La crisi del capitalismo e l’ascesa del neofascismo

 

Il fascismo oggi può sposare il nazionalismo come valore fondamentale, ma il suo movimento è internazionale. Combattere contro questa nuova internazionale fascista, come la chiama Ugo Palheta, richiede un forte movimento socialista internazionale guidato da coloro che sono maggiormente sfruttati sotto l’attuale sistema capitalista. 

L’ascesa dell’estrema destra è un’ondata globale, radicata nelle crisi e nelle contraddizioni del capitalismo del nostro tempo. Questo è almeno l’argomento di Ugo Palheta nel suo ultimo libro, La Nouvelle Internationale fasciste, in cui insiste sul fatto che i movimenti di estrema destra — per quanto nazionalisti possano essere — non solo si ispirano a vicenda, ma si organizzano su scala internazionale, costruendo una comprensione comune oltre i confini che si basa essenzialmente sull’odio per l’uguaglianza. L’attuale momento storico è quindi segnato dall’emergere e dal sorgere di una ‘nuova internazionale fascista’, che può essere fermata solo dalla costruzione di un’Internazionale degli oppressi, radicata nelle lotte già presenti. Proponiamo qui uno stralcio del libro di Palheta, che indaga le condizioni in cui i neofascismi, questi nazionalismi di purificazione, possono prosperare.

Il neofascismo è già una forza globale. Si è formato un ‘campo magnetico’[1] dei neofascismi che ha permesso loro di attrarre sia ampi strati della popolazione che interi settori delle élites politiche e mediatiche alla ricerca di una nuova egemonia. Questa forza di attrazione varia di intensità da un paese all’altro, a seconda della loro storia, delle resistenze che incontra il neofascismo, della suscettibilità delle classi dominanti al nazionalismo radicale, della penetrazione di idee razziste e autoritarie nella popolazione, ecc. Ma la dinamica neofascista è globale perché scaturisce da un fenomeno che si è sviluppato parallelamente all’avvento del capitalismo neoliberista e alla sua successiva crisi. Una crisi multiforme: sociale, economica, ambientale e ovviamente politica.

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La crisi politica non è funzione della personalità di questo o quel leader nazionale, di scandali di corruzione qua e là, di scelte sbagliate fatte da alcune persone, o di altri aspetti situazionali e contingenti della politica prevalente. Si riferisce agli effetti a lungo termine delle politiche di privatizzazione, precarizzazione ed espropriazione imposte per decenni dalle classi dominanti ovunque nel mondo (a ritmi diversi a seconda delle resistenze che hanno incontrato). Una tale crisi politica ha l’ampiezza, o la profondità, di una crisi di egemonia: una crisi di rappresentanza politica, nel senso che la maggior parte dei partiti politici che si sono impegnati nella grande distruzione neoliberista hanno perso una parte considerevole della loro legittimità e della loro base sociale, o addirittura completamente crollata; una crisi di fiducia nelle istituzioni politiche, caratterizzato da crescenti tassi di astensione ovunque; una crisi di tutte le mediazioni tra le classi dominanti e il resto della popolazione (non ultima la crisi della stampa e dei media dominanti); così come una crisi del progetto portato avanti da queste classi dalla fine degli anni ’70, cioè il progetto neoliberista.

Questo progetto prometteva di liberare gli individui da tutti i vincoli che impedivano loro di realizzare il loro pieno potenziale, di essere ‘creativi’ e ‘innovativi’, di dimostrare il proprio talento o merito, in breve, di diventare imprenditori autonomi capaci di far fruttare il proprio capitale (piccoli o grandi, materiali o umani). Tassare meno sia le società che gli individui ricchi avrebbe dovuto stimolare la produzione di ricchezza, che sarebbe poi “caduta” dall’alto verso il basso della scala sociale; tutti beneficerebbero così di una rinnovata crescita. Invece di queste fantasmagorie, che hanno plasmato un intero immaginario individualista, produttivista e commerciale, ciò che abbiamo avuto è stata una nuova fase di accumulazione di capitale, privatizzazione (o degrado) dei servizi pubblici, distruzione dell’ambiente e ulteriore arricchimento dei più ricchi. In particolare, significava sottoporre i lavoratori alla concorrenza più spietata e porre lo Stato al massimo servizio della logica del massimo profitto a breve termine, a scapito della maggioranza, della natura e anche degli investimenti produttivi (soprattutto in infrastrutture utili a tutta la popolazione).

Il progetto neoliberista voleva essere egemonico, plasmare il consenso all’ordine sociale creando un nuovo senso comune e suscitando nuovi affetti, dopo il periodo storico che gli economisti avevano definito ‘fordista’, fondato su un compromesso sociale tra classi, i sindacati, aumento dei diritti sociali, condivisione della ricchezza meno sfavorevole ai lavoratori, ecc. Se il progetto neoliberista è riuscito innegabilmente (dal suo punto di vista) a minare tutto ciò che era collettivo e pubblico, è ora a brandelli perché la sua doppia promessa di abbondanza generalizzata e di liberazione non è mai stata mantenuta. Al contrario, le popolazioni si confrontano massicciamente con la precarietà e l’alienazione, soprattutto i giovani, le donne e le minoranze razziali.

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È a questo punto che entra in scena il neofascismo, come forza politica chiamata a subentrare al neoliberismo in termini di egemonia. Ciò che non si comprende quando il fascismo si riduce a bande armate, o alla militarizzazione della politica, è che esso non è semplicemente un insieme di tecniche repressive o metodi di intimidazione ma un progetto politico a vocazione egemonica. Il fascismo non si limita a randellare, seduce. E, da questo punto di vista, la sua forza sta nel fatto che può fare appello a tutte le classi:

♠ a una parte delle élite, che capiscono che il neoliberismo ha fatto il suo corso (non come dottrina economica ma come progetto politico);

♣ alle classi medie e medio-basse, che hanno paura di essere declassate e odiano la diversità (per sé o per i propri figli);

♥ e alle frange delle classi lavoratrici, sottoposte a una competizione sempre più intensa e che non vedono alternative politiche credibili.

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La forza ideologica del fascismo e del neofascismo è dunque quella di poter intervenire su un duplice piano: come difesa dell’ordine sociale costituito, potenzialmente per tutti coloro che hanno – o credono di avere – qualcosa da difendere; ma, anche, come promessa di un nuovo ordine per coloro che sono – o si considerano – spossessati o minacciati di spossessamento. Prendere sul serio questa dimensione egemonica ci permette di capire perché il fascismo storico, quando giunse al potere, riuscì a resistere molto più a lungo di quanto si aspettassero i suoi oppositori. L’avvento del fascismo non è il passaggio da un ordine basato sul consenso a un ordine basato sulla violenza, in altre parole, la nascita di un potere basato interamente sulla repressione, ma il passaggio a un nuovo modo di fabbricare il consenso. In quanto tale, il fascismo consente il mantenimento o il consolidamento dell’ordine sociale.

Oltre a un uso intensificato della forza (sebbene nessuna forma di potere poggi solo sul consenso), l’egemonia fascista implica nuove forme di disciplina ideologica e l’emergere di un asse politico-culturale che non sia più quello del pluralismo politico e dello stato di diritto, di ‘convivenza’ e ‘dialogo sociale’, di libertà e crescita. Ovunque, questo nuovo asse presenta le seguenti caratteristiche: la salvaguardia con tutti i mezzi di una ‘comunità nazionale’ concepita in termini etno-razziali più o meno espliciti e ristretti (a seconda dei tempi e dei paesi), ma sempre rivolta contro nemici che devono essere puniti perché formano un “partito degli stranieri” (“antifrancese”, “antiamericano”, “antinazionale”, ecc.). Chi sono questi nemici? Minoranze, la cui mera presenza visibile impedirebbe alla nazione di essere fedele alla sua ‘identità’; movimenti sociali, perché aspirano a dissolvere tutte le gerarchie ‘naturali’; l’immigrazione, che si dice metta a repentaglio la sicurezza delle “persone oneste”, occupi i posti di lavoro dei “veri cittadini” e minacci le finanze nazionali; e, infine, quelle élite che avrebbero aperto la nazione a tutti i venti del “globalismo”.

Nota

[1]  L’espressione “campo magnetico del fascismo” è qui ripresa dallo storico Philippe Burrin, autore di numerose opere sul fascismo storico, in particolare nelle sue varietà francesi.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Contretemps il 28 ottobre 2022.