La fantasia anti-migratoria dell’Occidente

 

Come chiedere agli africani di non cedere al richiamo del mare aperto quando i giovani europei, francesi, italiani e greci in particolare, espatriano sempre più spesso in giro per il mondo alla ricerca di nuove esperienze ma anche di lavori che “da noi non riescono a trovarli”?

Fin dal periodo coloniale, le politiche attuate in Africa hanno sempre oscillato tra la volontà di insediare le popolazioni africane e quella di farle spostare. La creazione dei “villaggi della libertà” all’inizio del XX secolo, in seguito all’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi dell’Africa occidentale, ha risposto a questa preoccupazione.

In questi spazi venivano raggruppati gli schiavi fuggiti dal commercio interno, ma la loro liberazione fu di breve durata poiché furono presto reclutati come lavoratori forzati destinati a costruire strade e grandi insediamenti agricoli[1 ] .

La gestione del lavoro è stata quindi sempre al centro degli obiettivi dell’amministrazione coloniale che costrinse in particolare i contadini Mossi dell’Alto Volta (l’attuale Burkina Faso) a stabilirsi nelle terre dell’Office du Niger, così come arruolò lavoratori forzati per fornire manodopera per le piantagioni della Costa d’Avorio di proprietà dei coloni.

Allo stesso modo, la Francia non esitò a importare interi contingenti di “tirailleurs” durante e dopo le due guerre mondiali, così come si adoperò per portare manodopera in massa dall’Africa occidentale durante i Trenta Anni Gloriosi.

Questi movimenti forzati o incoraggiati di manodopera hanno ovviamente influenzato le regioni di origine di questi migranti al punto che alcuni di loro ora vivono solo del reddito trasferito dai loro membri espatriati. Ed è per questo che possiamo giustamente chiederci se l’impulso iniziale di questa partenza migratoria – riconducibile alla tratta degli schiavi – non abbia innescato un processo ormai incontrollabile di migrazione dall’Africa. In breve, possiamo legittimamente sostenere che la schiavitù e la disintegrazione coloniale dell’Africa sono indirettamente responsabili dell’attuale afflusso di popolazione in Europa [2] .

Possiamo quindi ritenere che le dichiarazioni che i leader europei fanno attualmente su questo tema siano particolarmente ipocrite poiché insistono sulla necessità di attuare una “immigrazione selezionata” destinata a coprire “posti di lavoro in tensione”, soddisfacendo perfettamente la presenza dei “senza documenti”, lavoratori che forniscono contingenti significativi di lavoro precario come si può osservare tra i fattorini delle varie piattaforme che operano in questo settore. L’Africa, infatti, e il Sud in generale, è sempre stato un “esercito di riserva industriale e del lavoro” (Marx) per le altre parti del mondo: Europa, Americhe, Maghreb, Medio Oriente, ecc. Un esercito di riserva che solo il resto del mondo si arroga il diritto di regolare, aprendo e chiudendo i confini secondo le sue esigenze.

Un’altra fantasia volta a contenere l’afflusso di queste popolazioni verso l’Europa consiste nel far emergere l’eterna antifona dello “sviluppo”.

Perché, d’altro canto, per soddisfare l’estrema destra, che sia al potere (Italia, Ungheria) o minacci di farlo (Francia), bisogna contenere anche questi nuovi “barbari” che minacciano di rubare il lavoro agli europei quando non minacciano la “civiltà giudaico-cristiana”. Abbiamo quindi bisogno di bacini di ritenzione situati nel sud del Mediterraneo ed è questo il ruolo di nuovo “limes” che stanno svolgendo Turchia e Tunisia.

Un altro modo o un’altra fantasia volta a contenere l’afflusso di queste popolazioni verso l’Europa consiste nel far emergere l’eterna antifona dello “sviluppo” che è necessario impiantare nei paesi che sono punti di partenza delle migrazioni. Nessun discorso sulla necessità di regolamentare queste migrazioni senza includere una sezione sul necessario sviluppo di questi paesi, anche se nessuno crede più davvero a questa ricetta. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, nel settore agricolo africano sono emersi innumerevoli progetti di sviluppo nel settore agricolo, progetti che spesso sono falliti e il cui fallimento ha spinto le potenze occidentali e le organizzazioni internazionali a rivolgersi, cioè ai donatori, alle ONG ritenute più in grado di svolgere questo ruolo e soddisfare i bisogni delle popolazioni.

Un solo esempio di ONG corroborerà l’idea illusoria secondo cui lo sviluppo delle attività economiche in loco consentirebbe di arginare questi flussi migratori sud-nord. La ONG “Permakabadio” con sede a Kabadio in Casamance, nel sud del Senegal, è, come indica il nome, dedicata alla permacultura; e il suo obiettivo dichiarato è quello di fermare la migrazione dei giovani da questo villaggio verso l’Europa [3] .

In questa società che fa parte dell’universo Manding dell’Africa occidentale, la migrazione è principalmente opera di giovani uomini. Sono intrappolati nella rete di una società oppressiva che li costringe a cercare fuori dalla loro regione i mezzi monetari per provvedere ai bisogni delle loro famiglie ma anche per ottenere la dote necessaria per ottenere una moglie. Infatti, come in molte altre società africane, e anche se la società Manding della Casamance ha forti tratti matrilineari, il movimento delle donne, attraverso il meccanismo della dote, è controllato dagli uomini, qui lo zio materno, in modo che gli anziani “tengano” i più giovani in un certo senso e costringere questi ultimi a procurarsi i mezzi monetari per far fronte alle spese del matrimonio.

L’ONG “Permakabadio”, (localmente chiamata “Bindoula”), creata dai francesi, ha cercato quindi di risolvere questo problema tentando attraverso la permacultura, cioè la creazione di giardini irrigati progettati in una prospettiva ambientale, di fornire una fonte di reddito per questi giovani, alternativo a quello migratorio. Sfortunatamente, questa azione non ha soddisfatto le aspettative dei suoi ideatori, principalmente per due motivi. Innanzitutto, nella società Manding, come in altre società africane, il giardinaggio è compito delle donne, per cui risulta poco attraente, o addirittura ripugnante, per i giovani uomini. D’altra parte, l’arrivo delle donne occidentali in questa ONG è stato di grande interesse per loro nella misura in cui potevano sperare che i legami stabiliti con loro avrebbero portato a matrimoni che avrebbero permesso loro di raggiungere l’Europa.


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Con il termine arabo “sahel” – letteralmente “bordo del deserto” – s’intende quella fascia di territorio africano che attraversa orizzontalmente tutto il continente, fungendo da area di passaggio tra l’arido deserto del Sahara a Nord e la fertile savana arborata a Sud. Secondo Jean-Loup Amselle, tra i massimi antropologi contemporanei, a questa categoria geografica è stata associata una questione socio-culturale e politica del tutto arbitraria: il Sahel non esiste e nasce esclusivamente all’interno del contesto coloniale francese. Un tempo il territorio era attraversato dagli imperi Ghana, Mali e Songhai, che mettevano in comunicazione l’Africa subsahariana con le coste del Mediterraneo. Sulle rotte commerciali di Timbuctù, Djenné e Kong viaggiavano le carovane che trasportavano l’oro in Europa e gli schiavi in direzione del mondo arabo-musulmano. A questo asse Nord-Sud, con la colonizzazione francese del continente africano, se ne sovrappose un altro da Oriente a Occidente. Secondo Jean-Loup Amselle, è proprio a questa cesura storica, politica e culturale che vanno imputati i problemi che interessano oggi il Sahel e tutto il continente africano.


I risultati di questa ONG appaiono quindi largamente negativi e se è così è perché, come tante altre azioni portate avanti da occidentali in Africa, Permakabadio si basa su idee certamente generose e di buon gusto, del momento in Europa, ma che non corrispondono alle realtà africane. Come trattenere i giovani che vogliono “andare all’avventura” (questo è il termine usato in Africa occidentale) quando sono costretti dalla struttura stessa della loro società a trovare le risorse necessarie alla realizzazione della loro vita adulta? Non siamo di fronte ad una sorta di rousseauismo da parte di questi creatori di ONG che imprigionano gli africani in idee preconcette decretando ciò che dovrebbe essere buono per loro? Volendo confinarli al giardinaggio, non vogliamo rinchiuderli in un’idea errata dell’Africa che vedrebbe questo continente solo come uno spazio esclusivamente dedicato all’agricoltura? L’ottenimento di risorse al di fuori del settore agricolo, infatti, è sempre stato una caratteristica essenziale delle società africane sia attraverso il commercio, la guerra o la schiavitù e, come tali, le migrazioni attuali ne sono senza dubbio la continuazione di queste antiche attività.

I Soninké del Mali, del Senegal e della Mauritania sono l’esempio perfetto di un viaggio migratorio iniziato nei commerci a lunga distanza prima della colonizzazione, proseguito come “laptots” (marinai) sulle barche che navigavano sul fiume Senegal poi sui transatlantici diretti in Europa, per sperimentare una fase successiva con la massiccia migrazione verso la Francia negli anni ’60 e ’70. Si sono formate così quelle che oggi chiamiamo le numerose “diaspore” africane esistenti in tutto il mondo.

Gli africani si sono quindi sempre “spostati”, che lo abbiano fatto volontariamente o meno, e volendoli costringere a rimanere a casa, nei loro villaggi o nelle loro città, non può che sedurre chi sogna un’Africa “tribale”, la cui vita sarebbe dettata solo da miti e riti ancestrali. Come possiamo esigere che gli africani non cedano al richiamo del mare aperto quando i giovani europei, in particolare francesi, 〈italiani e greci〉 espatriano sempre più in giro per il mondo alla ricerca di nuove esperienze ma anche di posti di lavoro che non riescono a trovare in patria? La circolazione generale dei giovani è un fatto contemporaneo che si collega alla globalizzazione economica, essa stessa frutto dell’ultraliberalismo. Come osiamo dare lezioni a chi si comporta solo come tutti i giovani della sua età?

Note

[1] Cfr. le osservazioni di Albert Londres in Terre d’ébène , Parigi, Albin Michel, 1929.

[2] Indipendentemente dal fatto che una parte significativa di queste migrazioni sono verso altri paesi africani.

[3] Mi baso qui sul libro di Jeanne Heurtault, L’esodo dei giovani verso l’Europa. Un’etnografia in Casamance , di prossima pubblicazione presso L’Harmattan.

Autore: Jean-Loup Amselle è antropologo, Direttore emerito della ricerca presso EHESS.


https://www.asterios.it/catalogo/la-parabola-delleurocentrismo

La parabola dell’eurocentrismo è la storia dell’ascesa, dell’affermazione e dell’attuale declino di una grande narrazione della storia del mondo che, a partire dal XIX secolo, e attraverso continue riformulazioni in risposta al mutamento delle esigenze organizzative, ha sostenuto e legittimato il ruolo dominante dell’Occidente sulla scena mondiale. Ed è anche la storia delle illusorie aspirazioni e promesse universalizzanti dei saperi eurocentrici, del loro essere parabola nel senso di narrazione dal contenuto morale. Oggi, di fronte all’indisponibilità e all’impossibilità da parte dell’Occidente di reiterare la sua promessa egualitaria e al suo ripiegamento su posizioni politiche e intellettuali sempre più conservatrici e rigerarchizzanti, appare sempre più urgente ristabilire quell’equilibrio delle conoscenze e delle interpretazioni che possa contribuire alla creazione di un mondo in cui libertà ed eguaglianza siano una prospettiva concreta per tutti e non un privilegio di pochi.