L’iperbole della verità: “Il genio della menzogna” di François Noudelmann

 

Mentre nella finzione letteraria è da lungo tempo acquisita la distinzione fra l’io del personaggio e quello dell’autore, in filosofia, al contrario, non ci si interroga mai su qual è l’io che pensa, anche perché si dà per scontato che esso abbia un profilo impersonale o sovrapersonale. Invece, è proprio quando l’io del filosofo si personalizza che si innesca lo scarto fra pensiero e azione, fra come si vive e ciò che si scrive.

A questo punto, la domanda che sorge spontanea è la seguente: affermare una teoria, ma vivere in modo contrario rispetto a essa, è una contraddizione, una menzogna o una libertà? In qualche modo, è tutt’e tre le cose, perché si tratta di una menzogna che, palesando una contraddizione “performativa”, permette al filosofo di esercitare una libertà radicale nei confronti di se stesso, presentandosi al mondo per quello che vorrebbe essere, ma non è.

Nel 1980, presso le edizioni Gallimard di Parigi, Luis Aragon pubblicava Le mentir-vrai, una raccolta di testi, scritti tra il 1923 e il 1972, tra cui c’era anche un breve racconto che dava il titolo all’intero volume. Qui, egli, tracciando i lineamenti di una poetica del romanzo, configurava quest’ultimo come una trasformazione della realtà a servizio della finzione: come quella forma di enunciazione paradossale della verità che definiva, appunto, nei termini di un «mentire-vero»[1]. Si tratta di un argomento che affonda le sue radici nell’antinomia, antica, del mentitore (pseudomenos), il cui esito svela l’intreccio inestricabile che corre fra menzogna e verità: se dico la verità, mento, ma se mento, sto dicendo comunque qualcosa di vero[2].

Ora, chi ha provato a sviscerare in tutte le sue implicazioni questo paradosso è stato François Noudelmann, nel suo bel libro: Il genio della menzogna, uscito a tre anni di distanza dall’edizione originale francese e dedicato a illustrare il notissimo adagio “chi predica bene, razzola male”, dove la figura in questione corrisponde a quella di alcuni fra i più importanti filosofi dell’età moderna e contemporanea[3].

Noudelmann non è nuovo a questo tipo di impostazione. Già in un suo testo precedente, egli aveva portato alla luce, dietro la biografia intellettuale ufficiale dei tre pensatori lì presi in considerazione, i ritmi misteriosi e segreti della loro vita quotidiana, a partire dalla comune passione di essi per il pianoforte. Per lui è, infatti, sulla tastiera di quest’ultimo che si sarebbe manifestata quella “carezza” o “tocco” esplorativo che li ha inconfondibilmente contraddistinti[4].

Non diversamente, nel libro precedente a quello che stiamo qui presentando, Noudelmann prospetta una «filosofia delle affinità», ossia va alla ricerca, dietro il profilo rigido delle leggi genetiche di trasmissione e di filiazione, in quanto si prestano a una lettura meramente genealogica delle connessioni[5], la poesia delle relazioni impercettibili fra le cose, ossia degli accordi e delle corrispondenze segrete fra di esse[6].

Venendo al nostro libro, due sono le citazioni che lo aprono: una dall’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam («L’animo umano, infine, è fatto in modo tale che la finzione lo domina molto più della verità») e l’altra dalle Massime di La Rochefoucauld («Non bisogna offendersi se gli altri ci nascondono la verità quando siamo molto spesso noi i primi a nascondercela»). Ci danno subito l’idea di come il filosofo, per quanto dichiari di amare disinteressatamente la verità, sia, nonostante tutto, fedele anche alla menzogna, nel senso che la prima, quando è soggetta a una marcata sovraesposizione, spesso, nasconde dietro di sé il profilo della seconda.

Noudelmann, segnalando, nei filosofi da lui indagati, lo scarto che si dà fra il discorso che hanno portato avanti e la loro vita quotidiana, nota come lo sguardo che ognuno di essi rivolge a se stesso sia l’espressione di una “creatività menzognera”, ossia risponda a una “logica inventiva” con cui ha puntato a costruire «un mondo potente e coerente, destinato a far cadere gli altri nei suoi tranelli» (GM 15).

Mentre nella finzione letteraria è da lungo tempo acquisita la distinzione fra l’io del personaggio e quello dell’autore, in filosofia, al contrario, non ci si interroga mai su qual è l’io che pensa, anche perché si dà per scontato che esso abbia un profilo impersonale o sovrapersonale. Invece, è proprio quando l’io del filosofo si personalizza che si innesca lo scarto fra pensiero e azione, fra come si vive e ciò che si scrive.

A questo punto, la domanda che sorge spontanea è la seguente: affermare una teoria, ma vivere in modo contrario rispetto a essa, è una contraddizione, una menzogna o una libertà? In qualche modo, è tutt’e tre le cose, perché si tratta di una menzogna che, palesando una contraddizione “performativa”, permette al filosofo di esercitare una libertà radicale nei confronti di se stesso, presentandosi al mondo per quello che vorrebbe essere, ma non è.

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Il punto è che i filosofi che, nella loro vita, si comportano contrariamente a quel che affermano pubblicamente di essere, vanno comunque accreditati come soggetti che, in qualche modo, dicono la verità. E ciò perché, per essi, pensare di essere quel che non sono rappresenta un’opzione esistenziale, spesso da loro vissuta con un grande carico di passione. Pertanto, ecco come esordisce Noudelmann nel libro in questione: «La condanna morale della menzogna impedisce di apprezzarne la complessità. Se solo riuscissimo a sospendere per un po’ il nostro giudizio nei confronti di una persona che mente, diventerebbe allora interessante e istruttivo osservare la peculiarità e la ricchezza degli atteggiamenti menzogneri» (GM 11).

Ma come la mettiamo con il fatto che la nozione stessa di “vita filosofica” esige quale suo presupposto, vigente soprattutto nell’antichità, un principio di salda coerenza fra pensiero e condotta morale? Non vanno visti, allora, come sedicenti filosofi quelli che si dedicano a elaborazioni teoriche in aperto contrasto con la loro esistenza? No, perché l’identità di un filosofo, nonché le sue idee, rientrano nel campo della finzione. Assemblando insieme concetti, il pensatore si crea «un’esistenza teorica» (GM 19), così che il «mentire-vero» di Aragon «dimora nel cuore della ragione filosofica» (GM 21). In altre parole, l’enunciazione di una tesi che confligge con un comportamento si dà non tanto malgrado o nonostante quest’ultimo, quanto proprio a partire da esso.

Noudelmann manifesta la sua predilezione per la menzogna di tipo non cosciente, ossia per quella che consiste in una strategia argomentativa che converte una torsione linguistica in una creazione: una creazione che, dando luogo a una «presentazione speciosa dei fatti» (GM 13), manifesta un potere creativo singolare, nonché «una ricchezza estetica e psichica straordinaria» (GM 16). Il suo tratto caratteristico è quello di «un’invenzione verbale ingegnosa che esprime una verità sotto forma di menzogna» (GM 18). Nel rapporto che si intreccia fra menzogna e verità, si può dire, perciò, che la prima non tanto spazza via la seconda, quanto lascia che si duplichi e si riproduca, dando luogo a un’altra versione di essa.

Per fare alcuni esempi, la famiglia filosofica di questi “ingegnosi inventori” comprende i nomi di Rousseau, Kierkegaard, Sartre, Simone de Beauvoir, Foucault, Deleuze. Rousseau che scrive il trattato pedagogico l’Emilio o delleducazione, dopo aver affidato all’orfanatrofio i suoi cinque figli; Kierkegaard che nel periodo in cui redige i suoi testi teologici e religiosi conduce una vita da libertino; Sartre che si fa paladino dell’impegno, mentre nella vita di tutti i giorni mostra pigrizia e ostentato disinteresse[7]; Simone de Beauvoir che si presenta come una teorica del femminismo, mentre vive una relazione “servile” con uno scrittore americano; Deleuze che teorizza il “pensiero nomade”, ma possiede un’indole da incallito sedentario; Foucault che dedica il suo ultimo seminario al «coraggio della verità», ma nasconde al mondo la sua malattia terminale.

Di tutti questi nomi, forse, quello che più di tutti è stato animato dal pathos della verità va considerato Rousseau, il quale è andato costruendo un’immagine di sé come uno che, identificandosi con la virtù oltraggiata, si è ritenuto vittima di un vero e proprio martirio. Alla fine della sua vita, egli dice che vorrebbe essere detestato, non tanto per le colpe di cui si è macchiato, quanto semplicemente per quello che è stato: un uomo buono. Il suo è, perciò, un delirio paranoico di tipo masochista che gli fa amare la calunnia che lo condanna, proprio perché così ne esce glorificato.«Non trovo niente di così grande, niente di così bello, che soffrire per la verità. Invidio la gloria dei martiri», leggiamo, infatti, in una lettera del suo epistolario[8].

Ma proprio Rousseau è colui il quale, nonostante formuli una condanna senza mezzi termini nei confronti della menzogna – come, del resto, aveva fatto, prima di lui, Agostino[9] e come farà, dopo di lui, Kant[10], è anche catturato dal potere di affabulazione di cui essa dispone, ossia dal fatto che può suscitare un piacere addirittura infantile, quando ovviamente non persegue l’intenzione di nuocere e di ingannare. «La denuncia della menzogna [in lui] cede il passo a una casistica del mentire» (GM 39). Si impone così la coscienza secondo cui la menzogna è espressione di un “genio” che si avvale di molteplici risorse: coscienza che troviamo, ad esempio, in Montaigne, presso il quale è possibile rinvenire una prefigurazione del concetto di «mentire-vero» di Aragon. «Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in condizioni migliori. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello che dicesse il mentitore. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito»[11].

Dicevamo di come le contraddizioni che si palesano fra la teoria elaborata da un filosofo e la sua vita non invalidano le pretese del pensiero, ma suggeriscono, piuttosto, un’altra chiave di lettura, un’altra intelligenza della teoria in questione. Noudelmann afferma, infatti, che poiché il Sé di un filosofo può assumere diverse posture, le quali fanno leva non solo sull’identificazione, ma anche sul contrasto e sulla differenza rispetto a quel che egli scrive, tutto ciò ci invita a sviluppare un’intelligenza paradossale del suo pensiero: un’intelligenza resa possibile dalla svolta in senso antipsicologistico che, a un certo punto del secolo passato, si è verificata negli studi umanistici. «Negli anni Settanta, la decostruzione delle nozioni di uomo e di autore ha permesso di considerare diversamente la produzione dei testi e dei discorsi, a partire dalle strutture che attraversano i soggetti pensanti e parlanti» (GM 73).

Al riguardo, già Nietzsche si era mostrato consapevole del fatto che diverse anime e diverse coscienze abitano un filosofo nell’atto in cui dice “Io”, ossia che ciò che muove il pensiero è imputabile a un “qualcosa” piuttosto che a un “chi”, per cui in gioco c’è un soggetto mai padrone delle proprie idee, ma che è attraversato da forze e pulsioni molteplici.

Noudelmann ritorna sui due esempi di non-corrispondenza fra pensiero e azione rappresentati dai nomi di Rousseau e di Sartre. Riguardo al primo, nota come è proprio il potere della menzogna ad aver prodotto quel capolavoro che è l’Emilio. Qui – come si è detto –, il suo autore si costruisce un’immagine di educatore esemplare, per il desiderio di nascondere la verità sull’abbandono dei suoi figli: Rousseau ha scritto un trattato sull’educazione non per compensazione o per riscattarsi, ma proprio «perché ha abbandonato i suoi figli» (GM 83), così che il testo in questione «si trasforma in un teatro interiore in cui l’autore si confronta con i propri spettri» (GM 90). «Educatore virtuale, padre teorico, Rousseau supplisce l’azione con la scrittura. […] Più l’autore afferma, più mente, e più inventa un Sé che possiede lo statuto del filosofo» (GM 94-95).

Riguardo a Sartre, viene sottolineato, invece, come egli ci abbia tenuto a fornire di sé un «autoritratto paradossale», presentandosi come un «uomo che non aderisce a ciò che è», ma che è «continuamente portato al di là di se stesso, a causa del corso della storia e del movimento della coscienza» (GM 103). In lui, l’autocritica diventa così un metodo e un sistema, in quanto, privando gli altri del diritto di esercitare la loro critica, finisce per anticiparli sistematicamente[12]. «Inafferrabile, Sartre lascia la mappa dei suoi spostamenti, non aderisce a se stesso e si inventa delle identità teoriche per superamenti e trasmutazioni» (GM 104).

Noudelmann passa poi a sviluppare il motivo secondo cui l’analisi psichica delle produzioni mentali rifiuta l’idea che si dia una totale trasparenza fra un pensatore e il suo pensiero. Quando un concetto diviene il marchio personale e inconfondibile di un filosofo, esso assume le fattezze di un feticcio. Quest’ultimo presenta due tratti caratteristici: si trova investito di un potere quasi magico, il quale va ben oltre la sua semplice funzione, nonché si fa portatore di un gesto di diniego: gesto che consiste nel sostituire all’ostilità nei confronti di un oggetto-referente la sua glorificazione. Unendo queste due aspetti, ne abbiamo che un filosofo, più che presentare pubblicamente una verità, finisce per esibire sempre una maschera che gli consente, in tal modo, di nascondersi e di offrire una versione contraffatta del suo Sé.

Ora, una di queste parole-feticcio è “nomadismo” e si deve a Deleuze: un filosofo che – come già vedevamo – in vita ha avuto un’idiosincrasia per lo spostarsi e per il viaggiare. Egli, consapevole del conflitto che si dà, in lui, fra questi due aspetti, ne propone una risoluzione paradossale: nomade è non tanto chi si sposta di continuo, quanto chi, restando fermo in un certo posto, non si lascia mai assorbire dai codici.

Riflettendo sul nesso fra verità e menzogna, Deleuze si produce in un elogio del falso, da intendersi come un modo di contrapporre all’icona platonica della verità, basata sul dualismo fra essenza e apparenza, i simulacri di Lucrezio e le maschere di Nietzsche. Egli poi non pensa che si dia una verità preliminare che la menzogna provvederebbe, in un secondo tempo, a snaturare, ma, esattamente all’opposto, crede che l’idea stessa della verità sorga dal sospetto di una menzogna.

Infine, Deleuze nutre una forte diffidenza nei confronti della concezione tradizionale dell’Io dell’autore, per cui manifesta anche il «desiderio di scomparire» davanti a quest’ultimo: di spersonalizzarsi, di moltiplicarsi, di farsi-molti. Egli vuole che «non esista più un volto in sé, ma soltanto tratti che possono mescolarsi e produrre una nuova composizione» (GM 144).

Un’altra parola-feticcio è la nozione di “Altro” di Lévinas. Essa, eretta da quest’ultimo a sinonimo di assoluto, viene ipertrofizzata a tal punto che finisce per perdere il profilo di una presenza concreta. «L’epifania dell’altro non è tanto un’apparizione quanto una sparizione della sua realtà». In tal modo, facendo leva sulla negazione del suo referente, tale parola fonda una teoria che finisce per «sostenere il contrario di ciò che afferma» (GM 158). L’istanza con cui si fa carico di un gesto di responsabilità viene portata, infatti, a un livello tale che esso «diventa impossibile» (GM 161). In altre parole, la verità si fregia, in questo caso, di un tale carico di autorità e di autenticità dal dispensarsi di «essere responsabile di una pertinenza fattuale» (GM 162).

E arriviamo così al penultimo capitolo del libro: «Le personalità multiple». Qui, viene interrogata la funzione stessa della scrittura, la quale consente a chi scrive di vivere esistenze teoriche e immaginarie, spesso più intense di ciò di cui facciamo esperienza nella realtà ordinaria. La nozione che qui cade a proposito è quella di «identità narrativa» di Ricoeur, nel cui segno, appunto, il Sé si «trasforma […] in intrigo» (GM 169). Al riguardo, l’esempio preso in considerazione è quello relativo a Simone de Beauvoir. Quest’ultima, infatti – come già vedevamo –, da un lato, è autrice del manifesto del femminismo, Il secondo sesso, mentre, dall’altro, allaccia una relazione sentimentale con uno scrittore americano con cui intrattiene una corrispondenza epistolare in cui recita il ruolo della donna dipendente, addirittura di una casalinga tutta dedita alle occupazioni domestiche. Con la filosofa e scrittrice francese, ci troviamo così davanti a un «Io che sperimenta vite multiple» (GM 186), ossia che si cala in esistenze che si articolano, fra loro, secondo legami complessi e contraddittori rispetto alla sua produzione teorica principale.

A conferma di tutto ciò, per descrivere e pensare il suo desiderio, ella ricorre a quattro tipi di scrittura: al romanzo, con cui si costruisce un’immagine conforme al suo ideale di Io, al trattato filosofico, che risponde alla sua ambizione teorica, alla corrispondenza con l’amante, in cui la componente erotica gioca un ruolo importante, e al diario autobiografico, il quale, rispecchiando un regime di autocontrollo, è privo di qualsiasi pathos. «Esporsi per nascondersi meglio: la trasparenza è la via maestra del diniego» (GM 189).

Ma quando si parla di identità multiple e di psiche polimorfa, in filosofia, non si può non pensare a un nome che funge, in qualche modo, da caso esemplare: Kierkegaard. Egli, negando qualsiasi unità all’Io dell’autore e, anzi, accusandola di essere una finzione, firma le sue opere con diversi pseudonimi, ognuno dei quali sta, più che per una maschera, per «una reale proposta di esistenza» (GM 195). Complesso è il suo rapporto con questi pseudonimi, perché, da un lato, vi si identifica, mentre, dall’altro, prende le distanze, «come se ciascuno di essi avesse la sua autonomia e lui non dovesse interferire per imporgli la sua personalità» (GM 196). «Kierkegaard ammette di scrivere all’opposto di ciò che vive. […] Gli pseudonimi non incarnano delle pseudo-tesi che l’autore presenterebbe in sordina, come avviene nel dialogo socratico, […] [ma] mettono in tensione delle ipotesi inconciliabili e producono dei divari nell’enunciatore che può pensare una cosa e anche ciò che la contraddice» (GM 198-199)[13].

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Noudelmann intende lo pseudonimo di Kierkegaard come dotato più del profilo di una voce che di quello di un volto. E questo perché il filosofo danese, da melomane appassionato, quale è sato, assegnando priorità all’udito, piuttosto che alla vista, era portato a concepire il pensiero nel segno di un registro musicale e, dunque, al di là del bene e del male. «Rappresentava se stesso come una voce la cui persona si è ritirata dalla scena. E forse la verità consiste in ciò, […] [nel fatto che essa] può essere compresa non appena venga trovato il giusto tono» (GM 200). In definitiva, gli pseudonimi, usati da Kierkegaard come posizioni di esistenza e come indici di una personalità multipla, gli consentono una straordinaria ricchezza speculativa, ossia di «scrivere e vivere vite contraddittorie, esplorando una posizione e il suo contrario, fingendo di riunire le contraddizioni in una coerenza retrospettiva» (GM 210).

Misurandosi con lo statuto delle verità post mortem, ossia con il caso, molto frequente, delle rivelazioni che vengono alla luce dopo il decesso di un filosofo, Noudelmann precisa come un tale fenomeno resti avvolto nell’ambiguità: nonostante si tenda a dar loro un credito incondizionato, esse restano tributarie di un immaginario proiettivo con cui l’autore, prospettando una risoluzione ultimativa unificatrice, si costruisce un’immagine di se stesso a misura di chi gli sopravvive. Ne discende che tutti i casi esaminati portano a una medesima conclusione: quella per cui l’esistenza di un filosofo, costruendosi nella tensione fra discorsi e pratiche di vita, fa sì che, in lui, la verità si dica sempre attraverso la menzogna. «La “vita teorica”, anche quando sembra contraddire la vita cosiddetta ordinaria, appartiene comunque all’esistenza vissuta» (GM 216).

Il libro si chiude con un capitolo intitolato: «La liberazione della menzogna», il quale inizia con la precisazione secondo cui quest’ultima presenta una tale varietà polimorfa di aspetti che non si riduce mai al semplice diniego intenzionale di una verità.

Noudelmann nota che la menzogna sottostà a tre regimi diversi di economia psichica: nel primo caso, fa leva sull’opposizione binaria vero/falso e mette in scena una drammatizzazione che punta alla vittoria finale della luce sulle tenebre; nel secondo, ribadendo il diniego, rilancia una verità, a partire dalla resistenza che essa gli oppone; nel terzo, infine, sospendendo l’antitesi vero/falso, inventa delle nuove verità che presentano la bellezza della coerenza intellettuale. «Quest’ultima menzogna impegna un’economia dissipativa e non compensativa. L’affermazione non è più il contrario della negazione, sfugge al controllo» (GM 223). E, per quanto riguarda un’affermazione teorica, essa, in filosofia, non si limita all’enunciazione di una verità, ma, dal punto di vista degli investimenti psichici che essa comporta, può assumere una varietà di forme, le quali implicano processi di identificazione, di fissazione e di ripetizione relativamente a una certa tesi: «un’intenzione affermativa è sempre richiesta [dalla filosofia] per fondare la legittimità del suo discorso» (GM 231).

Ma dove si dà un’affermazione, lì è presente anche una negazione nascosta, nel senso che la forza con cui affermiamo una verità è sempre commisurata alla rimozione del suo contrario. «Nel momento in cui costruisce una menzogna, l’affermazione forma una controverità che rappresenta la sua risorsa infinita». A questo punto, la menzogna prolifera e viene spinta verso una deriva senza limiti, lungo la quale, «avanzando, può moltiplicare le sue forme» (GM 233).

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Arrivati a questo punto, dobbiamo forse augurarci che la menzogna possa un giorno scomparire dal mondo? No, perché la fine di essa potrebbe causare delle ricadute controproducenti e perverse, ossia imporre un regime di tirannia della verità, senza più «nessuna zona d’ombra, nessuna intimità al riparo dagli occhi inquisitori» (GM 238).

Un’ultima raccomandazione ci viene, conclusivamente, da Noudelmann: quella di far attenzione alle voci, parlate o scritte, che risuonano all’interno di uno spazio sonoro o testuale, ossia di prestare ascolto, innanzi tutto, alla musicalità della filosofia, senza cercarne il significato, ma sospendendolo e mettendolo fra parentesi. Tutto ciò, sviluppando una «sordità metodica» nei confronti delle parole, può aiutarci a individuare una menzogna nel cuore di un’affermazione o, quantomeno, a favorirne la ricerca. «Difficile da realizzare, l’esercizio mira a congedare il significato verbale. […] L’uditore diventa allora sensibile alla qualità delle voci che non sono più ricoperte dalla significazione. […] Adottare questa procedura consente di percepire un’“affermazione” sovrainvestita dal volume della voce, dalle vibrazioni del timbro, dalle durate… tutte qualità importanti in musica e che, in tal caso, svelano una realtà ricca di significati secondi» (GM 235).

 

Note

[1] Per un’analisi dei due testi fondamentali in cui Aragon prospetta la sua concezione del romanzo: Le mentir-vrai (1964) e Les incipit (1969), cfr. K. Gosselin, L’“art romanesque”, du Mentir-vrai aux Incipit, in «Études littéraires», 2014, n. 1, pp. 91-102. Qui, leggiamo che l’estetica del mentire-vero vede il romanzo come «una scrittura del reale che, per rendere conto di quest’ultimo, deve produrre uno scarto rispetto a esso» (p. 92). Tesi ribadita anche da N. Piégay Gros, Lesthétique dAragon, SEDES, Paris 1997, in cui leggiamo che, per lo scrittore francese, la specificità della verità romanzesca è quella di «avere come sua propria condizione la menzogna. In questa prospettiva, mentire significa dire non tanto il falso, quanto ciò che non è vero: produrre uno scarto rispetto alla realtà» (pp. 78-79).

[2] La tesi secondo cui la letteratura occidentale moderna sarebbe il luogo di un disinganno, ossia la messa in scena di uno svelamento relativo all’intreccio fra verità e menzogna, sta al centro anche dell’opera di R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, tr. it. di L. Verdi Vighetti, Bompiani, Milano 1965.

[3] Cfr. Il genio della menzogna. I filosofi sono dei gran bugiardi?, tr. it. di A. Venditti, Cortina, Milano 2018 (d’ora in poi, richiamato direttamente nel testo e nelle note con la sigla GM, seguita dal numero della pagina). Sui contenuti di questo libro, cfr. anche le interviste rilasciate da Noudelmann a «Ça se saurait. Grand questions & petit astuces», 15 gennaio 2016, e a «Il Venerdì di Repubblica», 16 novembre 2018.

[4] Cfr. Le toucher des philosophes. Sartre, Nietzsche et Barthes au piano, Gallimard, Paris 2008.

[5] A proposito della genealogia, F. Noudelmann, Pour en finir avec la généalogie, Scheer, Paris 2004, afferma che essa a tal punto ha colonizzato la nostra immaginazione, da essere diventata uno strumento normativo, in sede tanto di conoscenza quanto di comportamento. E una critica in chiave antigenealogica, egli la conduce anche in Hors de mois, Scheer, Paris 2006.

[6] Cfr. Les airs de famille. Une philosophie des affinités, Gallimard, Paris 2012.

[7] Noudelmann si è occupato a più riprese di Sartre. Oltre ad averlo fatto nel contesto del volume citato alla nota 3, e aver prodotto su di lui contributi in opere collettanee (cfr., ad esempio, SartresTimetable, in Aa. Vv., Jean-Paul Sartre. Mind and Body, Word and Deed, a cura di J.-P. Boulé e B. O’Donohoe, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle/T. 2011, pp. 65-70), gli ha dedicato due monografie: Sartre: lincarnation imaginaire, L’Harmattan, Paris 1996, e Jean-Paul Sartre, ADPF, Paris 2005. Inoltre, insieme a G. Philippe, ha diretto il Dictionnaire Sartre, Champion, Paris 2004, e ha scritto un commento a due suoi lavori teatrali: A porte chiuse e Le mosche (in J.-P. Sartre, Huis clos et Le mouches, Gallimard, Paris 1993).

[8] Lettera a M. de Saint-Germain (1770), cit. in GM 29, nota 6. Sull’etica della veracità, professata da Rousseau, come «un’etica sacrale del sacrificio», cfr. J. Derrida, Storia della menzogna, tr. it. di M. Bertolini, Castelvecchi, Roma 2014, p. 16. Inoltre, circa il fatto che il piacere di essere punito si trova, in Rousseau, «strettamente e inestricabilmente intrecciato al piacere di essere guardato – al piacere di “mostrarsi”, mettendosi nella condizione di essere punito», cfr. M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 2002, p. 142.

[9] Il quale dedica alla menzogna due opere: il De mendacio (395) e il Contra mendacium (420). Nella prima, come ci ricorda M. Bettetini, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Cortina, Milano 2001, «la voluntas fallendi è condannata senza possibilità di appello» (p. 9).

[10] Di Kant, Noudelmann menziona il breve scritto: Sul presunto diritto di mentire per amore dellumanità (1797). Ebbene, per J. Derrida, Storia della menzogna, cit., esso, «nella storia dell’Occidente, dopo […] Agostino e Rousseau», può essere visto come «uno dei tentativi più radicali di pensare la menzogna» (p. 36).

[11] M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano 2012, p. 57 (L. I, cap. IX: «Dei bugiardi»). In contrasto con questa affermazione di Montaigne, un tentativo di classificazione delle varie forme di menzogna, in vista di una prima “sistemazione” del territorio corrispondente, si trova in F. D’Agostini, Menzogna, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 85-130 (cap. IV: «Modi di mentire»).

[12] Al riguardo, in Sartre: lincarnation imaginaire, cit., Noudelmann scrive quanto segue: «Assumendo egli stesso il ruolo di critico della sua opera, Sartre ha condannato i suoi lettori a essere sartriani o antisartriani» (p. 9).

[13] A partire da un’indicazione di F. Jesi, Mitologie intorno allilluminismo, Comunità, Milano 1972, pp. 40-45, secondo cui la chiave per accedere all’opera di Kierkegaard sarebbe data dalla figura del «falsario» o del «simulatore», A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, B. Mondadori, Milano 2001, afferma che il filosofo danese va visto così «non [come] un falsario dell’opera, […] [ma come] un falsario del nome, un plagiario di vite immaginarie» (p. 370).


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