L’inquietante sensazione è che il marketing di Sanremo si sia mangiato proprio tutto: perfino il Presidente della Repubblica, voluto e acquisito al Festival dall’onnipotente manager di Amadeus e Benigni, in una indecorosa “privatizzazione” della massima magistratura repubblicana, all’insaputa degli organi di governo del servizio (già) pubblico.

Del resto, la forza di Sanremo è questa: essere sempre, nel bene e nel male, lo specchio fedele dello stato delle cose. Ed è innegabile che l’imbarazzante rappresentazione della nostra eterna società di corte, col sovrano benedicente in persona e l’aedo osannante, sia stata terribilmente efficace: proprio perché capace di raccontarci per come siamo veramente, al di là delle intenzioni dei protagonisti. Per la stessa ragione, il preteso inno d’amore di Roberto Benigni è stato così imbarazzante: perché la Costituzione è tutto tranne che uno strumento di celebrazione del potere costituito. La Carta – diceva Piero Calamandrei «è una polemica contro il presente, contro la società. Perché quando l’articolo 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare». Ebbene, la retorica fluviale di un Benigni autoridottosi a cantore dello stato delle cose è esattamente il contrario di queste parole acuminate: la Costituzione viene depotenziata, messa al guinzaglio, normalizzata. Diventa un bel sogno, del tutto inconferente con una realtà che, anno dopo anno, la contraddice sempre più profondamente. Bisognerebbe ricordare, allora, che la Costituzione è “sorella” di chi si batte davvero per farla rispettare e attuare: non di chi assiste inerte a questa deriva, rimanendo al potere da decenni. Altrimenti nulla rimane della «rivoluzione promessa» che, sempre secondo Calamandrei, vi è racchiusa: la Carta diventa un soprammobile trasmesso per via ereditaria, un innocuo sedativo utile ad addormentare del tutto le coscienze.

L’apice dell’ipocrisia si è toccato nel passaggio sulla prima parte del primo comma dell’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra». «Il verso di una poesia, una scultura», l’ha definita Benigni, esaltandone «la forza, la bellezza, la perentorietà», e concludendo che «se questo articolo lo avessero adottato le altre costituzioni del mondo non esisterebbe più la guerra sulla faccia della Terra». Fosse stato presente un bambino, uno di quelli capaci di dire che il re è nudo, avrebbe potuto urlare che non basterebbe affatto che altri paesi adottassero questo articolo: lo dovrebbero poi anche attuare! Perché se lo facessero con la stessa coerenza dell’Italia, allora le guerre sarebbero ben lungi dallo scomparire. Un anno fa, al tempo dei primi invii di armi all’Ucraina aggredita dalle truppe di Putin, i costituzionalisti si divisero tra chi riteneva quell’aiuto compatibile con l’articolo 11, e chi invece riteneva che fossimo fuori dalla Costituzione. Tutti, però, concordavano che se quell’invio non fosse stato immediatamente accompagnato da una forte azione diplomatica, allora si sarebbe configurata la situazione di una risoluzione di una controversia internazionale solo attraverso l’uso della forza. Che è esattamente ciò che la Costituzione vieta: ed è anche esattamente ciò che, purtroppo, è poi puntualmente successo. Ci possono essere ben pochi dubbi, oggi, sul fatto che il continuo invio di armi, e la nostra partecipazione a un fronte occidentale che prolunga la guerra come mezzo per contrastare l’influenza di Russia e Cina, sia contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione. Appare chiaro che l’Italia non sta lavorando per la pace, ma per la “vittoria” contro Putin: ciò che la Costituzione ci proibisce di fare! La guerra, insomma, non la stiamo affatto ripudiando: come dimostra ad usura la presenza di un esponente di spicco dell’industria delle armi al ministero della Difesa. Non è la prima volta che accade, purtroppo. Nel 1999 il primo Governo D’Alema (di cui Sergio Mattarella era vicepresidente del Consiglio; per poi passare alla Difesa nel secondo dicastero D’Alema) partecipò a una guerra illegittima sia per la Carta dell’Onu, sia per la nostra Costituzione. Non c’è da stupirsi: la logica del potere non è la logica della Costituzione. Quel che invece deve stupirci, e indignarci, è l’ipocrisia con cui un artista si piega al servo encomio, e alla propaganda che tutto questo vorrebbe nascondere. «L’arte e la scienza sono libere», dice la Costituzione: ma se sono gli artisti a consegnarsi a una servitù volontaria, allora per l’ennesima volta quelle parole rimangono inerti.

Capisco perfettamente chi pensa che in questo terribile momento, con un presidente del Senato che rivendica spavaldamente le sue radici fasciste, sia il caso di “prendere quello che c’è”: e dunque disapprova critiche esplicite a Mattarella, o alla retorica antifascista di maniera di un Benigni. Ma penso che sia una posizione sbagliata. Se siamo precipitati in questo abisso, è proprio a causa di un centro-sinistra che ha totalmente rinnegato il progetto della Costituzione, e ha praticato un antifascismo retorico e alla fine spuntato e anzi controproducente. Ora il monologo ipocrita di Benigni e la presenza incongrua di Mattarella a Sanremo servono a celebrare qualcosa che non c’è, a tenere in piedi la facciata che copre un enorme vuoto. Anche sul piano simbolico c’è un chiaro effetto boomerang: con la destra che insorge pretendendo che a Sanremo si ricordino anche le Foibe, continuando in quella campagna di parificazione tra fascismo e antifascismo che proprio il centro-sinistra ha sdoganato, anzi avallato.

Non si guarisce senza una cura adeguata: e una diagnosi obiettiva, financo spietata, è il primo passo da compiere. Il mondo politico e culturale, cui Benigni e Mattarella appartengono, ha responsabilità enormi nel tracollo politico e culturale che ci ha condotti fin qui: cominciamo almeno a dire che non c’è proprio niente da celebrare. Ma, anzi, tutto da cambiare.

Fonte:volerelaluna