirsi lì. Si diceva che fosse vedovo senza figli, e su di lui correvano le più fantastiche leggende. Chi lo conosceva, lo giudicava un uomo ambizioso e di grandi progetti, molto volenteroso, tenace e concentrato sempre su se stesso. Si vantava di essere plebeo.

– Con il danaro si giunge ovunque – era solito dire.

– Non sempre, non tutti. – gli replicavano.

– Tutti no, ma quelli che l’hanno saputo fare, sì! Un signorino di quelli che hanno ereditato, un contino o duchetto magrolino, no, non va da nessuna parte, per quanti milioni possa avere. Ma io? Io? Io che ho saputo farli da solo, con le mie mani? Io?

Bisognava sentire come pronunciava “io”. In questa affermazione personale entrava tutto l’uomo.

-Tutto ciò che mi sono proposto l’ho conseguito. E se lo volessi, diventerei anche ministro! Ma il fatto è che io non lo voglio!

 

Ad Alejandro parlarono di Julia, la bellezza monumentale di Renada. «Bisogna vederla» si disse. E dopo averla vista: «Bisogna averla».

– Sai, papà – disse un giorno Julia – che questo famoso Alejandro… sai chi è, no? non si parla che di lui da qualche tempo… quello che ha comprato Carbajedo…

– Sì, sì, so bene chi è. E con ciò?

– Sai che anche lui mi gira intorno?

– Vuoi prendermi in giro, Julia?

– No, non scherzo, è vero; mi gira intorno.

– Ti ripeto di non scherzare!

– Ecco qui la sua lettera.

E si tolse dal petto un foglio, che gettò in faccia a suo padre.

– E cosa pensi di fare? – le chiese questi.

– Cos’altro si deve fare, se non dirgli che si veda con te e che conveniate il prezzo.

Don Victorino fulminò con lo sguardo sua figlia e uscì senza dirle una parola. E in casa ci furono giorni di lugubre silenzio e di collere taciturne. Julia aveva scritto al suo nuovo pretendente una lettera di risposta, condita di sarcasmo e di sdegno, e poco dopo ne riceveva un’altra con queste parole, scritte da una mano dura, con lettere grandi, angolose e schiette: «Lei alla fine sarà mia. Alejandro Gómez sa ottenere tutto quello che si propone». Leggendo, Julia si disse: «Questo è un uomo! Sarà il mio redentore? Saro io la sua redentrice?». E pochi giorni dopo questa seconda lettera, don Victorino chiamò sua figlia, si chiuse con lei in una stanza e, quasi in ginocchio e con le lacrime agli occhi, le disse:

– Figlia mia, tutto dipende dalla tua decisione: il nostro avvenire e il mio onore. Se non accetti Alejandro, fra poco non potrò più nascondere la mia rovina e i miei imbrogli, e persino i miei…

– Non lo dire.

– No, non potrò nasconderlo. Scadono i termini. E mi getteranno in prigione. Fino a oggi, ho potuto evitare il colpo… Per te! Invocando il tuo nome! La tua bellezza è stata il mio scudo. «Povera ragazza», mi dicevano tutti.

– E se lo accetto?

– Bene, ti dirò tutta la verità. Ha saputo della mia situazione, si è reso conto di tutto, e ora sono libero e respiro grazie a lui. Ha pagato tutti i miei inganni, mi ha liberato dai miei…

– Si, lo so, non dirlo. E adesso?

– Dipendo da lui, dipendiamo da lui, vivo a sue spese, tu stessa vivi a sue spese.

– Cioè mi hai già venduta?

– No, ci ha comprati.

– Così che, voglia o non voglia, sono già sua?

– No, non esige questo, non pretende nulla, non esige nulla!

– Che generoso!

– Julia!

– Sì, sì, ho capito tutto. Digli che per me può venire quando vuole.

E tremò dopo averlo detto. Chi lo aveva detto? Era stata lei? No, era stata piuttosto un’altra, che portava dentro di sé e che la tiranneggiava.

– Grazie, figlia mia, grazie!

Il padre si alzò per andare a baciare sua figlia; ma questa, respingendolo, esclamò:

– No, non sporcarmi!

– Ma, figlia…

– Vai a baciare le tue carte! O meglio le ceneri di quelle che ti avrebbero gettato in prigione.

 

– Non le dissi io, Julia, che Alejandro Gómez sa conseguire tutto ciò che si propone? Venire a dire certe cose a me? A me?

Tali furono le prime parole con le quali il giovane pezzo grosso indiano si presentò alla figlia di don Victorino, in casa sua. La ragazza tremò davanti quelle parole sentendosi, per la prima volta, davanti a un uomo. E l’uomo si offriva più sottomesso e meno grossolano di quanto lei avesse pensato.

Alla terza visita i genitori li lasciarono soli. Julia tremava. Alejandro taceva. Il tremore e il silenzio durarono un tempo.

– Sembra che stia male, Julia – disse lui.

– No, no, sto bene.

– Dunque, perché trema?

– Forse un po’ di freddo…

– No, paura.

– Paura? Paura di che?

– Paura… di me!

– Perché devo avere paura di lei?

– Sì, ha paura di me!

E la paura esplose, disfacendosi in pianto. Julia piangeva dal più profondo dell’anima, piangeva dal cuore. I singhiozzi la soffocavano, togliendole il respiro.

– Crede che io sia un orco? – sussurrò Alejandro.

– Mi hanno venduta! Mi hanno venduta! Hanno trafficato con la mia bellezza! Mi hanno venduta!

– Chi dice questo?

– Io, lo dico io! Però no, non sarò sua… se non morta!

– Sarai mia, Julia, sarai mia… E mi amerai! Non mi amerai? Me? Ci mancherebbe altro!

E ci fu in quel me un tale accento che il pianto di Julia si smorzò e le sembrò che le si fermasse il cuore. Guardò quindi quell’uomo, mentre una voce le diceva: «Questo è un uomo!».

– Lei può far di me quel che vuole!

– Che vuoi dire con questo? Chiese lui, insistendo a darle del tu.

– Non so… Non so quello che dico…

– Che intendi dicendo che posso fare di te ciò che voglio?

– Sì, che può …

– Ma quello che io – e questo io suonava trionfatore e pieno – voglio è farti mia moglie!

A Julia sfuggì un grido, e con i grandi occhi bellissimi pieni di stupore restò a guardare quell’uomo, che sorrideva e si diceva: «Avrò la donna più bella di Spagna».

– Che cosa credevi?

– Io credevo… Io credevo…

E scoppiò di nuovo a piangere lacrime soffocanti. Sentì subito due labbra sulle sue labbra e una voce che le diceva: «Sì, mia moglie, la mia… mia… mia… La legittima mia moglie, certo… La legge sanzionerà la mia volontà! O la mia volontà la legge!»

– Sì… tua.

 

Si era arresa. E si decisero le nozze.

Cos’aveva quell’uomo rude ed ermetico che allo stesso tempo la impauriva e le si imponeva? E, cosa ancor più terribile, le imponeva una specie di strano amore. Perché lei, Julia, non voleva amare quell’avventuriero, che aveva deciso di avere per moglie una tra le più belle di Spagna, per far risplendere i propri milioni. Ma senza voler amarlo, si sentiva arresa in una sottomissione, che era una forma di innamoramento. Era qualcosa di simile all’amore, che si deve accendere nel petto di una prigioniera verso un arrogante conquistatore. No, non l’aveva comprata, no! L’aveva conquistata!

«Ma lui – diceva Julia fra sé e sé – mi ama davvero? Ama me? Me, come dice di solito lui? E come lo dice! Come pronuncia io! Mi amerà, o cerca solo di pavoneggiarsi della mia bellezza? Sarò per lui qualche cosa di più che un mobile costoso e raro? Sarà veramente innamorato di me? Non si stancherà presto del mio incanto? A ogni modo sarà mio marito, e mi vedrò libera da questa maledetta casa, libera da mio padre. Perché non vivrà con noi, no! Gli passeremo una pensione e che continui a insultare la mia povera madre e a litigare con le serve. Eviteremo che faccia ancora imbrogli. E sarò ricca, molto ricca, immensamente ricca».

Ma questo non la soddisfaceva del tutto. Si sapeva invidiata dalle renatesi, che parlavano della sua sorte fortunata, e che dicevano che la sua bellezza le aveva dato quanto poteva darle. Ma, l’amava quell’uomo? L’amava davvero? «Io devo conquistare il suo amore», si diceva. «Ho bisogno che mi ami davvero, non posso essere sua moglie se lui non mi ama, poiché questa sarebbe la peggior maniera di vendersi. Ma io gli voglio bene?». E davanti a lui si sentiva atterrita, mentre una voce misteriosa, germogliata dal profondo delle sue viscere, le diceva: «Questo è il tuo uomo!». Ogni volta che Alejandro diceva io, lei tremava. E tremava d’amore, benché credesse che fosse qualcos’altro o non lo sapesse.

 

Si sposarono e andarono a vivere a Madrid. Le relazioni e le amicizie di Alejandro erano, grazie alla sua fortuna, molte ma un po’ particolari. Julia supponeva che la maggior parte di coloro che frequentavano la sua casa, tra questi non pochi aristocratici, dovessero essere debitori di suo marito, il quale dava denaro in prestito dietro solide ipoteche. Tuttavia non sapeva nulla dei suoi affari, né lui gliene parlava mai. A lei non mancava nulla; poteva soddisfare anche i suoi più piccoli capricci; ma le mancava ciò che più le poteva mancare. Non tanto l’amore di quell’uomo, da cui si sentiva soggiogata e come stregata, ma la certezza di quell’amore. «Mi ama o non mi ama? – si domandava – Mi riempie di attenzioni, mi tratta con il più grande rispetto, sebbene un po’ come una bambina capricciosa; mi accarezza persino; ma mi ama?». Ed era inutile tentare di parlare d’amore, d’affetto con quell’uomo.

– Solamente gli stupidi parlano di queste cose – diceva Alejandro – «Tesoro… graziosa… bella… cara…» Io?… Io, dire quelle cose? Che vengano dette a me certe cose? Questa è roba da romanzi. E già so che a te piaceva leggerli.

– E mi piace ancora.

– Allora, leggine quanti ne vuoi. Guarda, se ti fa piacere, farò costruire su quel terreno laggiù in basso un padiglione per una biblioteca e te la riempirò con tutti i romanzi scritti dai tempi di Adamo a oggi.

– Che cose dici!

Alejandro vestiva nella maniera più umile e più trascurata possibile. Non lo faceva soltanto per non farsi notare; era perché affettava una certa ordinarietà plebea. Gli costava cambiare vestito, affezionandosi a quello che portava. Quando indossava un vestito nuovo sembrava che si strofinasse sui muri per farlo sembrare vecchio. Al contrario, insisteva sempre perché lei, sua moglie, si vestisse con la maggior eleganza possibile e nel modo che più facesse risaltare la sua naturale bellezza. Non era per niente taccagno nel pagare; ma ciò che pagava con più piacere erano i conti di sarti e modiste, erano i vestiti per la sua Julia.

Si compiaceva nell’averla al suo fianco e che risaltasse la differenza di vestiario e portamento tra loro. Era felice quando vedeva la gente che si fermava a guardare sua moglie, e se lei, con civetteria, provocava quegli sguardi, o lui non se ne rendeva conto o, meglio, fingeva di non accorgersene. Sembrava dicesse a quelli che la guardavano con la cupidigia della carne: «Vi piace, eh? Ne son contento; ma è mia, e solo mia, e perciò… crepate di rabbia!». E lei, indovinando questo sentimento, si diceva: «Ma mi ama o non mi ama quest’uomo?». Perché pensava sempre a lui come questuomo, come il suo uomo. O meglio l’uomo cui lei apparteneva, il padrone. E a poco a poco le si veniva formando un’anima da schiava d’harem, da schiava favorita, da unica schiava; ma pur sempre schiava.

Nessuna intimità tra loro. Lei non si rendeva conto di cosa potesse interessare suo marito. Una volta lei si permise di chiedergli qualcosa sulla sua famiglia.

– Famiglia? – disse Alejandro – Io oggi non ho altra famiglia che te, né mi importa. La mia famiglia sono io, io e te, che sei mia.

– Ma… e i tuoi genitori?

– Fà conto che io non li abbia avuti. La mia famiglia comincia da me. Io mi sono fatto da solo!

– Un’altra cosa vorrei chiederti, Alejandro, ma me ne manca il coraggio…

– Perché ti manca il coraggio? Credi che io ti mangi? Mi sono forse offeso qualche volta per qualcosa che mi hai detto?

– No, mai, non posso lamentarmi.

– Ci mancherebbe altro!

– No, non posso lamentarmi; ma …

– Bene, domanda e finiamola!

– No, non te lo chiedo.

– Chiedimelo!

Lo disse in tal modo, con un egoismo così forte, che lei, tremando in un modo che era, nello stesso tempo, di paura e d’amore, amore di schiava favorita, gli disse:

– Bene, dimmi, sei vedovo?

Passò come un’ombra, un lieve cipiglio per la fronte di Alejandro, che rispose:

– Sì, sono vedovo.

– E la tua prima moglie?

– A te hanno raccontato qualcosa…

– No, ma…

– A te hanno raccontato qualcosa, dimmelo…

– Ebbene sì, ho sentito qualcosa…

– E ci hai creduto?

– No… non ci ho creduto.

– Chiaro, non potevi, non dovevi crederci.

– No, non ci ho creduto.

– È naturale. Chi mi ama come mi ami tu, chi è così mia come lo sei tu, non può credere a quelle fandonie.

– Certo, che ti amo… – e dicendolo sperava di provocare una confessione reciproca di affetto.

– Bene, ti ho già detto che non mi piacciono le frasi da romanzo sentimentale. Quanto meno si dica a uno che lo si ama, meglio è.

E dopo una breve pausa, continuò:

– Ti avranno detto che mi sposai in Messico, quand’ero ancora un ragazzo, con una donna immensamente ricca e molto più vecchia di me, con una vecchia milionaria, e che la obbligai a farmi suo erede e che poi la uccisi. Non ti hanno detto questo?

– Sì, questo mi hanno detto.

– E ci hai creduto?

– No, non ci ho creduto. Non posso credere che tu abbia ucciso tua moglie.

– Vedo che hai ancor più giudizio di quanto io credessi. Come avrei potuto uccidere mia moglie, una cosa mia?

Cosa fu che fece tremare la povera Julia nel sentir questo? Lei non si rese conto dell’origine del suo tremore; ma fu la parola cosa usata da suo marito per la sua prima moglie.

– Sarebbe stata una vera stupidaggine – proseguì Alejandro. – A che scopo? Per ereditare? Ma se io godevo della sua fortuna allo stesso modo in cui ne godo oggi! Uccidere la propria moglie? Non c’è nessuna ragione per uccidere la propria moglie!

– Ciò nonostante, ci sono stati dei mariti che hanno ucciso la propria moglie – osò dire Julia.

– Perché?

– Per gelosia, perché furono ingannati…

– Bah! Bah! Bah! La gelosia è cosa da stupidi. Solo gli stupidi possono essere gelosi, perché soltanto questi possono essere ingannati dalle mogli. Ma io? Io? Io non posso essere ingannato da mia moglie. Non poté ingannarmi quella, non puoi ingannarmi tu!

– Non dire queste cose. Parliamo d’altro.

– Perché?

– Mi ferisce sentirti parlare così! Come se mi fossi immaginata, e nemmeno in sogno, di ingannarti.

– Lo so, lo so senza che tu me lo dica; so che tu non m’inganneresti mai.

– Certo!

– Perché non puoi ingannarmi. A me? Mia moglie? Impossibile! E in quanto alla mia prima moglie, morì senza che io la uccidessi.

Fu una delle volte in cui Alejandro parlò maggiormente di sua moglie. Ma Julia rimase pensierosa e tremante. L’amava o no, quell’uomo?

 

Povera Julia! Era così terribile quel suo nuovo focolare… terribile quanto quello di suo padre. Era libera, assolutamente libera; poteva fare tutto quel che le piaceva, uscire ed entrare, ricevere le amiche e persino gli amici che preferiva. Ma l’amava o no il suo padrone e signore? L’incertezza sull’amore dell’uomo la teneva come prigioniera in quella dorata e splendida cella dalla porta aperta.

Un raggio di sole entrò nelle tempestose tenebre della sua anima schiava, quando si seppe incinta di quel suo marito-signore. «Ora saprò se mi ama o no» si disse.

Come gli annunciò la buona nuova, quegli esclamò:

– Lo aspettavo. Ora ho un erede per farne un uomo, un altro uomo come me. Lo aspettavo.

– E se non fosse venuto? – domandò lei.

– Impossibile. Doveva venire. Io dovevo avere un figlio, io!

– Tuttavia molti si sposano e non ne hanno…

– Altri sì. Ma io no! Io dovevo avere un figlio.

– E perché?

– Perché tu non potevi non darmelo.

Venne il figlio; ma padre continuò a essere impenetrabile. Si oppose solo a che la madre allattasse il bambino.

– No, io non dubito che tu abbia la forza e la salute per farlo; ma le madri che allattano si rovinano molto, e io non voglio che tu ti deturpi; io voglio che ti conservi giovane e bella per il maggior tempo possibile.

Cedette solo quando il medico gli assicurò che invece di imbruttirsi, Julia ci avrebbe guadagnato allattando il figlio, e la sua bellezza avrebbe acquisito maggior pienezza.

Il padre si rifiutava di baciare il figlio. «Con questi sbaciucchiamenti non si fa altro che dargli fastidio», diceva. Qualche volta lo prendeva in braccio, e restava a guardarlo.

– Non mi hai chiesto una volta della mia famiglia? – disse un giorno Alejandro alla moglie. – Bene, ce l’hai qui. Ora ho una famiglia e chi erediterà e continuerà la mia opera.

Julia pensò di chiedere a suo marito qual era questa sua opera; ma non osò. «La mia opera. Cosa sarà mai l’opera di quell’uomo?». Un’altra volta gli aveva sentito usare la stessa espressione.

 

Le persone che più frequentavano la casa erano i conti di Bordaviella, soprattutto lui, il conte, il quale era in affari con Alejandro, che gli aveva dato in prestito d’usura grandi quantità di denaro. Il conte aveva l’abitudine di giocare a scacchi con Julia, appassionata di questo gioco, e di sfogare nel seno della confidenza della sua amica, la moglie del suo creditore, le sue disgrazie domestiche. Perché la casa dei conti di Bordaviella era un piccolo inferno, seppur con poche fiamme. Il conte e la contessa né si capivano né si amavano. Ciascuno viveva per conto proprio; e lei, la contessa, dava adito a maldicenze scandalose. Su di lei girava sempre un indovinello: «Chi sarà il cireneo di turno del conte di Bordaviella?»; e il povero conte andava a casa di Julia per giocare con lei a scacchi e a consolarsi delle sue disgrazie cercando quelle degli altri.

– È stato qui anche oggi quel conte? – domandava Alejandro a sua moglie.

– Quel conte! quel conte!… che conte?

– Quello! Non c’è che un conte, e un marchese, e un duca. Per me sono tutti uguali e come se tutti fossero uno solo.

– Ebbene sì, è stato qui!

– Sono contento, se questo ti diverte. È ciò a cui serve il povero mentecatto.

– A me sembra un uomo intelligente e colto, e molto ben educato e molto simpatico….

– Sì, di quelli che leggono romanzi. Ma, in fondo, se questo ti diverte…

– Ed è molto sfortunato.

– Bah! La colpa ce l’ha lui!

– E perché?

– Perché è così stupido. È normale quello che gli succede. Un perditempo come il conte, è normale che la moglie lo tradisca. Non so capire come lei possa essersi sposata con una simile cosa. Certo non si sposò con lui, ma con il titolo. Una donna dovrebbe fare a me quello che a questo disgraziato fa la sua!

Julia rimase a guardare suo marito e, all’improvviso, senza rendersi conto di quello che diceva, esclamò:

– E se io te lo facessi? Se la tua donna diventasse come è diventata la sua?

– Sciocchezze! – e Alejandro scoppiò a ridere. – Tu vorresti condire la nostra vita con il sale dei libri. Se vuoi mettermi alla prova rendendomi geloso, ti sbagli! Io non sono di quella razza! A me queste cose? Divertiti a prendere in giro quello stupido di Bordaviella.

«Ma sarà vero che quest’uomo non è geloso? – si chiedeva Julia. – Sarà vero che non gli importa che il conte venga e mi giri intorno e mi faccia la corte, come mi gira in torno e mi corteggia? È sicurezza nella mia fedeltà e nel mio affetto? È sicurezza nel suo potere su di me? È indifferenza? Mi ama o non mi ama?». E cominciava a esasperarsi. Il suo padrone e signor marito le stava torturando il cuore.

La povera donna si ostinava a cercar di suscitare gelosia in suo marito, come pietra di paragone del suo amore, ma non ci riusciva.

– Vuoi venire con me a casa del conte?

– A far che?

– Per il the.

– Per il the! Non mi fa male la pancia. Ai miei tempi, e tra quelli come me, non si beveva quell’acqua sporca se uno non aveva mal di pancia! Buon pro ti faccia! E consola un po’ il povero conte. Ci sarà anche la contessa con il suo ultimo amico, quello di turno. Ah, la società! Ma, alla fin fine, tanto vale.

 

Intanto, il conte continuava ad assediare Julia. Fingeva di essere angosciato dalle sue disgrazie domestiche per eccitare così la compassione della sua amica, e attraverso la compassione portarla all’amore, e all’amore colpevole; e allo stesso tempo faceva in modo di farle capire che sapeva qualcosa delle intimità della casa di lei.

– Sì Julia, è vero. La mia casa è un inferno, un vero inferno, e lei fa bene a compatirmi come mi compatisce. Ah, se noi ci fossimo conosciuti prima! Prima che io mi fossi aggiogato alla mia disgrazia! E lei…

– Io alla mia, vero?

– No, no. Non volevo dir questo… No!

– E quindi cos’è che lei voleva dire, conte?

– Prima che si fosse consegnata a quest’altro uomo, a suo marito…

– E lei sa per certo che io allora mi sarei data a lei?

– Oh, senza dubbio, senza dubbio!

– Che petulanti siete voi uomini!

– Petulanti?

– Sì, petulanti. Ora lei si crede irresistibile.

– Io… no!

– Allora chi?

– Mi permette che glielo dica, Julia?

– Dica ciò che vuole!

– Allora bene, glielo dirò! L’irresistibile non sarei stato io, bensì il mio amore! Sì, il mio amore!

– Cos’è, una dichiarazione in piena regola, signor conte? Non si dimentichi che io sono una donna sposata, onorata, innamorata di suo marito…

– Questo…

– Si permette di dubitarne? Innamorata, sì, così come lo sente, sinceramente innamorata di mio marito.

– Ma, lui?

– Eh? Che vorrebbe dire? Chi le ha detto che lui non mi ama?

– Lei stessa!

– Io? Quando le ho detto io che Alejandro non mi ama? Quando?

– Me lo ha detto con gli occhi, con i gesti, con il suo modo di fare…

– Adesso, lei vuole far credere che sono stata io chi l’ha provocata a farmi l’amore! Guardi, signor conte, questa è l’ultima volta che viene a casa mia!

– Dio mio, Julia!

– L’ultima volta, ho detto!

– Mi lasci venire a vederla, in silenzio, a contemplarla, ad asciugare, vedendola, le lacrime che piango dentro di me.

– Che bella cosa!

– E quel che le ho detto, che è sembrato offenderla tanto…

– È sembrato? Mi ha offesa!

– Come posso io offenderla?

– Signor conte!

– Quel che le ho detto e che tanto l’ha offesa fu solo che se ci fossimo conosciuti prima d’esserci consegnati io a mia moglie e lei a suo marito, io l’avrei amata con la stessa follia con cui l’amo oggi… Mi lasci rivelarle il mio cuore! Io l’avrei amata con la stessa follia con cui l’amo oggi e avrei conquistato il suo amore con il mio. Non con il mio valore, no; non con i miei meriti, ma soltanto con la forza del mio affetto. Io non sono, Julia, di quegli uomini che credono di dominare e di conquistare la donna con i loro meriti, per essere ciò che sono; non sono di quelli che esigono di essere amati, senza dare in cambio il loro affetto. In me, povero nobile decaduto, non c’è tanto orgoglio.

Julia assorbiva lentamente e goccia a goccia il veleno.

– Perché ci sono degli uomini – continuò il conte – incapaci di amare, ma che esigono che li si ami, e credono di avere diritto all’amore e alla fedeltà incondizionate della povera donna bella e famosa per la sua bellezza, per vantarsene e tenersela al fianco, vicino, come si porterebbe in giro una leonessa addomesticata. E dire: «La mia leonessa! Vedete come mi è sottomessa?». E per questo volevano la loro leonessa?

– Signor conte… signor conte, lei sta entrando in un terreno …

In quel momento il conte di Bordaviella le si avvicinò ancor più, e facendole sentire nell’orecchio, bellissima e rosea conchiglia di carne fra ricci di capelli castani rifulgenti, il solletico del suo respiro ansimante, le sussurrò:

– Il luogo in cui sto entrando è la tua coscienza, Julia.

Il tu imporporò l’orecchio colpevole.

Il petto di Julia ondeggiava, come il mare quando soffia il vento freddo del nord.

– Sì, Julia, sto entrando nella tua coscienza.

– Mi lasci, per amor di Dio, signor conte, mi lasci! Se entrasse lui adesso…

– No, lui non entrerà. A lui non importa niente di te. Lui ci lascia così, soli, perché non ti ama… No, non ti ama! Non ti ama, Julia, non ti ama!

– No, è che ha un’assoluta fiducia in me…

– Non in te! In se stesso! Ha un’assoluta fiducia, cieca, in se stesso! Crede che a lui, solo per essere se stesso, lui, Alejandro Gómez, colui che ha costruito una fortuna… non voglio sapere come… crede che nessuna donna possa ingannarlo. Mi disprezza, lo so…

– Sì, lui la disprezza…

– Lo sapevo! Ma disprezza me allo stesso modo in cui disprezza te…

– Per carità, signor conte, per carità, taccia, che mi sta uccidendo!

– Chi ti ucciderà è lui, lui, tuo marito, e non sarai la prima!

– Questa è un’infamia, signor conte, questa è un’infamia! Mio marito non uccise sua moglie. Se ne vada, se ne vada, se ne vada e non torni!

– Me ne vado; ma… tornerò! Mi chiamerai tu.

E se ne andò, lasciandola ferita nell’anima. «Avrà ragione quest’uomo? – si diceva – Sarà così? Perché lui mi ha rivelato quel che io non volevo dire nemmeno a me stessa. Sarà vero che mi disprezza? Sarà vero che non mi ama?»

 

Cominciò a essere foraggio per i pettegolezzi maldicenti della corte la relazione tra Julia e il conte di Bordaviella. E Alejandro non se ne accorgeva, o faceva finta di non accorgersene. Zittì un amico che aveva cominciato a fargli qualche velata insinuazione dicendogli: “Già so quel che lei mi vuol dire; ma lasci perdere. Queste non sono che chiacchiere della gente. A me? A me, queste cose? Bisogna lasciare che le donne romantiche si rendano interessanti». Sarebbe un… Sarebbe un codardo?

Ma una volta che, al Casinò, uno si permise, davanti a lui, di dire una battuta di senso ambiguo sulle corna, afferrò una bottiglia e gliela tirò in testa, ferendolo. Lo scandalo fu formidabile.

– A me? A me questi scherzetti? – diceva con la sua voce e il suo tono più controllati. – Come se non lo capissi… Come se non sapessi volgarità che corrono tra questi mascalzoni, a proposito dei capricci da romanzo della mia povera moglie… Sono disposto a tagliare alla radice queste chiacchiere…

– Ma non così, don Alejandro, – tentò di dirgli un tale.

– Come dunque? Mi dica come!

– Tagliando alla radice il motivo di queste chiacchiere.

– Ah, certo! Dovrei proibire al conte di entrare in casa mia?

– Sarebbe la cosa migliore.

– Questo vorrebbe dire dar ragione ai maldicenti. Io non sono un tiranno. Se la mia povera moglie diverte quel tal conte, che è un perfetto e assoluto mentecatto, glielo giuro, è un mentecatto, inoffensivo, che si dà arie da dongiovanni… Se la mia povera moglie è divertita da quel pupazzo, dovrei toglierle il divertimento perché altri mentecatti dicono questo o quest’altro? Ci mancherebbe altro…. Prendere in giro me? Me? Voi non mi conoscete!

– Ma, don Alejandro, le apparenze…

– Io non vivo di apparenze, ma di realtà!

Il giorno seguente si presentarono in casa di Alejandro due gentiluomini, molto seriosi, a chiedergli soddisfazione in nome dell’offeso.

– Ditegli – ripose loro – che mi mandi il conto del medico o del chirurgo che lo assiste, e io lo pagherò, così come i danni e i problemi che ne possano derivare.

– Ma, don Alejandro….

– Che cos’è che volete, insomma,?

– Noi nulla. L’offeso esige una riparazione… una soddisfazione… una soluzione d’onore…

– Non vi capisco… o non voglio capire!

– Un duello.

– Molto bene. Quando vuole. Ditegli «quando vuole». Ma per questo non è necessario che voi vi disturbiate. Ditegli che quando gli sarà guarita la testa, voglio dire dalla bottigliata… che mi avvisi e andremo dove lui vorrà, ci chiuderemo in una stanza e cominceremo a darci pugni e calci. Non ammetto altre armi. Vedrà chi è Alejandro Gómez.

– Ma don Alejandro, lei si sta burlando di noi! – esclamò uno dei padrini.

– Per niente. Voi siete di un mondo, io di un altro. Voi venite da genitori illustri, da famiglie con lignaggio… Io si può dire che non ho avuto genitori né ho altra famiglia che quella che mi sono fatta. Io vengo dal niente, e non voglio saper niente di queste astuzie del codice d’onore.

I padrini si alzarono, e uno di loro, con un tono molto solenne, con una certa energia, ma non senza rispetto – perché alla fin fine si trattava di un potente milionario e di un uomo dalla misteriosa provenienza – esclamò:

– Dunque, signor don Alejandro Gómez, mi permetta che glielo dica…

– Dica tutto ciò che vuole; ma misuri bene le sue parole, che ho lì a portata di mano un’altra bottiglia.

– Dunque, – disse l’altro alzando la voce – signor don Alejandro Gómez, lei non è un cavaliere né un gentiluomo!

– Chiaro che non lo sono, accidenti, chiaro che non lo sono! Gentiluomo io? Quando? Da dove? Io sono cresciuto asinaio e non cavaliere. E nemmeno su un asino portavo la merenda a quello che dicevano fosse mio padre, ma a piedi, a piedi e camminando. E’ chiaro ora che non sono cavaliere! Cavalleria? Cavalleria a me? A me? Andiamo… Andiamo…

– Ce ne andiamo, sì. – disse un padrino all’altro – Perché qui non possiamo più far nulla. Lei, signor don Alejandro, sopporterà le conseguenze di questa sua inqualificabile condotta.

– Ho capito, e continuerò con essa. E in quanto a quel… a quel gentiluomo dalla lingua senza freni a cui ho rotto la testa, lo ripeto: che mi mandi il conto del medico, e d’ora in poi stia attento a quello che dice. Quanto a voi, se per caso – tutto può succedere – aveste bisogno di qualcosa da quest’uomo senza titoli, da questo milionario selvaggio, senza il senso dell’onore cavalleresco, potete venire da me, e vi servirò come ho servito e servo altri gentiluomini.

– Questo non si può tollerare, andiamocene! – esclamò uno dei padrini.

E se ne andarono.

 

Quella sera Alejandro raccontò a sua moglie la scena del dialogo con i padrini, dopo averle raccontato la storia della bottigliata, e si divertiva con il racconto delle sue prodezze. Lei lo ascoltava spaventata.

– Gentiluomo io! Io gentiluomo! – esclamava – Io? Alejandro Gómez? Mai! Io non sono nient’altro che un uomo, ma un uomo vero, niente meno che un vero uomo.

– E io? – disse lei, per dire qualcosa.

– Tu? Una vera donna! E una donna che legge romanzi. E lui, il contino, quel giocatore di scacchi, un nessuno, nient’altro che un nessuno! Perché devo proibirti di divertirti con lui come ti divertiresti con un cagnolino? Se ti compri un cagnolino, un gattino d’Angora o una scimmietta, e li accarezzi e magari li sbaciucchi, dovrei prendere il cagnolino, il micetto o la scimmietta e buttarli in strada dalla finestra? Non sarebbe una buona cosa! Tra l’altro potrebbero cadere addosso a un passante. Bene, quel contino è la stessa cosa, un altro piccolo botolo, o gattino, o scimmietta. Divertiti con lui quanto ti pare.

– Tuttavia, Alejandro, hanno ragione su quel che ti dicono… Devi proibire a quell’uomo di entrare…

– Uomo?

– Va bene, devi proibire l’ingresso al conte di Bordaviella.

– Proibisciglielo tu! Dal momento che tu non glielo proibisci vuol dire che quel maledetto non ha conquistato il tuo cuore. Perché se avessi cominciato a interessarti a lui, lo avresti già mandato via, per difenderti dal pericolo.

– E se fossi interessata?

– Dai, dai! Ci hai già provato. Ci hai già provato a rendermi geloso. Io! Ma quando ti convincerai, donna, che io non sono come gli altri?

 

Julia capiva sempre meno suo marito; ma si sentiva sempre più soggiogata a lui e più ansiosa di assicurarsi se lui l’amava o no. Alejandro, da parte sua, pur sicuro della fedeltà di sua moglie, o meglio che lui, Alejandro – niente meno che un vero uomo – non poteva essere ingannato da sua moglie – la sua! – si diceva: «Questa povera donna è frastornata dalla vita di corte e dalla lettura di romanzi!». Decise di portarla in campagna. E così andarono in uno dei suoi possedimenti.

– Un po’ di tempo in campagna ti farà bene, – disse Alejandro. – La campagna calma i nervi. Naturalmente, se pensi di annoiarti senza il tuo micetto, puoi invitare quel contino ad accompagnarci. Poiché sai bene che io non sono geloso, e ho fiducia in te, in mia moglie.

Lì, in campagna, le cavillazioni della povera Julia si esacerbarono. Si annoiava moltissimo. Suo marito non la lasciava leggere.

– Ti ho portata qui per questo, per allontanarti dai libri, e tagliare alla radice la tua nevrastenia, prima che peggiori.

– La mia nevrastenia?

– Chiaro! Tutto quel che hai è quello. E la colpa di ciò ce l’hanno i libri.

– Dunque non tornerò a leggerne più!

– No, non pretendo tanto… Io non pretendo nulla da te. Sono forse un tiranno? Ho mai preteso nulla da te?

– No. Nemmeno pretendi che ti ami!

– Naturalmente, visto che so che questo non si può pretendere. E d’altra parte, dato che so che mi ami e che non puoi amare un altro… Dopo avermi conosciuto e aver saputo, grazie a me, capito cos’è un uomo, non puoi amare un altro, anche se te lo proponessi. Te l’assicuro io… Ma non parliamo di cose da libri. Ti ho già detto che non mi piacciono queste romanticherie. Queste sono sciocchezze di cui parlare con i contini prendendo il the.

L’angoscia della povera Julia aumentò quando giunse a scoprire che suo marito se la intendeva con una serva zotica e per niente bella. Una sera, dopo aver cenato, trovandosi loro due soli, la donna disse all’improvviso:

– Non credere, Alejandro, che non mi sia accorta della tua tresca con la Simona…

– Né io l’ho nascosta poi molto. Ma questo non ha nessuna importanza. Sempre gallina, guasta il piacere della cucina!

– Cosa vuoi dire?

– Che sei troppo bella per tutti i giorni!

La moglie tremò. Era la prima volta che suo marito la chiamava così, riempiendosene la bocca, bella. Ma l’amava davvero?.

– Ma con quella stracciona? – disse Julia per dire qualcosa.

– È lo stesso. Mi piace persino questa sua trascuratezza. Non dimenticare che io praticamente sono cresciuto in un letamaio, e ho un po’ di ciò che un amico mio chiama la voluttà della sporcizia. E ora, dopo questo intermezzo rustico, apprezzerò di più la tua bellezza, la tua eleganza e la tua pulizia.

– Non capisco se mi stai adulando o insultando!

– Oddio! La nevrastenia! E io che credevo che tu fossi in via di guarigione!

– Naturalmente voi uomini potete fare quello che vi pare, e tradirci…

– Chi ti ha tradita?

– Tu!

– A questo tu lo chiami tradire? Bah! Bah! I libri! I libri! A me non mi importa un corno della Simona, né…

– Certo, lei per te è come una cagnetta, o una gattina, o una scimmia.

– Una scimmia, esattamente; nient’altro che una scimmia. È ciò a cui più assomiglia. Hai detto bene: una scimmia! Ma ho smesso per questo d’essere tuo marito?

– Vorrai dire che non ho smesso io di essere tua moglie…

– Vedo, Julia, che cominci ad acquistare talento…

– Certo, tutto si trasmette!

– Ma da me, naturalmente, non dal micetto.

– È chiaro, da te!

– Bene; non credo che questo incidente rustico ti renda gelosa… Gelosa, tu? Tu? Mia moglie? E di quella scimmia? E per quel che riguarda lei, la doto e sarà contenta.

– Certo, con i soldi…

– E con questa dote si sposerà al volo, e porterà al marito, assieme alla dote, un figlio. E se il figlio verrà fuori come il padre, che è niente di meno che un vero uomo, allora lo sposo ne avrà un doppio guadagno.

– Taci, taci, taci!

E la povera Julia scoppiò a piangere.

– Io credevo – concluse Alejandro – che la campagna ti avrebbe guarito la nevrastenia. Sta attenta a non peggiorare!

Due giorni dopo questi discorsi tornarono alla capitale.

 

E Julia tornò alle sue angosce, e il conte di Bordaviella alle sue visite, anche se con più cautela. E fu quindi lei, Julia, quella che, esasperata, cominciò prestare attenzione alle velenose insinuazioni dell’amico, ma soprattutto a ostentare l’amicizia davanti al marito, che si limitava a dire, qualche volta: «Bisognerà tornare in campagna, per sottoporti a delle cure».

Un giorno, al colmo dell’esasperazione, Julia assalì suo marito, dicendogli:

– Tu, non sei un uomo, Alejandro, no, non sei un uomo!

– Chi, io? E perché?

– No, non sei un uomo, non lo sei!

– Spiegati.

– Lo so che non mi ami; che di me non t’importa niente; che non sono per te nemmeno la madre di tuo figlio, che ti sei sposato con me solo per vanità, per ostentazione, per esibirmi, per insuperbirti con la mia bellezza, per…

– Dai, dai; queste son cose da romanzo! Perché non sono un uomo?

– Lo so che non mi ami…

– Ti ho già detto cento volte che questa faccenda dell’amare o non amare, e l’amore e tutte quelle sciocchezze sono conversazioni da the contale o danzante.

– Lo so che non mi ami…

– Bene, e che altro?

– Che tu acconsenta che il conte, il micetto, come lo chiami tu, entri qui a tutte le ore…

– Chi lo consente sei tu!

– Perché non dovrei consentirlo, se è il mio amante! L’hai sentito? Il mio amante. Il micetto è il mio amante!

Alejandro rimase impassibile, guardando sua moglie. E questa che aspettava di vederlo scoppiare, esaltandosi ancor più, gridò:

– E ora? Non mi uccidi come l’altra?

– Non è vero che ho ucciso l’altra, né è vero che il micetto è il tuo amante. Stai mentendo per provocarmi. Mi vuoi trasformarmi in un Otello. Ma casa mia non è un teatro. E se continui così, finirà che diventerai pazza e dovremo rinchiuderti.

– Pazza? Pazza io?

– Da legare! Arrivare a credere che hai un amante! Cioè, voler farlo credere a me! Come se mia moglie mi potesse tradire! Me! Alejandro Gómez non è affatto un micetto; non è altro che un uomo vero! E no, non otterrai quel che cerchi; non otterrai che io ti regali la mia attenzione con tutte queste parole da romanzo e da the danzanti o da conti. La mia casa non è un teatro.

– Codardo! Codardo! Codardo! – gridò Julia fuori di sé. – Codardo!

– Qui bisogna prendere dei provvedimenti, – disse il marito.

E se ne andò.

 

Due giorni dopo questa scena, e dopo averla tenuta rinchiusa durante tutto questo tempo, Alejandro la chiamò nel suo ufficio. La povera Julia era terrorizzata. Nell’ufficio l’aspettavano, con suo marito, il conte di Bordaviella e altri due signori.

– Guarda Julia – le disse con terribile calma suo marito – Questi due signori sono medici alienisti che vengono, su mia richiesta, a informarsi del tuo stato affinché possiamo metterti in cura. Tu non stai bene con la testa, e nei momenti che hai di lucidità lo devi capire.

– Cosa fai tu qui, Juan? – domandò Julia al conte, senza badare, senza far caso al marito.

– Vedete, – disse questo rivolto ai medici – Persiste nelle sue allucinazioni, si ostina a dire che questo signore è…

– Sì, è il mio amante! – lo interruppe lei. – Se non mi credete, che lo dica lui.

Il conte guardava il pavimento.

– Lei lo vede, signor conte, – disse Alejandro a Bordaviella, – come persiste nella sua pazzia. Perché lei non ha avuto, non ha potuto avere nessun genere di relazione con mia moglie…

– Certo che no! – esclamò il conte.

– Vedete dunque – disse Alejandro girandosi verso i medici.

– Ma come – gridò Julia – ti permetti tu, tu, tu Juan, tu, il mio micetto, di negare che sono stata tua?

Il conte tremava sotto lo sguardo freddo di Alejandro, e disse:

– Si calmi, signora, e torni in sé. Lei sa bene che niente di tutto ciò è vero! Lei sa che se io frequentavo questa casa, era come amico, tanto di suo marito come di lei stessa, signora, e che io, un conte di Bordaviella, non farei mai un simile affronto a un amico come…

– Come me! – l’interruppe Alejandro. – A me? A me? Ad Alejandro Gómez? Nessun conte mi può fare un affronto, né mia moglie può ingannarmi. Già lo vedete, signori, che la poveretta è pazza…

– Ma anche tu, Juan? Anche tu, micetto? – gridò lei – Codardo! Codardo! Codardo! Mio marito ti ha minacciato, e per paura, codardo, codardo, codardo, non osi dire la verità e ti presti a questa farsa infame, per dichiararmi pazza! Codardo, codardo, vile! E anche tu come mio marito…

– Lo vedete, signori? – disse Alejandro ai medici.

La povera Julia soffrì di un attacco nervoso e rimase quasi svenuta.

– Bene, ora, signor mio – disse Alejandro rivolgendosi al conte – noi ce ne andiamo e lasciamo che questi due signori medici, da soli con mia moglie, completino la loro visita.

Il conte lo seguì. E quando furono fuori della stanza, Alejandro gli disse:

– Dunque, lei lo sa già, signor conte: o mia moglie risulta pazza, o io faccio saltare il cervello a entrambi. Scelga lei.

– Quel che devo fare è pagarle ciò che le devo, per non avere più conti con lei.

– No, quello che deve fare è di tenere a bada la lingua. Così restiamo d’accordo che mia moglie è pazza da legare e che lei è uno stupido bello e buono. E occhio a questa! – e gli mostrò una pistola.

Quando, poco dopo, uscirono i medici dallo studio di Alejandro, si dicevano tra loro:

– Questa è una tremenda tragedia! Cosa facciamo?

– Che possiamo fare se non dichiararla pazza? Perché, in caso contrario, quell’uomo uccide lei e uccide quel disgraziato conte.

– Ma, e la coscienza professionale?

– Qui la coscienza consiste nell’evitare un crimine maggiore.

– Non sarebbe meglio dichiarare pazzo lui, don Alejandro?

– No, lui non è pazzo, è un’altra cosa.

– Niente meno che un vero uomo, come dice lui.

– Povera donna! Faceva pena sentirla! Quel che io temo è che finisca per diventare davvero pazza.

– Dichiarandola pazza, quindi, forse la salviamo. Per lo meno la si toglie da questa casa.

E, in effetti, la dichiararono pazza. E, con questa dichiarazione, fu rinchiusa da suo marito in un manicomio.

 

Una notte totale, oscura, tenebrosa e fredda, senza stelle, cadde nell’anima di Julia, quando si vide rinchiusa in manicomio. L’unica consolazione che le restava era che le portavano quasi tutti i giorni il suo figlioletto, perché lo vedesse. Lo prendeva in braccio e gli bagnava il visetto con le sue lacrime. E il povero piccino piangeva senza sapere perché.

– Ah, figlio mio, figlio mio! – gli diceva – Se potessi toglierti tutto il sangue di tuo padre! Perché è tuo padre!

E quand’era sola, la povera donna, sentendosi al limite della pazzia, si diceva: «Non finirò per diventare pazza davvero in questa casa? E per credere che fu solo un sogno o un’allucinazione il mio rapporto con quell’infame conte? Codardo, sì, codardo, vile! Abbandonarmi così! Lasciare che mi rinchiudessero qui! Il micetto, sì, il micetto! Ha ragione mio marito! E lui, Alejandro, perché non ci uccise? Ah, no! Questa è una ben più terribile vendetta! Uccidere quel vile micetto!… No, umiliarlo, farlo mentire e abbandonarmi! Tremava davanti a mio marito, sì tremava davanti a lui! Ah, è che mio marito è un uomo! E perché non mi ha ucciso? Otello mi avrebbe ucciso! Ma Alejandro non è Otello, non è così brutale come Otello. Otello era un moro impetuoso, ma poco intelligente. E Alejandro… Alejandro, ha una poderosa intelligenza al servizio della sua infernale superbia plebea. No, quell’uomo non ebbe bisogno di uccidere la sua prima moglie; la fece morire. Morì di paura dinanzi a lui. E io… mi ama?».

E lì, nel manicomio, il suo cuore e la sua mente cominciarono di nuovo a insistere con il tormentoso dilemma: “Mi ama, o non mi ama?”. E poi si diceva «Io sì che lo amo! E ciecamente».

E, per timore d’impazzire davvero, finse d’essere guarita, assicurando che era stata un’allucinazione la sua relazione con il conte di Bordaviella. Avvisarono il marito.

Un giorno chiamarono Julia dove suo marito la stava aspettando, in un parlatorio. Lui entrò e lei si gettò ai suoi piedi singhiozzando:

– Perdonami, Alejandro, perdonami!

– Alzati, donna! – e la alzò.

– Perdonami!

– Perdonarti? Ma di cosa? Se mi avevano detto che eri già guarita… che ti erano passate le allucinazioni…

Julia guardò gli occhi freddi e penetranti di suo marito con terrore. Con terrore e con un folle affetto. Era un amore cieco, tutt’uno con un terrore non meno cieco.

– Sì, hai ragione, Alejandro, hai ragione; sono stata pazza, pazza da legare. Per renderti geloso, nient’altro che per renderti geloso, inventai quelle cose. Tutta fu una menzogna. Come potevo tradirti io? Io? Te? Te? Mi credi ora?

– Una volta, Julia, – le disse con voce di ghiaccio suo marito – mi chiedesti se fosse vero o no che io avessi ucciso la mia prima moglie, e, per risposta, ti chiesi io a mia volta se ci potevi credere. E cosa mi dicesti?

– Che non lo credevo, che non potevo crederlo.

– Bene, ora io ti dico che non ho mai creduto, che non potevo credere che ti fossi data a quel micetto. Ti basta?

Julia tremava, sentendosi davvero vicina alla pazzia; della pazzia del terrore e dell’amore fusi in un tutt’uno.

– E ora – aggiunse la povera donna, abbracciando suo marito e parlandogli all’orecchio – Ora, Alejandro, dimmi: mi ami?

E in quel momento lei, la sua povera moglie, vide in Alejandro, per la prima volta, qualcosa che non aveva mai visto prima in lui; gli scoprì una piega dell’anima terribile ed ermetica che l’uomo della fortuna teneva gelosamente sigillata. Fu come un lampo di luce illuminasse per un momento il lago nero, tenebroso di quell’anima, facendone brillare la superficie. E fu così che vide spuntare due lacrime negli occhi freddi e taglienti come rasoi di quell’uomo. E questi scoppiò:

– Come ti amo, tesoro, come ti amo! Con tutta l’anima, con tutto il sangue, e con tutte le viscere; più che me stesso. All’inizio, quando ci sposammo, no. Ma adesso? Adesso sì! Ciecamente, pazzamente. Sono tuo più che tu mia!

E baciandola con una furia animale, febbrile, paonazzo, come folle, balbettava:

– Julia! Julia! Mia dea! Mio tutto!

Lei credette di diventare pazza vedendo nuda l’anima di suo marito.

– Adesso vorrei morire, Alejandro, – gli mormorò all’orecchio, piegando la testa sulla sua spalla.

A queste parole, l’uomo sembrò risvegliarsi e tornare in sé come da un sogno; e, come se si fosse inghiottito con gli occhi, ora di nuovo freddi e taglienti, quelle due lacrime, disse:

– Questo non è successo, eh, Julia? Adesso lo sai; ma io non ho detto quello che ho detto… dimenticalo!

– Dimenticarlo?

– Bene, ricordatene, ma come se non lo avessi sentito!

– Tacerò…

– Devi tacerlo a te stessa!

– Me lo tacerò, ma …

– Basta!

– Ma, Dio mio, Alejandro, lasciami un momento, un momento almeno… Mi ami per me, per me e anche se fossi di un altro, o perché sono una cosa tua? .

– Ti ho già detto che lo devi dimenticare. E non insistere, perché se insisti ti lascio qui. Sono venuto tirarti fuori; ma devi uscire di qui guarita.

– E guarita sono! – affermò la donna con allegria.

E Alejandro si riportò sua moglie a casa sua.

 

Pochi giorni dopo che Julia era tornata dal manicomio, il conte di Bordaviella ricevette non un invito, bensì un ordine di Alejandro per andare a pranzare a casa sua.

«Come lei già saprà, – gli diceva per lettera – mia moglie è uscita dal manicomio completamente guarita; e siccome la poveretta, nell’epoca del suo delirio, l’ha offesa gravemente (benché senza intenzione d’offendere) credendola capace d’infamie di cui lei, un perfetto gentiluomo, è assolutamente incapace, la prega, per mio tramite, di venire dopo domani, giovedì, a pranzo con noi, per darle le soddisfazioni che a un gentiluomo, come lei è, si devono dare. Mia moglie la prega, e io glielo ordino. Perché se lei non viene in quel giorno a raccogliere queste soddisfazioni e spiegazioni, ne soffrirà le conseguenze. E lei sa già di che cosa è capace. Alejandro Gómez»

 

Il conte di BordavieIla arrivò all’appuntamento pallido, tremante e sconvolto. Il pranzo trascorse tra le più lugubri conversazioni. Si parlò di tutte le più grandi frivolezze – davanti ai domestici – fra gli scherzi più sporchi e feroci di Alejandro. Julia faceva lo stesso. Dopo il dessert, Alejandro, rivolgendosi al domestico, gli disse: «Porta il the».

– Il the? – si lasciò sfuggire il conte.

– Sì, signor conte. – gli disse il padrone di casa, – Non è che mi faccia male la pancia, no; ma fa tenere un certo tono. Il the si accompagna molto bene con le soddisfazioni fra gentiluomini.

E rivolgendosi al domestico: «Vattene!».

Rimasero loro tre soli. Il conte tremava. Non osava assaggiare il the.

– Servi prima me, Julia. – disse il marito. – Lo prenderò io per primo, affinché lei veda, signor conte, che in casa mia si può prendere tutta con fiducia.

– Ma se io…

– No, signor conte. Anche se io non sono un gentiluomo, né molto né poco, non sono arrivato ancora a certe cose. E ora mia moglie vuole darle qualche spiegazione.

Alejandro guardò Julia, e questa, lentamente, con voce di fantasma, cominciò a parlare. Era splendidamente bella. Gli occhi le brillavano con una lucentezza simile al lampo. Le sue parole fluivano fredde e lente, ma si indovinava che sotto di esse c’era un fuoco consumatore.

– L’ho fatta chiamare da mio marito, signor conte, – disse Julia, – perché devo darle soddisfazione per averla offesa gravemente.

– Me, Julia?

– Non mi chiami Julia! Sì, lei. Quando diventai pazza, pazza d’amore per mio marito, cercando a ogni costo di assicurarmi se mi amava o no, volli prendere lei come strumento per eccitare la sua gelosia, e nella mia pazzia giunsi al punto di accusare lei di avermi sedotta. Questa fu una menzogna, e sarebbe stata un’infamia da parte mia se io non fossi stata, come ero, pazza. Non è così, signor conte?

– Sì, è così, donna Julia…

– Signora Gómez. – corresse Alejandro.

– Ciò di cui l’accusai quando, mio marito e io, la chiamavamo il micetto… Ci perdoni anche questo nomignolo!

– È perdonato!

– Ciò di cui l’accusai allora fu un’azione vile e infame, indegna di un gentiluomo come lei.

– Molto bene, – aggiunse Alejandro, – molto bene! Azione vile e infame, indegna di un gentiluomo! Molto bene!

– E benché, come ripeto, mi si può e mi si deve scusare a causa del mio stato di allora, io voglio, tuttavia, che lei mi perdoni. Mi perdona?

– Si, sì. Le perdono tutto; perdono tutto a entrambi – sospirò il conte, più morto che vivo e ansioso di scappare quanto prima da quella casa.

– A entrambi? – interruppe Alejandro – Lei non ha nulla da perdonare a me.

– È vero! È vero!

– Andiamo, si calmi. – continuò il marito. – La vedo agitato. Prenda un’altra tazza di the. Andiamo, Julia, servi un’altra tazza al signor conte. Ci vuole del tiglio[3]?

– No, no!

– Bene; già che mia moglie le ha detto quello che le doveva dire, e che lei ha perdonato la sua pazzia, a me non resta altro che pregare che lei continui a onorare la nostra casa con le sue visite. Dopo ciò che è successo, lei capirà che sarebbe una brutta conseguenza se interrompessimo le nostre relazioni. E ora che mia moglie è già, grazie a me, completamente guarita, lei non corre più alcun pericolo venendo qua. E come prova della mia fiducia nella totale guarigione di mia moglie, vi lascio soli, se per caso Julia volesse dirle qualcosa che non osa dire davanti a me o che io, per delicatezza, non devo udire.

E Alejandro uscì, lasciandoli faccia a faccia e uno più sorpreso dell’altra di quella condotta. «Che uomo!» pensava lui, il conte, e Julia: «Questo è un uomo!».

Seguì un opprimente silenzio. Julia e il conte non osavano guardarsi. Il conte di Bordaviella guardava la porta da dove era uscito il marito .

– No, – gli disse Julia, – non guardi così. Lei non conosce mio marito Alejandro. Non è dietro alla porta, spiando quel che diciamo.

– Che ne so! Sarebbe capace di portare testimoni.

– Perché lei dice questo, signor conte?

– Vuole che non ricordi quando condusse i due medici, in quella terribile scena in cui mi umiliò quanto più non si può, e commise l’infamia di far sì che la dichiarassero pazza?

– E questa era la verità, perché se io allora non fossi stata pazza, non avrei detto, come dissi, che lei era il mio amante.

– Ma…

– Ma cosa, signor conte?

– Voi volete dunque dichiarare pazzo anche me o farmici diventare? Vorrebbe forse negare, Julia…

– Donna Julia, o signora Gómez!

– Vorrebbe forse negare, signora Gómez che, fosse per il motivo che fosse, lei finì non solo per accettare le mie galanterie; non le galanterie, ma anche il mio amore?

– Signor conte!

– Che finì non solo per accettare, ma che era lei che provocava, e che avremmo finito…

– Già le ha detto, signor conte, che allora ero pazza, e non ho bisogno di ripeterglielo.

– Vorrebbe forse negare che io cominciavo a essere il suo amante?

– Torno a ripeterle che ero pazza.

– Non posso restare un momento di più in questa, casa! Addio!

Il conte tese la mano a Julia, temendo che lei l’avrebbe rifiutata. Ma lei gliela strinse e gli disse:

– A ogni modo lei sa quello che ha detto mio marito. Lei può venire qui quando vuole, e ora che sono già, grazie a Dio e ad Alejandro, completamente guarita, guarita del tutto, signor conte, sarebbe brutto che lei sospendesse le sue visite.

– Ma, Julia…

– Cosa? Torna sulla stessa strada? Non le ho detto che allora ero pazza?

– Chi va a diventare pazzo grazie a voi, a lei e a suo marito, sono io…

– Lei? Lei pazzo? Non mi sembra facile…

– Chiaro, il micetto!

Julia scoppiò a ridere. E il conte, imbarazzato e vergognoso, uscì da quella casa, decidendo di non tornarci più.

 

Tutte queste tempeste dello spirito spezzarono la vita della povera Julia, che cadde gravemente ammalata, malata di mente. Ora sì sembrava davvero che sarebbe diventata pazza. Cadeva con frequenza in deliri, in cui chiamava il marito con le più ardenti e appassionate parole. E l’uomo assecondava i dolorosi impeti di sua moglie, cercando di calmarla: «Tuo, tuo, tuo, solo tuo e nient’altro che tuo!» le diceva all’orecchio, mentre lei, abbracciata al suo collo, se lo stringeva quasi al punto di soffocarlo.

La condusse ai suoi pascoli, per vedere se la campagna la guariva. Ma il male la stava uccidendo. Qualche cosa di terribile succedeva dentro di lei.

Quando l’uomo della fortuna vide che la morte gli stava strappando sua moglie, entrò in un furore freddo e persistente. Chiamò i migliori medici. «Tutto è inutile» gli dicevano.

– Me la salvi! – diceva al medico.

– Impossibile, don Alejandro, impossibile!

– Me la salvi, in qualsiasi modo. Tutta la mia fortuna, tutti i miei milioni per lei, per la sua vita!

– Impossibile, don Alejandro, impossibile!

– La mia vita, la mia vita per la sua! Lei non sa fare la trasfusione di sangue? Toglietemi tutto il mio a me e datelo a lei. Su, me lo tolga!

– Impossibile, don Alejandro, impossibile!

– Come, impossibile? Il mio sangue, tutto il mio sangue per lei!

– Solo Dio può salvarla!

– Dio? Dov’è Dio? Non ho mai pensato a Lui.

E poi a Julia, sua moglie, pallida, ma sempre più bella, bella della bellezza dell’imminente morte, diceva:

– Dov’è Dio, Julia?

E lei, indicandoglielo con lo sguardo verso l’alto, così i suoi grandi occhi diventarono quasi bianchi, gli disse con un filo di voce:

– Ce l’hai lì!

Alejandro guardò il crocifisso che stava al capezzale del letto di sua moglie, lo prese e stringendolo nel pugno, gli diceva: «Salvamela! Salvamela e chiedimi tutto, tutto, tutto: tutta la mia fortuna, tutto il mio sangue; tutto me stesso… tutto me stesso».

Julia sorrideva. Quel furore cieco di suo marito le stava riempiendo l’anima di una luce dolcissima. Che felice era, alla fin fine! Dubitò mai che quell’uomo l’amasse?

La povera donna stava perdendo la vita goccia a goccia. Era marmorea e fredda. E allora sua marito si sdraiò con lei e l’abbracciò forte e voleva darle tutto il suo calore, il calore che sfuggiva alla poveretta. E le volle dare il suo fiato. Era come pazzo. E lei sorrideva.

– Muoio, Alejandro, muoio.

– Non muori – le diceva lui – non puoi morire!

– Forse tua moglie non può morire?

– No. Mia moglie non può morire. Prima morirò io. La vedremo. Che venga la morte, che venga. Per me! Per me la morte! Che venga!

– Ah, Alejandro! Adesso considero tutto ben sofferto! E io che dubitai che mi amassi…

– No, non ti amavo, no! Queste dell’amore, te l’ho detto mille volte, Giulia, sono sciocchezze da libri. Non ti amavo, no! Amore… amore… Questi miserabili codardi che parlano d’amore, lasciano morire le loro mogli. No, non è amare… Non ti amo…

– E allora cosa? – domandò Julia con il più sottile un filo di voce, tornando a essere presa dalla sua antica angoscia.

– No, non ti amo… Ti… ti … ti… non ci sono parole! – E scoppiò in secchi singhiozzi, in singhiozzi che sembravano rantolo, un rantolo di pena e di amore selvaggio.

– Alejandro!

E in questa debole invocazione c’era tutto il triste giubilo del trionfo.

– Non morirai! Non puoi morire! Non voglio che tu muoia! Uccidimi, Julia, e vivi! Forza! Uccidimi, uccidimi, uccidimi!

– Se muoio…         .

– E io con te!                       .

– E il bambino, Alejandro?

– Che muoia anche lui. Perché dovrei volerlo senza di te?

– Dio mio, Dio mio, Alejandro, sei pazzo!

– Sì, io sono il pazzo, sono io chi è stato sempre pazzo… pazzo di te, Julia, pazzo di te… Io, io il pazzo! Uccidimi, portami via con te!

– Se potessi!

– Ma no, uccidimi e vivi e sii tua!

– E tu?

– Io? Se non posso esser tuo, sarò della morte!

E la stringeva sempre più, volendo trattenerla.

– Bene, alla fine dimmi: chi sei, Alejandro? – gli domandò Julia all’orecchio.

– Io? Niente più che il tuo uomo… ciò che tu mi hai fatto!

– Alejandro!

Questo nome suonò come un sussurro d’oltretomba, come dalla riva della vita, quando la barca parte per il lago tenebroso.

Poco dopo, Alejandro sentì che fra le sue braccia d’atleta non teneva altro che delle spoglie. E nella sua anima c’era una notte inoltrata e imperversante. Si alzò e rimase a guardare la rigida ed esanime bellezza. Non l’aveva mai vista così splendida. Sembrava bagnata dalla luce dell’alba eterna, dopo l’ultima notte. E sopra quel ricordo, in carne già fredda, sentì passare, come una nube di ghiaccio, tutta la sua vita, quella vita che aveva tenuto nascosta a tutti, perfino a se stesso. Ripensò alla sua terribile infanzia e a come sussultava sotto gli spietati colpi che gli dava suo padre, e come lo malediceva, e come una sera, esasperato, strinse il pugno, agitandolo con violenza davanti a un Cristo della chiesa del suo paese.

Uscì infine dalla stanza, chiudendo dietro di sé la porta. E cercò il bambino. Il piccolino aveva poco più di tre anni. Il padre lo prese e si rinchiuse con lui. Cominciò a baciarlo con frenesia. E il bambino, che non era abituato ai baci di suo padre, giacché non ne aveva mai ricevuto uno, si mise a piangere.

– Taci, figlio mio, taci! Mi perdoni quel che sto per fare? Mi perdoni?

Il bambino taceva, guardando impaurito suo padre, che cercava nei suoi occhi, nella sua bocca, nei suoi capelli, gli occhi, la bocca, i capelli di Julia.

– Perdonami, figlio mio, perdonami!

Si chiuse un momento nel suo studio per regolare le sue ultime volontà. Poi, si rinchiuse di nuovo con sua moglie, con ciò che era stato sua moglie.

– Il mio sangue per il tuo, – le disse, come se lei lo sentisse, Alejandro. – La morte ti portò via! Vengo a cercarti!

Credette per un momento di veder sorridere sua moglie e che muovesse gli occhi. Cominciò a baciarla freneticamente, per vedere se magari risuscitava, a chiamarla, a dirle terribili tenerezze all’orecchio. Era fredda.

Quando più tardi, dovettero forzare la porta della camera mortuaria, lo trovarono abbracciato a sua moglie e bianco dell’ultimo freddo, dissanguato e insanguinato.

 

Salamanca, aprile 1916

Note

[1] Renada è un’immaginaria città della Spagna, in cui Unamuno ambientò anche un altro suo romanzo, San Manuel Bueno, mártir (1923). (N. d. C.)

[2] Si chiamavano “indiani” gli spagnoli che, partiti per far fortuna in America, arricchiti o meno tornavano in patria. Lo stesso padre di Unamuno era un “indiano”, essendo vissuto per alcuni anni in Messico. (N. d. C.)

[3] È comune in Spagna l’uso dei fiori di tiglio in infusione, anche mescolati alle foglie di the. (N. d. C.)

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